Lettera di una mamma
A proposto del “danno scolastico”
Professoressa Mastrocola, Professor Ricolfi, buongiorno.
Vi scrivo questa lettera che, temo, sarà piuttosto lunga per il desiderio di portarvi la mia esperienza, da mamma, riguardo al mondo della scuola e forse anche per la necessità tutta mia personale di dare sfogo ad un urlo di rabbia che fino ad ora ho soffocato.
Non so ancora bene cosa ne verrà fuori e se potrà essere di una qualche utilità. Si vedrà. Spero di non tediarvi eccessivamente.
Mi presento. Mi chiamo Sara, ho cinquant’ anni, sono psicologa, ho tre figli maschi, di 24, 22 e 11 anni, i due grandi studiano all’ università e il piccolo è in prima media. Per quanto riguarda la mia famiglia di origine, i laureati si perdono nelle generazioni degli avi. Nella mia famiglia si è sempre data moltissima importanza allo studio, alla conoscenza, alla riflessione, in generale alla cultura.
Ora dunque, i miei figli.
I due più grandi hanno frequentato sempre scuole pubbliche e non sono mai stati aiutati da me né seguiti privatamente. Hanno avuto degli insegnanti molto validi, alle elementari direi addirittura eccezionali e molto, molto esigenti. Usciti dalle scuole medie sono andati al liceo scientifico, il maggiore a scienze applicate e l’ altro al tradizionale.
Durante i loro anni di liceo iniziarono i miei dubbi.
Il maggiore, che è sempre stato bravino e che, ritengo, abbia anche avuto dei bravi insegnanti, dedicava allo studio un tempo che poteva variare da una a due ore al giorno per non più di cinque mesi ad anno scolastico. Per i miei criteri poco, troppo poco. In diverse occasioni dissi ai suoi professori che dedicava poco tempo allo studio, anche se, confesso, non dissi mai loro di quanto poco si trattasse. Ora ha 24 anni e sta facendo la magistrale di ingegneria, è bravino, sicuramente possiede le “competenze di base”, ma non è riflessivo, non si pone domande, non è curioso, non ha interessi, non legge saggi. Ho provato a riflettere un po’ con lui dicendogli che sicuramente uscirà dall’università con una buona (aiuto, in realtà lo spero!) preparazione tecnica, ma ci sono altre competenze non tecniche da affinare. Di recente ho provato a proporgli un saggio ereditato da mio padre, “Il professionista riflessivo”(tanto per citarne uno). Ma no. Non gli interessa. Sembra che accendere la mente sia una cosa che non rientra nei suoi piani. E non era così. Io, che lo osservo da sempre, direi che si sia appiattito durante gli anni di liceo, che indubbiamente per lui sono stati molto poco stimolanti. Ricordo la sua fatica nell’ andare a scuola, cosa che all’ epoca mi stupiva molto e che non riuscivo a spiegarmi dal momento che non aveva alcun problema di rendimento. Nella vita se la caverà, ma rimane un dispiacere di fondo, un po’ di amarezza.
Quando arrivò al liceo l’altro figlio compresi la differenza fra studiare poco e studiare niente. (Permettetemi una precisazione: non abbiamo geni in famiglia, i miei figli hanno una intelligenza normalissima).
Il secondo dei miei ragazzi, mai stato bocciato, mai stato nemmeno rimandato, una unica insufficienza in pagella in una materia di un primo quadrimestre in 5 anni di liceo, studiava, forse, 15 minuti a giorni alterni (sono certa di quanto dico riguardo allo studio poichè di recente ne ho parlato con entrambi e me lo hanno confermato). Andava a scuola molto volentieri, si trattava di una specie di paese dei balocchi. Nei vari confronti/scontri avuti negli anni la sua risposta è sempre stata che se fosse stato difficile si sarebbe impegnato ma visto che era così facile non ne vedeva la necessità. Come dargli torto! E allora quando fu in quarta liceo, in marzo, mi presentai alla professoressa di matematica e fisica dicendole che mio figlio non aveva neppure i quaderni delle sue materie, che non svolgeva mai i compiti che venivano assegnati per casa e che non apriva un libro. La pregai che lo rimandasse, spiegandole che le facevo questa richiesta perché ero seriamente preoccupata che arrivasse impreparato all’università e rincarai la dose assicurandole che non la avrei denunciata se lo avesse rimandato a settembre (mia mamma ha insegnato italiano per quarant’ anni e sono ben consapevole delle paure degli insegnanti nei confronti dei genitori). Quando la professoressa si riebbe dallo shock, mi disse che non avrebbe saputo come fare, che se a giugno fosse arrivato ad avere la media matematica del 6 lei non lo avrebbe potuto rimandare. A quel punto lo shock fu mio. Pensavo che fossero i professori a decidere quali voti assegnare. Forse non era così. Forse il tutto veniva affidato ad un complicato algoritmo governato da chissà quali fattori! Chiedo scusa, nella foga del racconto mi sto un po’ facendo prendere la mano. E dunque, uscii da quel colloquio con un tale sconforto addosso e con la nettissima sensazione di dover combattere una battaglia presentandomi a lei sola e disarmata. A giugno venne promosso. Per inciso, a fine anno scolastico trovai diversi libri di testo ancora ricoperti con la pellicola di cellofan. L’ anno successivo, la sua quinta liceo, presi una leggera terapia antidepressiva per riuscire a sopportare meglio (infischiandomene un po’) questa situazione di totale, a parer mio, degrado culturale. Alla maturità, che era ancora una buona maturità con i tre scritti, la tesina e l’orale su tutte le materie, prese 80/100. Gli dissi che non lo aveva meritato. La sua risposta, la ricordo come fosse ieri, fu: “Mamma, ma tu non hai idea di come sono messi gli altri” (i suoi compagni di classe). Purtroppo penso avesse ragione; all’ epoca corressi ad una sua compagna di classe, ragazza diligente, bravina e studiosa, la tesina di maturità sull’ anoressia. Francamente era scritta maluccio (grammatica, lessico, sintassi, costruzione del periodo e struttura del testo; insomma, a parte l’ortografia, tutto). Rimasi molto stupita. Ora mio figlio sta faticosamente e con un po’ di ritardo finendo la triennale di matematica.
