La luce in fondo al tunnel (grazie ai vaccini e al modello inglese)
Per la prima volta da quando tutta questa sciagurata vicenda è cominciata e proprio mentre l’Italia supera la simbolica cifra di 100.000 morti, posso finalmente scrivere di una buona notizia. I vaccini, infatti, non solo stanno funzionando, ma, almeno per quanto si può capire da ciò che sta accadendo nei paesi che hanno già vaccinato una significativa percentuale della loro popolazione, sembrano addirittura funzionare meglio delle previsioni, anche se i dati sono ancora troppo parziali per cantare definitivamente vittoria.
Infatti, al 7 marzo 2021 solo 3 grandi paesi hanno già effettuato più di 25 vaccinazioni ogni 100 abitanti: Israele (101), Gran Bretagna (34,4) e Stati Uniti (27). Gli altri che hanno superato tale soglia, circa una dozzina, sono quasi tutti Stati-isola, che per le loro piccole dimensioni non possono essere considerati statisticamente significativi, più gli Emirati Arabi, che invece lo sarebbero, avendo quasi 10 milioni di abitanti, ma non stanno fornendo dati sufficientemente precisi.
I suddetti numeri, tuttavia, non coincidono con la percentuale di popolazione vaccinata, perché comprendono sia le prime che le seconde dosi. Ora, mentre nella maggior parte dei paesi si è seguito il protocollo normale, che richiede che la seconda dose venga iniettata a poca distanza dalla prima, in Inghilterra si è deciso di rinunciare, per il momento, alla seconda dose, “scommettendo” sul fatto che vaccinare tutti in metà tempo, sia pure con una protezione “ridotta” (peraltro più dal punto di vista della durata che della qualità), risulti più efficace che garantire a tutti la protezione totale in un tempo doppio.
Ciò significa che le 34,4 dosi ogni 100 abitanti dell’Inghilterra, essendo quasi tutte prime dosi, corrispondono quasi alla stessa percentuale di popolazione vaccinata (per la precisione, al 32,7%), mentre le 101 di Israele corrispondono appena al 57,3% di persone vaccinate almeno una volta, anche se la percentuale di quelle che hanno ricevuto il richiamo e possono quindi contare su una protezione completa è del 43,8% contro l’appena 1,6% del Regno Unito. Gli USA, infine, si collocano in una posizione intermedia, avendo un rapporto tra prime e seconde dosi somministrate di circa 2 a 1.
È interessante paragonare queste tre differenti strategie e i risultati che stanno dando e che ho riassunto nella tabella seguente, aggiungendovi Gibilterra, che ha seguito anch’essa il modello inglese, essendo una sua colonia, benché ne sia fisicamente separata: infatti, se è vero che è un paese troppo piccolo (appena 33.000 abitanti) perché normalmente abbia senso inserirlo nelle statistiche, in questo caso particolare ha dati così impressionanti che non possono essere ignorati.
Poiché le campagne vaccinali sono iniziate in momenti diversi, come data di riferimento per valutare il calo di morti e contagi ho scelto il 10 gennaio 2021, giorno in cui è iniziata a Gibilterra, che è stata l’ultima. D’altra parte, mentre Gibilterra ha iniziato subito fortissimo, gli altri paesi avevano sì iniziato prima, ma a un ritmo estremamente basso, che, per una circostanza fortunata, si è alzato significativamente proprio intorno al 10 gennaio, che, non a caso, coincide più o meno ovunque con il picco dei contagi, sicché possiamo considerarla come la “vera” data d’inizio della campagna vaccinale in tutti e quattro i paesi considerati. Ciò è ancora più legittimo se consideriamo che un calcolo del genere è necessariamente approssimato, perché non avrebbe senso paragonare il dato esatto del 10 gennaio con il dato esatto del 7 marzo, visto e considerato che il numero dei casi giornalieri subisce notoriamente forti oscillazioni dovute a vari fattori essenzialmente casuali: quindi il paragone verrà fatto tra la media dei nuovi casi giornalieri “intorno” al 10 gennaio e la media dei nuovi casi giornalieri “intorno” al 7 marzo.
