I partiti italiani: la crisi della Seconda Repubblica e l’epoca del rigore europeista
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Il cambio di paradigma: tutte le strade portano a Berlino, ma passando da Bruxelles.
Come dovrebbe essere chiaro leggendo la prima parte di questo scritto, la cosiddetta seconda repubblica entra in crisi per effetto di una pressione esogena dell’Unione Europea, mossa a sua volta da interessi nazionali franco-tedeschi. Non dovrebbe tuttavia essere sfuggito ai lettori che sia Bruxelles che Berlino e Parigi sono stati (e sono) in realtà gli esecutori (co-interessati) di un disegno più vasto, che affonda le radici nella volontà dei centri di investimento della finanza internazionale e delle grandi imprese multinazionali di adeguare anche i paesi del cosiddetto “sud Europa” a modelli economici e sociali funzionali alla globalizzazione planetaria dei mercati. Modelli che – nelle intenzioni dei detentori dei grandi capitali e di big dell’economia – richiedono che gli stati mettano al primo posto delle rispettive agende di politica economica (non più il benessere dei cittadini, bensì) la produttività del sistema, mettendo in campo, per un verso, misure tese ad aumentare il PIL aggregato (dunque senza interesse alla distribuzione del benessere medio) e, dall’altro, la redditività dell’investimento in capitale di rischio.
La tesi dei fautori della globalizzazione, che però – come vedremo – in Italia non ha retto alla prova dei fatti, è infatti che la maggiore produttività sul lato dell’offerta, in un sistema di libero scambio tendenzialmente capace di allocare da sé in modo ottimale i fattori produttivi su scala internazionale, consentirebbe a sua volta un progressivo miglioramento del tenore di vita dei cittadini. Il che può essere (in parte) vero per i cittadini dei paesi in via di sviluppo, mentre non lo è invece per quelli dei paesi già economicamente avanzati.
Il modello economico e sociale – praticamente opposto a quello italiano – che la finanza internazionale intende far adottare all’Europa è in particolare quello elaborato progressivamente in Germania nella seconda fase del cancellierato di Angela Merkel (con la “grande coalizione” tra socialdemocratici e popolari) e può essere riassunto nelle famigerate “riforme Hartz”. Si tratta di un modello in cui lo stato resta sostanzialmente neutrale nei confronti della piccola e media impresa, mentre adotta una serie di misure per favorire la produttività delle grandi imprese a scapito della piena occupazione. Questo avviene in particolare attuando una significativa precarizzazione del lavoro dipendente (in Germania, ad esempio, con i cosiddetti “mini job”) e favorendo l’immigrazione per consentire una compressione delle dinamiche salariali. La ricetta in questione prevede anche una riduzione della spesa previdenziale, con aumento dell’età pensionabile e – in generale – misure che tendono all’erosione (o quanto meno alla difficoltà di accumulo) del risparmio privato, con forte incentivo all’indebitamento dei cittadini verso il sistema bancario privato. Il quadro viene completato, sul versante della spesa sociale, con una riduzione degli investimenti infrastrutturali e dei servizi di welfare pubblico, a fronte della previsione di misure assistenziali – mediante sussidi pubblici diretti di integrazione al reddito – ai lavoratori a basso reddito e agli inoccupati.
L’effetto ultimo perseguito da questa politica economica è generare una crescita economica poco inflattiva (che garantisce la “stabilità dei prezzi”, vera ossessione per i tedeschi e – di conseguenza – dell’UE), ma a fronte di una depressione della domanda interna, compensabile solo mediante un aumento della quota di export nella bilancia commerciale degli stati. Tutto questo si traduce, per gli stati che adottano questo modello, nella necessità di esercitare una forte aggressività commerciale in termini di esportazioni. Questi paesi, infatti, hanno in sostanza la necessità di importare, mediante l’export di beni e di capitali, la ricchezza che non può più essere generata dalla domanda interna, depressa dalle politiche economiche volte a limitare salari e capacità di accumulo di risparmio in capo ai cittadini.
Si tratta di stati che, dunque, di fatto si vedono costretti a usare l’export come strumento per sottrarre ad altri stati (quelli verso cui esportano) la ricchezza prodotta in questi ultimi. Quello tedesco è dunque un sistema per certi versi assimilabile a quello dell’epoca coloniale, dato che gli stati economicamente avanzati vengono messi in competizione tra loro sul terreno di chi “preda” meglio – con l’export di beni e capitali – le economie altrui. Questo spiega del resto perché da alcuni anni è in corso un vasto conflitto internazionale tra stati come Germania e Cina (che perseguono simili politiche e – di conseguenza – generano enormi surplus commerciali) e stati come gli Stati Uniti (che, specie durante l’amministrazione Trump, hanno invece mostrato una politica più sensibile allo sviluppo, e dunque alla protezione, del mercato interno).
La cosa importante da capire è tuttavia che, sul versante interno, la crescita generata (ma sarebbe meglio dire “importata”) dagli stati che adottano il modello in questione, per quanto più moderata, ha come conseguenza, rispetto al modello keynesiano, di generare benefici economici maggiori a favore dei detentori dei capitali delle grandi imprese e ai loro finanziatori, ma a scapito dei lavoratori, specie del settore privato. Si tratta inoltre di un modello che favorisce la concentrazione delle attività d’impresa in poche imprese di grandi dimensioni (dunque è un sistema che tende a creare concentrazioni e oligopoli) e in cui la classe media è assai più ristretta, rispetto ai paesi che adottano il modello keynesiano, in termini numerici. I cittadini benestanti, nei sistemi alla tedesca, sono infatti molto meno numerosi in percentuale rispetto al modello italiano (ma sono assai più ricchi) mentre tutti gli altri – ossia la grande maggioranza delle persone – non possono considerarsi realmente benestanti, in quanto non beneficiano di livelli di reddito sufficienti né per accumulare un significativo risparmio privato né per acquistare quantità significative di beni e servizi differenti rispetto a quelli funzionali alla soddisfazione dei bisogni di base. Ma – soprattutto – il modello tedesco praticamente annulla ogni spazio per l’ascensore sociale, fondandosi sulla necessità di mantenere basso il reddito dei lavoratori, specie se dipendenti, mediante la conservazione di un certo tasso di disoccupazione.
Può dunque anche essere vero anche che ai giorni nostri – ma solo dopo che, da Monti in poi, è cambiato il nostro modello economico per adeguarsi a quello tedesco – l’operaio italiano stia peggio di quello tedesco, ma non è vero che l’operaio tedesco di vent’anni fa (ossia quando l’Italia era libera di portare avanti il proprio modello di politica economica) – in termini di ricchezza reale – stesse meglio di quello italiano. Anzi era vero il contrario. Ma vediamo di approfondire il confronto tra modello tedesco (ma ormai europeo) e italiano.
