Il “boom” dei prezzi e l’impatto del lockdown: l’Italia rischia ora la “tempesta perfetta”

Quando, poco più di un anno fa, l’epidemia cinese del SARS-CoV-2 è diventata una pandemia, in realtà per il nostro Paese temevo più gli impatti economico-sociali che non quelli sanitari, sebbene i primi tendano sempre a passare in secondo piano nelle valutazioni quantitative dei media, lasciando passare inconsciamente il messaggio che siano qualcosa di secondario, mentre così non è (non fosse altro perché impattano su una platea di persone di un paio di ordini di grandezza maggiore).Oggi è possibile capire molto meglio questo discorso. Quella che incombe sull’Italia è, infatti, la “tempesta perfetta”, combinazione tra: (1) effetti della pandemia sulle attività commerciali, (2) forte ascesa dei prezzi delle materie prime, dell’energia e dei trasporti che impatta su industrie e famiglie, e (3) ritardi nella campagna vaccinale italiana rispetto agli altri Paesi industrializzati, che rischiano di esacerbare ulteriormente gli effetti delle altre due componenti. Ciò aumenta di molto la fragilità rispetto a eventuali ulteriori “sorprese” negative e non di poco il rischio che la situazione possa degenerare sotto l’aspetto sociale e che si possa verificare, sul breve termine (12-24 mesi), un “cigno nero” con effetti sistemici che cambierebbe il corso della Storia. Per tali motivi, il rapporto rischio-beneficio dei lockdown sembra essere ormai pessimo.

L’aumento dei prezzi di materie prime, energia e trasporto merci

Rincari abnormi (quasi sempre a doppia cifra) e continui da mesi delle materie prime, irreperibilità dei materiali necessari per le lavorazioni e dei container per le esportazioni dei beni prodotti, allungamento dei tempi di consegna, aumento dei costi del trasporto: molte aziende manifatturiere italiane – dal Nord al Sud della penisola – stanno riscontrando tutte insieme queste criticità [15]. Anche i costi del petrolio, dei carburanti alla pompa e quello dell’energia sono in forte rialzo. Infine, a livello internazionale, i prezzi dei generi alimentari crescono da 9 mesi consecutivi, con il mais a tirare la volata [12].

La pandemia è stata accompagnata da significative interruzioni della catena di approvvigionamento che hanno causato molti diversi tipi di carenze che hanno afflitto il settore manifatturiero già durante i mesi invernali e che si stanno ora acuendo. Infatti, la rapida ripresa dell’economia globale iniziata alla fine della prima ondata è arrivata con una ripresa del commercio globale molto più rapida di quanto inizialmente previsto, e ciò non ha fatto altro che aumentare la richiesta di materie prime e di componenti. I risultati sono tempi di approvvigionamento più lunghi e prezzi di produzione aumentati.

Una delle principali interruzioni che incidono, ad esempio, sull’elettronica di consumo è rappresentata, al momento, dalla carenza di chip per computer. In parte a causa dello stesso problema che causa il picco della domanda di container – la rapida ripresa della domanda di beni (semi-)durevoli – la domanda di semiconduttori è aumentata rapidamente negli ultimi mesi, anche perché è supportata da altri fattori a lungo termine, come il lancio del 5G, che sta aumentando la domanda di nuovi telefoni cellulari e l’elettrificazione dei veicoli che aumenta la domanda di chip per computer.

Il rapido ritorno del commercio mondiale ha inoltre causato un aumento inaspettato della domanda di spedizioni e container già dopo la fine della prima ondata del coronavirus. Con le partenze a vuoto – cioè le partenze annullate delle navi merci – ancora elevate e con i container molto richiesti, i tempi di approvvigionamento sono aumentati, le scorte sono diminuite drasticamente e le tariffe di trasporto sono aumentate vertiginosamente dalla fine del 2020. L’indice dei costi di spedizione suggerisce un aumento del 200% dall’inizio della pandemia, circa un quarto del quale si è verificato quest’anno [1].

Sebbene non ci si aspetti che l’intero aumento dei costi delle materie prime e delle tariffe di trasporto venga trasferito al consumatore, esso dovrebbe avere comunque un effetto al rialzo sui prezzi al consumo, che ovviamente si concentreranno – oltre che sui costi dei carburanti e dell’energia – principalmente sul costo delle materie prime e delle merci importate, e in particolare di quelle che hanno costi di trasporto più alti. L’impatto sui prezzi alla produzione, per un Paese come l’Italia che dipende quasi totalmente dall’estero per materie prime e merci, potrebbe quindi essere presto notevole.

I prezzi delle materie prime hanno storicamente eseguito cicli che spesso si svolgono nel mondo di un determinato mercato – il prezzo del petrolio greggio, ad esempio, può aumentare mentre quello del mais crolla – ciascuno per ragioni separate. Ma cosa succede se un gruppo di materie prime si unisce alla festa nello stesso momento? Ciò è chiamato un “superciclo” delle materie prime e vari professionisti del mercato ritengono che un tale fenomeno stia accadendo ora [2, 14]. Ciò, non sarebbe una novità, poiché ciò è già successo dopo la SARS del 2003, culminando con la grande crisi finanziaria del 2008.

Andamento storico dell’indice dei prezzi delle materie prime (include sia carburanti che metalli e altri tipi di commodities). Si vede molto bene il “superciclo” iniziato proprio dopo l’epidemia di SARS del 2003 e culminato nel 2008, quando il petrolio (e altre materie prime) erano “alle stelle”, a seguito della grossa crisi bancaria innescata da quella dei mutui sub-prime, avvenuta nel 2007 negli Stati Uniti.

I dati, d’altra parte, sembrano parlare chiaro. Il rame e altri metalli industriali sono già aumentati enormemente di prezzo, così come i semi di soia. Pare che la crescente domanda globale di cibo, petrolio e metalli, così come la domanda di automobili e cibo in Cina, stiano guidando un nuovo superciclo che potrebbe durare nel tempo, con tutte le conseguenze del caso. Infatti, oggi non è necessario scambiare materie prime per trovare opportunità in un superciclo, ovvero per fare speculazione, ma ciò non fa altro che incrementare il problema, come avvenne già nel già citato periodo 2003-2008.

Dalla crisi dei mutui subprime alla Grande Recessione

Nel 2007, vi è stata la famosa crisi dei mutui subprime. A causarla sono stati gli hedge fund, le banche e le compagnie di assicurazione. Infatti, gli hedge fund e le banche hanno creato titoli garantiti da ipoteca. Le compagnie di assicurazione li hanno coperti con i cosiddetti “credit default swap” (CDS). E la domanda di mutui ha portato a una bolla patrimoniale nel settore immobiliare. Quando la Federal Reserve americana ha alzato il tasso sui fondi federali, ha fatto salire alle stelle i tassi di interesse sui mutui regolabili. Di conseguenza, i prezzi delle case sono crollati e i mutuatari sono andati in default [3].

I derivati – e alcuni dei prodotti derivati più complessi sono proprio i CDS all’origine alla crisi dei mutui subprime – diffondono il rischio in ogni angolo del globo, specie se sono “in pancia” alle banche. Ciò ha causato la crisi bancaria del 2007, la crisi finanziaria del 2008 (con il crollo dei mercati delle materie prime e azionario) e la cosiddetta “Grande Recessione”, la peggiore recessione dalla Grande Depressione, la grave crisi economica e finanziaria che sconvolse l’economia mondiale alla fine degli anni Venti, cui fece seguito il crollo della Borsa valori del 24 ottobre 1929, dopo anni di boom azionario.

In pratica, la crisi dei mutui subprime scoppiata nell’agosto 2007 si è trasformata in pochissimo tempo nel più grande shock finanziario dalla Grande Depressione, infliggendo gravi danni ai mercati e alle istituzioni al centro del sistema finanziario. Ma alla fine la crisi finanziaria ha iniziato ad avere gravi effetti sull’economia reale, portando il mondo in una profonda recessione. Dunque, i mutui subprime sono stati l’innesco di un incendio che si è poi propagato alle banche (come la Lehman Brothers, il più grande fallimento bancario della Storia), successivamente ai mercati finanziari e, infine, all’economia reale.

