Legge e ordine non è uno slogan trumpiano ma uno dei capisaldi di ogni democrazia
In un articolo impeccabile pubblicato sul Foglio del 1° settembre, Perché se dici che legge e ordine sono il presupposto della democrazia ti prendi del fascista, Paola Peduzzi cita Andrew Sullivan che su Weekly Dish mostra il pericolo rappresentato da Black Lives Matter per la democrazia in America.
Se parlo di «assolutismo nelle strade, delle macerie che vengono spazzate via ogni mattina in molte città americane dove ci sono proteste ininterrotte e violente, se segnalo i video in cui i negozianti raccolgono pezzi delle loro vetrine e implorano di smetterla perché l’assicurazione non paga più nulla, contribuisco anch’io a far vincere Trump?» si chiede Sullivan che, amaramente, richiama il principio (hobbesiano) che senza legge e ordine non può esserci libertà politica.
«Le sommosse e l’assenza della legge sono un male – scrive – Ogni autorità che permette, tollera o sminuisce la violenza, i saccheggi e i disordini nelle strade si spoglia di ogni legittimità. Senza ordine non c’è spazio per altre questioni. Il disordine sempre e ovunque richiama altro disordine; nel momento stesso in cui le autorità sembrano tollerare la violenza, questa violenza è destinata a crescere. E se i liberali non difendono l’ordine, lo faranno i fascisti». Come lo fecero in Italia, ce ne ricordiamo bene, quando la borghesia liberale volse le spalle a Giovanni Giolitti che aveva tollerato l’occupazione delle fabbriche.
Non mancano anche nel nostro paese analisti consapevoli della gravità della situazione americana e che – a differenza di Riccardo Barlaam (Il Sole- 24 Ore) o di Gianni Riotta (La Stampa) – non attribuiscono le violenze nelle strade all’inquilino della Casa Bianca che getta benzina sul fuoco.
Penso, ad esempio, a Federico Rampini (La Repubblica) che ricorda come Portland sia «diventata il simbolo di una protesta anti-razzista di Black Lives Matter che è sfuggita di mano, ha creato delle zone proibite di fatto alle forze dell’ordine, dei ghetti dove si sono allargate le gang, moltiplicando i reati».
E tuttavia anche professionisti seri e realisti come Sullivan e Rampini, a mio avviso, non colgono fino in fondo il significato epocale delle sommosse statunitensi. Lo coglie, invece, il sociologo Antonio Bettanini – uno dei protagonisti intellettuali della stagione craxiana – in un articolo inviato all’Avanti. Vale la pena citarne un lungo brano. La diagnosi pessimistica di Bettanini è ineccepibile: «La mia ipotesi è che ci troviamo di fronte ad una espressione di neo-totalitarismo ideologico – favorito dai meccanismi strutturali che presiedono al racconto dei media – i cui tratti riconosciamo forse con difficoltà (e con prudenza) anche a giudicare dalla cautela con cui si sono poi decisi a scendere in campo 150 rappresentanti autorevoli dell’universo intellettuale angloamericano in difesa della libertà di espressione e contro la “cancel culture” degli anti-razzisti. Un campanello d’allarme (su Harper’s Magazine) sulla deriva e sulla tirannia che un certo mondo delle minoranze sembra poter esercitare sull’opinione pubblica. La “novità” sta nel fatto che questa attività (di comunicazione) per quanto esercitata, in principio, in nome di un universalismo di valori (declinato però negativamente: la lotta al razzismo), sembrerebbe appoggiarsi sulla distruzione di tutto quanto, sotto forma di memoria collettiva, celebri il mondo colpevole della bianchitudine. Una leva di propaganda che ricorda il fondamento distintivo (l’arianesimo, l’appartenenza di classe) sul quale i due grandi totalitarismi del ‘900 formarono la loro identità ed il loro principio di esclusione. Qui la lotta al razzismo si accompagna sia ad una prepotente richiesta di risarcimento dei torti subiti (le forme ed i contenuti della disuguaglianza), sia ad un’opera di “igiene della memoria” indifferente alla complessità dei diversi contesti storici. Si tratta di riscrivere la storia alla luce della sensibilità dell’oggi. Ecco che allora il sindaco democrat di Columbus decide per l’abbattimento della statua di Colombo così che: “Noi non vivremo più all’ombra del nostro brutto passato”».
Lo spettro del totalitarismo si aggira davvero nell’area euro-atlantica. E tuttavia, a mio parere non si può ridurre la partita che si sta giocando in questi ultimi tempi a quella tra minoranze, infettate dal virus totalitario, e maggioranze (ancora) legate alle vecchie istituzioni e ai vecchi valori. Per adoperare un termine impegnativo, non ci troviamo, temo, dinanzi a una crisi di modelli sociali economici e politici “che perdono colpi” ma a un’eclisse della civiltà occidentale che sembra realizzare davvero l’incubo di Oswald Spengler.
In parole povere, abbiamo creato società civili che traevano la loro legittimità dalle catastrofi soprattutto morali causate da “forme di governo” che contrapponendosi violentemente al binomio democrazia/mercato e azzerando l’uno o l’altro – o entrambi – avevano scatenato l’inferno sulla terra, in forma di Lager o di Gulag. Sennonché, ricacciati i demoni nell’Ade, non si è riusciti a radicare forme di convivenza civile soddisfacenti per tutti. È come se al collante sociale fornito dal terrorismo totalitario si fosse sostituito l’indebolimento, fino all’estinzione, di qualsiasi altro legame tra individui, gruppi, territori. Insomma, masse sempre più numerose di cittadini “non si trovano bene”, non si riconoscono nei valori del sistema, nei suoi simboli storici, nel suo “sacro”, per citare un filosofo dimenticato come il neo-hegeliano Eric Weil.
Questo sottoproletariato interno, straniero indipendentemente dall’appartenenza etnica, non rispetta nulla: né la proprietà, né le leggi, né i monumenti a Colombo o a Jefferson personaggi lontani anni luce dal loro vissuto quotidiano. Cosa vogliamo farne?
Reprimerlo brutalmente, come chiedono i conservatori trumpiani?
Assecondare la sua furia iconoclastica, in nome della “tolleranza” e della “comprensione” come vorrebbero i buonisti di tutto il mondo uniti?
Purtroppo non si intravedono vie di uscita.
Pubblicato su Il Dubbio del 5 settembre 2020