Il singhiozzo dell’uomo maschio – A proposito di violenza sulle donne
Era il 1983, giusto 40 anni fa, quando Pascal Bruckner pubblicava il suo libro più famoso, Il singhiozzo dell’uomo bianco, in cui descriveva gli impulsi di autoflagellazione della cultura occidentale, già allora in via di autoliquidazione.
Ma oggi siamo ben oltre. Quello cui ci tocca assistere, dopo la orribile, tristissima vicenda di Giulia Cecchettin, è il singhiozzo dell’uomo maschio: il bisogno di tanti maschi di dire che sì, si sentono anche loro responsabili, si vergognano di essere maschi, insomma la responsabilità di quel che è accaduto alla povera Giulia sarebbe anche loro.
La cosa interessante è che questo moto di autodenuncia, che per lo più scopiazza le più ardite (e indimostrate) teorie del movimento woke d’oltre oceano, non tocca minimamente la gente comune, che con difficoltà più o meno grandi, continua a condurre la sua vita ordinaria. Difficile ascoltare un operaio che si sente corresponsabile del femminicidio di Giulia, ma facilissimo leggere le riflessioni di un intellettuale, di uno studioso, di un giornalista, di un politico, che mettono in scena esercizi più o meno sofisticati di autoaccusa e rincrescimento.
Perché questa differenza?
Le ragioni, a mio parere, sono essenzialmente due, del tutto diverse l’una dall’altra. La prima è che chi occupa posizioni di prestigio nella sfera pubblica corre oggi un grandissimo rischio: quello di entrare nel mirino delle attiviste che conducono la crociata conto il maschio, il maschilismo, il cosiddetto patriarcato. Improvvisamente, ci si rende conto che, solo se ci si schiera “dalla parte giusta”, si ha qualche possibilità di salvarsi dalla valanga di accuse dell’attivismo woke, tradizionalmente debole in Italia ma improvvisamente sdoganato dal (sacrosanto) moto di indignazione per la morte di Giulia Cecchettin. Può accadere così che, nella schiera dei maschi pensosi, mi capiti di trovare Ignazio La Russa (quello certo dell’innocenza del figlio, sotto indagine per stupro) che propone una manifestazione bipartisan di soli maschi, ma anche alcuni dei miei giornalisti e intellettuali preferiti. Mattia Feltri, sulla Stampa, per far sentire “tutti noi” corresponsabili di quel che è accaduto a Giulia, scomoda nientemeno che il concetto di “responsabilità collettiva” di Hannah Arendt. Francesco Piccolo, su Repubblica, non esita a stigmatizzare – quasi fossero comportamenti orribili, propedeutici ai peggiori crimini – comunissimi comportamenti della vita quotidiana di maschi e femmine: “urlare sopra, non far parlare, pretendere di parlare per primi, spiegare come bisogna comportarsi, o come fare una cosa, o addirittura come bisogna vivere”. Una mia amica, madre di tre figli, ha commentato divertita: è esattamente quel che faccio io quando sono esasperata con mio figlio adolescente!
Ma c’è anche un’altra ragione per cui il “singhiozzo dell’uomo maschio” ha tanto spazio sui media, ma lascia indifferente la gente comune. Ed è che, nel dibattito pubblico, da tempo hanno trovato un enorme spazio le opinioni astruse, o antiscientifiche, o contrarie al senso comune. Se un’idea strampalata, o semplicemente priva di basi scientifiche, è affermata in nome di una buona causa, i media tendono a presentarla come vera. Nel mondo dell’attivismo woke, ma soprattutto in quello di una parte (solo una parte, per fortuna) dell’attivismo femminista, negli ultimi anni hanno preso piede diverse idee indimostrate. Ad esempio, che la biologia non conti nulla, e tutto dipenda dalla cultura. Che alle radici dell’aggressività maschile vi siano gli stereotipi di genere e la sopravvivenza del patriarcato. Che il linguaggio sia il medium fondamentale della violenza. Che esista una precisa catena causale che dalla battuta sessista conduce alla prevaricazione, alla violenza, allo stupro, quando non al femminicidio. Che sterilizzare il linguaggio sia la via maestra per fermare la violenza. Che l’azione preventiva più efficace sia l’introduzione precoce di corsi di educazione sessuale e sentimentale nelle scuole.
Nessuna di queste credenze è palesemente falsa, ma nessuna è sostenuta da prove scientifiche robuste. Alcune sono, almeno a prima vista, incompatibili con i dati. Quasi tutte sono in contrasto con il senso comune. Il quale senso comune, a differenza degli intellettuali e dei politici, è umile, empirista, e non pretende di imporsi agli altri in nome un’ideologia. Perché di questo si tratta, purtroppo: il modo in cui si parla del dramma di Giulia non ha nulla di scientifico, e tutto della solita pretesa di imporre il proprio punto di vista e di aver ragione dell’avversario politico.
In questo, è paradossale doverlo osservare, molte donne oggi impegnate nella giusta battaglia contro i femminicidi, mostrano un’inquietante somiglianza con i maschi che mettono sotto accusa: forse l’unico segno inequivocabile dell’ubiquità del maschio che è in tutti noi.