L’equo compenso degli avvocati tra innovazione e logica dello struzzo
Se c’è un modello di lavoro che, a partire dalla sua organizzazione, non funziona ed è contro la concorrenza e la modernizzazione è quello degli ordini professionali ed in particolare degli studi legali. Il settore è in una crisi drammatica, accentuata dalla pandemia e dalla cronica inefficienza dei tribunali e della macchina della giustizia in genere. E’ ormai un dato di fatto la perdurante difficoltà economica in cui si trova la gran parte degli avvocati nel nostro Paese ed il livellamento verso il basso delle prestazioni fornite ad imprese e privati.
E’ d’altra parte noto come l’Italia abbia il maggior numero assoluto di avvocati di tutta Europa, ed il quarto in rapporto alla popolazione (dopo Lussemburgo, Cipro e la Grecia). Come evidenziato su Il Foglio del 3 agosto scorso, nel nostro Paese ci sono 388 avvocati ogni 100 mila abitanti, in Spagna 300 ed in Francia 100. All’estremo opposto la Svezia ha 60 avvocati ogni 100 mila abitanti. A tale dato corrispondono purtroppo numeri record riguardo alla spropositata mole del contenzioso in giudizio e alla lentezza dei processi. È una realtà che gli organismi di categoria, drammaticamente autoreferenziali, tentano di minimizzare. L’ultimo rapporto Censis sull’avvocatura del 2021 rivela inoltre una distribuzione geografica che non corrisponde al Pil prodotto: il 45% degli avvocati sono al Sud e nelle isole, il 33 al Nord, il 22 al Centro. Il 38% dei legali ha poi tra i 40 e i 50 anni, il reddito medio è 40.000 euro lordi, e benché le donne siano leggermente prevalenti un avvocato uomo guadagna decisamente di più: 54.500 euro, 57.600 al Nord. Il reddito medio delle donne è 25.000 euro. Fra 30 e 34 anni un avvocato guadagna in media 16.500 euro (con i quali non si paga un mutuo né si investe sull’istruzione dei figli), a 44 anni raggiunge i 30.000, per superare i 50.000 deve avere 50 anni e oltre. Diamo pure per scontato che a fronte di questi ricavi così modesti si nasconda una certa quota di evasione (secondo le elaborazioni statistiche del Censis il 52% delle entrate proviene da persone fisiche e in quella tipologia di rapporti il nero è più diffuso). Ma la situazione è drammatica.
Al consistente incremento numerico dei legali registrato negli ultimi decenni non corrisponde un miglioramento in termini di qualità dei servizi resi: mentre secondo il Censis “la maggior parte si occupa di cause civili e molte riguardano controversie stradali e sinistri assicurativi”, gli avvocati esperti in diritto internazionale, comunitario, in materie quali copyright e nuove tecnologie scarseggiano, così come gli investimenti. Secondo l’Osservatorio professioni e innovazione digitale del Politecnico di Milano il 66% degli studi nel 2019 e 2020 ha investito in tecnologie meno di 3.000 euro, il costo di due pc.
A fronte di questa impietosa ricognizione, uno dei presunti rimedi escogitati è quello del ricorso al cd. equo compenso, ovvero la previsione di un compenso minimo per le prestazioni degli avvocati, corrispondente al decoro della professione e alla dignità del lavoro ex art. 36 Cost., svincolata dalle aberranti – così si aggiunge – logiche di mercato.
Di fatto, si tratta in un ripristino delle tariffe professionali, abrogate con il D.l. n. 1 del 2012 sulla scorta di ripetute indicazioni comunitarie. Già con il D.l. n. 148 del 2017 era stato inserito nella Legge professionale forense (L. n. 247/2012) l’art. 13 bis, “equo compenso e clausole vessatorie”. Il così modificato art. 13 bis disciplina i rapporti professionali tra avvocati iscritti all’albo, da un lato, ed enti bancari e assicurativi e “imprese non rientranti nelle categorie delle microimprese o delle piccole o medie imprese” dall’altro. Di lì a poco (e precisamente con la Legge di Bilancio 2018) tale disciplina è stata estesa “anche alle prestazioni rese dai professionisti di cui all’articolo 1 della legge 22 maggio 2017, n. 81, anche iscritti agli ordini e collegi”, vale a dire a tutti i lavoratori autonomi non imprenditori. Ed è stata aggiunta la generica previsione per cui “la pubblica amministrazione (…) garantisce il principio dell’equo compenso in relazione alle prestazioni rese dai professionisti”.
