I conti non tornano
SocietàQuando, un paio di mesi fa, uscirono le prime stime Istat sul numero di contagiati ne rimasi molto stupito. Secondo l’indagine, condotta fra la fine di maggio e parte del mese di luglio, le persone in cui erano stati rilevati anticorpi (persone “con esito IgG positivo”) erano solo 1 milione e mezzo, pari al 2.5% della popolazione. Questi numeri sono stati quasi sempre interpretati come stime del numero di persone “venute a contatto con il virus” fino a quel momento, ovvero come valutazioni della “reale diffusione dell’infezione”.
Il mio stupore poggiava su tre elementi. Il primo è che, fin dai mesi della massima espansione dell’epidemia, autorevoli studiosi avevano congetturato cifre molto più alte, per lo più comprese fra 4 e 10 milioni di contagiati. Il secondo elemento fonte di perplessità è che, nei casi in cui erano state effettuate indagini di sieroprevalenza su popolazioni ordinarie (senza un cluster di contagi in atto), le percentuali emerse erano risultate sistematicamente più alte, talora molto più alte, del 2.5% stimato dall’indagine Istat. Ma la mia maggiore fonte di perplessità derivava da una conseguenza logica della stima Istat: poiché nel periodo dell’indagine i morti Covid ufficiali erano 35 mila, e quelli effettivi erano almeno 60 mila (come si sa molte morti per Covid sono sfuggite alle statistiche ufficiali), la stima di soli 1.5 milioni di persone entrate a contatto con il virus implicava logicamente un tasso di letalità del 4% (60000/1500000=0.04). Troppo alto rispetto a quel che si sa dalla letteratura scientifica, ormai sostanzialmente concorde sul fatto che il tasso di letalità effettivo dovrebbe essere compreso fra lo 0.5% congetturato dai più ottimisti, e l’1.5% congetturato dai più pessimisti.
I miei calcoli, basati sull’ipotesi (probabilmente ottimistica) che i morti effettivi fossero un po’ meno del doppio di quelli ufficiali, fornivano queste cifre: se il tasso di letalità effettivo fosse dell’1.5%, i contagiati totali sarebbero dovuti essere non 1.5 bensì 4 milioni, se fosse dell’1% avrebbero dovuto essere 6 milioni, se fosse dello 0.5% avrebbe dovuto essere 12 milioni, ben 8 volte la stima deducibile dall’indagine Istat.
Perché, fino ad oggi, non ho mai reso pubblici questi calcoli, peraltro del tutto elementari?
La ragione fondamentale è che non avevo una spiegazione convincente dello scostamento fra le mie congetture e i dati Istat. Ora invece, grazie a un fondamentale studio del prof. Paolo Gasparini, ordinario di Genetica dell’Università di Trieste, una spiegazione esiste. Ed è una spiegazione abbastanza inquietante. La ragione per cui l’Istat ha trovato solo 1.5 milioni di persone presumibilmente “venute a contatto con il virus” è che gli anticorpi IgG su cui l’indagine si basa durano pochissimo. E’ ancora presto per dire quanto durano, ma lo studio del gruppo del prof. Gasparini suggerisce che la sopravvivenza a 3 mesi sia inferiore al 10%, e che il tasso di decadimento possa essere dell’ordine del 20% la settimana. Il numero di contagiati che l’Istat ha stimato, in altre parole, non è nemmeno lontanamente assimilabile al totale effettivo delle persone contagiate fino al momento dell’indagine (giugno-luglio), ma è semplicemente il numero di persone i cui anticorpi non erano ancora scomparsi.
Ma c’è un altro elemento molto interessante di questa indagine, basata su due rilevazioni condotte a 3 mesi di distanza su personale dell’Ospedale materno infantile Burlo Garofalo di Trieste. Nella prima rilevazione, che risale ai primi di aprile, il numero di contagiati del sottocampione più assimilabile alla popolazione generale (gli amministrativi) era del 9.6%. Se riportiamo questa percentuale all’intera popolazione, otteniamo un numero di contagiati (ai primi di aprile) di poco inferiore a 6 milioni. Ma questo numero, ricondotto all’epoca dell’indagine Istat (che è successiva), porta a valutare il numero totale di contagiati in 8-9 milioni, che è un valore intermedio fra quello della curva alta e quello della curva media (vedi grafico).
Conclusione. E’ verosimile che, a oggi, il numero di contagiati totali dall’inizio dell’epidemia sia non lontano da 10 milioni, e che il tasso di letalità sia compreso fra lo 0.5 e l’1%.
Ma questa è, al tempo stesso, una buona e una cattiva notizia. E’ una buona notizia perché ci dice che, anche conteggiando i morti nascosti (non rilevati nelle statistiche ufficiali) il tasso di letalità è inferiore all’1%, e piuttosto lontano dai tassi (dal 2 al 4%) spesso ipotizzati nelle prime fasi dell’epidemia. E’ una cattiva notizia, perché ci dice che, nonostante un lungo e severo lockdown, e nonostante le precauzioni adottate nei mesi successivi, il numero di italiani che hanno contratto il virus è molto più alto di quanto supponessimo prima; e che il numero di italiani che hanno gli anticorpi, e quindi sono presumibilmente più protetti dal rischio di reinfezioni, è terribilmente basso, in barba alla dottrina dell’immunità di gregge.
A quanto pare, il virus è leggermente meno cattivo del previsto, ma è molto più alto di quanto si supponesse il rischio di venire a contatto con il virus. Una realtà negata da troppi, e che le drammatiche cifre diffuse ieri sera dalla Protezione civile (24 morti e oltre 2500 nuovi infetti nelle ultime 24 ore) purtroppo confermano.
Per maggiori dettagli si rimanda alla Nota tecnica.
Pubblicato su Il Messaggero del 2 ottobre 2020