Ma la questione di cui forse ci si rende meno conto – quanto meno a livello politico (e non solo in Italia) – è che gli anche stati che adottano alla perfezione il modello tedesco (Germania per prima), riducendo la capacità dei loro cittadini di generare risparmio privato, finiscono per divenire sempre più dipendenti (oltre che dalla “predazione” delle altrui economie mediante l’export, anche) dai grandi investitori privati per poter finanziare il debito pubblico medianti i propri titoli di debito. Si tratta insomma di una politica che forse può portare vantaggi a breve ma che, dal punto di vista dei governi nazionali, appare miope, in quanto – da un lato – mette le economie nazionali in competizione tra loro (dunque generando conflitti economici tra stati invece che maggiore integrazione) e – dall’altro lato – mette il debito pubblico di tutti gli stati che vi aderiscono nelle mani dei grandi centri di potere finanziario privato, assoggettando le scelte politiche ciascuno stato (anzi, in special modo di quelli più “virtuosi” secondo il modello in questione) ad una dipendenza dalle scelte di investimento delle finanza privata. Si dice spesso che la Germania, tramite l’UE, sta mettendo il “cappio” del rigore agli stati del sud Europa, ma in realtà è anche la stessa Germania che – accettando di perseguire certe politiche – hanno messo la testa nel cappio della grande finanza. Quando avranno finito di erodere il tenore di vita dei cittadini del sud Europa, i grandi investitori inizieranno a regolare i conti anche con quelli del nord. E i governi dovranno tacere ed eseguire. E’ dunque solo questione di tempo prima che la globalizzazione colpisca anche al di là delle alpi. E’ dunque l’UE il vero esecutore degli interessi della finanza internazionale, non la Germania e tanto meno la Francia, stati che invece – accettando il TUE e il TFUE nella speranza di fare il proprio interesse – si sono legati mani e piedi a determinati centri di potere economico, di fatto mettendosi in una posizione di sudditanza rispetto ad essi.
La politica mercantilista dell’UE è insomma un perfetto esempio di divide et impera messo in campo dai grandi poteri economici anche ai danni degli stessi stati che, apparentemente, ne beneficiano. Alla fine – con questo sistema – perderanno tutti quanti, tranne i padroni dei grandi capitali. Gli europeisti e i rigoristi di vario genere sparsi per l’Europa questo paiono non capirlo oppure, se lo capiscono, forse hanno interesse a che non lo capiscano le maggioranze votanti. Del resto i politici (quanto meno in Europa) sono preoccupati solo dall’esito dei sondaggi e delle prossime elezioni, non certo dall’interesse oggettivo del loro paese a lungo periodo. Per vincere alle prossime elezioni si alleerebbero dunque anche con il diavolo, cosa che – come si è visto – stanno facendo.
Il mercantilismo nord-europeo del terzo millennio: neo-liberismo all’americana o capitalismo assistito alla pechinese (condito da qualche diritto civile)?
Mentre il modello tradizionale italiano può tranquillamente essere definito di matrice keynesiana in quanto volto a stimolare la domanda interna mediante risorse ed interventi pubblici, il modello tedesco – è bene chiarirlo subito – ben difficilmente può essere definito liberista in senso classico, ma è semmai una forma di dirigismo economico neo-mercantilista, volto cioè a usare le risorse pubbliche e l’intervento dello stato per promuovere, per un verso, la maggiore produttività delle grandi imprese (specie in funzione dell’incentivo all’export di beni e servizi finanziari) e, per altro verso, una più efficace remunerazione del capitale di rischio e degli investimenti del settore finanziario.
Nel sistema in questione, insomma, i lavoratori – ma anche piccoli imprenditori e professionisti – sono messi peggio rispetto a un “vecchio” sistema liberale o liberista, in quanto – nel sistema tedesco – lo stato in realtà investe risorse nel sistema (dunque ha bisogno di spendere e, di conseguenza, di mantenere alta sia la pressione fiscale, specie sul ceto medio, sia l’emissione di titoli del debito pubblico acquistati dal mercato finanziario), ma lo fa appunto allo scopo di favorire il capitale e la grande impresa a scapito del lavoro e della piccola impresa. In questo sistema, dal capitalismo di stato a scopo di welfare non torniamo insomma al vecchio laissez faire liberista, ma passiamo a un vero e proprio capitalismo assistito dallo stato, in cui il lavoro (dipendente e indipendente) viene (tar)tassato al fine di favorire spesa pubblica che va a favore della grande impresa e, sopratutto, del sistema creditizio e finanziario.
La differenza fondamentale tra il dirigismo all’italiana e quello alla tedesca è infatti che, nel primo, lo stato – quando interveniva creando limiti e vincoli ovvero impiegando risorse pubbliche – lo faceva puntando anche allo stimolo della domanda interna con aumento del benessere medio e diffuso dei cittadini, laddove, nel secondo, l’investimento pubblico e l’interventismo dello stato nell’economia – pur essendo altrettanto massiccio (e dunque costoso in termini fiscali) – si indirizza a favore dell’offerta, perseguendo l’efficienza del sistema produttivo in termini aggregati e la remunerazione dell’investimento, mentre – sul versante sociale e del lavoro – taglia il welfare propriamente detto, limitandosi a fornire sussidi assisstenziali diretti, dunque redditi di cittadinanza et similia, per compensare il disagio economico e sociale questo sistema tende a provocare in misura maggiore rispetto ai sistemi più keynesiani.
Anche se dunque oggi si fa un grande parlare di deriva “neo-liberista”, specie negli ambienti marxisti e del socialismo democratico, la mia impressione è che quella del neo-liberismo sia un’etichetta apposta forse troppo facilmente a un modello più complesso e che, per quanto indubbiamente intenda favorire il capitale rispetto al lavoro, di liberista ormai ha davvero ben poco. L’uso (e abuso) di questo termine avviene infatti essenzialmente per giustificare la l’idea secondo cui un puro e semplice ritorno alle antiche ricette keynesiane del dopoguerra sarebbe sufficiente per superare il problema della crisi economica provocata in Italia dal rigore europeista e montiano. Molti tra i keynesiani di oggi (specie tra quelli che economisti non sono, con una particolare frequenza tra i giuristi) sostengono infatti che il sistema attuale sarebbe neo-liberista perché così possono più “comodamente” affermare che basterebbe applicare oggi l’ortodossia keynesiana – quella studiata per porre rimedio alla depressione post-bellica del 1945 e che ha trovato ipostasi normativa ad esempio nella costituzione italiana e nella politica perseguita dalla democrazia cristiana nella prima repubblica – per risolvere i problemi, in termini di distribuzione del benessere e di scarsa crescita, che sta provocando nel nostro paese la progressiva instaurazione del sistema economico (mercantilista e deflattivo) definito nei trattati unionisti europei di Lisbona e Maastricht, insieme alla moneta unica, che rappresenta l’altro fattore (questa volta monetario) che favorisce il mercantilismo tedesco.
Sennonché pare a chi scrive che la dialettica storica non abbia mai avuto il tasto reverse e che, di conseguenza, la pretesa di superare il modello proposto dall’UE con una “restaurazione” tale e quale di un modello nazionale che pure ha indubbiamente funzionato bene in passato sia operazione destinata a fallire per il semplice fatto che il sistema attuale ha in certa misura assorbito alcuni elementi di quello precedente. La mia impressione è infatti che, se è vero – come a me pare vero – che il sistema attuale non si riduce a una pura e semplice restaurazione del paradigma liberista, la logica conclusione è che una pura e semplice “contro-restaurazione” della politica economica a suo tempo attuata nella prima repubblica non rappresenta un’alternativa proponibile.