La proposta di legge n. 3179 di cui si discute in queste settimane (nota anche come proposta Meloni) si inserisce in questo solco, avendo come obiettivo quello di ampliare ancora di più l’ambito di applicazione della disciplina di cui si è detto. In particolare, i punti salienti della riforma sono i seguenti: – viene esteso il novero dei soggetti in (presunta) posizione dominante, a cui si applica il regime delle clausole vessatorie (“imprese bancarie e assicurative” nonché “imprese che nel triennio precedente al conferimento dell’incarico hanno occupato alle proprie dipendenze più di sessanta lavoratori o hanno presentato ricavi annui superiori a 10 milioni di euro”). Inoltre, per la prima volta, le disposizioni sull’equo compenso si applicherebbero espressamente anche alle prestazioni rese alle pubbliche amministrazioni (ma anche alle società controllate?) ed agli agenti della riscossione; – la disciplina sarebbe simbolicamente inserita nell’art. 2233 del codice civile; – viene valorizzato il meccanismo della cd. “taratura della parcella” da parte degli ordini professionali al fine di procedere esecutivamente nei confronti dei clienti che non pagano i compensi richiesti.
Vista la portata applicativa, estremamente ampia, che hanno queste previsioni, viene da chiedersi in che misura siano compatibili con la normativa comunitaria. Di fatto, l’introduzione generalizzata nell’ambito del codice civile dell’istituto dell’”equo compenso” – in base al quale qualsiasi professionista può chiedere in giudizio che sia dichiarata la nullità di un corrispettivo inferiore ai minimi tariffari ed il suo ricalcolo in misura coerente con i parametri professionali – significa la re-introduzione nel nostro ordinamento delle tariffe obbligatorie. Tradizionalmente, le misure normative nazionali che introducono limiti minimi e/o massimi tariffari sono considerate dalla Corte di Giustizia europea come incisive della libertà di stabilimento di cui all’art. 49 TFUE e, in quanto tali, giustificabili soltanto in presenza di determinate e residuali condizioni.
Ma è la motivazione che sta alla base del disegno di legge che appare estremamente pericolosa: l’idea che la professione legale (così come quella delle altre professioni intellettuali e del lavoro autonomo) possa essere svolta al di fuori delle – normali – logiche di concorrenza ed efficienza, in nome di una supposta ontologica diversità (quando nel mondo c’è una sola parola che ricomprende le attività economiche, siano esse aziende o studi professionali: businesses).
Così come è sbagliata la diagnosi riguardo alla perdurante crisi degli studi legali in Italia. Il problema vero è che nel nostro Paese gli studi legali sono per lo più organizzati su base individuale e/o familiare e l’innovazione in termini di formazione e di organizzazione è drammaticamente bassa. Basti citare un esempio: nel mondo, le aziende provvedono a pagare i propri fornitori, inclusi consulenti e i legali, tramite piattaforme online: ebbene, in genere su detti portali non è previsto il dimensionamento di una law firm, di uno studio legale, inferiore a 15 unità. Nella mia città, Genova, si fa fatica a trovare un solo studio che annoveri più di 15 professionisti.
In realtà le due sfide principali per le professioni liberali sono – come osservato anche da Alessandro De Nicola su Repubblica del 30 agosto scorso – l’organizzazione e la tecnologia. L’incessante evoluzione tecnologica rischia di rendere superflue molte funzioni fino a ieri svolte dagli avvocati: montagne di documentazione nei contenziosi, contratti, ricerche di giurisprudenza e dottrina, adempimenti formali, rapporti con i clienti, tutto può essere in gran parte velocizzato. I responsabili dei dipartimenti legali delle più grandi aziende sono uniti, sondaggio dopo sondaggio, dalla comune convinzione che la tecnologia abbatterà i costi e migliorerà la performance. E attenzione, anche per chi ha persone fisiche o piccole aziende come clienti, sono già attivi siti che forniscono servizi legali standardizzati, di qualità e a costi ridotti. Non è detto che tutti gli studi cd. boutique o “artigianali” debbano sparire: vero è che la mancanza di dimensione impedisce la specializzazione, il dotarsi di nuove tecnologie, l’ottimizzazione dei costi, la formazione dei più giovani. L’intervento del legislatore, insomma, non salverà i partecipanti al mercato che non sapranno vincere le sfide dell’innovazione.
Semmai, potrebbero essere introdotti strumenti normativi e contrattuali nuovi per favorire le aggregazioni (si pensi ad un nuovo inquadramento per la figura del collaboratore di studio, che superi la risalente finzione per cui tutti i legali devono essere autonomi ed indipendenti anche quando di fatto prestano la loro attività – in assenza di tutele adeguate – a favore di un unico dominus). Nella stessa direzione, si potrebbe verificare con maggiore serenità la possibilità di introdurre soci di capitale nell’ambito degli studi, per favorire la propensione agli investimenti. Da un punto di vista più generale, l’introduzione di regimi fiscali privilegiati a forfait per i professionisti che rimangono sotto una certa soglia reddituale va nella direzione opposta a quella auspicabile, di incentivare le fusioni e le aggregazioni che sono funzionali allo svolgimento dell’attività professionale con maggiore qualità ed efficienza.
Insomma, bisogna raccogliere la sfida dell’innovazione: la logica dello struzzo non può funzionare.