È chiaro che si tratta di dati piuttosto disomogenei, che possono essere confrontati tra loro solo in modo molto approssimativo, non solo per quanto detto sopra, ma anche a causa dei diversi tipi di vaccini usati, delle altre misure di prevenzione adottate, dei diversi metodi per il calcolo dei contagi e delle differenti situazioni sociali, economiche e climatiche. Ciononostante, mi pare che almeno due conclusioni si possano trarre:
1) In generale, i vaccini funzionano molto bene, dato che, qualunque strada si sia seguita, si è avuto un sostanziale e rapidissimo calo sia del numero dei nuovi contagi che dei nuovi morti. Ovviamente, il secondo è inferiore, come è logico che sia, dato che è sempre “in ritardo” di 2 o 3 settimane rispetto quello dei contagi, ma in compenso è molto più oggettivo e conferma in pieno il primo.
2) Il successo del modello inglese sembra innegabile e sembra dimostrare che anche la prima dose di vaccino fornisce una protezione efficace, nonostante le perplessità di molti esperti, che all’inizio potevano essere giustificate, ma, almeno per ora, sembrano essere state smentite dai fatti, dato che il fattore determinante è chiaramente la percentuale di persone vaccinate almeno una volta, mentre il richiamo sembra incidere pochissimo. Certo, sul lungo periodo le cose potrebbero cambiare, ma la speranza (che a questo punto non appare campata in aria) è che prima che ciò possa accadere il virus sia già stato debellato del tutto, come sta accadendo a Gibilterra, che ha praticamente azzerato il contagio usando quasi esclusivamente la prima dose (non inganni il 46,2% di richiami, che sono stati fatti quasi tutti negli ultimi giorni, quando i contagi erano già scesi del 90%). La cosa è ancora più notevole se si considera che Gibilterra è il paese che ha in assoluto il peggior rapporto tra morti e popolazione (2761 morti per milione di abitanti): e per quanto sia vero che nelle normali statistiche tale dato non può essere paragonato a quello dei grandi paesi, perché su numeri così piccoli anche variazioni minime e sostanzialmente casuali pesano moltissimo, in questo caso particolare il cambiamento è stato così rapido e così radicale che non si può evitare di esaminarlo attentamente.
Devo dire che la cosa non mi stupisce: personalmente ho sempre pensato che sul campo i vaccini avrebbero funzionato meglio, e non peggio, di quanto risultava dai test di laboratorio. Il motivo è semplice: esattamente all’opposto di quanto sostenuto dai complottisti, infatti, avendo dovuto lavorare in condizioni assolutamente senza precedenti e avendo addosso gli occhi di tutto il mondo, era assai più probabile che i produttori dei vaccini preferissero rischiare di sbagliarsi per eccesso di pessimismo che per eccesso di ottimismo, perché in quest’ultimo caso l’avrebbero pagata carissima, non solo in termini economici, ma anche penali.
Inoltre, gran parte delle perplessità sulla reale efficacia dei vaccini, comprese quelle espresse da Mario Menichella su questo stesso sito, si basava sulle critiche di Peter Doshi, che certamente è un grande esperto in materia e aveva sostenuto che la loro reale efficacia potrebbe addirittura andare solo dal 19% al 29%. Tuttavia, dopo aver letto la replica (o, più esattamente, la stroncatura), tanto dura quanto precisa, di Marco Cavaleri dell’EMA, che ho trovato molto convincente, mi sono fatto l’idea (che per ora sembra confermata dai fatti) che, come molti altri scienziati, tra cui persino Fauci, anche Doshi avesse ceduto alla tentazione della “sparata” gratuita per trovare visibilità mediatica a buon mercato.