L’impressione è in altre parole che il “neo-liberismo” sia un ologramma creato dai nostalgici della prima repubblica – in sostanza facendo passare per neo-liberista qualunque modello economico differente rispetto a quello dell’epoca d’oro dello sviluppo economico italiano – in modo da avere a disposizione un bersaglio perfetto per poter riproporre tali e quali i tradizionali argomenti di Keynes. Temo tuttavia che una simile operazione – come tutte quelle che utilizzano la tesi per definire l’ipotesi – implica il rischio di combattere un nemico più immaginato che reale. Le soluzioni keynesiane classiche erano state elaborate dal brillante economista britannico (e hanno funzionato assai bene in Italia) per ovviare alle carenze del “vero liberismo” (quello che ha preceduto la crisi del 1929) e in una situazione in cui vi era molto da ricostruire anche sul piano materiale (nel dopoguerra), con la conseguenza che si tratta di soluzioni che – per funzionare anche contro il neo-mercantilismo europeo dell’ultima parte del XX secolo, epoca in cui le varie crisi economiche succedutesi nel tempo hanno intaccato il benessere e le garanzie dei lavoratori senza demolire gli edifici e le infrastrutture che quegli stessi lavoratori potrebbero essere chiamati dallo stato a ricostruire – richiedono probabilmente una rimeditazione.
Si pensi – per fare un esempio – alla nota tesi attribuita a Keynes circa l’opportunità di creare, in momenti di grave crisi economica, impiego pubblico al limite anche solo per scavare e riempire buche (stiamo parlando di posti pubblici creati al solo scopo di generare un reddito per sostenere la domanda interna): il sistema Hartz – dunque quello che in tanti si ostinano a chiamare neo-liberista – ha certamente tenuto presente la questione del sostegno alla domanda interna in momenti di debolezza ciclica, ma lo ha risolto sorpassando in certo senso “a sinistra” lo stesso Keynes, vale a dire proponendo al lavoratore inoccupato o al lavoratore a basso reddito forme di reddito di cittadinanza o altri sussidi diretti e permanenti di integrazione al reddito.
E’ chiaro allora che su questo punto occorre capire che la soluzione di Keynes (una volta esclusa ogni considerazione etica sul valore del lavoro come strumento di realizzazione personale, che in economia lascia il tempo che trova) può essere proposta come alternativa preferibile a quella offerta dal mercantilismo tedesco solo a condizione che si possa sostenere che, nel singolo caso, il posto pubblico presenta una qualunque forma di utilità economica ulteriore rispetto al puro e semplice effetto di dotare di reddito spendibile un disoccupato. Altrimenti finisce che la soluzione (mercantilista) del sussidio di stato garantito al non lavoratore verrà preferita non solo dalle imprese ma anche dagli stessi (non) lavoratori. Analogamente deve dirsi della questione della compressione dei salari, che un keynesiamo risolve con interventi normativi tesi a promuovere la piena occupazione (ad esempio rendendo più difficili i licenziamenti per motivi economici), che a sua volta innesca una dinamica crescente dei salari, laddove il neo-mercantilismo tedesco tratta la questione compensando direttamente con integrazioni e sussidi pubblici i lavoratori a basso reddito.
Anche chi dunque si riconosce nella tradizione socialista – o, economicamente, nella dottrina keynesiana – non può limitarsi a proporre un nostalgico e generico ritorno dell’età dell’oro della prima repubblica democristiana come panacea di tutti i mali moderni, ma deve assumersi il compito di ripensare Keynes alla luce dell’oggi, perché quelli che una volta erano i “liberisti”, vale a dire i grandi capitalisti e le rispettive corti imprenditoriali e politiche, hanno saputo ripensare lo stesso capitalismo andando ben oltre il tradizionale paradigma liberale. Il punto è che i soggetti che controllano le leve del capitalismo finanziario del terzo millennio, non sono affatto dei neo-liberisti, ma – semmai – sono dei capitalisti che si sono fatti furbi a sufficienza per capire che prestare montagne di soldi allo stato stato, accettando di buon grado alcune misure “sociali” (che poi sono quelle assistenziali, che risultano più convenienti per loro) poteva essere nel loro interesse (non solo più del tradizionale modello di stato sociale keynesiamo) ma anche più dell’antico dogma liberale e liberista del “lasciar fare” ai rapporti di forza economica.
Non deve allora stupire più di tanto che gli stessi grandi capitalisti che hanno messo nel mirino – e, per ora, nel sacco – il la socialdemocrazia keynesiana del sud Europa siano quegli stessi soggetti che investono ingenti risorse nel (e guardano con estremo interesse al) modello di sviluppo economico cinese, che naturalmente tutto è tranne che liberista. Il dubbio che infatti mi sta venendo negli ultimi tempi è che il vero nemico del benessere diffuso dei cittadini (cui mirava Keynes, che – è bene ricordarlo – per quanto criticasse il liberismo ma non apprezzava affatto le idee di Marx) sia rappresentato da una sintesi dialettica – attuata da stati ormai connotati da pesanti tratti etici (in senso hegeliano-gentiliano, dunque ideologicamente fascisti) – tra il capitalismo finanziario globalista e l’ugalitarsimo della povertà assistita di stampo marxista. Si tratta di uno scenario che dovrebbe risultare indigesto sia ai socialdemocratici (veri) quanto ai liberali (veri). E invece vedo i liberali che puntano il dito solo contro “la spesa pubblica” mentre i socialdemocratici se la prendono solamente con “il neo-liberismo”, facendo dunque la figura – entrambi – dei capponi di manzoniana memoria.
Il concreto rischio che invece io vedo per l’Europa (e in particolare per l’Italia, che in Europa – nonostante il suo peso storico ed economico – è da tempo trattata come stato periferico di seconda categoria) non è quello di una trasformazione in una specie di nuova America (intesa come far west neo-liberista), ma quello che la demolizione del benessere del ceto medio allargato – specie della piccola e media impresa, dei commercianti e delle attività professionali – trasformi il paese in una piccola pseudo-Cina in cui una ristretta elite politica ed economico/finanziaria controlla la società per mezzo di un pachidermico e soffocante apparato burocratico pubblico e di poche grandi corporation private che occupano la gran parte delle attività economiche del paese, mentre i cittadini sono tutti quanti ugualmente poveri e – rispetto ai cinesi veri – possono tutt’al più esercitare qualche diritto civile in più (ma solo se poco “costoso”), come protestare un po’ sui social network, esercitare il culto che preferiscono, manifestare pubblicamente le più disparate tendenze sessuali, avere a disposizione qualcuno da denunciare se subiscono un danno (e magari denunciare i propri genitori quando tentano di educarli), ma – soprattutto – giocare all’antifascismo per poi poter correre felici a votare in massa i partiti che il sistema dei mass media dipingerà a reti e titoli unificati come i soli davvero impegnati in continue “riforme” verso le splendide e progressive sorti dell’unione e fratellanza tra i popoli europei, in modo da tnere lontani i perfidi sovranisti e populisti.
