Strage di Bologna – Il silenzio degli innocentisti
Nel 43-esimo anniversario della strage di Bologna, suscitano qualche sorpresa due fatti nuovi. Il primo è la dissonanza fra le dichiarazioni dei principali esponenti della maggioranza. Mentre il premier Meloni e il ministro Piantedosi hanno evitato accuratamente di usare l’espressione “matrice neo-fascista”, il presidente del Senato La Russa e il ministro Nordio vi hanno fatto ricorso, sia pure delimitandone la portata in quanto “accertata in sede giudiziaria”.
In realtà, a leggere le dichiarazioni integrali, le differenze non sono poi così clamorose. Tutti, in un modo o nell’altro, hanno auspicato un pieno accertamento della verità, che si auspica possa emergere grazie alla completa desecretazione degli atti coperti dal segreto di Stato, e (utopisticamente?) grazie al lavoro di una ennesima istituenda commissione di inchiesta parlamentare. È come dire: ok, la verità giudiziaria è quella che è, ma è tutta la verità?
In realtà anche la verità giudiziaria, quale emerge dall’ultima sentenza dell’ennesimo processo (concluso l’aprile scorso), è più sfumata di quel che è apparsa a molti: gli esecutori sarebbero neo-fascisti assoldati per compiere la strage, ma i mandanti sarebbero apparati dello Stato deviati e la massoneria (Licio Gelli e la loggia P2). Dunque, a essere precisi, la matrice della strage è quantomeno composita e, se si deve usare una espressione sintetica e più aderente alla sentenza, forse sarebbe più esatto parlare di “strage di Stato”.
Ma c’è anche un altro fatto nuovo nelle discussioni di questi giorni: il quasi completo venir meno, nei principali media, di ogni dubbio sulla effettiva colpevolezza dei due principali imputati per l’esecuzione materiale dell’attentato, ovvero Francesca Mambro e Giusva Fioravanti. È la prima volta che succede. Eppure in passato i dubbi si sono sprecati, fin dai tempi dello storico appello E se fossero innocenti? firmato nel 1994 da decine di personalità illustri, per lo più collocate a sinistra: ad esempio Luigi Manconi, Sandro Curzi, Oliviero Toscani, Liliana Cavani, Franca Chiaromonte. Per non parlare delle perplessità di Marco Pannella e di tanti esponenti radicali.
Oggi, di quella galassia di persone assalite dal dubbio ho trovato traccia soltanto in Piero Sansonetti (direttore dell’Unità, a quanto pare in conflitto con la sua redazione) e in Mattia Feltri, autore di un (piuttosto) criptico intervento in cui rimpiange la stagione in cui destra e sinistra si parlavano, e prende le distanze dall’invito di Elly Schlein a evitare ogni “tentativo di riscrivere la storia”. A quel che ne so, nessuno di coloro che in passato avevano sollevato dubbi ha ritenuto di intervenire, o di spiegare che aveva cambiato idea e perché.
Perché questa unanimità? Perché questo silenzio? Perché questo muro inespugnabile che viene opposto a chiunque inviti ad andare fino in fondo nella ricerca della verità? Perché la richiesta di togliere il segreto di Stato da tanti documenti non suscita il più largo consenso?
L’unica risposta che riesco a darmi è che il governo è cambiato, e la priorità è diventata mettere in difficoltà l’esecutivo, considerato espressione della medesima cultura politica neo-fascista che sarebbe all’origine della strage di Bologna. Come ai tempi dello stalinismo e della “doppia verità”, la verità che si cerca di affermare non è quella storica, ancora in parte sconosciuta, ma quella utile alla causa, conosciutissima e perfettamente chiara: affinché i conti politici tornino, la strage deve essere di matrice neo-fascista. Ogni dubbio va rimosso. Ogni voce che, anche timidamente, provi a fare qualche domanda va zittita.
Capisco perfettamente che, per i parenti delle vittime, dopo decenni di dolore e di attesa, dopo un calvario di processi e sentenze contraddittorie, una qualche verità sia meglio di una verità forse più vera, ma spostata in un futuro incerto. Ma per tutti gli altri? Per gli studiosi, i giornalisti, i cittadini che vogliono sapere? Possibile che l’etichetta “matrice neo-fascista” plachi ogni desiderio di verità?