Le tre sinistre
Nei giorni scorsi, quando sembrava che il matrimonio fra Letta e Calenda fosse cosa fatta, in molti ci siamo chiesti se fosse la volta buona per la nascita di una sinistra finalmente e risolutamente riformista. Per sottolineare la profondità della svolta, lo stesso Calenda ebbe a parlare di una Bad Godesberg italiana.
In realtà, mai paragone fu più fuorviante. La svolta di Bad Godesberg, avvenuta nel 1959, sancì il distacco dei socialisti tedeschi (SPD) dal marxismo e dal progetto di abolizione della proprietà privata. Il che significava: piena accettazione dell’economia di mercato, sia pure corretta dall’intervento statale, e conseguente rinuncia a guardare all’Unione Sovietica, e all’economia pianificata, come modello di socialismo.
La sinistra italiana di oggi non ha alcun bisogno di una Bad Godesberg, perché quel tipo di svolta, sia pure con trent’anni di ritardo rispetto ai cugini tedeschi, la aveva già fatta Achille Occhetto, quando – dopo la caduta del Muro di Berlino, con la svolta della Bolognina – archiviò il Partito Comunista Italiano per farne un normalissimo partito socialdemocratico: il Pds, poi divenuto Ds, e infine Pd.
Questo, naturalmente, non significa che, a sinistra, non ci sia bisogno di una svolta. Il punto è: svolta rispetto a che cosa?
Calenda risponde: rispetto alla perenne oscillazione fra riformismo e massimalismo. Ma il massimalismo e l’estremismo sono morti da tempo, a sinistra. Il maggiore partito della sinistra, il Partito democratico, tutto è tranne che massimalista. Le uscite contro i ricchi (imposta di successione) e gli ammiccamenti ai partitini di estrema sinistra, come Articolo 1 (il partito di Speranza e Bersani) o Sinistra Italiana (di Fratoianni), non ne cambiano la natura riformista.
E’ il riformismo, semmai, il problema del Pd. Il Pd, dopo la tardiva Bad Godesberg di Occhetto, non ha ancora scelto che tipo di partito riformista vuole essere. Alla fine degli anni ’90, abbagliato dai successi della rivoluzione neoliberista di Thatcher e Reagan, affascinato dalle teorizzazioni pro-mercato della Terza via di Giddens, Blair, Clinton, Schroeder, il Pd ha deposto quasi interamente la questione sociale, incamminandosi a diventare un “partito radicale di massa”, attento agli immigrati, alle istanze LGBT, più in generale al vasto arcipelago delle grandi “battaglie di civiltà”, ma sostanzialmente dimentico delle istanze dei ceti popolari, dalla domanda di sicurezza al bisogno di protezione dai guasti della globalizzazione. Tutte istanze che, viceversa, sono da tempo al centro dei programmi politici della destra.
Detto con rammarico: il Pd, per come è diventato in questi anni, non è né un partito laburista (o socialdemocratico), attento alle istanze dei lavoratori, né un partito di sinistra liberale (o liberaldemocratico), preoccupato della crescita, ostile alle tasse e impegnato nella battaglia per la “uguaglianza dei punti di partenza”, per dirla con Luigi Einaudi.
Credo che nessuno, neppure Enrico Letta, abbia idea di che cosa il Pd sia destinato a diventare in futuro. Quel che è abbastanza verosimile, però, è che l’incredibile “saga delle alleanze mancate”, cui abbiamo dovuto assistere in questi giorni, un qualche tipo di sbocco finisca per averlo.
Ma quale sbocco?
L’alleanza con +Europa di Emma Bonino, e la contemporanea rottura con Renzi e Calenda, fanno pensare che, per il Pd, l’esito più probabile sia l’accentuazione dei suoi caratteri di partito radicale di massa. Anche perché le altre due caselle – partito socialdemocratico e partito liberaldemocratico – sono già, più o meno confusamente, presidiate da quel che resta dei Cinque Stelle di Conte, e da quel che sarà del Terzo polo di Renzi e Calenda.
Sotto questo profilo, l’appuntamento del 25 settembre potrebbe essere davvero cruciale per il futuro della sinistra. Sarà la prima volta, infatti, in cui toccherà agli elettori – e non alle correnti del Pd – pronunciarsi sulle tre alternative politiche che dividono la sinistra da quando Achille Occhetto decise di archiviare il comunismo: partito radicale di massa, partito socialdemocratico, partito liberaldemocratico?
Al popolo di sinistra l’ardua sentenza.
Luca Ricolf