La crisi della seconda repubblica: i mandanti
Tornando al nostro excursus storico, abbiamo visto che – a cavallo del secondo millennio – la grande finanza internazionale sente l’esigenza, cessata la minaccia sovietica dell’instaurazione manu militari del socialismo reale, di “normalizzare” l’Europa al nuovo vangelo della globalizzazione. Siccome però i modelli (quelli sì, davvero neo-liberisti) adottati in alcuni paesi emergenti ben difficilmente sarebbero stati digeriti facilmente nell’Europa continentale, ecco che – nel vecchio continente – si è optato per il modello mercantilista e oligopolista di matrice teutonica. Questo tentativo di riassetto regionale trova peraltro un preciso suggello giuridico – e una conferma sul piano della verità storica – nel passaggio dalla vecchia CEE (sostanzialmente una zona di libero scambio in cui l’Italia poteva ancora giocare con regole proprie la partita economica per il benessere dei suoi cittadini) alla nuova UE, rigida gabbia dirigista economica e monetaria governata dalle arcigne regole dei trattati di Lisbona e Maastricht e dalle norme sulla moneta unica, dunque da ricette deflattive, rigoriste e volte esclusivamente al perseguimento della stabilità dei prezzi e della competitività con taglio della spesa sociale, e dunque con inevitabile compressione dei salari medi, dei diritti dei lavoratori e di ogni forma di spesa espansiva (ma – è bene ricordarlo ancora – non della spesa pubblica tout court, che può restare alta a patto che venga convogliata verso iniziative utili alle grandi imprese e al sistema creditizio e, sul versante opposto, verso le forme di welfare più assistenziale).
L’avvio di una nuova fase politica post-berlusconiana in Italia (da Monti in poi) va dunque collocato in questo quadro complessivo, trovando in particolare la propria ragion d’essere nella necessità per la finanza e il grande capitalismo nazionale di chiudere la fase della convergenza politica verso il centro causata dall’inatteso ingresso in campo del Cavaliere e dall’adozione di sistemi elettorali maggioritari: fase che – attribuendo ancora un notevole peso politico agli interessi del ceto medio allargato – aveva rallentato e ostacolato l’adeguamento del nostro paese ai modelli del nord-Europa. Quella fase interlocutoria – essendo nel frattempo già andato in porto il grosso dello shopping straniero sulle grandi imprese di stato e sulle partecipate pubbliche italiane – poteva (e dunque doveva) finire.
Ma questa volta l’obiettivo era (e ancora è) quello di far piazza pulita (non più solo dei referenti politici del ceto medio italiano, vale a dire quel che si era a suo tempo tentato di fare con tangentopoli, ma che la discesa in campo di Berlusconi aveva poi impedito), ma dello stesso ceto medio allargato del paese, il cui risparmio e benessere dovevano essere demoliti e che – quanto meno nella sua componente media e bassa – doveva essere poco a poco riproletarizzato (per poi poter essere sussidiato e dunque meglio controllato politicamente) a colpi di “riforme” modellate sulla falsa riga della dottrina Hartz.
L’Italia come colonia del nord Europa: esecutori, complici e vittime designate.
Questo essendo il piano per l’Italia del post berlusconismo, il problema per i “poteri forti” era capire come – e soprattutto con chi – attuarlo. In realtà i soggetti interessati alla demolizione del benessere italiano non mancavano affatto. La decostruzione del modello economico italiano e del ceto medio allargato era infatti anzitutto nell’interesse strategico della Germania, che poteva in tal modo affossare l’industria nazionale (specie piccola e media) nel manifatturiero, dunque il suo concorrente più pericoloso, creando in compenso in Italia un buon mercato per l’export dei suoi prodotti (ad alto valore aggiunto) e servizi finanziari, ma continuando a importare semilavorati e componenti a prezzi ancora più convenienti. La Francia, a sua volta, poteva sfruttare la deflazione italiana e la crisi dell’industria per partecipare alla spartizione, insieme alla finanza di oltre oceano, delle ultime eccellenze nazionali rimaste in piedi nel settore privato.
Ecco dunque spiegato perché l’Unione Europea iniziava spingere sempre più forte per imporre al nostro paese un’agenda fondata sulla progressiva “normalizzazione” del paese (e del sud Europa in genere) al modello tedesco, sia mediante la moneta unica (che impedisce svalutazioni competitive alle economie più deboli mentre consente a quelle forti di operare con una moneta svalutata, dunque colpendo l’export delle prime e favorendo quello delle seconde anche verso le prime), sia con regole come il pareggio di bilancio e il patto di stabilità (che scoraggiano ogni politica economica espansiva e di sostengo alla domanda interna) sia infine portando avanti una politica di “aiuti” consistenti nella concessione di prestiti a condizioni finanziariamente vantaggiose, ma rigorosamente condizionati all’adozione di misure di politica economica – ovviamente tutte quante in senso “teutonico” – indicate dagli stessi organi UE.
Siccome però l’UE non poteva obbligare l’Italia a entrare “di forza” nel sistema della moneta unica, o nel patto di stabilità o in tutti gli altri marchingegni economico-giuridici escogitati per imporle il modello socio-economico ispirato alla dottrina Hartz, occorreva la collaborazione di una primaria forza politica che, dall’interno, consentisse di attuare il piano. E – dopo un primo momento di sostanziale equidistanza – la scelta cadde alla fine sul Partito Democratico.
Per tanti anni il consenso all’adesione alle regole europee (e il consenso alle privatizzazioni) era infatti stato ampiamente bipartisan: tanto il “primo” centrodestra berlusconiano quanto il “primo” centrosinistra prodiano avevano accolto con entusiasmo un po’ tutto quel che proponeva Bruxelles. Quando tuttavia – specie in seguito all’aggravarsi della crisi finanziaria del 2008 – iniziarono a mostrarsi con chiarezza le conseguenze negative, sul tenore di vita del ceto medio e sull’economia nazionale, della scelta di aderire alla moneta unica e ai vincoli imposti dalle regole europee, il centrodestra – specie nella sua componente leghista, ma anche con alcuni ministri di spicco di Forza Italia come Tremonti – iniziò a manifestare i primi dubbi sull’effettiva utilità per il nostro paese di una adesione senza se e senza ma ai modelli economici imposti dall’adesione all’Euro e ai trattati di Lisbona e Maastricht.
Con tutta probabilità Berlusconi non era antieuropeista per principio, ma semplicemente si era reso conto a posteriori che una parte del suo elettorato di riferimento – in particolare piccola e media impresa, professionisti e artigiani – non stava traendo affatto i benefici promessi dalle ricette europee (e dall’adesione all’Euro), anzi risultandone danneggiata. Questo aveva indotto il centrodestra italiano a iniziare a sollevare timidamente il tema sui tavoli negoziali europei, promuovendo una discussione su possibili modifiche alle regole dell’austerità, onde renderle più compatibili con il modello di sviluppo economico italiano (e del sud Europa in generale). A quel punto – resisi conto del fatto che il centrodestra non avrebbe più accettato senza fiatare l’agenda di normalizzazione dell’Italia – l’UE, naturalmente spalleggiata dagli ambienti finanziari internazionali, decideva di far fuori quello che ormai era diventato un personaggio potenzialmente ostile.
Dopo che Tremonti aveva proposto alcune modifiche alle regole UE, chiedendo di consentire alla Cassa Depositi e Prestiti italiana di concedere aiuti pubblici alle imprese in modo analogo alla KFW tedesca o alle banche dei Laender (ossia potendo non conteggiarli come debito pubblico), dunque mostrando per fatti concludenti che il centrodestra non avrebbe più accettato regole unioniste create ad hoc per favorire Germania e Francia, veniva messa in campo la famosa manovra speculativa di vendita sui titoli di stato italiani (a quanto pare partita proprio dalla stessa Bundesbank oltre che dai signori di Wall Street) che – anche grazie alla celebre “lettera” spedita al Governo nazionale dalla BCE – generava la crisi di spread che costringeva il governo Berlusconi a dimettersi.
