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Sul populismo penale

11 Maggio 2018 - di Nicola Galati

DirittoIn primo pianoPolitica

Vi è un tema che ha perso la centralità degli anni scorsi nel dibattitto pubblico, tanto da non essere strumentalizzato nella recente campagna elettorale: la riforma della giustizia.

La scorsa legislatura si è conclusa con un bilancio negativo in materia: poche riforme, non certo ispirate da principi garantisti e liberali.

L’eccezione sembra essere la riforma dell’ordinamento penitenziario che, dopo un lungo e travagliato iter, rischia di non entrare in vigore.

La prima tappa dell’iter della riforma è stata l’istituzione, da parte del Ministro della Giustizia Orlando, degli Stati generali dell’esecuzione penale (D.M. 8 maggio 2015).

I lavori degli Stati generali sono stati, in parte, alla base dell’approvazione della legge delega al Governo (legge n. 103 del 23 giugno 2017) per riformare l’ordinamento penitenziario secondo alcuni criteri direttivi.

Il Ministro (D.M. 19 luglio 2017) ha poi istituito tre commissioni per l’elaborazione degli schemi di decreto legislativo della riforma: una competente circa le modifiche alla disciplina delle misure di sicurezza e di assistenza sanitaria; un’altra per la riforma dell’ordinamento penitenziario minorile; la terza per la riforma dell’ordinamento penitenziario nel suo complesso.

Precedenza è stata accordata allo schema di decreto legislativo riguardante la riforma dell’ordinamento penitenziario, privato però delle parti riguardanti l’affettività ed il lavoro (quest’ultima per mancanza di copertura finanziaria), approvato da parte del Consiglio dei ministri e trasmesso per il parere alle Commissioni Giustizia di Camera e Senato in febbraio.

Le Commissioni, pur approvando il decreto, hanno inviato dei pareri critici su alcuni punti della riforma, in particolare la Commissione del Senato ha sollevato dei dubbi circa un punto fondamentale della riforma (il superamento degli automatismi che impediscono l’individualizzazione del trattamento penitenziario).

Questo passaggio ha fortemente rallentato, e forse compromesso, l’iter approvativo della riforma. Il Governo, infatti, non potendo recepire le indicazioni provenienti dalla Commissione Giustizia del Senato, che avrebbero snaturato la riforma, ha approvato il decreto di riforma discostandosi da esse ma per questo motivo ha dovuto trasmetterlo alle Commissioni per un nuovo parere.

La grave colpa del Governo è stata quella di aver temporeggiato eccessivamente, approvando il decreto di riforma soltanto il 16 marzo, dopo le elezioni politiche, per paura che un’approvazione in piena campagna elettorale fosse strumentalizzata dalle forze politiche ostili alla riforma. Ciò nonostante le forti sollecitazioni ad accelerare i tempi ricevute da parte dell’Avvocatura, della Magistratura, della Dottrina, degli operatori del pianeta carcere e nonostante il Satyagraha indetto da Rita Bernardini del Partito Radicale e da oltre dieci mila detenuti.

Il risultato paradossale è stato che proprio quelle forze politiche (Lega e Movimento 5 stelle) hanno vinto le elezioni con conseguenze prevedibili sul futuro della riforma.

Il decreto di riforma, infatti, è stato trasmesso al nuovo Parlamento ma non è stato inserito nell’ordine del giorno della Commissione speciale, per decisione di centrodestra e Movimento 5 Stelle, in quanto ritenuta materia non urgente. Atteggiamento ostruzionistico che rischia di vedere sospesa la riforma fintanto che non si formeranno le Commissioni Giustizia di Camera e Senato.

Per scongiurare questa impasse sono due le strade percorribili: o la Commissione speciale esprime un parere sulla riforma o il Governo procede ugualmente all’approvazione della stessa.

La prima via è stata sollecitata dal Presidente della Camera Roberto Fico, che ha chiesto ai gruppi parlamentari una “riflessione” circa il parere della Commissione speciale di Montecitorio sul decreto di riforma, senza finora ottenere alcun risultato.

In quest’ottica si inserisce anche l’iniziativa dell’Unione delle Camere Penali Italiane che, per i giorni 2 e 3 maggio, ha indetto l’astensione dalle udienze ed una manifestazione nazionale, proprio per sollecitare l’inserimento dei Decreti Legislativi approvati dal Consiglio dei Ministri nell’ordine del giorno delle Commissioni speciali.