È però importante tornare indietro ed esaminare gli eventi che hanno portato alla crisi dei mutui subprime [4]. All’inizio del 2000, l’economia era a rischio di una profonda recessione dopo lo scoppio della bolla delle dotcom. Prima dello scoppio della bolla, le valutazioni delle società tecnologiche erano aumentate notevolmente, così come gli investimenti nel settore. Le società junior e le startup che non producevano ancora entrate stavano ottenendo denaro da venture capitalist e centinaia di aziende si quotarono in borsa. Questa situazione fu aggravata dagli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001.

Le banche centrali di tutto il mondo cercarono allora di stimolare l’economia come risposta. Creavano liquidità di capitali attraverso una riduzione dei tassi di interesse. A loro volta, gli investitori cercavano rendimenti più elevati attraverso investimenti più rischiosi. I prestatori si assumevano anche rischi maggiori, approvando prestiti ipotecari subprime a mutuatari con scarso credito, nessun patrimonio e, a volte, nessun reddito. Questi mutui sono stati riconfezionati dai prestatori in titoli garantiti da ipoteca e venduti agli investitori. Ciò ha portato alla bolla immobiliare, che dopo un po’ è scoppiata.

Nel frattempo, però, erano accadute anche altre cose che ci interessano molto da vicino. Dal novembre 2002 al luglio 2003, la SARS, una grave polmonite atipica di origine virale apparsa nel Guandgong (in Cina) produsse un’epidemia che causò 774 decessi in 17 Paesi, per un tasso di letalità finale (CFR) del 9,6%. Sebbene la SARS sia scoppiata nel novembre 2002, non iniziò a influenzare i mercati finanziari fino ad aprile 2003, quando l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) emise un avviso globale su questa nuova malattia. L’impatto negativo sulle borse cinesi (indice MSCI China) segnò quasi un -10%.

All’inizio dell’epidemia di SARS, il mercato azionario USA (che rappresenta il punto di riferimento per gli investitori di tutto il mondo) stava appena uscendo da un mercato ribassista, ma raggiunse un altro minimo nel primo trimestre del 2003 a causa delle preoccupazioni per l’epidemia. Il risultato è stato un nuovo test dei minimi del 2002 nel marzo 2003, ma poi quella è stata la fine di quel mercato ribassista. Una situazione del tutto simile si è avuta per l’indice del mercato azionario mondiale (MSCI Global Index), che da allora ha galoppato nella sua crescita – insieme all’indice delle materie prime – fino al crash del 2008.

Andamento storico dell’indice del mercato azionario globale (MSCI World Index). Anche in questo caso si assiste a una galoppata dei prezzi azionari, iniziata dopo l’epidemia di SARS, fino agli eventi del 2007-2008 che provocano il crollo delle Borse e dei prezzi delle materie prime, portando alla Grande Recessione.

Il diverso impatto sui mercati della SARS nel 2003 e del SARS-CoV-2 oggi

È interessante vedere le differenze fra la situazione attuale e quella della SARS del 2003, a cominciare dagli indici di borsa e delle materie prime. L’indice azionario mondiale (MSCI Global Index) è crollato dai 2177 punti del 10 febbraio 2020 al minimo di 1694 (-22%) del 16 marzo 2020, dopodiché ha iniziato a risalire ed è ora in fase di forte crescita. Anche l’indice del prezzo del petrolio (WTI) è precipitato dai circa 61 $ al barile del 1° gennaio 2020 al minimo di 16,5 $ (-73%) del 20 aprile 2020, ma poi ha preso a salire ed è in forte ascesa, come il prezzo di varie altre materie prime diverse dai carburanti (metalli, mais, etc.).

Mentre l’impatto sui mercati finanziari globali della SARS nel 2003 fu sostanzialmente modesto (comportando un calo inferiore al 10% sia dell’indice azionario globale sia di quello delle materie prime) e passa quasi inosservato nei grafici storici, l’impatto del SARS-CoV-2 contro cui combattiamo oggi è stato notevolmente superiore, non tanto sul mercato azionario (dove il circa -30% avutosi si può considerare una forte “correzione”) quanto piuttosto sul mercato delle materie prime (in particolare, per quanto riguarda il prezzo del petrolio, crollato di ben due terzi raggiungendo valori di prezzo decisamente bassi).

L’indice del mercato azionario globale (MSCI World Index), dopo essere crollato all’incirca di un 30%, sta decollando anticipando la ripresa dell’economia, essendo ormai stata superata la fase più critica della pandemia. Il problema è che anche i prezzi delle materie prime stanno facendo altrettanto, in un rally che fa pensare a un nuovo “superciclo”, sulla falsariga di quanto accaduto nel periodo 2003-2008.

Infatti, l’improvvisa epidemia di COVID-19 ha portato a un declino globale nell’impiego delle materie prime, influenzando notevolmente la domanda e l’offerta. Il mercato del petrolio è stato gravemente colpito a causa del crollo della domanda principalmente a causa delle restrizioni di viaggio e dei lockdown. Anche i prezzi dei metalli preziosi e industriali sono diminuiti, sebbene tale calo sia stato inferiore a quello del petrolio. L’industria agricola (e relative materie prime) sono risultate invece meno colpite, finora, da questa pandemia a causa della sua relazione indiretta con le attività economiche [5].

Come ai tempi della SARS, l’economia cinese è stata relativamente poco colpita dal nuovo coronavirus, soprattutto se si confronta l’impatto con quello sull’Unione Europea e sugli Stati Uniti. Tuttavia l’economia cinese, le dinamiche di mercato e la geopolitica sono cambiate drasticamente negli ultimi 17 anni [6]. Da una prospettiva internazionale, la quota della Cina del PIL mondiale è balzata dal 4% nel 2003 al 16% nel 2019, secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale. Sul piano interno, invece, l’economia cinese è passata da una crescita trainata dalle esportazioni a una più guidata dai consumi.

La Cina rimane il più grande esportatore di merci al mondo, spedendo il 17,1% dei suoi 2,5 trilioni di dollari di merci nell’Unione europea nel 2019, il 16,7% negli Stati Uniti e l’11,1% a Hong Kong secondo i dati dell’Ufficio nazionale di statistica cinese. Rispetto al 2003, la Cina è cresciuta fino a diventare il “polo produttivo” del mondo, trainando il consumo di materie prime come petrolio greggio e gas naturale. Essere il secondo importatore al mondo (dopo gli Stati Uniti) implica che un rallentamento dell’economia cinese smorza la domanda globale di materie prime, mentre una ripresa lo accelera.

Pertanto, una frenata dell’economia cinese esercita pressioni al ribasso sui prezzi delle materie prime mentre, viceversa, un’impetuosa ripresa come quella che ci si aspetta con la fine della pandemia in USA ed Europa, li fa impennare. Allo stesso tempo, un rallentamento della produzione cinese interrompe le forniture per coloro che fanno affidamento sulle esportazioni cinesi per i loro processi di produzione (ad esempio, case automobilistiche, società tecnologiche e prodotti di consumo). L’importanza della Cina nella catena di fornitura globale sempre più intrecciata non può essere più sottovalutata.

In Italia ora i nodi verranno al pettine: gli errori nella gestione del Paese

L’analisi, fin qui fatta, della situazione a livello mondiale può forse apparire rassicurante per qualche politico italiano, ma non è purtroppo per nulla rappresentativa dello stato attuale in cui si trova il nostro Paese, il quale presenta delle peculiarità notevoli (che ora illustrerò in maniera sintetica) e tutti gli ingredienti per una “tempesta perfetta” sul breve o medio termine. Insomma, dopo essere stato l’“ombelico” del COVID in Europa, l’Italia rischia di esserlo anche della crisi post-COVID.