Quel che è forse meno noto, ma invece assai importante politicamente, è che, a quanto pare, in questa manovra (che ormai viene ritenuto da una parte dei commentatori un vero e proprio “golpe finanziario”) avrebbe avuto una parte l’allora inquilino del Quirinale, Giorgio Napolitano, il quale – da politico di lungo corso abituato ad agire in complessi contesti internazionali – aveva probabilmente intuito che prendere decisamente le parti di UE, Francia e Germania in quella crisi avrebbe consentito al suo partito, ossia al PD, di assicurarsi l’appoggio di forze (non solo politiche) che gli avrebbero garantito un grandissimo potere di influenza sulla politica italiana nei futuri decenni. E l’intuizione politica di Napolitano si sarebbe rivelata quella giusta, perché così accadde, seppure in modo progressivo.
La “scommessa europea” del PD: sacrificare il benessere del ceto medio (anche di sinistra) senza perdere troppi consensi.
Per comprendere le ragioni profonde della mossa politica del PD occorre ricordare che il keynesianesimo italiano della prima repubblica aveva creato almeno tre diversi raggruppamenti sociali assai numerosi (e dunque dotati di peso elettorale) all’interno di quello che abbiamo definito come ceto medio allargato: si tratta di dipendenti pubblici, pensionati e lavoratori sindacalizzati delle grandi imprese. Tre categorie che – durante la prima repubblica – votavano o la vecchia sinistra comunista o le componenti di sinistra della DC (che poi erano confluite nel PD, specie nella corrente Prodiana). Dunque la linea politica del PD – sia nella seconda repubblica, ma con una decisa accelerazione da Monti in poi – è stata in sostanza quella di garantirsi l’appoggio dell’UE (e dunque di Germania e Francia così come della grande finanza e impresa multinazionale) abbandonando l’”ecumenismo politico” democristiano – che aveva garantito la prosperità di un vasto ceto medio esteso a categorie sociali anche molto diverse – continuando a tutelare solo la parte di quel ceto medio che in maggioranza già votava le forze e correnti politiche poi confluite nel PD. Il tutto facendo pagare il conto economico e sociale dell’operazione alla parte di ceto medio che, invece, solitamente non votava quelle forze. Si tratta di una scommessa politica che – è bene dirlo – appare assai azzardata.
Dove porta il rigore “alla tedesca”, quando viene lasciato libero di agire sino in fondo per normalizzare sistemi che erano keynesiani, lo ha infatti ormai dimostrato la “gestione europea” della crisi greca, che è stata condotta a livello nazionale – anche in questo caso (e, aggiungo io, non a caso) – da partiti della nuova sinistra greca (dunque da omologhi del PD). Ebbene: le “riforme” imposte dell’UE alla Grecia – e fedelmente attuate dalla “neosinistra” greca – hanno prima messo in ginocchio, con la leva fiscale, le piccole imprese e i professionisti, poi hanno precarizzato i lavoratori dipendenti con pesanti tagli salariali del settore privato. Nel frattempo la Germania ha fatto man bassa a prezzi di saldo di tutte le imprese greche importanti nei settori strategici, specie nel settore pubblico. In seguito – e questo è appunto il pezzo della storia che il PD non riesce a vedere (o magari semplicemente non vuole mostrare ai suoi elettori storici) – sono cominciati i tagli delle pensioni per finire con le riduzioni agli stipendi pubblici e i tagli ai servizi pubblici con conseguenti licenziamenti anche nel settore pubblico. Se al precedente greco aggiungiamo poi il fatto che il PD – con una politica migratoria sempre più improntata alle frontiere aperte anche per i semplici migranti economici – sta importando attivamente un “esercito industriale di riserva” di marxiana memoria (dunque lo strumento ideale per comprimere i salari dei lavoratori autoctoni), chi vota PD – anche se appartiene ad una delle poche categorie ancora “protette” da quel partito – dovrebbe forse iniziare a farsi qualche domanda in più.
Ci si potrebbe chiedere ad esempio se il PD non sia caduto nel medesimo errore – anche se di segno opposto – commesso da Berlusconi quando ha accettato di partecipare alla stagione delle liberalizzazioni, non capendo cioè che benessere di una delle due parti del ceto medio allargato (nella specie, per il PD, quella “di sinistra”, rappresentata da dipendenti pubblici, pensionati e lavoratori sindacalizzati delle grandi imprese) dipende in ampia misura dalla capacità dell’altra parte di quello stesso ceto medio (vale a dire quella “di destra”: piccole imprese, professionisti ma anche da una parte dei dipendenti del settore privato) di creare ricchezza diffusa e, dunque, di sostenere una forte domanda interna.
Questo gioco delle parti era infatti il cuore della “sintesi” che aveva mantenuto in equilibrio – e fatto prosperare – l’Italia durante l’epoca d’oro democristiana: governo e potere politico nazionale a forze di centro-destra, ma compensato da una parte della magistratura ideologicamente schierata a sinistra a tutela dei diritti dei lavoratori, da una forte presenza comunista negli enti locali e da una serie di “poteri di fatto” – sindacali, culturali e nel mondo dell’informazione – pure in mano alla sinistra, che agivano appunto come “calmieratore” a favore delle classi meno agiate. Il punto è che la cancellazione per via giudiziaria di quel centro-destra aveva aperto la strada per una concentrazione di tutto il potere – istituzionale e di fatto – nelle mani degli eredi di quella sinistra, di fatto sbilanciando il sistema e gettando le basi per una frattura dell’equilibrio tra le varie componenti del ceto medio allargato, che avrebbe portato ad una profonda crisi del paese. Questa frattura – e dunque le conseguenze negative sul sistema economico e sociale nazionale – sono state in prima battuta scongiurate proprio dalla discesa in campo di Silvio Berlusconi, che aveva provocato una alternanza al governo del paese tra centro-destra e centro-sinistra capace di evitare che una sola delle due parti del ceto medio allargato finisse per essere impoverita eccessivamente. Abbattuto Berlusconi, però, la frattura si è stata consumata, per effetto della traduzione in azione politica di quella feroce campagna di divisone e di odio sociale che – per tutta l’epoca di Berlusconi – la sinistra non ha mai cessato di alimentare nel suo elettorato.
A voler essere maligni, si potrebbe dunque supporre che il PD sia semplicemente stato scaltro, ben sapendo di poter vendere piuttosto facilmente ai suoi elettori (dopo un paio di decenni di addestramento all’odio antiberlusconiano) l’idea per cui, grazie allo stesso PD, saranno loro i soli a “salvarsi” anche nel sistema del rigore UE, ma a patto che facciano pagare il conto fiscale al ceto medio “di destra” (in cui tutti quanti sono evasori, avidi, brutti e cattivi). In questo modo, infatti, il PD sarebbe non solo riuscito a regolare i conti col suo arcinemico Berlusconi, ma anche – se non soprattutto – a far piazza pulita nel medio periodo addirittura dell’elettorato di riferimento del polo opposto (cui aveva dovuto obtorto collo fare ancora qualche concessione nell’era della convergenza al centro), rappresentato da quel ceto medio benestante attivo soprattutto nel settore privato, verso il quale lo stesso PD poteva far valere ancora la tradizionale invidia sociale – ma forse sarebbe meglio chiamarla “ossessione per il kulako” (oggi “evasore fiscale”) – che alla fine della fiera anima da sempre una larga parte degli elettori che si considerano a vario titolo “di sinistra”.
