Il diario della talpa. Decimo episodio
Società10. TANTI SALUTI, CARE TALPE TEMPORANEE!
Ci stiamo tutti preparando a uscire.
Sarà bello, sì.
A me dispiace per le talpe temporanee. Le perderò. Se ne stanno andando tutte via. Una dopo l’altra, lasciano le loro tane precarie e transitorie come uno chalet in affitto, chiudono in fretta tana, si tirano dietro la porta, portandosi via tutto quel che in fretta e furia s’erano portate dietro per l’emergenza. Le vedo. Dal mio buco nella terra, le vedo spogliarsi una dopo l’altra, delle loro provvisorie pelliccette da talpa, e correr via trascinandosi valigie, trolley, zaini. Felici come pasque. Urlano, schiamazzano, si salutano da lontano, si sbracciano, si promettono cene, aperitivi, party, grigliate. Si ritrovano.
Contemplo tristemente tutte quelle pellicce vuote, appese all’attaccapanni. Come palloncini spompati. Che desolazione! Si son tutti rimessi giacca e cravatta, la camicia con le iniziali, i jeans Armani, il vestitino attillato, il giro di perle, i tacchi 12…
Non eravate vere talpe, si sapeva. Mi era chiaro fin dall’inizio che eravate diventate talpe, per un tempo più o meno breve. Transeunti. Effimere. Gente di passaggio. Talpe a termine.
E ce l’avevate messa tutta, per assumere la forma, lo stile di vita, quasi quasi il carattere di una talpa. Se non stavo attenta ci cascavo. Tutti così buoni e rinchiusi, silenziosi, obbedienti, e… solitari. Uh, com’eravate tutti solitari! Vi sentivamo per telefono e ci dicevate: oggi ho guardato un filmetto, oggi ho scritto una mail a mia madre, oggi ho concimato i gerani, oggi ho contemplato l’orizzonte. Non ci potevamo credere che eravate le stesse persone che un mese prima prenotavano un tour in Indonesia, affittavano una barca alle Maldive, un intero hotel per un matrimonio e un campo da calcio per il compleanno del figlioletto. Persone che nell’arco di una giornata inanellavano: il parrucchiere, otto ore di lavoro, la palestra, il sushi con i colleghi, la partita di calcio in tivù, la pizza con gli amici, e se era domenica anche la messa e la gita al mare con i figli.
Avete finto di essere talpe. O meglio, vi siete adeguate e avete accettato la mutazione a tempo. Due mesetti di vita da talpe e chiusa lì. Tanti saluti e baci.
Lo sapevo. Certo che lo sapevo.
Eppure adesso mi fa male.
Non so come spiegarmi. Mi verrebbe da dire che è stato bello essere soli insieme. Soli, e insieme. Un esperimento di solitudine collettiva meraviglioso!
Una società solitaria di massa, direbbe Pantaleo.
Invece, ora che voi talpe temporanee tornerete a essere gli animali che eravate prima, be’, mi sento molto più sola. Aver goduto della vostra presenza intorno mi aveva allargato la vita. Non vi vedevo, ma vi sentivo intorno, riuscivo a immaginarvi, ognuno di voi nella sua galleria individuale, parallela alla mia. Eravamo i binari di una stazione ferroviaria immensa, tutti belli allineati e composti, in fila uno accanto all’altro. Binario 16, 17,18, 19… Una meraviglia di ordine e molteplicità, le stazioni. Ogni binario destinato a un treno diverso, d’accordo, ma pur sempre tutti i binari uniti, insieme, solidali, direi nella stessa barca (cioè, stazione).
Ora invece torno a essere sola da sola, non so come dire. Torno alla mia solitudine solitaria. E patisco molto di più, adesso; mi sento molto più sola: perché ho provato l’ebbrezza di una condivisione, di una comunanza.
Non vorrei arrivare a quell’orrendo detto: Mal comune mezzo gaudio. Però un po’ sì. Uno sopporta meglio l’angustia della sua tana, se sa che anche gli altri vivono in tane anguste.
(Questo aprirebbe a discorsi enormi sulla società, la politica, l’ideologia. Verrebbe da auspicare una società fondata sull’uguaglianza… Verrebbe anche il seguente dubbio: e se il virus fosse venuto proprio a riproporci quella famosa utopia che a inizio Novecento s’era tentato di realizzare e poi, sul finire del secolo, almeno qui da noi in Europa, era miseramente fallita? Controdubbio molto critico: possibile che ci serva un virus per progettare una società più giusta?).
Noi talpe durature perdureremo. Continueremo a essere quel che siamo. Talpe stabili, permanenti. Stanziali. Cioè ferme, inamovibili. Non caduche e ballerine come le talpe momentanee che l’emergenza epidemia ha prodotto (in vitro?), e adesso libera, detalpizza. (Si può dire detalpizzare? Credo di sì. In questi due mesi si sono inventate infinite parole nuove…).
Oggi noi talpe permanenti mettiamo ordine: per non morire. Per non lasciarci andare alla tristezza oggi ci alziamo presto e mettiamo in ordine la tana.
Quando proprio non ce la faccio più e il magone mi attanaglia secco, telefono a Pantaleo, per trovare conforto. Sta studiando, non s’è accorto di niente. Gli dico: Ma lo sai che adesso il mondo si riapre? Risponde pacato: Ah sì, già… Mi sa che per lui è tutto uguale. È così impermeabile, Pantaleo! Le gocce del mondo gli cadono sulla pelliccia e lui mai una piega: non si bagna, nulla mai lo infradicia. Allora insisto, gli chiedo come la vede. E visto che insisto mi dice: Aspetta un attimo. Sento che scartabella tra le sue cartelline, mi dice che deve esaminare un suo diagramma, o non so che, poi finalmente si esprime:
Non ti preoccupare – mi dice, – torneranno, torneranno…!
Chi?
Le tue amiche talpe provvisorie!
E non so se rallegrarmi o meno. Non capisco mai se quel che mi rivela Pantaleo è una notizia buona o cattiva.
Va be’, torniamo ai nostri lavori. Sbattiamo fuori dal balcone i tappetini incrostati di fango, puliamo col Vetril le lampade a petrolio, diamo una spolveratina ai libri (che non abbiamo letto, è vero, ma che ci sono mancati e ora non vediamo l’ora di riprendere tra le zampe), lustriamo i ninnoli, le padelle appese, le maniglie di ottone.
Ci prepariamo anche noi, pur nella nostra chiusura di sempre, alla nuova “vita aperta” che sarà. Dicono che riaprono, quindi si tratta di apertura, quindi il mondo tornerà a essere molto aperto, no? Non tanto come prima, d’accordo, ma abbastanza. Basta locali soffocanti, zone ristrette e buie, prigioni fisiche e mentali. Andremo tutti fuori, saremo tutti aperti.
Ho già lucidato le scarpe, così sono pronte per domani. Le ho messe all’aria, sulla terra accanto alla mia galleria. Uscirò anch’io, domani.
È quasi sera. Guardo le pareti terrose e cupe, ma anche calde e protettive, della mia tana.
Andremo dove?
Riapriremo cosa?
Non lo so cosa faremo, da domani. Forse noi talpe pianteremo una bandierina fuori dalla tana, che sventoli all’aria e indichi ai passanti le nostre buche. Questo faremo, come novità. Per dire: Non dimenticatevi di noi. Ma soprattutto, non dimenticatevi di voi: di quando, anche se per poco, siete state talpe.
Copyright 2020 Paola Mastrocola
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