Perché Meloni batte Schlein – Intervista a Luca Ricolfi
Il voto amministrativo ha di solito dinamiche molto locali. Perché queste comunali sono diverse?
Non è che le dinamiche locali e le personalità dei candidati sindaco non abbiano avuto il loro peso, quel che ha fatto la differenza è che una delle due parti in campo – la destra – sia prevalsa nettissimamente sull’altra, per di più in un tipo di consultazioni (le amministrative con ballottaggi) che storicamente non sono congeniali alla destra stessa. Poi c’è un’altra particolarità.
Quale?
Le consultazioni delle scorse settimane, essendosi svolte 9 mesi dopo il voto, sono fuori del raggio della “luna di miele”, che di solito dura pochi mesi. Ciò conferisce al successo della destra un significano politico per così dire “doppio”, o rafforzato, perché il consenso a Giorgia Meloni si manifesta a dispetto dell’esaurimento della fase a lei più favorevole.
L’analisi del risultato di Elly Schlein è stata che soffia il vento della destra e che il nuovo Pd ha avuto poco tempo per attrezzarsi. Che ne pensa di questa chiave di lettura?
In termini scientifici, invocare il “vento della destra” è ridicolo, è come postulare l’azione del demonio per spiegare le cattive azioni degli uomini. Quanto al “poco tempo per attrezzarsi” farei due osservazioni. Primo, se il valore aggiunto di Schlein è stato quello di rincuorare la sinistra, e se davvero il problema era riportare al voto gli elettori di sinistra-sinistra delusi, non si vede perché l’effetto del segnale-Schlein non si sarebbe dovuto avvertire già adesso, ossia a ridosso del suo insediamento al vertice del Pd. In un certo senso, era la neo-eletta Schlein ad essere in luna di miele, quindi non aver saputo cogliere il momento favorevole è particolarmente inquietante per le prospettive del Pd.
E la seconda osservazione?
Di questa sono meno sicuro, ma la butto lì sotto forma di domanda: e se il tempo giocasse contro Schlein piuttosto che a favore? Per confidare nel tempo a disposizione da qui alle Europee bisognerebbe avere una ragionevole chance di risolvere i due problemi fondamentali del Pd, ossia avere una linea politica chiara ed essere riconosciuto come il dominus di un’alleanza più vasta. Le sembra che ve ne siano le condizioni?
Eppure è vero, il voto in Europa, dalla Finlandia alla Spagna passando per l’Italia, dice che la stagione europea dei governi di centrosinistra sta finendo. O no?
È molto difficile dire se sia in atto una tendenza generale, però il fatto che in molti paesi si stiano rafforzando i partiti anti-immigrati o scettici con l’Europa suggerisce che qualcosa stia succedendo. La mia sensazione è che, negli ultimi anni, si stia consolidando un giudizio di inadeguatezza nei confronti dei vertici dell’Europa (Ue ma anche Bce), percepiti come incapaci di tutelare gli interessi primari dei cittadini: contrasto all’inflazione, fine della guerra in Ucraina, difesa delle frontiere esterne. Questo giudizio di inadeguatezza sembra toccare più la sinistra che la destra perché i progressisti hanno un’agenda astratta, etico-moralistica (ambiente, digitalizzazione, diritti, accoglienza eccetera), che va benissimo in tempi di crescita e prosperità, ma diventa inattuale in tempi bui come quelli che stiamo vivendo. Con Ronald Inglehart e la sua teoria della “rivoluzione silenziosa” (1977), si potrebbe dire che un po’ ovunque in occidente la destra è ancora attenta ai cosiddetti valori materialisti (a partire dalla sicurezza fisica ed economica), mentre la sinistra si attarda sui cosiddetti valori post-materialisti o post-borghesi: autorealizzazione, ecologia, diritti, minoranze, apertura.