Tutto questo, peraltro, a fronte dell’accettazione del rischio che – prima o poi, dopo aver ammazzato a furia di tasse e rigore il benessere della componente “di destra” del vecchio ceto medio allargato – i padroni europei possano iniziare – come è accaduto in Grecia con Tsipras – a chiedere allo stesso PD, sotto minaccia delle stesse ritorsioni economiche e finanziarie utilizzate contro Berlusconi, di far pagare dazio anche alla parte “di sinistra” di quel ceto medio, ossia – nell’ordine – ai lavoratori sindacalizzati delle grandi imprese, ai pensionati di medio reddito e in fine anche agli “intoccabili” per eccellenza, i dipendenti pubblici. Accettare vincoli esterni giuridicamente vincolanti per ragioni di tattica politica nazionale è sempre una scelta rischiosa, visto che simili vincoli – spostando fuori dal paese il baricentro decisionale delle scelte politiche – riducono l’autonomia anche degli stessi partiti che dovessero accettarli al solo scopo di usarli come arma politica sul versante interno. Ipotecare l’indipendenza politica del proprio paese per vincere le prossime elezioni o per controllare il paese anche quando si perdono le elezioni – perché questo è quel che sta facendo da diverso tempo il PD – potrebbe dunque non essere stata affatto una buona idea, neppure per il PD (o, quanto meno, per il suo elettorato).
A voler ragionare strategicamente hanno insomma vinto Bruxelles, Berlino e Parigi, alla cui influenza il PD – specie ora che è stata ratificata la modifica del MES e se verranno concessi i prestiti del recovery fund e delle altre misure unioniste di reazione alla pandemia – non avrà più alcun modo di sottrarsi. E’ però anche vero che, una volta accettati i rischi per i loro elettori che implica l’assunzione di ruolo di viceré coloniale, il PD – nel mostrarsi docile esecutore dell’agenda dell’UE – si è assicurato per diversi anni un vantaggio enorme in termini di peso politico nazionale
Come si è già accennato – a differenza del centrodestra, specie quello berlusconiano, che aveva un po’ “tutti contro” nella cosiddetta “società civile” – il PD poteva infatti (e può tuttora) contare sul fervente appoggio di parte della magistratura (specie inquirente) così come di settori strategici dell’impiego pubblico (deep state, istruzione, università, enti locali), dell’informazione pubblica e dei sindacati confederali. Inoltre, il PD aveva creato negli anni – quando ancora era partito comunista – una fitta rete di attività economiche e sociali connesse con gli enti pubblici territoriali, specie in regioni come Emilia Romagna, Toscana e Umbria, creando un “sistema” che si alimentava grazie a continui “scambi” tra economia locale e sistema politico-amministrativo pure locale. A tutto questo va aggiunto l’importante appoggio di una parte del cattolicesimo cosiddetto progressista (specie quello dossettiano e facente capo alle ACLI) e di larga parte del gesuitismo: appoggio che – restato sotterraneo negli anni in cui la chiesa ancora restava fedele al suo magistero sociale tradizionale – è divenuto via via sempre più manifesto per effetto dei bruschi cambiamenti intervenuti col pontificato di Bergoglio.
Questo poderoso sistema di “appoggi” non istituzionali si accompagnava a una estrema attenzione ed abilità politica della sinistra nel gestire le scadenze elettorali in modo tale da non lasciare mai ad esponenti dello schieramento politico avverso la possibilità di influire in modo determinante sulla nomine delle istituzioni di garanzia del paese (Presidenza della Repubblica e Corte costituzionale) così come dei ruoli chiave del deep state, con la conseguenza che – eliminato dal gioco un “potente” come Berlusconi – il PD si è ritrovato a tirare le fila di un sistema di potere ben difficile da contrastare anche per forze politiche che avessero raccolto un ampio consenso elettorale. Si trattava infatti (e si tratta ancora oggi) di un sistema che trova il proprio punto di forza proprio nella sua capacità di riuscire ad esercitare ancora il potere in assenza di una maggioranza parlamentare, potendo valersi – a supporto dell’azione di opposizione (o qualora il PD si trovi in situazione di minoranza relativa nella compagine che sostiene il governo) – di molteplici strumenti (istituzionali e non) in grado di mettere i bastoni tra le ruote anche a governi sostenuti da forti maggioranze parlamentari così come ad eventuali partiti “alleati” che dovessero godere di più ampi consensi elettorali. In questo senso, peraltro, un ruolo di assoluto primo piano viene rivestito ad una parte della magistratura inquirente, la cui azione ha più volte destato il sospetto di essere connotata da una certa “attenzione” alle esigenze della sinistra.
Aggiungere a questa rete di influenze, poteri e connivenze l’appoggio della grande finanza e delle imprese multinazionali e dei pochi grandi capitalisti italiani rimasti (dunque dei mezzi di comunicazione di massa che questi soggetti sono in grado di controllare), il pesante vincolo esterno dell’UE e l’influenza di stati importanti come Francia e Germania, ha dunque sortito l’effetto di rendere il PD senza dubbio il primo partito del paese in termini influenza politica reale, dunque anche a prescindere dai suoi risultati elettorali. Risultato, questo, che – sul piano della tattica politica – si è evidentemente ritenuto che valesse bene qualche disinvoltura ideologica, così come l’accettazione del rischio che a pagare il conto dell’operazione potessero alla fine essere anche gli stessi elettori di sinistra.
Cinquanta sfumature di UE da Monti a Gentiloni: la consumazione della frattura tra le diverse componenti del ceto medio allargato
La nuova fase post-berlusconiana veniva inaugurata con il governo – definito “tecnico”, ma in realtà destinato ad attuare nel nostro paese la politica economica indicata dall’UE, dunque in sostanza di deprimere la domanda interna – capeggiato da Mario Monti. Si tratta di un esecutivo che attuava con determinazione l’agenda di decostruzione del sistema Italia: eliminazione delle garanzie di stabilità per i lavoratori, tagli pensionistici, regimi fiscali volti a erodere il risparmio privato (introduzione dell’IMU sulla prima casa e legge Fornero sono solo due esempi eclatanti tra i moltissimi in tal senso). Il governo in questione, sul modello delle larghe intese tedesche, veniva sostenuto da tutte le forze parlamentari – incluso il centrodestra – con le sole eccezioni del piccolo partito di Di Pietro (passato all’opposizione subito dopo aver sostenuto la composizione del governo) e, soprattutto, della Lega nord, solo movimento politico che – a differenza degli altri movimenti di centrodestra – a manifestare una aperta ostilità alla normalizzazione dell’Italia ai modelli economico-sociali indicati dall’UE. All’esecutivo Monti seguiva una lunga teoria di governi sempre più costruiti intorno al ruolo egemone del PD (Letta, Renzi e Gentiloni), che proseguivano la politica di austerità deflattiva inaugurata da Monti (ad esempio con il jobs act di Renzi e la rincorsa agli aumenti dell’IVA).
