Una lezione di Carla Fracci
Mi è capitato, qualche sera fa, di assistere a una trasmissione televisiva in cui Ritanna Armeni (ex firma del Manifesto) sosteneva, in modo assai accorato, che la propria generazione era stata fortunata, molto fortunata, mentre le nuove generazioni sarebbero sfortunate, molto sfortunate. Questa tesi lasciava alquanto perplessa, per non dire di stucco, la conduttrice Barbara Palombelli (ex firma di Repubblica), che ricordava alla collega che anche per la loro generazione – quella dei cosiddetti baby-boomers – farsi largo nella vita non era stato semplicissimo, e spesso era costato anni e anni di duro lavoro, senza facilitazioni e scorciatoie.
In realtà l’idea che i giovani abbiano diritto oggi a una sorta di risarcimento per il destino cinico e baro cui gli adulti li avrebbero condannati, è molto diffusa. E qualche fondamento ce l’ha pure: non c’è dubbio che, se l’Italia è nello stato penoso in cui si trova, è perché così l’hanno ridotta coloro che l’hanno governata e guidata fin qui.
E tuttavia, di qui a dire che i baby boomers sono una generazione fortunata e i giovani di oggi una generazione sfortunata c’è un salto logico. Quel che è difficilmente controvertibile, perché lo dicono i dati, è che le opportunità di ascesa sociale si sono ridotte, e che passare dai ceti medio-bassi a quelli medio-alti è diventato più difficile. Questo già solo per il fatto che lo stock di posizioni sociali pregiate, che grazie all’industrializzazione prima e alla terziarizzazione poi era impetuosamente cresciuto nei primi decenni del dopoguerra, ha ormai da tempo smesso di espandersi. E anche per una seconda ragione, su cui si preferisce sorvolare: in cinquant’anni lo scarto fra titolo di studio rilasciato e competenze effettivamente acquisite è cresciuto a dismisura, e con esso il divario fra ciò cui un giovane è autorizzato ad aspirare (perché ha il pezzo di carta) e ciò che il mercato del lavoro è disposto a riconoscergli.
Molto più controvertibile, invece, è la tesi che la condizione giovanile sia sostanzialmente peggiorata. Chi sostiene questa tesi dimentica il dato sociologico fondamentale della “classe disagiata”, mirabilmente descritta da Raffaele Alberto Ventura in un libro di qualche anno fa (Teoria della classe disagiata, Minimum Fax 2017): la possibilità, per molti, di dilazionare le scelte fondamentali e, al tempo stesso, usufruire di un tenore di vita relativamente elevato, con poche responsabilità e molti paracadute. Tecnicamente: una condizione “signorile di massa” che nessuna delle generazioni del passato aveva mai sperimentato.
Detto più crudamente: il lusso di consumare senza lavorare, la generazione dei baby boomers non se lo poteva permettere. Quel lusso, invece, è divenuto una caratteristica distintiva delle ultime generazioni, un lusso che – in questi giorni di riaperture – ha assunto tratti grotteschi allorché migliaia di esercenti, provati da 15 mesi di chiusure e alla disperata ricerca di personale da assumere, si sono sentiti rispondere che loro – giovani e meno giovani – preferivano il reddito di cittadinanza, o addirittura volevano essere assunti in nero per non perderlo (come faccia, in questo contesto, il segretario del Pd a proporre una “dote” di 10 mila euro a metà dei 18-enni è per me un mistero). Una situazione che esisteva già prima, ma che nel dopo-Covid, con l’enorme allargamento dei sussidi intervenuto nell’ultimo anno, ha assunto tratti ancora più patologici, coinvolgendo un po’ tutte le generazioni. Quasi a significare che il “paradigma vittimario”, ben descritto dallo storico Giovanni De Luna in un libro di una decina di anni fa (La Repubblica del dolore, Feltrinelli 2011), fosse ormai il solo registro in cui sappiamo pensarci e riconoscerci.
Naturalmente questo non significa che tutti i giovani consumino senza lavorare, o che non vi sia anche un robusto settore di giovani che lavorano con serietà e impegno (non di rado all’estero!). Ma è certo che il tenore di vita medio dei giovani italiani è oggi nettamente più alto di quello dei loro padri e nonni alla medesima età, e la quota di giovani che non studiano e non lavorano (i cosiddetti Neet), o ancora studiano in età nelle quali si dovrebbe lavorare, è enormemente aumentata rispetto a cinquant’anni fa.
Ed ecco il paradosso: a fronte di condizioni economiche indubitabilmente migliori e privilegiate rispetto a quelle delle generazioni precedenti, la politica e i mass media hanno cucito addosso ai giovani un abito falso e ingannevole, che li dipinge come vittime da compiangere e da risarcire, anziché come persone dotate di autonomia e padrone della loro vita. Come se le generazioni del passato avessero beneficiato di privilegi non dovuti, e come se quel che – nel bene e nel male – hanno costruito fosse stato sottratto alle generazioni attuali. Soprattutto, come se gli obiettivi più alti si potessero raggiungere senza fatica, impegno e duro lavoro, e il successo fosse un diritto da esercitare, anziché un traguardo da conquistare.
Lo aveva capito bene Carla Fracci, figlia di un tranviere e un’operaia, che di sé stessa ha detto: “Sa qual era la mia forza? Sapevo da dove venivo. E volevo farcela. Ecco: decoro, dignità, voglia di fare. Non la rabbia, il disfattismo, l’invidia sociale, non il rancore che oggi è così diffuso”.
Un giudizio severo, su cui varrebbe la pena meditare.
Pubblicato su Il Messaggero del 1 giugno 2021