I miei ragazzi se la caveranno nonostante il liceo a mio parere troppo facile che hanno frequentato. Penso che nel loro caso siano state determinanti le ottime elementari fatte, il teatro per il maggiore e il pianoforte per il secondo oltre alla famiglia comprensiva di “mamma rompiscatole”, come dicono loro.
Ma che occasione mancata il liceo! Che peccato!
Ed ora il piccolo. E qua si passa probabilmente, come dite nel vostro libro, dalla tragedia alla catastrofe.
Il mio piccolo, nato nel 2010, andò alla scuola elementare che avevano frequentato i suoi fratelli. Io ebbi subito il sentore di qualcosa che non andasse, ma pensai che si dovesse semplicemente ambientare. A metà della seconda elementare era diventato estremamente oppositivo (a 7 anni!!) e sapeva a mala pena scrivere e leggere le parole. In classe c’ erano diversi bambini che disturbavano molto, alcuni anche certificati. Il risultato era una bolgia pazzesca e per tenerli buoni le insegnanti facevano fare ai bambini dei “progetti di cucina”, li facevano cucinare! Attività che erano in grado di svolgere tutti i bimbi. Il tutto ovviamente con il benestare di dirigente scolastico e genitori. Se non lo avessi vissuto non ci crederei (per inciso, io ho visto negli ultimi 10 anni un gran proliferare di certificazioni grazie alle quali spesso accade che i bambini possano tranquillamente evitare di impegnarsi per imparare e le maestre possano tranquillamente evitate di impegnarsi nell’insegnare). Ebbene, lo togliemmo dalla scuola pubblica e lo mandammo in terza elementare in una scuola privata religiosa, scuola nella quale ancora vige una certa idea di, passatemi il termine, “sacralità” dell’istituzione scolastica, dove ancora resiste l’idea che a scuola si faccia qualcosa di importante e nella quale gli insegnanti sono tuttora un po’ più esigenti che altrove (io purtroppo penso che gli insegnanti esigenti siano oramai una specie in via di estinzione, come pure i genitori severi). Perdonate il mio divagare. Riprendo. A metà della terza elementare il maestro mi chiese se volessimo far fare al bimbo le prove per la dislessia. Risposi che se anche fosse stato lievemente dislessico, cosa che peraltro non pensavo fosse, non avevo nessuna intenzione di fornirgli un alibi per non sforzarsi e per poter lavorare poco. Ora è in prima media ed ha ampiamente recuperato il distacco rispetto ai compagni, ma, mi verrebbe da dire, solo grazie alla famiglia in seno alla quale ha avuto la fortuna di nascere.
Concludo raccontando brevemente del colloquio che ho avuto con uno degli insegnanti di mio figlio. Qualche giorno fa sono andata a parlare col professore di italiano che è anche il coordinatore di classe. Dopo aver parlato delle solite cose (rendimento, comportamento, socializzazione), ho espresso il mio pensiero rispetto a cio’ che desidererei dalla scuola. Ho esordito così: “Professore, il mio obiettivo non è che mio figlio prenda dei voti altissimi e che venga a scuola sempre preparatissimo in tutto. Paradossalmente, e lo dico mordendomi la lingua, mio figlio potrebbe anche non studiare quasi per nulla una materia e studiarne benissimo un’altra; quello che mi interessa è che impari a studiare, è che colga la differenza di quando è preparato e sa le cose e di quando non lo è e non le sa. Io voglio pensare in grande e il mio obiettivo è che mio figlio diventi uomo e questo non avviene se a scuola gli spianate sempre la strada in tutto, se gli togliete ogni frustrazione, se eliminate ogni esperienza avversa. Mio figlio diventerà grande solamente se imparerà ad affrontare le difficoltà.”
Vi ringrazio moltissimo per la pazienza dimostrata e vi ringrazio per il libro che avete appena pubblicato. Spero che la vostra pubblicazione possa dar luogo ad una riflessione seria sul mondo della scuola, riflessione libera da contese e dispute in un’ottica costruttiva diversa da quella del “voler avere ragione”.
(lettera firmata)