La sagra dell’ipocrisia
Ancora una settimana fa pareva certo che, avendo Salvini annunciato l’intenzione di sfiduciare Conte, il governo sarebbe caduto nel giro di pochi giorni, e noi saremmo andati al voto nel giro di pochi mesi. Questa certezza, condivisa dalla stragrande maggioranza degli osservatori (me compreso), si basava su una credenza che si è improvvisamente rivelata errata: e cioè che, non essendovi in Parlamento alternative all’attuale governo, Salvini avesse il coltello dalla parte del manico. Era lui, e soltanto lui, che poteva decidere se far proseguire la legislatura o interromperla. E in entrambi i casi ne avrebbe avuto un vantaggio: andando al voto avrebbe raddoppiato i consensi, restando al governo avrebbe potuto dettare le condizioni all’alleato Cinque Stelle, timoroso di andare al voto e dimezzare i consensi.
Ora sappiamo che le cose stanno diversamente. Una maggioranza alternativa c’è, è il tridente Pd-Cinque Stelle-Leu. Non possiamo sapere se riuscirà ad accordarsi su un programma e a formare un governo, ma sappiamo che l’eventualità è all’ordine del giorno. E’ persino possibile che il nuovo governo duri fino al 2023, e che sia quindi questo Parlamento ad eleggere il prossimo presidente della Repubblica.
Dunque Salvini è all’angolo. La situazione, che sembrava rosea per lui, si è fatta repentinamente nera. Perché se facesse cadere il governo, i Cinque Stelle potrebbero rispondere alleandosi con il Pd. Mentre se rinunciasse a sfiduciare Conte, a parte la figuraccia, si verrebbe a trovare nella classica situazione dell’anatra zoppa: nelle nuove condizioni sarebbero i Cinque Stelle ad avere il coltello dalla parte del manico.
Situazione curiosa. E’ come se fosse resuscitato Bettino Craxi, ma con il triplo dei voti. Che cos’è, infatti, la condotta di Di Maio, se non la riedizione dell’eterna politica dei due forni? Allora Craxi poteva, a seconda del contesto, scegliere fra Dc e Pci, ora Di Maio non sembra farsi alcun problema a passare dall’alleanza (pardon: ‘contratto’) con la Lega a un possibile contratto con il Pd, magari grazie ai buoni uffici dell’estrema sinistra, che su diversi punti (politica economica e regole europee in particolare) è più vicina ai Cinque Stelle che al Pd.
Come è stato possibile tutto questo? E per di più in meno di una settimana?
Da qualche giorno, molti stanno notando che Salvini ha clamorosamente sbagliato i tempi: se voleva andare al voto, doveva farlo subito dopo le Europee, e comunque non in agosto, con la spada di Damocle di una sovrapposizione – a novembre – fra Legge di Bilancio e procedure di insediamento del nuovo governo.
Alla luce di quel che sta capitando, e soprattutto del modo istantaneo in cui si è delineato l’asse Pd-Cinque Stelle, mi sto convincendo invece che lo spettacolo cui assistiamo in questi giorni lo avremmo avuto comunque, anche se Salvini avesse sfiduciato Conte uno o due mesi fa. E sto pensando che chi, come me, guarda la politica dall’esterno, attribuendole ancora qualche sia pur debole, circoscritto e remoto movente ideale, ha clamorosamente sottovalutato un fattore cruciale: l’attaccamento al seggio dei parlamentari, una forza formidabile che li rende disponibili ad astrusi “ripensamenti” politici non appena se ne presenti la convenienza.
Non saprei spiegare altrimenti quello che oggi sconcerta tanti elettori. E cioè che i parlamentari renziani, che ingenuamente ci eravamo abituati a percepire come la garanzia che in questa legislatura non avremmo visto un’alleanza Pd-Cinque Stelle, ora si mostrino pronti a rinnegare le scelte fatte fin qui (a partire dall’opposizione alla demagogica riforma che riduce il numero di parlamentari) pur di evitare il voto e la perdita del seggio, che sanno a rischio con il neo-segretario Zingaretti. E che, specularmente e con il medesimo scopo di non perdere i seggi conquistati, il Movimento Cinque Stelle, che aveva fatto quadrato a difesa di Salvini sul caso Diciotti, ora – di fronte al caso della nave Open Arms – capovolga le sue posizioni sulla politica migratoria, pur di attaccare il ministro dell’Interno, passato nella categoria dei nemici.
Alla fine, quel che resta di tutta questa vicenda è l’amarezza per il modo spudorato e ipocrita con cui questi cambi di linea politica ci vengono raccontati, sempre invocando la responsabilità, il senso delle Istituzioni, il bene del Paese, la volontà del popolo, i pericoli per la democrazia. La realtà, purtroppo, è molto più semplice del racconto che i politici tentano di cucirle addosso: Salvini al voto ci vuole andare perché pensa di raddoppiare i seggi, Di Maio e Renzi, perfetti eredi del trasformismo ottocentesco, al voto non ci vogliono andare perché di seggi ne perderebbero troppi.