Che cosa ci sarà dentro il “contratto”?
C’è voluta la minaccia dell’ennesimo governo tecnico, avulso dal voto popolare, prevedibilmente bocciato in Parlamento, e dunque foriero di nuove elezioni, per stanare Salvini e Di Maio, e convincerli a tornare al dialogo per stringere un patto di governo. Salvo imprevisti, domani sera ci diranno che l’accordo c’è, che si sta discutendo dei nomi dei ministri (una volta si parlava di “poltrone”), e che, finalmente, la Terza Repubblica, espressione della volontà popolare, può cominciare.
Vi è anche del vero, in fondo, in questa rappresentazione della realtà politica: effettivamente l’alleanza Lega-Cinque Stelle è l’unica formula (a parte ovviamente quella del “governo di tutti”) che ha qualche possibilità di non spaccare il Paese in due. Se fosse nato un governo Pd-Cinque Stelle, sarebbe stato percepito come un governo contro il Nord; se, viceversa, fosse nato un governo di centro-destra, magari con l’appoggio esterno di una parte del Pd, sarebbe stato percepito come un governo contro il Sud. Quel che avremo sarà, invece, un governo che cerca di rappresentare le componenti più arrabbiate del Nord e del Sud e, semmai, rischia di trascurare gli interessi e i valori del Centro, o meglio di quelle che un tempo venivano denominate “regioni rosse”, da sempre (e tuttora) inclini a dare il loro consenso al maggior partito della sinistra, ora all’opposizione senza se senza ma.
Ma che cosa ci si può aspettare, concretamente, da un simile, inedito governo giallo-verde?
In parte lo ha già confessato uno dei suoi esponenti, che un paio di giorni fa a “Porta a Porta” è riuscito nell’impresa di eludere quasi tutte le numerosissime domande che gli sono state rivolte sul futuro governo e sui suoi programmi. Le uniche vere risposte che ho ascoltato sono due. La prima è che nel contratto di governo sarà inclusa una nuova legge sul conflitto di interessi. La seconda è che le promesse saranno diluite nel tempo: nessuno si illuda di poter accedere al reddito di cittadinanza, o beneficiare della flat tax, fin da subito; per attuare i punti del contratto sarà necessaria un’intera legislatura.
Il primo punto, dunque, pare essere questo: il nuovo governo si muoverà con i piedi di piombo, cercando di somministrare dosi omeopatiche di quanto promesso. I punti centrali individuati nei giorni scorsi sono quattro: reddito di cittadinanza, flat tax, legge Fornero, criminalità & immigrazione (viste come un binomio inscindibile). Difficile prevedere in che cosa, nei prossimi mesi, questi titoli verranno tradotti. Personalmente tendo a pensare che vedremo un certo numero di “assaggini”: un piccolo aumento dei fondi per il reddito minimo, ora chiaramente insufficienti; un po’ di nuove assunzioni nei centri per l’impiego, oggi disorganizzati e inefficaci; un ritocco a qualche tassa, ad esempio Irap o Ires; un piccolo restyling della legge Fornero, magari condito con un accenno di faccia feroce sulle cosiddette pensioni d’oro.
Ma i nodi veri, quelli che daranno del filo da torcere al nuovo esecutivo, mi pare che saranno essenzialmente due: immigrazione irregolare e aumento dell’Iva.
L’immigrazione costituirà un problema innanzitutto per una ragione banale: il nuovo governo si insedierà, e muoverà i primi passi, nel pieno della stagione degli sbarchi. Naturalmente nessuno crede sul serio che Salvini manterrà la promessa di rispedire in Africa e in Medio Oriente qualche centinaio di migliaia di irregolari già presenti sul suolo italiano. Ma di questo nessuno si stupirà più di tanto. Quello che invece molti elettori si aspettano è che cessino, o si riducano drasticamente, gli sbarchi più o meno pilotati dalle Ong (organizzazioni non governative). Su questo il nuovo governo non può permettersi di fallire, se non altro perché la stampa di destra, con Forza Italia relegata all’opposizione, non farà sconti.
Il secondo nodo è l’aumento automatico dell’Iva nel 2019, attualmente previsto dalle clausole di salvaguardia. Questo punto è cruciale perché, da solo, l’obiettivo di impedire l’aumento dell’Iva costa più di 12 miliardi nel 2019 e quasi 20 l’anno successivo: in media un punto di Pil all’anno. Tenuto conto che altre nuove spese incombono, e un po’ di regalie post-elettorali saranno inevitabili, questo significa che, anche rinunciando a mantenere subito la maggior parte delle roboanti promesse della campagna elettorale, il nuovo esecutivo dovrà trovare piuttosto alla svelta almeno una ventina di miliardi.
Dove li troverà?
Difficilmente, temo, sarà capace di trovarli nell’unica direzione sensata, ovvero in una spending review, per la quale occorrono tempo e coraggio, due risorse notoriamente scarse. Più verosimile è che le risorse che mancano vengano trovate soprattutto grazie a due mosse audaci, per la verità anch’esse annunciate in campagna elettorale. La prima è la cosiddetta “pace fiscale” di Salvini, una sanatoria che consenta a milioni di contribuenti di chiudere i loro contenziosi con il fisco pagando una frazione molto bassa degli importi dovuti. Un provvedimento che, anche trascurando ogni considerazione etica sull’ennesimo condono, avrebbe il grave limite di essere una tantum, ovvero capace di tappare una falla oggi, ma non di assicurare una fonte di entrate permanente.
La seconda mossa è il ripudio di fatto degli obiettivi di bilancio concordati con l’Europa (ulteriore riduzione del deficit pubblico), e il ricorso a nuovo deficit fino alla soglia massima del 3%. Questa mossa, che in queste ore viene mitigata con un fiume di parole di rassicurazione verso l’Europa, potrebbe dispiegarsi pienamente soprattutto nella primavera prossima, in piena campagna per le elezioni europee, allorché – accanto alla necessità di evitare l’aumento automatico dell’Iva nel biennio 2019-2020 – per il nuovo governo si porrà il problema di inserire nel Def le due promesse-chiave, reddito di cittadinanza e flat tax. Con quali conseguenze?
Nella migliore delle ipotesi, la rinuncia al rispetto del percorso di risanamento dei conti pubblici finirà per aggravare il fardello che già pesa sulle generazioni future. Nella peggiore, invece, più che produrre sanzioni temibili, che ormai l’Europa ha mostrato di non essere in grado di comminare, provocherà un risveglio dei mercati finanziari, sotto forma di un aumento dei tassi di interesse dei titoli di Stato decennali, ovvero un allargamento del famigerato spread con i titoli tedeschi. Un’eventualità che nessuno si augura, ma che nessuno può escludere.