Tutti i padri del Pil orfano della logica
È di pochi giorni fa la notizia, comunicata dall’Istituto centrale di statistica, che la velocità di crescita del Pil, calcolata fra il 2° trimestre 2017 e il 2° trimestre 2016, avrebbe toccato l’esaltante tasso dell’1.5%, un valore più alto di quelli fin qui previsti dal governo, dalla commissione Europea, dalla Banca d’Italia, dalla Confindustria, dall’Ocse, dal Fondo Monetario Internazionale.
Su questa notizia si sono immediatamente lanciati, con un balzo felino, i politici del governo attuale e quelli del governo precedente, peraltro in molti casi le medesime persone. Il più giulivo (e prolisso) è apparso Renzi, che con il suo tipico linguaggio-telegramma scrive: “Il tempo è galantuomo: basta saper aspettare. Oggi i dati Istat dicono che la strategia di questi anni produce risultati. Flessibilità, non austerity. Giù le tasse a ceto medio e imprese che investono. Scommettere sulla crescita, non sul declino. I risultati arrivano, il tempo è davvero galantuomo. Oggi sarebbe facile domandarsi: chi aveva ragione ad alzare la voce in Europa e a combattere per la flessibilità? Sarebbe facile, ma non servirebbe a nulla. I millegiorni hanno rimesso in moto l’Italia, ma noi vogliamo correre. Perché questo Paese ha tutto per farcela. Non ci serve che ci diano ragione per il passato, ci serve che ci diano ascolto per il futuro. Noi ci siamo”
Più concisa Maria Elena Boschi, che constata: “Con i governi di prima il Pil era -2%. Oggi il Pil cresce più del previsto. Avanti, insieme”.
E’ giustificato tanto entusiasmo?
Sì e no.
Sì, perché ovviamente è meglio crescere dell’1.5% che dell’1%. Ma soprattutto perché, rispetto a qualche anno fa, la situazione dei bilanci familiari è effettivamente migliorata, e di molto: quando Renzi ha preso le redini del governo, disarcionando Enrico Letta, le famiglie che non arrivano alla fine del mese erano il 30%, oggi sono esattamente la metà, più o meno quante erano prima della crisi (mi sono sempre chiesto perché questo dato, così favorevole all’esecutivo, non venga mai citato dai lodatori del renzismo).
No, perché basta un rapido confronto con gli altri paesi europei per rendersi conto che andiamo malissimo. Il nostro tasso di crescita resta fra i più bassi in Europa e, per la prima volta dacché esistono statistiche del lavoro, l’Italia risulta il paese europeo con il tasso di occupazione più basso, un primato che il nostro Paese ha conquistato precisamente a conclusione del triennio renziano.
Ma lasciamo da parte il gioco del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, che ognuno gioca a modo suo. E lasciamo anche da parte la ridicola pretesa dei governanti di stabilire nessi causali, come se non sapessero (ma forse davvero non lo sanno), che là dove loro enunciano certezze gli specialisti di “Analisi delle politiche pubbliche” (così si chiama la disciplina che si occupa di stabilire se una politica pubblica produce o no i risultati che vuole raggiungere) quasi sempre sono costretti a riconoscere, mestamente, che non ci sono abbastanza dati per stabilire se una certa politica ha prodotto certi effetti oppure no.
Quel che trovo davvero interessante nelle chiacchiere sul Pil è che, non solo in questa occasione, ma quasi sempre e quasi universalmente, le previsioni dei centri studi più accreditati non si realizzano. E questo non solo, come è comprensibile, quando si tratta di prevedere quanto crescerà un paese l’anno prossimo, o fra due anni, o fra tre, ma persino quando si tratta di prevedere quanto un paese crescerà nell’anno in corso. Una volta mi sono divertito a confrontare i tassi di crescita previsti dai (presumo sofisticati) modelli econometrici degli organismi internazionali con le previsioni di quello che mi piace chiamare il “modello econometrico dell’uomo della strada”, ossia un modello che dicesse semplicemente: nell’anno t+1 ogni paese crescerà più o meno come è cresciuto nell’anno t. Ebbene, le previsioni di un tale, ultra-semplicistico, modello non erano né migliori né peggiori di quelle ufficiali, a conferma che nessuno è in grado di fare previsioni affidabili. Del resto, come si fa a non restare sconcertati quando, in un mondo in cui la crescita è molto bassa, in pochi mesi si passa da una previsione dello 0.8% a una previsione dell’1.5%?
Su questo, forse, non sarebbe male che il mondo dell’informazione facesse un po’ di autocritica. Che un paese vada meglio delle previsioni non è, di per sé, una buona notizia, come non lo è che vada peggio. Se la Cina cresce del 6% anziché del 7% previsto dagli esperti non vuol dire che l’economia cinese vada male. E se un paese come la Grecia cresce dello 0.2 in più rispetto alle previsioni degli esperti non vuol dire che la sua economia sia in salute. Che l’ottimismo e il pessimismo sullo stato di un’economia siano regolati dagli scostamenti, positivi o negativi, rispetto alle previsioni degli esperti è semplicemente illogico. Se un paese va meglio del previsto, la vera notizia non è che l’economia del paese funziona, ma che le previsioni erano sbagliate, come quasi sempre accade.
Per dire che un paese va bene o va male la prima regola è confrontare l’andamento dei suoi “numeri” – reddito, occupazione, debito pubblico, esportazioni – con quelli degli altri paesi. Una regola che, guarda caso, nessun uomo di governo italiano si azzarda a seguire.
Pubblicato su Panorama il 24 agosto 2017