  1. L’Italia è fra i Paesi d’Europa con elettricità e gas più cari. Il nuovo sistema di tariffazione di recente introdotto, paradossalmente, ha penalizzato moltissimo chi consuma poco: su 100 euro, circa la metà se ne vanno fra cosiddetti “oneri di sistema”, tasse e accise, cioè vengono pagati anche se non si consuma nulla! Inoltre, il mercato libero in realtà ha sfavorito – anziché favorire – il calo dei prezzi dell’energia per famiglie e piccole imprese, come mostrato da un rapporto pubblicato dall’allora Autorità per l’Energia (oggi ARERA) [24]. Per molte famiglie, di fatto, le bollette di luce e gas sono oggi le più care d’Europa.
  2. L’Italia ha il prezzo del carburante fra i più cari d’Europa. In Italia i costi di benzina, gasolio e altri carburanti sono fra i più alti d’Europa, essenzialmente per due motivi. Il primo è la presenza di tasse e accise, che pesano per circa due terzi sul costo totale pagato per litro alla pompa. Il secondo – ma non meno importante – è il fatto che il prezzo dei carburanti alla pompa si comportano in modo molto rigido e lento rispetto al prezzo del petrolio quando quest’ultimo cala, mentre i rialzi dei prezzi dei carburanti sono forti e immediati quando il prezzo del petrolio cresce [10], come ad es. in questo periodo.
  3. I pedaggi delle autostrade italiane sono i più alti in Europa. Come se non bastasse, le tariffe autostradali in Italia sono di gran lunga le più elevate del Vecchio Continente. In Germania, Olanda e Belgio le autostrade sono gratuite. In Svizzera si paga solo una vignette di circa 38 euro valida tutto l’anno. In Italia, ad es. già fare la tratta Ventimiglia-Bologna (460 km) sola andata costa 40 euro (pari a 8,7 euro ogni 100 km) [11]. Ciò impatta in modo estremamente rilevante sui trasporti su strada di persone e merci, specie per le piccole attività e le PMI, che non possono “spalmare” più di tanto questa voce di costo.
  4. L’Italia è ai primi posti nel trasporto su gomma in Europa. Secondo i dati forniti da Eurostat, nel 2017 in Italia circa il 60% delle merci totali (e ben l’80% di quelle movimentate su terra) erano veicolate da camion, mentre il resto era veicolato via nave, con solo una quota residuale che viaggiava via aereo. Delle merci movimentate su terra, il 20% che non viaggia su camion era veicolato da treni merci [9]. Nella graduatoria dei maggiori paesi d’Europa (inclusa la Gran Bretagna), l’Italia nel 2010 si collocava addirittura al secondo posto (dopo la Spagna) con la quota più elevata di trasporto su gomma. Ciò si traduce in maggiori costi e minore competitività.
  5. I ritardi nella campagna vaccinale. L’Unione Europea è in grande ritardo nella campagna vaccinale rispetto al Regno Unito, agli USA, etc. L’Italia, come ho illustrato nel mio precedente articolo [8] è ancora più in ritardo avendo usato per 3 mesi circa metà delle dosi per vaccinare persone con meno di 60 anni, mentre il 95% della mortalità per COVID si verifica fra gli over 60, perciò – complice la scarsità di vaccini – si è di molto dilatato il tempo di “uscita dal tunnel”. Ciò impatta sia sulle attività turistiche sia sui costi pagati per forniture e container, nel frattempo ordinati o opzionati da altri Paesi anche europei.
  6. La crisi e il caos all’ex Ilva. Senza acciaio un Paese non può funzionare e per la ripresa ce ne sarà tanto bisogno. La ex Ilva di Taranto, nel 2018, aveva una produzione annuale di acciaio stimata in 4,5 milioni di tonnellate. In base ai dati della World Steel Association, ciò corrispondeva a circa il 20% di quella italiana, che ammontava a 24,5 milioni di tonnellate, pari a circa il 15% della produzione europea, secondi solo alla Germania. La Cina conta da sola per poco più della metà della produzione globale, mentre l’Italia era decima in classifica [7]. Con uno stop dell’ex Ilva, i prezzi dell’acciaio avrebbero ulteriori picchi.

Gli effetti a medio e lungo termine della pandemia e l’incubo del “superciclo”

Quando, nel 1986, si verificò il disastroso incidente nucleare di Chernobyl, i morti nell’immediato furono solo poche decine, mentre furono 100 volte di più (secondo i dati ufficiali e 10.000 volte di più secondo alcune stime) nei vent’anni successivi, poiché le Autorità fecero diversi errori durante la gestione della crisi, fra cui quello di non far evacuare – se non con grandissimo ritardo – la popolazione delle città vicine e quello di non somministrare alle persone lo iodio-131 (come fatto invece in Polonia), causando così la morte di tantissime persone per tumore alla tiroide, che è l’organo più radiosensibile.

Verosimilmente anche nella crisi del COVID, a causa di una gestione largamente inappropriata, i danni avuti nell’immediato rischiano di essere relativamente modesti rispetto a quelli che il Paese pagherà sul breve termine (prossimi 12-24 mesi) e sul medio termine (anni). Naturalmente, mentre i morti immediati sono facili da contare, i danni a breve e medio termine – esattamente come nel caso di Chernobyl – sono più difficili da quantificare e sono di varia natura: morti per mancata cura e prevenzione di malattie croniche, aumento dei suicidi, della povertà e della disoccupazione, solo per limitarsi a quelli più ovvi.

Sostanzialmente, gli impatti della crisi da COVID sono – e saranno – di tre tipi: sanitari, economici e sociali. In realtà, vi sono forti interconnessioni fra questi tre aspetti, mentre la lettura che viene di solito superficialmente fatta si limita a evidenziare la sola connessione fra salute ed economia, che per quanto importante è solo un aspetto della questione. Inoltre, mentre conosciamo piuttosto bene le soglie del sistema sanitario, poco o nulla sappiamo delle soglie dei sistemi economici e sociali in un Paese avanzato, e quindi non abituato a gestire crisi caratterizzate da stress molto forti di varia natura.

I tre grandi impatti prodotti dalla pandemia sul nostro Paese: l’impatto sanitario da una parte e quello sui sistemi economici e sociali dall’altra. La loro quantificazione o stima è necessaria per determinare il rapporto rischi-benefici dei lockdown, una grandezza che non è fissa ma evolve nel tempo e che, come sarà chiaro alla fine dell’articolo, ha ormai raggiunto un valore enorme (nel senso che i potenziali rischi derivanti dall’impatto economico e sociale appaiono superare quelli – calcolabili – derivanti dall’impatto sanitario).

A differenza di quanto accaduto in altri Paesi europei, l’impatto economico su centinaia di migliaia fra attività commerciali al dettaglio (in Italia nel 2018 erano circa 735.000) e piccole e medie imprese (che erano circa 148.000 a inizio 2020), nonché su intere filiere (cultura, turismo, ristorazione, sport, etc.), è stato disastroso, soprattutto perché da noi i “ristori” sono stati praticamente simbolici e non accompagnati da altre misure tese a mitigare i danni, per cui in questi mesi un numero enorme di attività hanno già chiuso per sempre i battenti e ancor più sono, a loro volta, sull’orlo della chiusura definitiva. Fra l’altro si noti che, Grecia a parte, nessun Paese europeo ha una quota di lavoro autonomo alta come l’Italia.

Ma nell’analisi dell’impatto economico della pandemia ci si limita di solito, nel dibattito pubblico ad es. sui media televisivi, a evidenziare solo questi effetti assolutamente “ovvii” mentre, come ho illustrato in precedenza, vi sono tutti i presupposti per un impatto ancora più forte – e riguardante una platea di soggetti economici più vasta, comprendente la media e grande industria manifatturiera – nel prossimo futuro, per la prevedibile dinamica di aumento dei prezzi di materie prime e trasporti, che presto si potrebbe tradurre anche in rincari generalizzati per ortofrutta, alimentari e quant’altro.

Infatti, mentre un ciclo normale delle materie prime può durare pochi mesi o alcuni anni, un superciclo, al contrario, può durare un decennio o più e di solito include (o è guidato da) molte delle materie prime industriali più utilizzate e negoziate attivamente come petrolio greggio, rame e cereali [2]. E chi conosce il trading sa bene che entrambi i cicli – normale o “super” – sono caratterizzati da più fasi, e noi ora siamo appena nella prima fase, quella in cui la domanda supera l’offerta ed i primi investitori cominciano a investire “online” nelle materie prime, esacerbando ulteriormente la salita dei prezzi.

