COVID-19: prevenire e vigilare in famiglia
La pandemia ha mostrato che il diritto alla tutela della salute dipende dal rispetto di ciascuno per la salute di tutti e in concreto dai comportamenti individuali i cui effetti vengono amplificati dalla interazione con quelli degli altri. Forse mai come in tempi di pandemia diventa evidente che il benessere di ciascuno è al tempo stesso reso possibile e condizionato dalla cura di quello altrui.
Ci siamo così persuasi che l’obbligo della mascherina e del distanziamento fisico sono restrizioni delle libertà individuali necessarie, tanto più efficaci quando rappresentano autolimitazioni volontarie di responsabilità civile a tutela della salute di tutti.
La paura, l’angoscia ed il sospetto, d’altro canto, hanno mostrato quanto possa essere messa a dura prova la solidarietà familiare e intergenerazionale nel momento in cui la famiglia è indicata come il luogo a più alta densità di relazioni e dove maggiori sono i rischi di trasmissione del contagio.
Di fatto ciascun membro porta in famiglia tutti i rischi delle sue relazioni ed è inevitabile che questi vengano amplificati dalle maggiori vicinanza e condivisione della vita familiare. Si sta insieme, si usano le stesse stoviglie e gli stessi sanitari, si respira la stessa aria.
Soprattutto nella famiglia, mentre ciascun membro è un potenziale portatore e diffusore, interdipendenza e reciprocità possono divenire moltiplicatori e detonatori imprevedibili dei rischi e della malattia. Soprattutto nella famiglia, d’altro canto, è difficile osservare le precauzioni che si possono applicare all’esterno, come la mascherina, il distanziamento (come rispettarlo se si è in più di tre in una casa di 60 mq?) o lavarsi le mani (quante volte?).
Ma è proprio ineluttabile guardare alla famiglia come ad un potenziale focolaio, piuttosto che ritrovare in essa il focolare di accoglienza, attenzione e cura reciproca che si è sempre desiderato?
In realtà credo che la famiglia potrebbe e dovrebbe svolgere un ruolo centrale in qualsiasi strategia di prevenzione e controllo dei disagi da COVID-19.
La famiglia (quella ristretta), infatti, potrebbe rappresentare un presidio di protezione e di vigilanza se i suoi membri venissero aiutati ad avere una percezione corretta del rischio e a contrastare con maggiore efficacia il contagio.
Per questo mi parrebbe opportuno che ciascun membro, periodicamente e in alternanza con gli altri membri del suo stesso nucleo famigliare, si sottoponesse ad un test/tampone in grado di escluderne la positività. Se ne ho capito le proprietà credo che sarebbe sufficiente un test antigenico. Se in una famiglia di quattro membri ciascun membro si sottoponesse al test una volta al mese, cosi che venisse fatto un tampone a settimana per nucleo famigliare, la famiglia potrebbe disporre di un sistema-sentinella di vigilanza non del tutto sicuro, ma comunque tale da assicurare un tempestivo intervento nel caso di esito al test positivo. Non disporremmo di una diagnosi ottimale, ma moltiplicata per il numero dei membri della famiglia, sufficientemente buona per estendere il test e alzare la guardia.
Il quadro che prospetto, evidentemente, è del tutto ipotetico e sarebbe raccomandabile se fossimo in grado di stimare:
a) in quale grado la diagnosi di positività a livello individuale è un indicatore della vulnerabilità del nucleo familiare e quindi della probabilità di estensione del contagio agli altri membri;
b) i tempi e la rapidità della trasmissione familiare e quindi i periodi di maggior rischio di contagio e gli intervalli ottimali per l’esecuzione dei test.
Il costo del test “rapido” in laboratori privati sarebbe oggi di 88 euro (22 x 4). Non poco per tutti e inaccessibile per molti. Se si impegnasse un maggior numero di laboratori di analisi privati i costi potrebbero essere molto più economici e la platea di fruitori molto più ampia.
I vantaggi potrebbero essere notevoli in termini di: prevenzione, educazione della cittadinanza alla tutela della salute, tempestività della diagnosi, alleggerimento della pressione diagnostica sulle strutture ospedaliere.
L’efficacia della diagnostica familiare potrebbe avere un valore aggiunto sul piano preventivo ed epidemiologico se i casi accertati di positività col test antigenico venissero tempestivamente sottoposti a convalida con tampone molecolare. Permetterebbe inoltre di approfondire le nostre conoscenze sulla trasmissione del virus a livello familiare da e tra soggetti sintomatici e asintomatici, più o meno vulnerabili e tra generazioni.
Non si dovrebbero tuttavia sottovalutare i rischi di esiti imprevisti ed indesiderabili.
È verosimile che la diagnostica familiare porterebbe alla luce prima e in misura maggiore casi (asintomatici) che resterebbero altrimenti sconosciuti. Sarebbe perciò necessario assicurare che, dove venisse diagnosticato un caso positivo, anche tutti gli altri membri dello stesso nucleo familiare venissero tempestivamente sottoposti a tampone e quindi messi nella condizione di evitare di contagiare altri senza saperlo.
Verosimilmente ne risulterebbe un sostanziale incremento della richiesta di tamponi molecolari che potrebbe rappresentare un ulteriore stress per sistemi sanitari non preparati e già gravemente provati.
Poiché sarebbe disastroso se le attese delle famiglie non venissero prontamente corrisposte, nuovamente si riproporrebbe il dilemma se dire e fare o piuttosto non dire e non fare sperando in bene.
Fatti i debiti calcoli (vedi sopra a, b) ritengo che sia sempre meglio affrontare i rischi che la conoscenza dei fatti comporta.
Sono infine convinto che un cambiamento di prospettiva sia necessario per quanto concerne i destinatari della comunicazione e gli attori delle strategie di prevenzione e intervento. La famiglia, come e al di là dei singoli individui, potrebbe e dovrebbe assumere un ruolo centrale.