C’è chi, come Dario Franceschini, ha appoggiato la Schlein sperando di dare la svolta per costruire qualcosa di nuovo a sinistra.
Mah, ho qualche dubbio. Se questo fosse il motivo, oggi vedremmo Francheschini impegnatissimo a elaborare idee, aprire tavoli di confronto, elaborare proposte. Io penso, più prosaicamente, che Franceschini abbia intuito che Bonaccini poteva perdere la sfida.
Ma la destra che si sta affermando in Italia che destra è?
Distinzione essenziale: un conto è la destra, un conto è Giorgia Meloni. La destra è un amalgama di culture politiche diversissime, al limite dell’incompatibilità. Quel che le tiene insieme è il pragmatismo, e la comune priorità di tenere la sinistra lontana dal potere. Giorgia Meloni, da quando è al governo, è espressione di un mix inedito: prudenza e moderazione nei consessi internazionali, esplicito conservatorismo sul piano culturale, cauta difesa degli interessi materiali dei cittadini (contro il fondamentalismo green dell’Europa), keynesismo in campo economico (è più importante aumentare l’occupazione che ridurre le tasse). La cosa interessante è che la sinistra pare non aver ancora capito chi è Giorgia Meloni. E quando dico la sinistra, non intendo tanto i partiti di sinistra, quanto i media che li sostengono. Anzi, direi di più: secondo me gli storici del futuro racconteranno questo periodo come quello in cui buona parte della grande stampa, delle grandi reti tv, degli intellettuali impegnati, riuscirono a far credere al Pd e agli altri partiti progressisti che in Italia fosse in arrivo una nuova forma di fascismo. Un formidabile assist a Giorgia Meloni, perché più il fascismo non arriva, più la sinistra anti-fascista perde credibilità.
Le alleanze finora non fatte nel centrosinistra potrebbero rendere di nuovo competitiva l’area?
Temo di no, anche se sarebbe auspicabile: una destra divenuta onnipotente per implosione dell’opposizione renderebbe zoppa la nostra democrazia.
Ma che cosa ostacola le alleanze a sinistra?
È molto semplice: in Italia ogni leader di sinistra si sente paladino di valori assoluti e irrinunciabili, anziché come rappresentante di interessi e obiettivi parziali, quindi negoziabili. Per questo, nel campo progressista, le alleanze o sono instabili (vi ricordate Bertinotti?), o sono impossibili. Emblematico, in questo senso, è stato il caso di Enrico Letta e del fallito “campo largo” alle ultime elezioni. I media lo hanno messo in croce come incapace e irresoluto, ma secondo me nessun leader progressista, anche infinitamente più carismatico e preparato di Enrico Letta, sarebbe mai stato in grado di mettere d’accordo Conte-Bonelli-Fratoianni-Bonino-Di Maio-Renzi-Calenda. Il problema cruciale della sinistra non è la linea politica, ma sono i suoi cacicchi, i signori della guerra che capeggiano i 7-8 partiti della galassia progressista.
Prossima conta, le Europee del 2024. Prima c’è una legge di bilancio da fare.
E sarà dura, senza ricorrere a scostamenti di bilancio. Proprio perché promette di lenire le ferite delle famiglie – dal caro-bollette all’alluvione, dall’inflazione al cuneo fiscale troppo alto – non sarà facile, per Giorgia Meloni, confezionare una legge di bilancio solida e attenta alle istanze dei ceti popolari. Tanto più che gli alleati cercheranno ognuno di far valere i propri provvedimenti bandiera. Il rischio, per il centro-destra, è di andare alla conta europea ancora più diviso del centro-sinistra. Con la differenza che un cattivo risultato alle Europee sarà molto più pericoloso per Giorgia Meloni che per Elly Schlein (sempre che nel frattempo le correnti del Pd non l’abbiano defenestrata, come fecero con il salvatore della patria Walter Veltroni).
[intervista a “Italia Oggi”, uscita il 1° giugno 2023]