E nonostante siamo solo all’inizio del rally di un superciclo, gli effetti si sentono già, come ben illustrato da un articolo di Bloomberg [14]. Il petrolio è salito del 75% dall’inizio di novembre, da quando cioè le principali economie hanno iniziato a vaccinare le loro popolazioni ed a riaprire dopo la pandemia che ha chiuso fabbriche e bloccato aerei. Il rame, utilizzato in tutto, dalle automobili alle lavatrici e alle turbine eoliche, è scambiato ai livelli visti l’ultima volta ben dieci anni fa. I prezzi del cibo sono aumentati ogni mese da maggio. Il flusso di denaro che ne è derivato è stato un sollievo solo per i Paesi esportatori.

Un impatto sottovalutato del mix di fattori: quello su industria, edilizia, etc.

Insomma, le ripartenze disallineate tra diversi paesi con filiere che invece restano globali hanno creato e creano diversi scompensi che stanno già presentando il conto alle nostre imprese manifatturiere [15]. Innanzitutto quello dei prezzi. Quasi tutti i fornitori hanno aumentato i prezzi. Le quotazioni di materie prime come i metalli sono infatti salite ai massimi livelli. L’altro problema è quello del reperimento dei materiali: c’è scarsità sul mercato. L’anno scorso molte aziende italiane si sono fermate per il COVID, mentre quest’anno rischiano di fermare le produzioni per i materiali che non arrivano.

Negli ultimi mesi sono raddoppiati i prezzi di molte materie prime provenienti da Cina, Corea, USA, etc. e si sono dimezzate le forniture, il che potrebbe far “saltare” ad esempio il sistema edilizia in Italia e non solo quello [13]. Si fa sempre più fatica a reperire sul mercato materie plastiche, materiali ferrosi e i semilavorati con cui confezionare i propri prodotti [15]. Alla Electrolux, la grande fabbrica di lavastoviglie, le linee di produzione sono già ferme per la mancanza di componenti elettronici e di circuiti stampati [16]. Perfino le concerie sono in ginocchio, con i prezzi delle pelli bovine che crescono senza sosta da mesi.

Possono sembrare casi isolati, ma in realtà si tratta di una situazione generalizzata legata ai rincari delle materie prime, con aumenti che per il legname hanno raggiunto il 20%, con forti ripercussioni per il comparto dell’arredo, mentre per acciai e lamiere si parla di incrementi dal 15% al 45%, a seconda delle tipologie, con apici che addirittura arrivano al 60-70% [16]. Stesso discorso per la plastica, con prezzi cresciuti alle stelle. Molteplici le ragioni, a iniziare dall’accelerazione dei mercati di Stati Uniti e Cina, che hanno visto l’impennata della domanda a cui è seguito il rialzo dei prezzi.

Le dinamiche della domanda, però, non giustificano da sole questi aumenti. In effetti, il trend è sostenuto e amplificato dagli investimenti finanziari (non a caso i grandi investitori si sono spostati dall’oro, il cui prezzo sta crollando, alle materie prime, che permettono grandi guadagni tramite i futures, gli ETF, etc.), con riflessi sui trasporti che – a loro volta – hanno registrato aumenti delle tariffe, il che ora induce le aziende a rallentare la produzione nonostante la ripresa degli ordini. Questa crescita abnorme dei prezzi è per l’Italia destabilizzante e rischia di inibire qualsiasi potenziale ipotesi di strenua ripartenza.

Anche le  imprese del settore plastica si trovano ad affrontare un passaggio molto delicato [13]: “per tutti i polimeri di interesse per il settore – dal polietilene al PVC e al PET, compresi i biopolimeri ed i riciclati – gli incrementi di prezzo superano in molti casi il 100%. Questo quando li si trova: ma le quantità a disposizione sui mercati mondiali sono nettamente inferiori ai bisogni e quindi accade spesso di non riuscire affatto a reperire i materiali necessari alla produzione. Con la plastic tax prevista a luglio, il risultato è una marginalità troppo bassa, che mette a repentaglio gli equilibri di bilancio delle imprese”.

Come spiega molto bene un ingegnere, le cose non vanno bene neppure nel settore edilizio: “I container ed i bancali per le spedizioni non si trovano e ora costano il triplo. Molte resine – fondamentali per le costruzioni – sono introvabili, e con aumenti di prezzo superiori al 100%. Non si trova l’acciaio. Di conseguenza i fornitori e le imprese bloccano la firma di nuovi contratti, ed a rischio ci sono le forniture di molti cantieri. Infatti, la normativa attuale non prevede, purtroppo, adeguati meccanismi di revisione prezzi; in tale contesto, quindi, i contratti non risultano più economicamente sostenibili”.

Il rischio, insomma, è che nelle prossime settimane si debbano bloccare non solo le attività più piccole,che saranno le prime ad andare in crisi (non potendo contare su grandi scorte, economie di scala e sul maggiore potere contrattuale), ma anche i grandi cantieri delle opere pubbliche. Pure l’ANCE ha lanciato l’allarme [13]: “Il caro materiali non è più sostenibile per le imprese. Con un aumento del 130% dell’acciaio, del 40% dei polietileni, con i rincari di rame e petrolio e con la conseguente difficoltà di approvvigionamento, tanti cantieri pubblici e privati rischiano di bloccarsi con gravi ripercussioni economiche e sociali”.

L’impatto sul tessuto economico e sociale: la prevedibile crisi post-COVID

Se si considera che per l’industria manifatturiera il prezzo di un prodotto è composto da cinque elementi fondamentali – (1) il costo delle materie prime e/o dei componenti utilizzati, (2) il costo dell’energia usata per la lavorazione, (3) il costo del trasporto per consegnare il prodotto al cliente, (4) costi di manodopera, spese fisse, tasse, etc., (5) il margine di guadagno – è evidente che, poiché i costi dei prime tre fattori sono in aumento e destinati a crescere ulteriormente, il margine di guadagno per aziende già colpite dalla pandemia si riduce di parecchio e il mix può facilmente risultare “letale”.

Le 5 componenti di prezzo di un prodotto. Gli aumenti di prezzo in atto stanno agendo su ben 3 di essi, riducendo di conseguenza in misura notevole il margine di guadagno per l’imprenditore. (fonte: illustrazione dell’Autore, licenza Creative Commons)

Il fenomeno fin qui illustrato preoccupa e la soluzione non sembra a portata di mano perché le manovre speculative, che non rispondono alla normale legge della domanda e dell’offerta, sono difficili da arginare e governare. Il risultato è che il rischio di impresa si accentua di molto, e le aziende sono costrette a scegliere se accettare una forte riduzione dei margini di utile attesi e che variano al basso fra il momento dell’offerta e quello dell’ordine o proporre la ricontrattazione del prezzo definito, cosa che rischia di far perdere la commessa – o addirittura il cliente – a favore dei concorrenti stranieri che hanno costi più bassi.

Mentre i negozi sono stritolati soprattutto dalle chiusure del lockdown, dalle tasse dei rifiuti cresciute e dagli affitti insostenibili, le imprese sono in forte sofferenza perché i citati forti incrementi di costi si aggiungono alle già ingenti sofferenze finanziarie e patrimoniali connesse all’evento pandemico. Se a tutto ciò si aggiunge il divario temporale nell’“uscita dal tunnel”, dovuto ai ritardi nella campagna vaccinale italiana, rispetto alle maggiori economie mondiali (Stati Uniti, Cina, Russia, Regno Unito, etc.), si capisce come – a livello economico – il nostro Paese rischi di pagare un prezzo triplo per la pandemia.

Primo, perché il lockdown ha avuto un impatto enorme sulle piccole attività commerciali e su interi settori dell’economia; secondo, perché il boom dei prezzi di materie prime, semi-lavorati, energia, container e trasporti impatta (e impatterà) in modo pesante sull’industria; terzo, perché – complice anche la mancanza di programmazione del nostro Governo – si rischia di perdere pure il treno della ripresa costituito dalla stagione turistica, e che le nostre imprese siano le ultime perfino in Europa a fare gli ordinativi ed a cercare di rimpinguare le scorte, incontrando quindi maggiore scarsità e costi rispetto ai concorrenti.

