Gaza, fake numbers?
C’è una cosa che, con il passare dei mesi, sempre più mi stupisce riguardo alla guerra di Gaza (ma anche alla guerra in Ucraina): il disinteresse della maggior parte della stampa, e ancor più delle tv, per i numeri della guerra. Sembra che le uniche cose importanti siano le dichiarazioni dei protagonisti (cioè la propaganda), le indiscrezioni (per lo più inattendibili), e i reportage su quel che accade a una delle due parti in conflitto (i Palestinesi). Come se lo scopo fosse solo di eccitare gli animi di chi parteggia per una delle due parti, e muovere a pietà la maggioranza dei cittadini-telespettatori.
Ma siamo sicuri che informare significhi solo questo? Siamo sicuri che non significhi anche raccontare che cosa veramente succede sul campo, e a che punto è la guerra rispetto agli obiettivi delle due parti in conflitto?
Faccio due esempi.
Primo esempio. Le cifre riportate dai media sono quasi sempre, e quasi esclusivamente, quelle fornite dai terroristi, rivestite di autorevolezza attribuendone l’origine al “ministero della Sanità” di Hamas. Su queste cifre (30 mila morti dall’inizio della guerra), e sulla loro disaggregazione in donne, bambini, anziani eccetera, non vi è il minimo controllo critico.
Naturalmente, di fronte alla richiesta di cifre vere sul numero di civili palestinesi uccisi, si può obiettare che 10, 20 o 30 mila sono sempre tantissimi, troppi, e quindi è inutile cercare di verificare (ma che cosa penseremmo se, dopo un grave incidente di lavoro in un cantiere, ci dicessero che sono morti 10-30 operai, e che è inutile sottilizzare sul numero esatto?).
Secondo esempio. Israele afferma di voler smantellare Hamas. Ma, se è così, non sarebbe essenziale avere qualche informazione sulle forze in campo, e sui risultati militari della guerra in corso? Quanti sono i miliziani di Hamas, e quanti ne sono stati uccisi finora? Quanti soldati ha Israele dentro Gaza, e quanti ne ha già persi?
A leggere i giornali e ad ascoltare radio e tv, sembra che i morti – oltre ad essere tantissimi – siano tutti civili, quasi che l’obiettivo dell’esercito israeliano sia lo sterminio della popolazione di Gaza e non l’eliminazione della rete terroristica di Hamas. Nessuno stupore che, con un’informazione così, attivisti e cantanti si sentano autorizzati a chiedere di “fermare il genocidio”, e un sondaggio di Renato Mannheimer riveli che oltre il 60% dell’opinione pubblica chiede a Israele di ritirarsi senza porre condizioni sul rilascio degli ostaggi.
In realtà, la vera domanda è un’altra: il compito dell’informazione è solo di sensibilizzare l’opinione pubblica sull’entità e la gravità della tragedia in atto (nel qual caso basterebbe dire: decine di migliaia di morti), o è anche quello di fornire un quadro preciso dei fatti, come succede quando c’è un disastro in un cantiere, o un naufragio in mare, e si cerca di capire non solo quanti hanno perso la vita ma anche come sono andate le cose?
È proprio perché queste perplessità mi inseguono da un bel po’, che ho appreso con sollievo che, almeno nel mondo anglosassone, c’è anche chi le domande-base se le fa. Un rapporto dello statistico Abraham Wyner, della Università della Pennsylvania, ha sottoposto a una analisi statistica i dati giornalieri dei morti di Hamas, disaggregati fra bambini, donne e maschi. Ho letto il suo report, e concordo sulle conclusioni, anche se non su tutti i dettagli: ci sono troppe anomalie matematico-statistiche nell’andamento giornaliero per non pensare che le cifre siano altamente inquinate.
Ma la conclusione più importante non è la stima del numero di civili morti (compresa fra 10 e 20 mila), ma la risposta alla domanda che facevo all’inizio, ossia quanti sono i miliziani di Hamas già eliminati sul totale dei miliziani. Mettendo insieme notizie di Hamas e di Israele sul numero di miliziani uccisi, si può azzardare che tale numero sia vicino a 10 mila, su un totale di 30 mila combattenti. Questo significa che, dopo soli 4 mesi, Israele – cha finora ha perso circa 600 soldati – è grosso modo a 1/3 della missione che si è prefissa, ossia molto avanti. Il che, forse, ci permette di capire meglio perché il suo esercito non si vuole fermare: un cessate il fuoco comprometterebbe un obiettivo che, ormai, appare a portata di mano. Ma anche di capire che, verosimilmente, la guerra potrebbe durare ancora qualche mese, non anni come quella in Ucraina.
Forse, più che illuderci su un imminente cessate il fuoco, varrebbe la pena cominciare a pensare anche al dopo. La popolazione civile di Gaza non ha solo bisogno di aiuti umanitari e sostegno morale, ma di piani realistici e generosi per quando – finalmente – tornerà la pace, e la vita riprenderà a scorrere sulla “Striscia”.
[uscito sul quotidiano La Ragione il 12 marzo 2024]