La rivoluzione del merito
In primo pianoSocietà(Intervista di Nicola Mirenzi a Luca Ricolfi, uscita sul Foglio il 7 settembre 2023)
“La rivoluzione del merito” – l’ultimo libro di Luca Ricolfi – appena uscito in libreria con Rizzoli dovrebbe già essere sulla scrivania di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi. Il libro racconta la storia della lotta contro il merito, e contiene anche, alla fine, una “modesta proposta” per istituire un generoso sistema di borse di studio per i ragazzi capaci e meritevoli ma poveri.
“La presidente del consiglio”, racconta Ricolfi, “condivide l’idea lanciata dalla Fondazione Hume e ripresa nel mio saggio. E, a quel che ne so, è determinata a realizzarla fin dalla fine di questo anno scolastico”. Ricolfi è ossessionato dal problema del merito fin dai tempi delle riforme di Luigi Berlinguer, fine anni ’90. “Ancora non riesco a darmi ragione del silenzio di tutte le forze politiche, a partire da quelle che si proclamano progressiste, per il destino dei ragazzi ‘bravi a scuola’ ma provenienti da famiglie modeste”.
Sociologo dotato dell’abilità di scrivere con chiarezza illuministica, Ricolfi è nato nel 1950, lo stesso anno in cui Piero Calamandrei, a Roma, pronunciò davanti a maestri e professori uno strepitoso discorso in difesa della scuola, raccontato nel primo capitolo del libro. Un discorso poco conosciuto, che parla dell’articolo 34 della Costituzione. Quello che recita: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto a raggiungere i gradi più alti degli studi”. Secondo Calamandrei, “l’articolo più importante della Costituzione”. Di cui è necessario ricordare “il valore politico e sociale”. Perché solo attraverso il sostegno ai capaci e meritevoli la scuola può far crescere “i migliori” e garantire un proficuo ricambio della classe dirigente. “I partiti progressisti hanno dimenticato la lezione di Calamandrei. Anzi hanno sconsideratamente tradito l’articolo 34 per abbracciare la bandiera del ‘diritto al successo formativo’, che ha danneggiato proprio le persone che ai progressisti dovrebbero stare più a cuore: le più umili”.
La difesa della cultura come strumento di emancipazione – un tempo centrale anche nella politica del Pci di Togliatti – è diventata di destra? “È ancora presto per dirlo. Al momento, si può solo prendere atto che la bandiera della cultura è in un limbo: i progressisti l’hanno abbandonata, la destra non l’ha ancora raccolta”. La novità è che, a sinistra, la parola merito è diventata quasi una bestemmia, dopo essere stata posta a fianco di “istruzione” nel nome del ministero guidato da Giuseppe Valditara. “Mentre sarebbe ancora oggi il discorso più di sinistra che si possa fare”. Ma né Elly Schlein, né nessun altro dei segretari precedenti del Pd, ha mai invitato Ricolfi a un incontro di partito. È stata piuttosto Giorgia Meloni a chiedergli di partecipare, nella primavera scorsa, alla convention di Fratelli d’Italia per parlare di scuola. Già in passato Ricolfi aveva avuto scambi di idee con la presidente del Consiglio. La prima volta che si videro era il 2014, quando Fratelli d’Italia era ancora un giovane e piccolissimo partito. Fu a proposito del maxi-job, una proposta che la Fondazione Hume aveva lanciato dalle pagine del quotidiano “La Stampa”. La proposta (azzerare i contributi per le imprese che aumentano l’occupazione) era piaciuta a Giorgia Meloni, che andò a Torino per farsela raccontare in dettaglio. “Una vera sorpresa per me: una donna politica interessata ai minimi dettagli tecnici, e che prende un aereo per andare a parlarne con un sociologo della parte politica avversa”.
Conservatore? No, Ricolfi si definisce “un uomo di sinistra”. In politica economica, addirittura radicale. “Io sono un sessantottino. La mia generazione è cresciuta nel mito della rivoluzione. E nemmeno io sono immune dal suo fascino. Certo, non ho mai pensato che il potere dovesse essere conquistato con la violenza, come predicavano gli estremisti degli anni Settanta. Ma, anche quando ho scelto il riformismo, sono rimasto fedele all’idea che, per cambiare davvero le cose, qualsiasi riforma deve essere radicale, decisa, senza mezze misure. L’Italia va rivoltata come un calzino. Tutto il resto è acqua fresca”. L’immagine del Ricolfi rivoluzionario è poco nota. “Ero vicino al Psiup, allora guidato da Pino Ferraris. Ma lasciai nel 1971, quando, a una manifestazione, Lotta Continua e gli psiuppini se le diedero di santa ragione con le aste delle bandiere per prendere la testa del corteo. Così io salii sulla mia Fiat 850 e mi rifugiai in montagna, dove rimasi per circa un anno, scendendo solo a dare esami. Per quasi un anno mi dedicai solamente a studiare i miti greci e a tradurre (malissimo) la Einbahnstrasse di Walter Benjamin. Di quel tipo di politica lì, di quella competizione senza senso fra gruppetti extraparlamentari, non volli saperne più niente”.
Seppur sessantottino, Ricolfi è stato in polemica anche con la propria generazione, a cui oggi imputa parte della responsabilità di aver contribuito alla distruzione del merito. “Credevo che per fare la rivoluzione fosse necessario studiare. Non puoi cambiare il mondo, dicevo, se prima non fai lo sforzo di conoscerlo a fondo. La mia generazione tendeva invece a credere che anche l’istruzione fosse uno strumento del dominio di classe. Di qui l’idea degli esami collettivi e del voto politico. Che detestavo non perché i miei compagni, senza studiare, prendessero gli stessi voti che prendevamo noi, studiando. No. Quello che odiavo davvero è che poi non sapessero nulla neanche di Marx, di cui si riempivano in continuazione la bocca”.