Non è certo incoraggiante il fatto che, secondo il Rapporto sulla Competitività 2021 dell’Istat, già a novembre scorso quasi un terzo delle imprese italiane considerassero a rischio la propria sopravvivenza. Il crollo del valore aggiunto registrato nel 2020 è stato, secondo l’Istituto di statistica, dell’11,1% nell’industria in senso stretto, dell’8,1% nei servizi, del 6,3% nelle costruzioni e del 6,0% nell’agricoltura. Tra i servizi, commercio, trasporti, alberghi e ristorazione (-16%) hanno pagato il conto più alto; e nella manifattura il comparto del tessile, abbigliamento e calzature ha subito il crollo più grave (-23%).

Anche le famiglie non se la cavano meglio, e non solo per la crescita vertiginosa dei disoccupati. L’aumento dei prezzi dei generi alimentari mette sotto pressione, a livello internazionale, i Paesi più poveri e, nel nostro Paese, le persone sotto la soglia di povertà, che spendono più di un terzo del loro reddito in cibo. Finora i prezzi sono aumentati solo di 2-3 punti percentuali nell’Unione Europea [12], ma solo perché, esattamente come i morti per COVID, sono l’ultimo anello della catena di eventi e quindi l’impatto vero si vedrà più avanti, e potrà superare di molto i bassi livelli di inflazione degli ultimi anni.

Nel passato, l’aumento dei prezzi dei generi alimentari ha coinciso nel mondo con periodi di disordini sociali. Già solo un continuo aumento dei prezzi potrebbe scatenare rivolte sociali, specie nei Paesi più poveri ed economicamente e politicamente meno stabili, scatenando un effetto a catena che potrebbe coinvolgere anche le regioni in cui la pandemia sta creando tensioni politiche e difficoltà economiche [12]. Inoltre, la scarsità di offerta in economie interconnesse rischia di generare un nuovo protezionismo. E questo colpirebbe i Paesi meno autosufficienti e con uno scarso potere negoziale.

Il rischio del superamento di soglie critiche a causa dei trend crescenti

Come anche la casalinga di Voghera ha imparato durante la pandemia, quando si superano soglie critiche nascono grossi problemi, e ancor più quando le si superano in tempi rapidi, cosa che facilmente manda un sistema in crisi. Lo abbiamo ben visto, infatti, con le terapie intensive, che sono andate in tilt quando il numero di ricoverati ha superato una determinata soglia. Ma mentre la soglia delle terapie intensive è ben nota quantitativamente, non altrettanto si può dire per le soglie dei sistemi economici e sociali. Pertanto, queste soglie potrebbero venire a un certo punto superate, con conseguenze imprevedibili.

La crisi economica generata dalla pandemia ha colpito in modo generalizzato tutto il settore privato, cioè quello che genera entrate per lo Stato, risparmiando solo i dipendenti pubblici, che però dipendono da tali entrate. Inoltre, ha esacerbato in pochissimo tempo le disuguaglianze. Tra i più colpiti vi sono stati i giovani – tanto che la metà dei nuovi poveri ha meno di 35 anni – le famiglie di immigrati e quelle più numerose, con più di cinque componenti. Ma i rischi maggiori sono previsti per quest’anno, quando gli effetti della congiuntura economica negativa si acuiranno e gli ammortizzatori sociali termineranno.

Una delle cose che colpiscono della crisi attuale è che impatta negativamente su quasi tutti i soggetti economici privati, quelli che producono ricchezza ed entrate per lo Stato. Si salvano per il momento dagli effetti della crisi solo i dipendenti pubblici, che però vivono grazie alle entrate prodotte dai primi. (fonte: illustrazione dell’Autore, licenza Creative Commons)

Negli ultimi dati Istat è segnalato il fatto che l’anno della pandemia, nonostante il blocco dei licenziamenti imposto dal Governo, ha mandato in fumo quasi un milione di posti di lavoro, 945.000 per la precisione. Le ripetute flessioni congiunturali dell’occupazione , registrate dall’inizio dell’emergenza sanitaria fino a gennaio 2021– spiega l’Istituto di statistica – hanno determinato un crollo dell’occupazione del 4,1%. La diminuzione coinvolge uomini e donne, dipendenti (-590.000) e autonomi (-355.000 se si adotta la nuova definizione Istat di occupato, se no la diminuzione è minore) e tutte le classi d’età. Il tasso di occupazione è sceso, in un anno, di 2,2 punti percentuali toccando il 56,5%.

Si può immaginare cosa potrà succedere una volta che verrà tolto il blocco dei licenziamenti, che comunque ha già un costo perché mette ancor più in difficoltà le piccole imprese già alla canna del gas. Non a caso, nel 2020 il tasso di mortalità delle aziende rispetto al 2019 risulta quasi raddoppiato per quelle del commercio (dal 6,6% all’11,1%) e addirittura più che triplicato per i servizi di mercato (dal 5,7% al 17,3%). In pratica, oltre 390.000 imprese del commercio non alimentare e nei servizi di mercato hanno chiuso i battenti nel 2020, un fenomeno certamente non compensato dalle sole 85.000 nuove aperture [18].

Pertanto, la riduzione del tessuto produttivo nei settori considerati ammonterebbe a quasi 305.000 imprese (-11,3%). C’è poi tutta la filiera del tempo libero che, tra attività artistiche, sportive e di intrattenimento, fa registrare complessivamente un vero e proprio crollo, con la sparizione di un’impresa su tre. Alla perdita di imprese va poi aggiunta quella dei lavoratori autonomi: Confcommercio ha stimato la chiusura, nel solo 2020, di circa 200.000 partite Iva di persone operanti nelle attività professionali, scientifiche e tecniche, amministrazione e servizi, attività culturali, sportive e altro.

E nel 2021, come spiega Andrea Muratore, “sull’economia italiana aleggia lo spettro di un’ondata di fallimenti nel mondo delle imprese all’esaurimento delle misure di sostegno economico alla liquidità e di rimborso di cassa integrazione e strumenti di sostegno simili. Ritorna a gravare sulla nostra società, in prospettiva, il fantasma della povertà e dell’esclusione sociale, che secondo uno studio di Unimpresa riferito a fine 2020 minaccia oltre 10 milioni di italiani. Il perimetro della minaccia riguarda oltre 1,2 milioni di soggetti in più rispetto a un’analoga rilevazione relativa al 2015, con una crescita del 13%” [17].

L’impatto della crisi pandemica sullo Stato e sulle banche italiane

Infine, la crisi provocata dal coronavirus ha peggiorato i conti pubblici. Secondo Carlo Cottarelli, nel 2021 il deficit per gli “scostamenti” (compreso quello di questo mese) sarà, verosimilmente, di almeno 195 miliardi e sarà coperto per intero da acquisti della BCE [19]. L’aumento del deficit si riflette anche sull’andamento del debito pubblico italiano, che secondo le stime arriverà quest’anno al 160% del PIL, dal 135% del 2019. Nella migliore delle ipotesi, questa cifra potrebbe stabilizzarsi nei prossimi due anni. Inoltre, nel 2020 la recessione ha causato un crollo del PIL dell’8,9%, a 1652 miliardi, maglia nera nell’UE [25].

Famiglie, imprese, banche, Stato: le prime due sono sotto forte stress, gli altri due potrebbero esserlo presto. Pur se non venissero superate soglie critiche, anche grazie al sostegno delle istituzioni europee (che alla fine dell’anno deterranno il 27% del debito pubblico), i margini di manovra per far fronte a eventuali future emergenze sono sempre più ridotti. Un discorso analogo si può fare per le attività, per le imprese e per le famiglie che non “salteranno” nel frattempo: saranno comunque assai più fragili nei confronti di nuove “sorprese” negative, e in questo senso il “boom” generalizzato dei prezzi non aiuta.