Questo tentativo del centro-sinistra a guida PD di adeguare l’Italia ai modelli tedeschi mediante eliminazione del suo ampio ceto medio benestante ha delle caratteristiche distintive piuttosto evidenti, che vale la pena di riassumere qui di seguito. Anzitutto si tratta di una fase che segna l’abbandono da parte del PD – e in genere di tutta la sinistra non comunista – di ogni posizione di politica economica anche solo lontanamente keynesiana e a favore dei lavoratori.
Il “nuovo” PD non è però un partito neo-liberista, nel senso che – come tutti i partiti socialdemocratici degli altri paesi europei – non è contrario alla spesa pubblica o all’interventismo pubblico nell’economia (ossia a quegli strumenti di spesa – e dunque di distribuzione di risorse – che gli assicurano consenso elettorale); semplicemente usa la spesa e la mano pubblica per attuare una versione all’italiana del modello Hartz: aiuti pubblici (e interventi normativi) ritagliati sulle esigenze e sulle possibilità di grandi imprese e operatori finanziari, incentivo all’afflusso di investimenti stranieri, creazione di adempimenti burocratici complessi e onerosi quasi impossibili da attuare per le piccole imprese, deciso favor per le concentrazioni di imprese specie nel settore finanziario. Tutto questo a fronte del mantenimento di garanzie e dei redditi solo per dipendenti pubblici e lavoratori dipendenti a basso reddito del settore industriale, con limitazione dei servizi sociali gratuiti solo per le fasce più disagiate (il che rappresenta una tassazione indiretta sulla restante parte della popolazione, che deve ricorrere a redditi e risparmi per fruire di servizi sociali pubblici che in precedenza erano gratuiti). La differenza rispetto al passato non è dunque il volume di spesa pubblica, che anche con il PD continua a crescere senza freni, quanto il fatto che questa spesa pubblica viene ora indirizzata, per la parte in cui non serve a coprire gli interessi sui debiti pregressi, a favore di grandi imprese e mondo finanziario e viene finanziata sempre di più con l’erosione di reddito, patrimonio e risparmio del ceto medio “di destra”.
Delle vecchie categorie sociali care alla sinistra, infatti, a valle della conversione del PD ai dogmi mercantilisti euro-teutonici – come si è già detto – solo quattro sono “sopravvissute” alla scure del rigore europeista: l’impiego pubblico, i pensionati a basso reddito, i lavoratori sindacalizzati a basso reddito delle grandi imprese e il mondo dell’informazione e del giornalismo. A queste categorie si sono tuttavia aggiunte una lunga teoria di minoranze etniche, culturali, sessuali e di altro genere, la cui soddisfazione porta altri voti al PD “costando” tutto sommato poco in termini di spesa pubblica. In compenso questo “nuovo” centrosinistra, incassa ora il convinto plauso (nonché voto e appoggio) dei ceti più benestanti, dei rentier, dei CEO delle grandi imprese, del ceto dirigenziale e dei professionisti ad alto reddito nonché – ovviamente – della grande impresa e finanza nazionale e internazionale.
Il grande escluso dall’agenda del PD resta – come si diceva – il ceto medio propriamente detto, che però è stato anche la spina dorsale del sistema economico nazionale: l’operaio o impiegato della piccola e media impresa (quello meno sindacalizzato), il piccolo imprenditore, l’artigiano, il negoziante, il professionista di medio reddito, per finire con i pensionati con trattamenti mensili lordi di una certa entità. Tutte queste categorie, da Monti in poi, vengono sistematicamente colpite e tartassate – specie fiscalmente – ad ogni possibile occasione.
Questa stagione politica segna peraltro anche un ritorno del centrosinistra alla politica “discendente”, ma con una sfumatura coloniale, nel senso che alla neo-sinistra italiana europeista le ricette di politica economica arrivano ormai già confezionate in comode proposte di “riforma” – che di solito condizionano l’accesso a finanziamenti o il placet della Commissione alla legge di bilancio – gentilmente recapitate, su carta intestata di Bruxelles, sui tavoli dei nostri esecutivi nazionali. Se qualcuno anche a sinistra osasse fiatare, del resto, ci penserebbe la finanza internazionale (o qualche dichiarazione della BCE) a scatenare una bella fiammata di spread per far capire chi comanda davvero. Conseguenza di questa situazione è una politica economica nazionale da stato-colonia: eterodiretta nelle sue linee di fondo dalle istituzioni europee (che agiscono di concerto con le cancellerie degli stati egemoni dell’Unione) ed in cui le forze di centrosinistra – sul versante nazionale – non si occupano più della crescita economica e del benessere del paese, ma esclusivamente di preservare i benefici delle categorie sociali che le appoggiano elettoralmente, facendo in modo che il conto dell’austerità finisca sempre sulle spalle di piccole imprese, commercianti e artigiani, liberi professionisti nonché degli operai e impiegati del settore privato, specie se a medio reddito e non sindacalizzati. Verrebbe da dire che la nuova lotta di classe, nell’Italia del PD, è tra chi per vivere è ancora obbligato a lavorare (e che lavorando ormai per mantenere tutti alla fine sta sempre peggio) e chi invece riesce – a vario titolo e in diverso modo – riesce vivere di rendita (e che sta sempre meglio). Anzi, l’intento pare essere quello di importare dall’estero, non risorse, ma nuovi bisognosi sia da impiegare per ridurre le pretese economiche e le garanzie dei lavoratori autoctoni sia da utilizzare – prevedibilmente dopo averli muniti del diritto di voto con una legge sullo ius soli – per consolidare il proprio consenso politico.
Il tutto – va detto – in perfetta sintonia con i risultati che intendevano ottenere gli ambienti finanziari ed imprenditoriali che, con tangentopoli prima e con la campagna contro Berlusconi dopo, hanno inteso condurre una decostruzione programmata del sistema Italia. Questa è però anche la ragione per cui tra qualche tempo (ossia quando saranno infine esauriti i redditi e soprattutto i patrimoni del ceto medio “di destra”) – al nobile fine di aiutare i nuovi poveri (specie quelli importati in massa) – verrà con ogni probabilità sacrificato sugli altari del rigore europeista anche il reddito e il patrimonio dell’elettore di sinistra. Sventolando la bandiera nobile della solidarietà e dei sacri principi unionisti verrà infatti il momento del rigore anche – nell’ordine – per i pensionati a basso reddito, per i lavoratori della grande impresa e, come gran finale col botto, per la grande parte degli impiegati pubblici (con l’unica eccezione di deep state e magistratura). Si tratta solo di aspettare che – con l’aiuto di qualche bella tassa patrimoniale e/o successoria – vengano prosciugati i risparmi di chi ancora era riuscito a mettere qualcosa da parte. A quel punto inizieranno a piangere anche le categorie che ora si credono al sicuro.
Curare un anemico con i salassi, prima di ammazzarlo …. lo fa arrabbiare.
Basta guardare ai dati macroeconomici (andamento del PIL, consumi e bilancia commerciale) per capire che è bastato un decennio scarso di europeismo “alla piddina” per presentare un conto salatissimo alla maggioranza dei cittadini italiani. Da Monti in poi è infatti proseguita (peggiorando) la tendenza alla decrescita economica nazionale (qui stiamo parlando di tredici trimestri consecutivi di recessione, dunque di una serie storica negativa che non si è avuta neppure durante il secondo conflitto mondiale). Questa crisi è stata causata da una caduta della domanda interna, ampiamente prevista (e anzi voluta) proprio in attuazione dell’agenda rigorista e deflattiva europea, che a sua volta ha innescato l’erosione del risparmio dei cittadini e del tenore di vita medio dei cittadini.