Se questa è dunque la buona notizia, quella cattiva, anzi, pessima, è invece la disperante lentezza con cui è finora andata avanti la campagna vaccinale in Italia, che attualmente è appena al 44° posto al mondo con 9,3 dosi ogni 100 abitanti, in linea con la media UE, il che però non è una grande consolazione. Anche perché non significa che stiamo facendo come tutti gli altri, bensì che circa metà dei paesi UE sta facendo peggio, ma l’altra metà (tra cui molti scientificamente assai più arretrati di noi) sta facendo meglio.
Tuttavia, da quando, grazie al cielo (e a Renzi), Conte se n’è andato, c’è stata un’innegabile quanto palesemente non casuale accelerazione, giacché, come ha documentato Ricolfi negli aggiornamenti settimanali del suo “Indice DQP”, dall’insediamento del nuovo governo ad oggi, cioè in sole 3 settimane, il traguardo dell’immunità di gregge si è avvicinato di ben 2 anni, passando da maggio 2024 a maggio 2022.
È chiaro che non basta ancora, tuttavia a questo punto mi sento di dire che il ritorno a una sostanziale normalità già a maggio di quest’anno è ormai alla nostra portata. Considerando infatti che l’anno scorso l’arrivo del caldo abbatté da solo i contagi di circa il 90% nel giro di appena 3 settimane, tra fine aprile e metà maggio, se per allora saremo riusciti a somministrare almeno un 35% di prime dosi, il che, in base ai dati di cui sopra, dovrebbe portare almeno a un dimezzamento dei contagi, la somma di questi due fattori ci porterebbe già vicini al completo azzeramento. Il miglioramento della situazione generale, a sua volta, renderebbe poi più facile completare la campagna vaccinale, giungendo alla totale eliminazione del virus nei mesi seguenti, prima che torni il freddo a complicare le cose.
Naturalmente, per questo occorrerà accelerare ulteriormente il ritmo delle vaccinazioni, rendendo più efficienti le procedure (ancor oggi estremamente caotiche), ma soprattutto risolvendo il problema principale, cioè la scarsità dei rifornimenti, anche a costo, se non ci fosse altra via, di adottare decisamente il “modello inglese”, che peraltro in parte si è già imposto nei fatti, visto che in Italia meno della metà di chi ha ricevuto la prima dose ha già ricevuto anche la seconda. L’altra possibilità è concedere un’autorizzazione d’emergenza per l’uso di vaccini non ancora approvati dall’EMA, ma che hanno ormai dimostrato “sul campo” di funzionare, come per esempio lo Sputnik russo o quello americano della Johnson & Johnson, cosa in sé perfettamente legale, come ha ricordato la stessa EMA: il problema è esclusivamente di volontà politica.
Da questo punto di vista, non è certo incoraggiante sentire un illustre infettivologo come Massimo Galli dichiararsi sprezzantemente contrario all’uso del vaccino russo con la motivazione che «non siamo San Marino e, con rispetto parlando, neppure l’Ungheria» (intervista a La Stampa, 6 marzo 2021). Forse qualcuno dovrebbe far presente all’illustre professore che, con rispetto parlando, evidentemente ignora, o finge di ignorare, che l’Ungheria ha sempre fatto meglio di noi nella gestione del virus (anche e soprattutto nella “mitica” prima fase, in cui si continua a dire che abbiamo fatto benissimo, eppure l’Ungheria ebbe appena 36 morti per milione di abitanti contro i nostri 480) e lo sta facendo anche adesso con le vaccinazioni, dato che è al 22° posto nel mondo con 13,34 dosi ogni 100 abitanti.
Per fortuna, pare che l’orientamento di Draghi sia più pragmatico. Staremo a vedere. Ma, per la prima volta, la luce che comincia ad apparire in fondo al tunnel non è più una semplice illusione ottica. Proprio per questo, non fare di tutto per renderla pienamente reale sarebbe imperdonabile.