Ancor meno aiuta – anzi rappresenta un pericoloso “catalizzatore” negativo – la normativa imposta dall’Autorità Bancaria Europea (EBA) che dal 1° gennaio comporta, in caso di scoperto per 90 giorni di 100 euro per le persone fisiche e di 500 euro per le aziende, il blocco del conto corrente (impedendo quindi la riscossione di eventuali crediti attesi) e la segnalazione alla centrale rischi come “cattivi pagatori”. Ciò nel migliore dei casi frena gli investimenti degli imprenditori, ma nel caso peggiore può tradursi, in pratica, nel fallimento per un’azienda ed in una sorta di “espulsione” dalla società per le persone fisiche.

Ci sono diversi modi per pagare come Paese il prezzo di una crisi, la peggiore che potesse capitare in oltre 70 anni di storia italiana ed europea. Bisogna sempre ricordare che lo Stato italiano, per funzionare, ha bisogno di circa 700-800 miliardi l’anno, forniti dalle tasse sotto forma di entrate tributarie (dirette e indirette) e dai contributi sociali. Mentre le centinaia di miliardi di liquidità che ci vengono “prestati” dai mercati finanziari acquistando i nostri Titoli di Stato sono rinnovi del debito pubblico che viene a scadenza (e che ci costa circa 60-70 miliardi all’anno di interessi). Una domanda che bisogna allora porsi, perché se la faranno – prima o poi – anche gli investitori è la seguente: come può un Paese nella situazione fin qui illustrata sostenere il debito pubblico terzo al mondo per volume (2.500 miliardi)?

Anche se la BCE al momento protegge con una sorta di “paracadute” il nostro Paese dall’esposizione verso i mercati finanziari e dalle relative speculazioni, non sappiamo fino a quando ciò potrà avvenire, né fino a quando riusciremo a evitare un downgrade a “spazzatura” dei nostri Titoli di Stato da parte delle agenzie di rating, cosa che potrebbe [20]: (1) fermare l’acquisto dei titoli italiani da parte dei grandi fondi sovrani e degli investitori istituzionali; (2) far impennare lo spread (costringendo lo Stato a promettere un alto premio di rischio per collocare il debito); (3) portare le banche italiane a pagarne lo scotto.

Infatti, le nostre banche di Titoli di Stato italiani ne hanno “in pancia” ben 370 miliardi. Se i nostri Titoli di stato fossero declassati a “spazzatura”, gli Istituti di credito stessi andrebbero successivamente incontro a svalutazioni, con tutti i riflessi del caso. I rischi sarebbero quindi: da una parte, dei fallimenti bancari, poiché ciò si aggiungerebbe ai crediti deteriorati prodotti dal fallimento delle imprese; e, dall’altra, quello di una ristrutturazione del nostro debito – verosimilmente coinvolgendo anche l’FMI, in uno scenario che ricorda vagamente quello già vissuto dalla Grecia – se non quello di un default più o meno pilotato.

L’impatto della pandemia sui conti pubblici e sulle banche italiane. In questa tabella ho riassunto i principali numeri illustrati nel testo. Dal primo scostamento di bilancio per 20 miliardi dell’11 marzo 2020, al secondo del successivo 24 aprile per 55,3 miliardi, per finire con i 25 miliardi del terzo scostamento (23 luglio), gli 8 miliardi del quarto (20 novembre) – più i 40 miliardi della Legge di Bilancio 2021 (anche per vaccini, assunzione medici, mascherine, etc.) – le risorse stanziate nei famosi “decreti Conte” sono servite solo in piccola parte per indennizzi e ristori, peraltro poco più che simbolici. I recenti D.L. Sostegni arrivano quindi, in molti casi, ormai “a babbo morto”. (fonti: Carlo Cottarelli [19], Istat e altre citate nel testo)

Se pensate che tutto ciò sia fantasia, guardate le righe rosse della tabella qui sopra. Non notate nulla di strano? Nel 2020 i soldi della Legge di Bilancio e dei vari scostamenti di bilancio con indebitamento netto (deficit) da parte dello Stato all’apparenza compensano il crollo del PIL. Ma in realtà non è così, perché sono stati impiegati per il Fondo di garanzia per i finanziamenti delle banche alle PMI (ne sono stati usati 83 miliardi), per pagare la cassa integrazione COVID (16 miliardi anticipati dall’INPS) e per numerose altre cose (a cominciare dall’acquisto di materiali sanitari, il cash-back, il Superbonus 110%, etc.). Difatti, sappiamo che le imprese più colpite hanno ricevuto fra il 2% e il 5% del fatturato perso: in pratica “briciole”.

Il “cigno nero”: l’impatto devastante dell’altamente (ma ora non poi così tanto) improbabile

Infine, con la pandemia è aumentato anche il rischio del cosiddetto “cigno nero”, l’evento inatteso che travolge tutto e tutti, cambiando il corso della Storia. Si noti che il coronavirus non è tecnicamente un cigno nero poiché manca una connotazione essenziale, l’imprevedibilità, anche se – a posteriori – molti eventi in realtà vengono giudicati prevedibili solo con il senno di poi. La teoria del cigno nero è però utile per capire il ruolo sproporzionato di eventi a forte impatto, rari e difficili da prevedere rispetto alle aspettative, e che potrebbero avere delle conseguenze addirittura sistemiche per l’economia e la società.

In realtà, quel che potrebbe accadere nei prossimi mesi o 1-2 anni non sembra così imprevedibile né così improbabile. Già a ottobre scorso il Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco metteva in guardia gli Istituti di credito dalla nuova ondata di credi deteriorati: “Questo shock senza precedenti della crisi COVID potrebbe causare qualche vittima fra le banche” [21]. Ed a novembre la BCE dichiarava: “Probabili fallimenti bancari dopo la pandemia”. Ma l’Europa è ancora una volta in ritardo, perché nel frattempo non ha varato veicoli appositi per gestire i crediti non deteriorati né ha modificato le norme sul tema.

Già a gennaio nelle banche italiane c’erano circa 70 miliardi di crediti deteriorati a causa della pandemia. Tale cifra salirà certamente di molto nel corso dell’anno, quando potrebbe avvenire il grosso dei fallimenti delle imprese. C’è quindi il rischio del tutto concreto che, per la prima volta, a pagare le conseguenze di un default bancario siano anche i correntisti, come previsto dalla nuova normativa sul bail-in. E se la banca è abbastanza grande, potrebbero facilmente essere coinvolti anche i conti dei risparmiatori sotto i 100.000 euro, poiché il Fondo interbancario di garanzia dei depositi non sarebbe in tal caso sufficiente.

Ciò, però, avrebbe verosimilmente due effetti già di per sé assai pericolosi: il primo è il panico e il caos più totali, con la corsa agli sportelli e non solo; il secondo è la propagazione di questo ben più veloce e temibile “contagio” ad altre banche italiane “pericolanti”. Infatti, come ha spiegato lo stesso Visco, “non c’è nulla nel quadro dell’Unione Europea di gestione delle crisi in grado di evitare che le difficoltà delle banche non sistemiche si trasformino in liquidazioni disordinate”. Insomma, se nei prossimi mesi si verificasse per più banche questo scenario, la pandemia sarebbe probabilmente l’ultimo dei nostri problemi.

Infatti, il rischio è che questi fallimenti iniziali facciano da “innesco” (trigger) per il fallimento di una o più banche italiane sistemiche (le famose “too big to fail”), che in quanto tali potrebbero estendere il problema ad altri Paesi europei, portandolo a una dimensione tale da non essere più gestibile. In tal caso si aprirebbero – verosimilmente  – scenari tali da far gelare il sangue nelle vene. Difatti, ciò non solo rischierebbe di far saltare l’area Euro ma anche, attraverso i derivati di cui sono imbottite alcune banche (ad es. Deutsche Bank), di propagare il contagio con fallimenti a catena al di fuori dell’area UE.

