Sulla violenza contro le donne, un cambio di prospettiva
In primo pianoSocietàVexata quaestio quella della violenza che si manifesta in forme diverse contro donne e bambine in ogni angolo del pianeta, e controversa l’analisi che se ne fa.
C’è chi semplifica la questione adottando lo schema binario vittima/carnefice. Ma così si rischia di tralasciare proprio quelle zone d’ombra che spiegano la persistenza del fenomeno, una violenza che sembra non cessare mai nonostante le misure prese per contrastarla. Regolarmente, dopo ogni femminicidio, si invoca un intervento delle istituzioni più incisivo ed efficace. Ma non si può certo porre freno alla violenza domestica mettendo un poliziotto in ogni famiglia.
L’Onu ha istituito il 17 Dicembre 1999 la Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, che si celebra il 25 Novembre. Gesto simbolico importante, ma che non sposta di un millimetro la soluzione del problema che presenta tuttora aspetti altamente problematici.
In mancanza di interventi efficaci si rischia di fare i conti con atti di disperazione che non possono essere additati come esempi da imitare.
In Francia, per esempio, ha fatto molto discutere il caso di Valerie Bacot. Una giovane donna, violata, picchiata, fatta prostituire dal compagno Daniel Polette, che era stato suo patrigno prima di diventare suo marito, nonché padre dei suoi quattro figli. Dopo 24 anni d’inferno Valerie ha ucciso il marito. Condannata a quattro anni, è uscita di prigione subito dopo la sentenza grazie alla sospensione condizionale della pena. La condanna è risultata del tutto simbolica considerato che si trattava di omicidio premeditato. Il suo gesto è stato considerato come una sorta di legittima difesa, sia pure ritardata. Il caso Bacot non è un caso isolato. Prima di lei c’erano stati quelli di Jacqueline Sauvage e poi quello di Edith Scaravetti, condannata in primo grado a tre anni e in appello a dieci per aver ucciso e murato il marito maltrattatore.
Ora l’eliminazione fisica del ‘carnefice’ si può certo capire, ma non può essere giustificata. Ben prima di arrivare a un punto di non ritorno bisognerebbe mettere al sicuro la donna e i suoi figli, prendersene cura, rimarginare ferite profonde e ricostruire la sua soggettività. Ma tutto questo non è per niente facile.
L’accoglienza di donne maltrattate nelle case-rifugio a indirizzo segreto dove possono godere dell’assistenza psicologica, legale, economica è molto utile, ma è uno strumento che ha molti limiti. Il più serio è che si tratta di un intervento comunque limitato nel tempo. Una volta che la donna esce dal circuito di sostegno e torna alla propria casa, nella maggioranza dei casi la violenza del convivente ricomincia senza soluzione di continuità.
Per sperimentare metodi più efficaci si potrebbe introdurre un nuovo modello, già utilizzato in paesi come Canada e Islanda, e che comincia a farsi strada anche da noi, sia pure a fatica. Si tratterebbe di portare fuori dalla casa in cui si consuma la violenza non la vittima e i suoi figli, ma il maltrattatore. Il partner aggressivo viene preso in carico da strutture apposite nelle quali viene aiutato a prendere coscienza del suo essere violento e dei danni che il suo comportamento produce: non solo nei riguardi della compagna ma anche dei figli che subiscono traumi profondi per le aggressioni e il clima di paura.
In Italia ci sono già alcune strutture dedicate a maschi violenti che abbiano raggiunto un minimo di consapevolezza del loro comportamento nefasto. A Firenze è in funzione dal 2009 il CAM (Centro di Ascolto uomini Maltrattanti) che successivamente è stato esteso a Ferrara, Roma, Cremona e al Nord Sardegna. A Bassano è sorto il centro Ares con l’obiettivo di avviare adeguati percorsi di cambiamento per uomini che agiscono con violenza all’interno della coppia. Sarebbe interess ante vedere se queste esperienze hanno avuto un impatto locale significativo e cercare di espanderle a livello nazionale.
L’unica nota positiva in questo contesto così complicato è il dato numerico che riguarda i femminicidi nel nostro paese. Sono ancora troppi ma, contrariamente a quello che la cronaca sembra suggerire, i dati non sono in crescita, semmai ci sono timidi segnali di un numero che si sta lentamente riducendo. È un dato di fatto che in Italia il fenomeno è numericamente molto inferiore rispetto a quasi tutti i paesi europei, in particolare quelli del Nord. A questo proposito qualcuno ha parlato di ‘paradosso nordico’. Paesi come Islanda, Finlandia, Norvegia, Svezia, Danimarca, che rispettano molto più degli altri l’eguaglianza di genere, sono anche quelli in cui si registra il maggior numero di violenze domestiche contro le donne. Portogallo, Italia e Grecia che sono molto indietro per quanto riguarda l’uguaglianza di genere, hanno invece tassi molto più bassi di violenza domestica (Nov. 2017 Social Science and Medicine). La Harvard Political Review sottolinea come questa inattesa discrepanza vada indagata per capire, prevenire e soprattutto cercare di bloccare il fenomeno.
Quello che è certo è che occorre un cambio di passo, un vero cambio di civiltà. Fin dalla più tenera età bisogna educare bambini e bambine al rispetto reciproco e coltivare la loro autostima. Il giovane adolescente o adulto che sia stato sminuito nel corso della sua infanzia cercherà con la forza di ricostituire un’immagine di sé ‘forte e virile’ brutalizzando la propria donna per far tornare i conti. A sua volta la giovane adolescente o giovane donna che non ha stima di se stessa, che si considera di poco valore non troverà la forza di fermare la mano di chi la brutalizza scambiando spesso le attenzioni malate per gesti di cura. Alla base del progetto educativo va posto il concetto di inviolabilità del proprio corpo. La centralità di questo concetto metterebbe al riparo non solo dalle violenze fisiche ma anche dalle molestie e dagli abusi di natura sessuale.
(pubblicato su Free Skipper 25 Novembre 2021 e su Lilìa, giornalino dell Associazione dei pugliesi di Pisa).