Il corpo a corpo più drammatico del libro lo ingaggia con Don Lorenzo Milani. Eroe del suo tempo e ancora oggi icona del progressismo. “In ‘Lettera a una professoressa’ è evidente il suo disprezzo per la cultura alta, in particolare quella umanistica, vissuta semplicemente come uno strumento di oppressione borghese. Ma in Don Milani c’era ancora un elemento che poi nei suoi epigoni è sparito del tutto. Il valore dello studio, e del tempo pieno per i ragazzi in difficoltà. Nella scuola di Barbiana non c’erano vacanze. Si stava in classe tutto il giorno. Anche nel fine settimana. Per questo ritengo necessario distinguere Don Milani dal ‘donmilanismo’. Nel primo, c’è parecchio da rifiutare ma anche qualcosa da custodire. Nel secondo, c’è solo la rinuncia a trasmettere la cultura alta ai figli delle classi basse.”.
E invece Meloni sarebbe una rivoluzionaria autentica? “A suo modo, credo sia una donna radicale. Anche in politica economica. Il suo chiodo fisso è l’occupazione. L’idea della flat tax non la entusiasma. Credo che, finché potrà, eviterà di applicarla nelle sue versioni iper-liberiste. Per una ragione semplice: in fondo, lei è una vera keynesiana”. Ma è davvero rivoluzionario essere keynesiani, in Italia? “No, se si commette l’errore di confondere l’intervento pubblico con l’assistenzialismo, che è quello che in Italia è sempre andato di moda. Ma il fine delle politiche keynesiane, si dimentica spesso, non è la spesa pubblica in sé: è l’investimento pubblico per raggiungere la piena occupazione, creare lavoro. E su questo sono in piena sintonia con Meloni: nessun aumento salariale, nessun reddito di cittadinanza, nessun sussidio, potrà mai avere, dentro una famiglia, l’impatto che ha uno stipendio in più”.
Delle conseguenze della propria radicalità, Luca Ricolfi si rimprovera una sola cosa: “Il libro che ho scritto su Tangentopoli, “L’ultimo parlamento”. Rigoroso nei numeri, ma così ferocemente giustizialista che oggi mi vergogno di averlo scritto. Non perché il fine non fosse sacrosanto: rinnovare il sistema politico italiano in profondità. Ma perché oggi so che nessun fine può essere distinto dai mezzi che si adoperano per raggiungerlo. E i mezzi usati da Di Pietro e dal pool di Mani Pulite furono (dico oggi) non degni di un paese civile, per non dire mostruosi”.
Dalla parola radicale, sente di potersi allontanare solo quando parla dei valori culturali. “In questo non nascondo di essere un conservatore”. La società opulenta e permissiva ha creato ben poco di buono, secondo Ricolfi. “Per esempio, è stato un errore – in nome di una falsa inclusività – sbarazzarsi della trasmissione del sapere, che la scuola aveva garantito in passato. Come è stato sbagliato, in nome della sovranità assoluta dell’io, liberarsi completamente del senso del pudore. Forse non ce ne rendiamo nemmeno conto. Ma attraverso i social è stata abolita l’intimità. Oggi è quasi vietato starsene per i fatti propri. La timidezza e l’introversione sono state bandite dal modo di essere uomini e donne”. Ma anche nell’educazione sentimentale sono stati fatti danni. “Abbiamo fatto molto male a demonizzare le nostre tradizioni culturali. C’era in esse un patrimonio di gesti, di codici di comportamento, di approcci tra uomo e donna senza i quali, oggi, in assenza di qualsiasi altro codice, più facilmente si riprecipita nella violenza e nella prevaricazione. Fino ad arrivare all’estremo dello stupro di gruppo. Com’è accaduto nel recente caso di Palermo”.
Si dovrebbero recuperare allora le culture antiche? “Non penso né che si possa, né che sia giusto farlo. Io sono per andare avanti, ma custodendo il buono che c’è – anzi che c’era – nel mondo che abbiamo ereditato da chi ci ha preceduto. Ad esempio: la trasmissione della cultura, la capacità di differire la gratificazione, il rispetto dei ruoli, l’esercizio dell’autorità nell’educazione dei figli. Più in generale, l’accettazione del limite, che è il vero nucleo della visione conservatrice del mondo, da Edmund Burke a Roger Scruton, da Raymond Aron a Simone Weil”.
E i conservatori italiani? “L’Italia ha una particolarità. È un Paese in cui non si scontrano due grandi visioni del mondo. Ma ne esiste solo una: quella progressista. È la sinistra che conduce le battaglie di civiltà. Afferma diritti. Combatte privilegi. Sempre in nome di un’idea più alta. La destra non fa altro che reagire a questa spinta. Rintuzzare gli eccessi. Scalpitare per non essere soffocata. La destra non ha un’idea di mondo alternativa a quello progressista. Si limita a schierarsi contro. Passando spesso per reazionaria, oscurantista, appunto perché non oppone a un’idea di mondo un’altra idea di mondo, ma si limita a reagire all’unica idea in campo. Ecco in cosa consiste la vera egemonia culturale della sinistra. Non il potere. Non le poltrone. Non i ruoli. Ma un’idea di civiltà”.