Come Andrea Muratore ha molto ben illustrato nei suoi articoli [22, 23], “il rischio di fallimenti a catena di imprese e istituti bancari è tutt’altro che irrealistico, e un ulteriore shock bancario e creditizio sarebbe per l’Italia insostenibile. Con la fine del blocco dei licenziamenti e con l’onda lunga delle garanzie sui prestiti, lo Stato dovrà affrontare una tempesta estremamente problematica”. E infine, come ricorda Il Sole 24Ore: “Rimuovere troppo presto gli aiuti potrebbe avere l’effetto collaterale di provocare un aumento dei crediti deteriorati nei bilanci bancari. Nonché problemi per gli stessi governi a cui gli istituti potrebbero escutere le garanzie pubbliche che i governi hanno stanziato in abbondanza durante la crisi sanitaria”.

Confronto tra (1) la rapida successione di fasi che ha portato nel 2007-08 dalla crisi dei mutui subprime alla Grande Recessione e (2) la possibile crisi catastrofica che potrebbe essere innescata da un grande numero di fallimenti fra imprese e soggetti economici privati sommato al downgrade del rating dei Titoli di stato italiani. In questo scenario, si rischierebbe il default di banche sistemiche e il “contagio” (principalmente via derivati) ad altri Paesi, per cui si potrebbe precipitare rapidamente in una situazione da incubo, potendosi attivare la “bomba nucleare” dei derivati a cui farebbero da “detonatore” i precedenti default bancari.

In conclusione, l’impatto economico della pandemia sull’Italia è ormai enorme, e non sembra che ci si possa permettere ulteriori chiusure (lockdown) né nelle prossime settimane né, tanto meno, nel caso in cui la variante sudafricana – o altre nuove varianti ancora non emerse – dovessero portare a una “quarta ondata”, ad esempio nel prossimo autunno. Per questo è fondamentale: (1) preparare quanto prima l’implementazione di un “piano B” (oggetto di un futuro articolo) che prescinda dai vaccini; (2) puntare fin d’ora alla produzione nel nostro Paese di vaccini a mRNA (facili e veloci da aggiornare alle nuove varianti e da produrre), per garantire in tempi ultra-rapidi le dosi quando saranno necessarie.

 

Riferimenti bibliografici

[1]  ING, “Container and shipping sgortage piles pressures on prices”, Hellenic Shipping News, 2 aprile 2021.

[2]  Blythe B., “COVID-19 Recovery May Be Driving New Commodity Supercycle”, The Ticker Tape, 22 marzo 2021.

[3]  Estevez E., “The Causes of the Subprime Mortgage Crisis”, The Balance, 17 settembre 2020.

[4]  Investopedia Staff, “Who Was to Blame for the Subprime Crisis?”, Investopedia, 12 gennaio 2020.

[5]  Rajput H., “A shock like no other: coronavirus rattles commodity markets”, Environ. Dev. Sustain., 11 agosto 2020.

[6]  FactSet Insight, “The stress of coronavirus”, FactSet, 20 febbraio 2020.

[7]  Pagella politica di AGI, “Come va la produzione di acciaio in Italia, in Europa e nel mondo”, AGI, 6 dicembre 2019.

[8]  Menichella M., “Un’analisi interdisciplinare: come (e perché) ottimizzare la campagna vaccinale in Italia”, Fondazione David Hume, 3 aprile 2021.

[9]  Massariolo A., “Trasporto merci: più del 60% avviene ancora su strada”, Il Bo Live, 22 febbraio 2019.

[10]  Rubini F., “Prezzo benzina non crolla con il petrolio: ecco perché”, Money.it, 23 aprile 2020.

[11]  Gabanelli M., “Perché le autostrade italiane sono le più care d’Europa”, Corriere.it, 10 giugno 2018.

[12]  Paganini P., “Tutti i rischi della geopolitica dei prezzi delle materie prime”, Formiche.net, 14 marzo 2021.

[13]  Dari A., “Aumento senza precedenti dei costi delle materie prime: salta l’edilizia?”, Ingenio, 26 marzo 2021.

[14]  Wallace P., “The Winners and Losers From Surging Oil and Commodity Prices”, Bloomberg.com, 11 marzo 2021.

[15]  Loschi I., “Rincari delle materie prime fino al 25% e difficoltà nel reperimento: aziende trevigiane in difficoltà”, Oggi Treviso, 30 marzo 2021.

[16]  Spezia M., “Materie prime scarse e troppo care, Electrolux in difficoltà”, TGR Friuli Venezia Giulia, 2 aprile 2021.

[17]  Muratore A., “Come l’Italia può reagire alla catastrofe economica in corso”, InsideOver, 6 aprile 2021.

[18]  Redazionale, “Covid e calo dei consumi, Confcommercio: ‘Sparite oltre 390mila imprese in un anno’”, LaStampa.it , 28 dicembre 2020.

[19]  Cottarelli C., “La terza ondata Covid peggiora i conti pubblici: verso 2.750 miliardi di debito. Ma sarà ancora di più nelle mani delle istituzioni UE”, Repubblica.it, 27 marzo 2021.

[20]  Zapponini G., “E se il rating dell’Italia fosse ‘spazzatura’? La mannaia S&P e la carta Bce”, Formiche.net, 23 aprile 2020.

[21]  Scorzoni M.T., “Visco: “Covid, shock senza precedenti: farà qualche vittima tra le banche”, First online, 22 ottobre 2020.

[22]  Muratore A., “Lo Tsunami bancario che può travolgere l’Europa”, InsideOver, 30 gennaio 2021.

[23]  Muratore A., “La marea crescente del debito privato ci sommergerà”, InsideOver, 14 gennaio 2021.

[24]  Comunicato stampa di ARERA, “Energia: mercati di massa dinamici, ma concorrenza ancora non matura”, Arera.it, 12 febbraio 2015.

[25]  Comunicato stampa dell’Istat, “PIL e indebitamento delle AP”, Istat.it, 1° marzo 2021.




La trasmissione aerea del COVID19: il grande errore commesso

Dopo oltre un anno dall’inizio della pandemia da coronavirus SARS-CoV-2, per l’Italia sembra ancora esserci un lungo percorso per tornare alla normalità. Si susseguono le chiusure di attività fondamentali come le scuole, quelle di numerose attività commerciali nonché la restrizione di libertà individuali. Stiamo assistendo infatti ad un nuovo incremento del numero di contagi con conseguente aumento degli ospedalizzati e ricoverati nelle terapie intensive. L’andamento della diffusione di questo virus sembra seguire al momento quello della “spagnola” del lontano 1918, oltre un secolo fa. Sorge allora spontanea una domanda: come è possibile che con tutte le nostre conoscenze scientifiche nel campo medico ed epidemiologico non siamo riusciti a controllare l’epidemia (subendo di fatto la diffusione del virus), se non a costo di drammatici interventi di chiusura con costi sociali ed economici elevatissimi?

Se infatti si può forse giustificare l’impatto della prima ondata nel marzo 2020 (l’Italia è stata il primo paese europeo a ritrovarsi il virus in casa), non trova giustificazioni l’assoluta mancanza di controllo sulla seconda ondata. Infatti, a seguito di un durissimo lockdown, ci si è ritrovati in Italia nell’estate 2020 con una incidenza del virus estremamente ridotta e con la possibilità di attuare azioni di tracciamento. Purtroppo, però, a partire da settembre 2020 abbiamo assistito ad un aumento inarrestabile dei contagi (nonostante la stesura di rigidi protocolli da parte delle Autorità Sanitarie), fermato solo con l’introduzione di “zone rosse” e con la conseguente impossibilità del tracciamento: oggi si affaccia la terza ondata.

Perché quindi siamo così deboli nei confronti della pandemia? E’ evidente che non siamo in grado di limitare i contagi, di convivere (come ci avevano detto) con il virus. Cosa non conoscono le nostre autorità sanitarie?

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha sempre dichiarato che il virus si può trasmettere secondo due vie: attraverso il contagio indiretto per superfici o quello diretto a breve distanza con goccioline pesanti (droplets). Le conseguenti misure di protezione “coprono” queste due modalità di trasmissione. Questa conoscenza però non spiega tra l’altro perché i contagi avvengano quasi esclusivamente negli ambienti chiusi e come un soggetto infetto possa infettare numerose persone contemporaneamente (eventi di superspreading).