La situazione ha colpito anzitutto i giovani, specie quelli senza titolo di studio, i quali (anche per effetto della concorrenza del già citato esercito industriale di riserva importato dall’estero) si sono trovati a dover accettare lavori sempre più precarizzati e sottopagati senza poter in compenso più contare, come un tempo, sul contributo “start up” garantito dei risparmi e dalle seconde case dei genitori. Erosione del risparmio famigliare e lavoro giovanile sottopagato e reso sempre più precario hanno avuto come conseguenza anche la scomparsa di quell’ascensore sociale intergenerazionale ed interclassista che rappresentava uno dei tratti peculiari – e uno dei punti di forza nonché di coesione ideologica e culturale – della società italiana della prima e, in parte, anche della seconda repubblica. Genitori che lavoravano e risparmiavano non solo per mantenersi ma anche per garantire gli studi e un futuro migliore ai propri figli era infatti la regola d’oro che ha fatto sviluppare in armonia ed equilibrio il paese per decenni. Ora è solo un bel ricordo: tutti sono stati messi contro tutti, genitori e figli inclusi.
L’erosione di reddito e patrimonio del ceto medio e la compressione delle dinamiche salariali ha mandato ancora più in crisi la domanda interna, con pesanti ricadute su numerose imprese – specie nei settori del commercio al dettaglio e del piccolo manifatturiero – che pure in passato avevano operato con estremo successo. Le imprese sono dunque state costrette ad aprirsi ai capitali stranieri (che spesso ne acquisivano il controllo, tagliando l’occupazione in Italia e spostando gli utili all’estero) o ad attuare processi di delocalizzazione della produzione in paesi emergenti, contribuendo alla crisi occupazionale nazionale che – in una spirale perversa – alimentava uleriormente la deflazione. Gli italiani hanno ricominciato a emigrare a decine di migliaia in cerca di lavoro, con l’aggravante che, questa volta, a emigrare – in quota ben più consistente rispetto al passato – ormai erano anche i cosiddetti “cervelli”, vale a dire lavoratori e professionisti su cui il sistema economico italiano aveva già investito ingenti risorse (private e pubbliche) in formazione, ma della cui alta professionalità finiscono per beneficiare economie straniere.
Il mercato dei beni di consumo, in compenso, ha visto una sempre maggiore presenza di prodotti (e di grandi distributori) stranieri nonché l’ingresso sulla piazza italiana di prestatori di servizi finanziari stranieri, che hanno via via soppiantato gli operatori nazionali, specie quelle di piccole dimensioni. La crisi economica e l’erosione dei risparmi ha infatti provocato un sempre più frequente ricorso degli italiani al credito al consumo, che però – in presenza di una crisi occupazionale crescente e di deflazione della domanda interna – ha finito per tradursi in estese sofferenze bancarie che hanno indotto, anche per effetto delle normative unioniste (improntate anche in questo caso al rigore e all’impossibilità di aiuti pubblici), le banche a chiudere i cordoni della borsa.
In tal modo la crisi economica è divenuta anche una crisi nazionale del credito. I finanziamenti alle imprese sono dunque sì stati concessi dalle banche a tassi assai più bassi rispetto al passato, ma si sono sempre più concentrati verso le grandi imprese – che forniscono garanzie maggiori – laddove le piccole e medie imprese hanno dovuto affrontare un significativo credit crunch. I dissesti bancari nazionali – per effetto dei regolamenti di Basilea e delle norme sul cosiddetto bail in – sono stati scaricati sui risparmiatori (ma solo dopo che le banche dei paesi del nord erano già state salvate con bail out finanziati con soldi pubblici). Anche la politica di gestione dei crediti deteriorati imposta dall’UE ha finito per penalizzare gli operatori finaziari nazionali.
L’ingresso di capitali stranieri sotto forma di finanziamenti di venture capuital alle imprese o di prestiti da banche straniere, che nel breve periodo era stato dipinto come la panacea di tutti i mali, iniziava a mostrare il suo lato oscuro dopo qualche anno, quando cioè quei capitali hanno iniziato a tornare all’estero sotto forma di utili e/o di restituzione del capitale con gli interessi.
Giusto per dare il colpo di grazia al sistema, sono stati messi in campo diversi tentativi – per ora falliti – di introdurre, oltre all’IMU e alle tasse locali sulla casa e ai bolli sui conti correnti, ulteriori forme di imposizione fiscale patrimoniale anche su ricchezze di media consistenza, mentre la tassazione sulle rendite finanziarie – per cifre rilevanti – viene mantenuta stabilmente inferiore a quella sul reddito. Anche l’IVA è stata aumentata, con effetto depressivo sui consumi. Insomma, è davvero difficile negare che i governi da Monti a Renzi hanno fatto un po’ tutto quel era in loro potere per distruggere il tenore di vita della parte più attiva e produttiva del paese.
Il concorrere di questi fattori ha ovviamente aumentato le disuguaglianze rispetto al passato: in Italia stiamo assistendo a un aumento della ricchezza dei più agiati, dei rentier e dei manager apicali delle grandi imprese, con caduta in povertà (se non vera e propria riproletarizzazione) del ceto medio basso e significativa riduzione delle disponibilità economiche e del tenore di vita del ceto medio propriamente detto, con l’unica eccezione dei dipendenti pubblici e, ma solo in parte, dei pensionati. Si noti peraltro che le disuguaglianze causate dalle politiche europeiste del PD vengono usate da questo stesso partito per aizzare anche i nuovi poveri contro il ceto medio. In sintesi: per lasciare intatti (anzi aumentare) i benefici dei primi, il PD prima ha allargato la platea degli ultimi, e ora vorrebbe aizzare i “nuovi ultimi” contro i penultimi, in modo da usare i soldi dei penultimi per favorire ancora di più i primi. Gramsci si sta ovviamente rivoltando nella tomba.
Questa essendo la situazione del paese, non deve allora stupire più di tanto che – dopo un pochi anni di governi ultra europeisti a trazione PD – abbiano acquisito un forte consenso nel paese movimenti di opposizione e protesta che – manifestando posizioni “antisistema” più o meno radicali – si sono fatti appunto interpreti degli interessi di questi ultimi e penultimi, ossia – da un lato – della parte di ceto medio produttivo vessato di continuo dalle politiche del “nuovo” centro-sinistra e – dall’altro lato – di tutte quante le varie altre “vittime sacrificali” dell’adeguamento forzato del nostro paese al rigore mercantilista della dottrina Euro-Hartz. E’ proprio su questi presupposti sociali ed economici che nel vecchio continente inizia – non solo in Italia (ma in particolare in Italia) – una nuova fase politica differente rispetto alla seconda repubblica – ed attualmente ancora in corso – che vede progressivamente emergere una nuova dialettica storica tra movimenti “europeisti” (ed “elitisti”) e movimenti “sovranisti” (e “populisti”). Proprio di questa nuova fase – e dei suoi possibili sviluppi futuri – avremo però modo di parlare nell’ultima parte di questo scritto, che dovrebbe essere pubblicata sempre sul sito della fondazione Hume nei prossimi mesi.