Rubrica A4 – Presidenzialismo e premierato
In primo pianoPoliticaSocietàSul premierato sono stati scritti migliaia di articoli, alcuni pro, altri contro, altri ancora critici ma possibilisti. Condivido sul tema le perplessità di Marcello Pera, inascoltato consigliere di Giorgia Meloni, che ha spiegato assai bene le contraddizioni del progetto di legge del centro-destra. E tuttavia, nel dibattito ancora in corso, c’è qualcosa che non ho compreso: perché dal
presidenzialismo si sia passati al premierato. In passato politici e studiosi di grande levatura morale e intellettuale, come Randolfo Pacciardi e Giuseppe Maranini, si erano espressi a favore dell’elezione diretta del Capo dello Stato e con argomenti non poco convincenti. Oggi, chissà perché, non se ne è parlato più e ci si è infognati nel pozzo senza fondo della discussione sui poteri
nuovi attribuiti al premier e sull’eventuale ridimensionamento di quelli assegnati dalla Costituzione italiana all’inquilino del Quirinale. Il confronto tra presidenzialismo e premierato è stato, così, ben presto liquidato e portato su un piano tecnico, di convenienza, riguardandolo, cioè, come qualcosa che avesse a che fare col solo diritto costituzionale e su cui gli esperti (accademici e magistrati) e i professionisti della politica sarebbero stati tenuti a confrontarsi.—come è avvenuto con montagne
di pronunciamenti e di pareri.
A mio parere, invece, non è in gioco solo una questione di diritto pubblico ma una visione della democrazia, una filosofia etico-politica, che ai due presidenti–del Consiglio e della Repubblica– assegna compiti istituzionali ben distinti. In una democrazia liberale—che non voglia scimmiottare i regimi presidenzialisti nordamericano o francese– far votare i cittadini per il capo del governo significa farli votare per il capitano di una squadra; farli votare per il capo dello Stato significa farli votare per l’arbitro: si tratta di funzioni del tutto diverse. Il Presidente della Repubblica è un monarca costituzionale elettivo a tempo: deve vegliare sulla correttezza del gioco delle squadre in campo e sul rispetto della Costituzione; il premier deve realizzare il programma presentato agli elettori, un programma alternativo a quello del concorrente da lui sconfitto.
Per il Quirinale, la scelta dovrebbe avvenire tra candidati di grande prestigio ritenuti super partes– sicché potrebbe capitare a un socialista di votare per un redivivo Luigi Einaudi, pur non condividendone le idee politiche. Per Palazzo Chigi, invece, “si vota per i nostri” ovvero per una destra o per una sinistra, in un’arena che resta divisa tra vinti e vincitori. Nel primo caso, si sceglie,
almeno in teoria, una figura imparziale che, nel rispetto delle sue attribuzioni, potrebbe anche darci qualche dispiacere,–nel caso, ad es., che non firmi, legittimamente, una legge alla quale tenevamo molto. Nel secondo caso, si sceglie un politico di professione da cui si esige una ferma determinazione nel mantenere le promesse elettorali e nel contenere drasticamente i tentativi dell’opposizione di boicottare il programma governativo. Si capisce come in un paese come il nostro, in cui l’elezione del Presidente della Repubblica obbedisce a una (tristissima) logica di schieramenti politici, presidenzialismo e premierato ‘per me pari sono’. Rimettendo al popolo la scelta del primo, si conferisce ad esso un prestigio e una forza indipendente dai partiti e si istituisce quel ‘potere neutro’ che, per il liberale Benjamin Constant, come per il nostro Benedetto Croce, giustificava la conservazione della monarchia. Ma forse è proprio questo che i padroni dello sconquassato vapore politico vogliono evitare. Abbiamo avuto presidenti che hanno lavorato dietro le quinte per liquidare, con i ribaltoni, leader votati dal popolo; altri che, per favorire il partito cui dovevano l’elezione, hanno nominato senatori a vita, allo scopo di rimpinguare esilissime maggioranza governative. E’ questo l’andazzo al quale siamo abituati e al quale non si intende rinunciare.