Prigionieri del presente
Confesso che non li ho ascoltati tutti e per intero, i messaggi dei presidenti della Repubblica degli ultimi 50 anni. Però almeno la metà sì, e spesso dall’inizio alla fine, quasi sempre combattendo un’aspra battaglia contro la noia.
Questa volta no, non mi sono annoiato. Mattarella ha fatto un mezzo miracolo: è riuscito a parlare poco, senza frasi in codice, dicendo cose non scontate. Soprattutto, ha evitato i moniti e le liste della spesa, quei lunghi elenchi di cose non fatte che tanti suoi predecessori non erano stati capaci di risparmiarci.
L’invito alla concretezza, e ad evitare promesse che non si possono mantenere, è stato colto da tutti, cittadini e mass media. Gli unici che paiono non averlo inteso sono i suoi veri destinatari, ossia i politici, dei quali colpisce la vocazione schizofrenica: continuano a lodare e omaggiare il Capo dello Stato, e al tempo stesso a fare promesse che non possono mantenere. Come se Mattarella non si fosse espresso, o se loro vivessero su un altro pianeta.
Ma c’è un aspetto, in particolare, del discorso di fine anno su cui forse varrebbe la pena di meditare. È quello in cui il Presidente ha invitato a “non vivere nella trappola di un eterno presente, quasi in una sospensione del tempo, che ignora il passato e oscura l’avvenire”.
È vero, le analisi e le promesse dei politici, ma talora anche i vissuti dei comuni cittadini, sono spesso proprio questo, un ignorare il passato e oscurare l’avvenire. Ignoriamo il passato allorché, prigionieri del nostro vittimismo, sembriamo non renderci conto degli enormi progressi che sono stati compiuti in questi 70 anni in termini di “pace, libertà, democrazia, diritti” e, aggiungo io, di benessere materiale e sociale. Ha fatto benissimo Mattarella, nell’esortare i giovani del 1999 ad esercitare per la prima volta il diritto di voto, a ricordare la sorte di quelli di un secolo prima, i giovani del 1899, “mandati in guerra, nelle trincee”.
Ma la schiavitù del presente ha anche un’altra faccia, l’incapacità di fare le scelte da cui dipende il nostro futuro. Non è solo un difetto della classe politica, è anche una debolezza, per non dire una viltà, di una parte della società civile. Rimproveriamo spesso i politici perché agiscono in un orizzonte ristretto, ossessivamente preoccupati del consenso immediato, e del tutto dimentichi del destino delle generazioni future; se davvero se ne preoccupassero, non farebbero le promesse che ripetono ogni giorno, e soprattutto avrebbero già da un pezzo smesso di far lievitare il debito pubblico, un macigno che peserà sulle vite dei giovani attuali, non certo su quelle degli anziani e dei pensionati.
Ma dare tutta la colpa ai politici e alla loro (interessata) cecità è troppo facile. La “trappola dell’eterno presente” evocata nel discorso di fine anno riguarda anche il modo di consumare, di vivere, di pensare dei cittadini. Siamo noi stessi che, da troppo tempo, abbiamo disimparato a pensarci nel futuro, a immaginarci nel domani, a differire le gratificazioni, a investire in progetti che richiedono tempo, impegno, talora rinunce. Un’incapacità che inizia molto presto, fin dai banchi di scuola, quando troppo sovente veniamo diseducati a ciò che le generazioni precedenti consideravano normale: la fatica dello studio, la durezza delle sconfitte, la necessità di affrontare sacrifici, la lunghezza dei percorsi che conducono ai traguardi più alti.
Forse è anche per questo che, dopo tutto, la vanità delle promesse dei politici non ci sorprende più di tanto, né ci scandalizza. In quelle promesse, immediate e poco credibili, vediamo rispecchiato il nostro medesimo essere e sentirci intrappolati nel presente.
Ne usciremo?
Non lo so. Ma tendo a pensare che qualcosa cambierà solo quando la smetteremo di autoassolverci, e scaricare tutte le responsabilità sulla mala politica. L’incapacità di uscire dalla prigione del presente è ciò che accomuna i cittadini e i loro rappresentanti. E, proprio perché li accomuna, è un incantesimo che non si lascia spezzare facilmente. Del resto, se fossimo davvero diversi, se noi cittadini fossimo capaci di memoria e di prospettiva, e solo i politici fossero prigionieri del presente, le loro false promesse, le loro fake promises, non avrebbero corso elettorale. E non ci sarebbe bisogno che, a fine anno, il presidente della Repubblica ci ricordi quello che una politica sana e matura dovrebbe sapere da sé.
Pubblicato da Il Messaggero il 6 gennaio 2018