La seconda ipotesi è stata caldeggiata dal Guardasigilli Orlando, secondo il quale il Governo, in caso di prolungato ostruzionismo del Parlamento, sarebbe legittimato ad approvare definitivamente il decreto. Ciò in forza dell’art. 1, comma 83, della legge 103 secondo cui “i pareri definitivi delle Commissioni competenti per materia (…) sono espressi entro il termine di dieci giorni dalla data della nuova trasmissione” e “decorso tale termine, i decreti possono essere comunque emanati”. Poiché il decreto è stato trasmesso lo scorso 20 marzo e sono trascorsi anche i dieci giorni dall’insediamento delle Commissioni speciali, il Governo può procedere all’approvazione definitiva del decreto.

Al momento la situazione resta però sospesa, bloccata da polemiche politiche.

La riforma è fortemente contestata da Lega e Movimento 5 Stelle che la definiscono “svuota-carceri” e “salva ladri”. Ma è davvero tale? No, basta esaminarne il contenuto.

La finalità della riforma è quella di dare compiuta attuazione all’art. 27 della Costituzione, in base al quale “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Per questo si incentivano le misure alternative alla detenzione, superando alcuni automatismi e presunzioni che limitano l’accesso ad esse.

Ad esempio, la misura dell’affidamento in prova al servizio sociale viene estesa a coloro che devono scontare fino a quattro anni di pena, rispetto ai tre previsti precedentemente (misura già anticipata da una decisione della Corte Costituzionale).

Inoltre, viene modificato l’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario (che esclude dalla possibilità di accesso ai benefici di legge alcune categorie di detenuti individuate sulla base del reato commesso), superando gli automatismi esclusivi previsti per alcuni reati (con esclusione dei reati di mafia e terrorismo ed altri gravi reati associativi).

Non vi sarà, quindi, alcuna estensione automatica dei benefici bensì sarà la magistratura a valutare, caso per caso, la meritevolezza della concessione del beneficio.

Gli allarmi lanciati dai critici della riforma sono, pertanto, infondati ed immotivati, rispondenti a scarsa conoscenza del testo o a finalità politiche propagandistiche.

Nonostante il numero di reati sia in costante calo, infatti, molti politici e media fomentano un presunto allarme sociale, un’insicurezza diffusa, così da indurre una richiesta di misure securitarie e carcerocentriche. L’effetto di questo populismo penale, branca del populismo politico, che strumentalizza le paure legittime dei cittadini ed il dolore delle vittime dei reati, è la diffusione di istanze giustizialiste e forcaiole per cui il carcere è l’unico rimedio. Pertanto risultano mal digesti provvedimenti atti ad incentivare le misure alternative al carcere, in quanto considerate un vulnus al principio della certezza della pena.

In realtà, quello della certezza della pena è principio strumentalizzato: secondo la nostra Costituzione la pena deve tendere al reinserimento sociale del detenuto e per far ciò deve essere individualizzata.

A meno che per pena certa si intenda soltanto quella scontata in carcere.

Proprio questo sembra essere il sentimento comune diffuso in larga parte dell’opinione pubblica, motivo per cui il Governo ha temporeggiato e tergiversato nell’approvazione della riforma e per cui la discussione sulla riforma è stata quasi assente dal dibattito pubblico.

La riforma, inoltre, è nata come risposta al più vasto problema della condizione delle carceri. Il nostro sistema penitenziario continua ad essere afflitto dal sovraffollamento e da condizioni detentive che minano la dignità dei detenuti. Nel 2013 l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza Torreggiani) per i trattamenti inumani e degradanti subiti dai detenuti. Il fallimento della riforma non farà che acuire tali problematiche.

Ma di questa riforma bisogna apprezzare soprattutto il metodo che si spera sia seguito in futuro. La stesura del testo ha visto il coinvolgimento di personalità dalla indiscussa competenza in materia, provenienti dall’Accademia, dall’Avvocatura e dalla Magistratura, tanto da essere sostenuta da CSM, ANM, UCPI, CNF, Magistratura di Sorveglianza.

Un rimprovero da muovere è quello di non aver osato di più, procedendo ad una riforma organica ed incisiva dell’ordinamento penitenziario, sempre più urgente e necessaria, nonostante le urla dei forcaioli di turno.

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Nicola Galati
Nicola Galati
Gioia Tauro (RC), 6 ottobre 1986 Laureato in Giurisprudenza presso la Sapienza di Roma, Avvocato
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