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8 marzo e dintorni – Femminismi

12 Marzo 2025 - di Luca Ricolfi

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Ormai è chiaro: il concetto di femminismo – sostantivo maschile singolare – è obsoleto. Me ne sono reso conto, da tempo, sentendo donne che la pensano diversamente fra loro su tutto rivendicare orgogliosamente il loro essere femministe.  Ma ne ho avuto la certezza sabato scorso – 8 marzo, festa della donna – partecipando a un convegno femminista presso la fondazione Einaudi di Roma, significativamente intitolato: “I femminismi di fronte alla cultura woke”. Avete letto bene: “i femminismi”, plurale, non le correnti, o le tendenze, o le tradizioni del “femminismo”, singolare.

Insieme a Edoardo Albinati, ero l’unico relatore maschio, ed ero lì – credo – per il mio essermi occupato di cultura woke in alcuni libri recenti (ultimo Il follemente corretto). Ho ascoltato con interesse tutte le relazioni, tenute da relatrici diverse per età, orientamento politico, sensibilità, ma tutte accomunate – mi sembra – soprattutto da due cose: un profondo rispetto delle rispettive posizioni, e il rifiuto del settarismo del cosiddetto transfemminismo, o femminismo intersezionale.

Introdotto e concluso rispettivamente da Lucetta Scaraffia e Paola Concia, il convegno  ha offerto spunti di grande interesse, ma la relazione che più mi ha colpito è quella tenuta da Claudia Mancina. Il titolo era: “Il sette ottobre e le donne ebree: il femminismo che si volta dall’altra parte”. Il riferimento era, chiaramente, alla manifestazione, di oltre un anno fa, in cui le femministe di Non Una Di Meno non solo – nella piattaforma politica – si erano guardate dal menzionare le donne vittima dell’eccidio di Hamas, ma avevano impedito di manifestare a una ragazza che provava a ricordare quello scempio.

Ne è venuta fuori la migliore spiegazione che mi sia capitato di ascoltare di come funzioni il femminismo intersezionale. Nato nel 1989 da un’idea semplice e del tutto condivisibile della giurista Kimberlé Crenshaw, il femminismo intersezionale (o transfemminismo) ne ha fortemente tradito l’ispirazione originaria, e oggi si caratterizza per tre tratti fondamentali. Primo, privilegia i diritti delle persone transessuali rispetto a quelli delle persone omosessuali (gay e lesbiche). Secondo, conduce una polemica durissima nei confronti delle femministe radicali, o femministe della differenza, accusate di omofobia e bollate con l’etichetta TERF (Trans-Exclusionary Radical Feminist) per la loro difesa dei diritti basati sul sesso biologico. Terzo, pretende di definire la condizione di chiunque, e in particolare delle donne, specificando quale intersezione di condizioni di oppressione lo caratterizza. Al top la donna nera, lesbica o transessuale, povera, nata in un paese del terzo mondo, meglio se sfruttato e colonizzato. Al fondo la donna bianca, eterosessuale, benestante, nata in un paese occidentale colonialista, o con un passato di potenza coloniale.

È chiaro che, in questo schema, una volta identificato Israele come il paese che sfrutta i palestinesi e ha colonizzato le loro terre, la maggior parte delle ragazze rapite al rave party del 7 ottobre non si trovano all’intersezione di un numero sufficiente di condizioni di oppressione. Anzi, a parte il loro essere donne, non possono vantarne nemmeno una.

Qui però Claudia Mancina ha fatto una mossa cruciale, suggerendo una lettura dell’intersezionalismo secondo me assolutamente rigorosa ma mai messa pienamente a fuoco, nemmeno dai suoi critici più severi. Quando si dice che la donna bianca-occidentale-benestante-israeliana non ha abbastanza condizioni di oppressione per meritare una tutela, si omette il vero retro-pensiero tipico delle dottrine woke, e cioè che la donna bianca-occidentale-benestante-israeliana è essa stessa, in qualche modo, colpevole di oppressione, in quanto co-responsabile dei misfatti di cui bianchi, occidentali, ricchi, ebrei sono o sono stati autori.

Nella visione paranoica della cultura woke, e segnatamente nella cosiddetta Critical Race Theory, la responsabilità non è semplicemente personale, ma anche collettiva. E non è limitata al presente, ma si allarga pure al passato. Una donna può trovarsi così a dover rendere conto non solo di ciò che fa personalmente, ma di quello che fanno gli appartenenti alla categoria cui lei appartiene, e addirittura di quello che hanno fatto in passato. È precisamente per questo motivo che le donne israeliane vittime di Hamas agli occhi delle femministe di Non Una Di Meno non meritano neanche un briciolo di solidarietà: il loro essere donne oppresse è sovrastato dalle colpe delle categorie di cui si trovano all’intersezione.

Ecco perché dicevo all’inizio che il concetto di “femminismo” è obsoleto. Mentre noi discutevamo con curiosità reciproca i vari femminismi possibili, nelle strade di Roma (e di altre città italiane) le transfemministe di Non Una Di Meno, le stesse che dopo il 7 ottobre non avevano voluto ricordare le donne israeliane violentate da Hamas, bruciavano immagini di Giorgia Meloni e Von der Leyen, esibivano impronte di vernice rossa sulle immagini di ministri e politici (compresa Elly Schlein), attaccavano il disegno di legge sul femminicidio, rifiutavano ogni dialogo con le istituzioni. A conferma del fatto, ben evocato dal titolo del nostro incontro, che ormai il femminismo come tale non esiste più: al massimo esistono i femminismi. E di almeno uno è il caso di chiedersi: ma è ancora femminismo se alle donne israeliane uccise e violentate da Hamas si nega ogni compassione, rispetto, e persino memoria?

[articolo uscito sulla Ragione l’11 marzo 2025]

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Luca Ricolfi
Luca Ricolfi
Torino, 04 maggio 1950 Sociologo, insegna Analisi dei dati presso l'Università di Torino.
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8 marzo e dintorni – Femminismi