Scuola e COVID, il problema sono gli insegnati
Capisco che, con l’avvio delle vacanze, la mente vaghi lontano dalla politica, e dopo mesi di sofferenza quasi tutti si cerchi soltanto un po’ di relax. Capisco anche che, con montagne di soldi in arrivo dall’Europa, sia in atto la corsa a spenderne il più possibile, anche prima di averli. Capisco, infine, la disattenzione generale sui problemi della scuola e dell’Università, lasciati all’improvvisazione di ministri e rettori.
Quel che non capisco, invece, è il tipo di decisioni (o non decisioni) che – quatti quatti – i nostri politici stanno prendendo in vista della ripresa di settembre, in particolare in materia di scuola. Leggo che la ministra Azzolina è sicura che la scuola riaprirà, e che il commissario Arcuri ha promesso che entro il 7 settembre arriveranno fino a 3 milioni di banchi monoposto, una parte dei quali con rotelle (traduzione di “sedute scolastiche attrezzate di tipo innovativo, ad elevata flessibilità di impiego”), quasi gli studenti non fossero in grado, ammesso che serva, di spostare un banco monoposto. I banchi, il cui costo totale si potrebbe aggirare sui 500 milioni di euro, dovrebbero servire a garantire il distanziamento, cervelloticamente previsto in almeno un metro fra le “rime buccali” (sì avete letto bene, non è un errore tipografico, è il Comitato Tecnico-Scientifico che parla così: in sostanza vuol dire che gli studenti potranno stare a circa 60 centimetri l’uno dall’altro).
Come primo modo di spendere i soldi dell’Europa non c’è male. Non tanto perché, in realtà, li abbiamo già spesi (i finanziamenti a fondo perduto, 81 miliardi, non bastano nemmeno a ripianare l’extra-deficit che abbiamo fatto in soli 4 mesi di “scostamenti di bilancio”), ma perché sono soldi letteralmente gettati dalla finestra. Per capire perché, basta il buon senso, ma visto che il buon senso è divenuto una risorsa scarsa (specie fra i politici) lasciamo parlare il prof. Andrea Crisanti, quello che ha salvato il Veneto e realizzato l’indagine su Vo’ Euganeo: “dai 6 ai 13 anni il distanziamento è inutile, usciti dalla classe fanno quello che vogliono”. In realtà, a fare tutto quello che vogliono non sono solo gli studenti della scuola dell’obbligo (dai 6 a i 13 anni) ma sono gli studenti in generale, anzi i giovani in generale. Basta un minimo di esperienza della realtà, scolastica e non, per rendersi conto che, anche se gli insegnanti fossero in grado di far rispettare un vero distanziamento in classe (che non può essere di soli 60 cm, specie al chiuso, e specie nella stagione fredda), nessuno potrebbe impedire la violazione delle regole durante l’ingresso, l’uscita, e gli intervalli fra una lezione e l’altra, per non parlare di quel che succede prima e dopo la scuola: assembramenti sui mezzi pubblici, movida, ecc.
Ma la cosa più strana è che, mentre ci si accinge a sprecare mezzo miliardo di euro per una misura che avrà effetti nulli o trascurabili sul contagio fra studenti, nulla si prevede per limitare il rischio principale: e cioè che ad essere contagiati siano gli insegnanti, che – a causa della loro età e della esposizione alla massa studentesca – sono una categoria ad altissimo rischio (come lo sono, peraltro, i docenti universitari e i nonni con nipoti).
Si potrebbe pensare che tutto ciò sia solo frutto della leggerezza (o stoltezza?) di un manipolo di politici inesperti. Purtroppo non è così. Se osserviamo con attenzione quel che succede nel settore pubblico nel suo insieme, e lo confrontiamo con quel che succede nel settore privato, non si può che uscirne sconcertati. Mentre nel settore privato assistiamo a una ammirevole, talora eroica, assunzione di responsabilità, con riorganizzazioni meticolose delle fabbriche, degli uffici, delle regole di ingaggio dei lavoratori (e pesanti conseguenze sulla struttura dei costi), nel settore pubblico lo smart working troppo sovente si è risolto o in una pura e semplice soppressione di servizi (per non chiamarla una “vacanza”, come coraggiosamente ebbe a definirla Sabino Cassese), o in un drammatico abbassamento di efficienza e di qualità. Il tutto senza la minima assunzione di responsabilità da parte dei vertici della Pubblica amministrazione.
Su questo, ancora una volta, quel che sta succedendo nella scuola e nell’università è esemplare. Con la scusa della “autonomia” di scuole e atenei, il Governo centrale lascia le istituzioni periferiche con il cerino in mano, a formulare piani di riorganizzazione per cui non hanno né le risorse né i poteri necessari. E queste ultime, come è successo e sta risuccedendo, non avendo né le capacità necessarie per una vera riorganizzazione, né il coraggio di assumere decisioni vincolanti per tutti, si rifugiano nella comoda soluzione di lasciar liberi i docenti di fare ciascuno quello che si sente (lezioni ed esami a distanza o in presenza), in base alla propria sensibilità e propensione al rischio. Il che garantisce alle autorità di ogni livello della piramide burocratica di non essere imputabili di nulla quando l’epidemia dovesse riprendere il suo corso, e le decisioni (o meglio le non-decisioni) adottate dovessero presentare il conto, in termini di nuovi contagi, nuovi malati, nuovo morti.
Quando arriverà settembre, e continueranno ad esserci regole finte, che vengono ripetute per salvarsi la coscienza ma che nessuno ha la minima intenzione di far rispettare, ci ritroveremo – nelle scuole e nelle università – tristemente e inesorabilmente divisi in due gruppi: i coraggiosi (o incoscienti?), che fanno come se il virus non ci fosse, e i paurosi (o prudenti?) che si defilano il più possibile per limitare i rischi. E’ la conseguenza inevitabile di una classe dirigente che non perde occasione per invocare responsabilità da parte dei cittadini, ma le proprie responsabilità non ha la minima intenzione di prendersele.
Pubblicato su Il Messaggero del 25 luglio 2020