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RUBRICA A4 – Veri e falsi ‘patrioti’

5 Novembre 2024 - di Dino Cofrancesco

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In un memorabile articolo Meditations  sur la defaite (‘Critique’n.12,1947)—riportato nel volume Marc Bloch, L’Histoire,, la Guerre, la Résistence a cura di Annette Becker e  Etienne Bloch (Quarto Gallimard 2006)–Raymond Aron  ricorda che, non meno generoso di un Ernest Renan, che esaltava sia la monarchia capetingia sia la Rivoluzione francese,  Marc Bloch ammoniva: «Il est deux catégories de Français qui ne comprendront jamais l’histoire de France :ceux qui refusent de vibrer au souvenir du sacre de Reims ; ceux qui lisent sans émotion le récit de la fête de Fédération ».(« Ci sono due categorie di francesi che non capiranno mai la storia della Francia: quelli che rifiutano di emozionarsi al ricordo dell’incoronazione di Reims; coloro che leggono senza emozione il racconto della celebrazione della Federazione»). Bloch era un autentico patriota, un‘nazionalista’, si potrebbe dire, se fosse in uso un’accezione neutrale del termine, che  escluda ogni idea di una sopraffazione di una nazione sulle altre ma veda nello stato nazionale–con le sue tradizioni storiche, con la sua cultura, con i suoi stili di vita– la base materiale su cui costruire durevoli ’forme di governo’ e, soprattutto, la democrazia liberale.

Autentico patriota, poteva dirsi, soprattutto, Charles de Gaulle che alla domanda cosa pensasse dei comunisti, rispondeva «ils sont français aussi!». Chi ama la ‘famiglia—nazione’, l’ama in tutte le sue componenti— e Dante non ricordava, forse, «quell’umile Italia.. per cui morì la vergine Camilla, Eurialo e Turno e Niso di ferute»?; sa che le guerre civili, le tragedie, le ‘malattie morali’ che l’hanno segnata storicamente hanno contribuito tutte a farla ciò che è; sa che anche quanti hanno dato la vita per una causa sbagliata si ispiravano a valori di cui una comunità politica non può tener conto.

 Tutto ciò è stato cancellato, e da tempo, dall’ebetismo antifascista e dall’ebetismo anticomunista—che possono dirsi le malattie mortali di quelle ‘cose buone’, e irrinunciabili per un liberale, che sono l’anticomunismo e l’antifascismo. Un esempio di ebetismoanticomunista è dato da Victor Orban che ha fatto rimuovere le statue di due ’comunisti’ György Lukacs e Imre Nagy rispettivamente dal Parco Szent István  e dalla Piazza del Parlamento. Lukacs è stato uno dei filosofi più importanti del Novecento europeo: si   professava comunista, pur se fortemente sospetto alle gerarchie del partito, ma le sue opere hanno segnato un’epoca e arricchito la cultura e l’intelligenza di amici e avversari; Nagy, sarà stato pure stalinista nell’immediato secondo dopo guerra, ma è morto perché voleva, come poi il ceco Dubcek, un comunismo dal volto umano. Se in Italia quasi nessuno dei tanti antisovranisti, che detestano il premier ungherese ha mostrato di scandalizzarsi per la sua cancel culture, è perché, inconsciamente, ogni ebetismo comprende l’altro. Noi abbiamo quello antifascista che impedì all’Università di Pisa di commemorare in una targa Giovanni Gentile che aderì al fascismo con spirito nazionalista ma condivise così poco infamie come le leggi razziali da farsi protettore di non pochi esuli ebrei tedeschi, a cominciare da Oskar Kristeller, che lo avrebbe ricordato con profonda gratitudine in un’intervista rilasciata pochi anni prima di morire. Giovanni Gentile non fu solo un grande filosofo—maestro, tra l’altro, di antifascisti doc come Guido Calogero e Adolfo Omodeo—ma anche un grande organizzatore di cultura. La Scuola Normale di Pisa e l’Enciclopedia Italiana sono monumenti che sopravvivono al fascismo, come altre istituzioni volute da lui e che oggi, a esaltarle, si incorre nell’accusa di apologia di reato.

 In questo clima, chi potrebbe pensare a una via, a una piazza, a una scuola dedicate al più grande storico italiano del Novecento Gioacchino Volpe, maestro anche lui di antifascisti, da Nello Rosselli a Rosario Romeo? A differenza di Gentile, Volpe, monarchico e nazionalista, non aderì alla RSI e non rinnegò, dopo la guerra, gli ideali che lo avevano indotto a prendere la tessera del fascio ma lasciò opere insigni, sul Medio Evo ma anche sull’Italia moderna, che hanno arricchito come poche altre la storiografia italiana e formato intere generazioni di studiosi

 In un brano esemplare, dove si rivela un’ispirazione liberale  del tutto assente in altri pensatori italiani, che pure si richiamavano al liberalismo (ivi compreso Luigi Einaudi) , Benedetto Croce, parlando agli studenti del suo Istituto per gli Studi Storici, sul delicato  tema L’obiezione contro le storie dei propri tempi, dopo aver spiegato le ragioni che non gli consentivano di scrivere una storia dell’”aborrito” regime fascista, avvertiva, a scanso di equivoci, «Pure, se a un simile lavoro mi fossi risoluto o se potessi mai risolvermi, si stia tranquilli che non dipingerei mai un quadro tutto in nero, tutto vergogne ed orrori, e poiché la storia è storia di quel che l’uomo ha prodotto di positivo, e non un catalogo di negatività e d’inconcludente pessimismo, toccherei del male solo per accenni necessari al nesso del racconto, e darei risalto al bene che, molto o poco, allora venne al mondo, o alle buone intenzioni e ai tentativi, e altresì renderei aperta giustizia a coloro che si dettero al nuovo regime, mossi non da bassi affetti, ma da sentimenti nobili e generosi, sebbene non sorretti dalla necessaria critica, come accade negli spiriti immaturi e giovanili». Un liberale non avrà alcun dubbio nel definirsi anticomunista o antifascista ma, se tale è davvero, non ne avrà neppure nel rendere giustizia al «al bene che, molto o poco, allora venne al mondo». Non rimuoverà a Latina dal parco pubblico il nome di Arnaldo Mussolini—che tanto si adoperò per la realizzazione di una delle opere più meritorie del regime, la bonifica dell’agro pontino—né proporrà di cancellare da viali e da stazioni il nome di Palmiro Togliatti, uno stalinista doc che contribuì alla Costituzione italiana e, col suo realistico buon senso, disarmò, nel secondo dopoguerra, i bollenti spiriti di quanti non si rassegnavano al ‘tradimento della Resistenza’ e al dominio clericale. Nelle società civili la toponomastica non è sempre qualcosa di provvisorio come nel regime totalitario ricordato dall’immortale Milan Kundera.

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Dino Cofrancesco
Dino Cofrancesco
Arce (FR), 15 novembre 1942 Laurea in Filosofia Professore Emerito di Storia delle dottrine politiche, Università degli Studi di Genova.
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