Nel luglio del 2020, 239 scienziati internazionali hanno portato il problema della trasmissione aerea del COVID-19 sulla scena mondiale1. Dalla pubblicazione della loro lettera sono stati compiuti alcuni progressi ottenendo, tra l’altro, il riconoscimento dell’Organizzazione Mondiale della Sanità2. Ciò tuttavia non ha comportato alcun miglioramento significativo nella protezione nei luoghi pubblici e di lavoro per gli operatori sanitari ed altri lavoratori essenziali. Continua infatti a mancare la messaggistica pubblica per evidenziare il rischio di trasmissione aerea negli ambienti condivisi e si concentra ancora oggi l’informazione sulla igiene delle mani e sul distanziamento. Solo pochi giorni fa uno dei più eminenti medici italiani ha dichiarato che la maggiore infettività delle varianti del virus comporterebbe la necessità di imporre un distanziamento maggiore (fino a 2 metri) rispetto a quello attuale: è evidente l’assoluta non conoscenza della trasmissione aerea da parte della comunità medica.

La rapida diffusione globale del COVID-19 ha innescato una ricerca interdisciplinare senza precedenti. I contributi provenienti dai settori dell’ingegneria, delle scienze della vita, della scienza dell’aerosol, della medicina, dell’igiene professionale e dell’epidemiologia stanno guidando un cambiamento di paradigma nella nostra comprensione della trasmissione dei virus respiratori attraverso l’aerosol, incluso anche il COVID-19. L’evidenza è ora schiacciante: la trasmissione aerea del COVID-19 è evidenza scientifica ed è un’importante via di trasmissione.3-6 Ciò è stato elegantemente riassunto da Fang et al.: “forse la più grande sorpresa sul problema della diffusione aerea di SARSCoV2 è che è stato sorprendente per così tante persone“.4

Gli aerosol carichi di virus infettano frequentemente i soggetti suscettibili nelle immediate vicinanze dove sono più concentrati, con una dinamica simile al fumo. In ambienti con ventilazione non ottimale, gli aerosol infettivi possono accumularsi nell’aria dell’ambiente e raggiungere concentrazioni pericolose. Le strategie di controllo mirate a contrastare la trasmissione, come il distanziamento fisico e le mascherine, sono fondamentali per ridurre il rischio di trasmissione di aerosol a corto raggio. Per ridurre la trasmissione aerea negli ambienti chiusi però, la ventilazione e la filtrazione dell’aria sono misure aggiuntive fondamentali, poiché gli aerosol emessi si accumulano in luoghi scarsamente ventilati. Sappiamo che molti luoghi di lavoro, edifici e residenze nelle nostre comunità hanno una ventilazione inferiore agli standard.

Il riconoscimento della trasmissione aerea mette in discussione anche le direttive per i dispositivi di protezione individuale per gli operatori sanitari e altri lavoratori essenziali. La maggior parte degli operatori sanitari e dei lavoratori essenziali continua a utilizzare le “precauzioni contro le goccioline e il contatto”, indossando mascherine chirurgiche mal adattate, anche in ambienti ad alto rischio.

Sulla base delle attuali prove scientifiche, le autorità sanitarie dovrebbero pertanto:

  • aggiornare le linee guida per affrontare il rischio di trasmissione aerea del COVID-19;
  • promuovere strategie per ridurre il rischio di trasmissione nelle abitazioni private, nei luoghi pubblici e nelle aziende attraverso messaggi chiari sulla salute pubblica e istruzione;
  • supportare gruppi di lavoro sulla valutazione della ventilazione e sull’ammodernamento di strutture pubbliche essenziali come scuole e case di cura a lungo termine;
  • assicurarsi che a nessun operatore sanitario ad alto rischio sia negato l’accesso a un dispositivo di protezione idoneo (FFP2, N95, elastomerico o equivalente). La valutazione del rischio da parte del personale sanitario dovrebbe andare oltre la presenza di “procedure che generano aerosol” e dovrebbe prendere in considerazione comportamenti che generano aerosol (es. urla, canti, tosse, starnuti, respiro pesante), vicinanza al paziente, tempo trascorso con il paziente, stima della qualità dell’aria…7
  • raccomandare e distribuire monitor di anidride carbonica (CO2) come misura sostitutiva di una ventilazione adeguata per ridurre il rischio di trasmissione a lungo raggio nell’aria negli ambienti condivisi (durante un’epidemia di tubercolosi, le concentrazioni di CO2 superiori a 1000 ppm hanno aumentato significativamente il rischio.8 Il miglioramento della ventilazione dell’edificio a una concentrazione di CO2 di 600 ppm ha fermato l’epidemia sul nascere);
  • includere unità portatili di filtrazione dell’aria (HEPA) o dispositivi similari (purificatori) per filtrare i bioaerosol all’interno quando la ventilazione non è ottimale;
  • coinvolgere ingegneri e altri specialisti della ventilazione per sviluppare standard di ventilazione per i luoghi chiusi e integrare questi standard nelle linee guida di riapertura per le attività con un rischio maggiore di trasmissione di aerosol (ad esempio ristoranti, bar e palestre).

I “riformatori sanitari” della sanità pubblica di fine Ottocento aprirono la strada al superamento di malattie trasmesse dall’acqua come il colera e la febbre tifoide attraverso investimenti nei sistemi fognari e negli impianti di trattamento delle acque.9 Sono certo che c’era chi pensava che il compito fosse insormontabile. E’ in grado la comunità scientifica degli studiosi dell’aerosol e degli ingegneri di fornire le soluzioni tecniche necessarie? Sicuramente si, dal momento che conosciamo tanto sia della deposizione di particelle durante l’inspirazione nel nostro apparato respiratorio che della generazione di goccioline durante l’espirazione10.

Quando verrà scritta la storia della risposta dell’Italia al COVID-19, spero che il nostro paese sia visto ancora una volta come un innovatore della salute pubblica e non come un paese che abbia rifiutato l’evidenza scientifica. Forse bisognerebbe cominciare a dire che i veri negazionisti risiedono all’OMS…

Bibliografia

  1. Morawska L, Milton D. It Is Time to Address Airborne Transmission of Coronavirus Disease 2019 (COVID-19) Clinical Infectious Diseases, Volume 71, Issue 9, 1 November 2020, Pages 2311–2313.
  2. World Health Organization, Transmission of SARS-CoV-2: implications for infection prevention precautions, Scientific Brief, 9th July 2020
  3. Fang, F., Benson, C., del Rio, C., et al. COVID-19 – Lessons Learned and Questions Remaining. Clinical Infectious Diseases. 26 October 2020.
  4. Nissen, K., Krambrich, J., Akaberi, D. et al. Long-distance airborne dispersal of SARS-CoV-2 in COVID-19wards. Sci Rep 10, 19589 (2020).
  5. Kutter J, de Meulder D, Bestebroer T, et al. SARS-CoV and SARS-CoV-2 are transmitted through the air between ferrets over more than one meter distance. BioRxiv. October 19 2020.
  6. Lednicky J et al. Viable SARS-CoV-2 in the air of a hospital room with COVID-19 patients. International Journal of Infectious Diseases. 11 September 2020.
  7. Buonanno, G., Morawska, L., Stabile, L., 2020. Quantitative assessment of the risk of airborne transmission of SARS-CoV-2 infection: Prospective and retrospective applications. Environmental International, 145, art. no. 106112, DOI: 10.1016/j.envint.2020.106112
  8. Du CR, Wang SC, Yu MC et al. Effect of Ventilation Improvement during a Tuberculosis Outbreak in Underventilated University Buildings. Indoor Air 30(10). December 2019.
  9. Canadian Public Health Association. Sewage and sanitary reformers vs. Night filth and disease.
  10. Morawska L, Buonanno G., 2021. The physics of particle formation and deposition during breathing. Nature Reviews Physics, in stampa.

 

 




Jacinda forever: perché il metodo neozelandese è migliore di quello coreano

La notizia è che, sia pure con ben dieci mesi di inescusabile ritardo, anche Walter Ricciardi finalmente l’ha capita: «Abbiamo l’indice di mortalità […] più alto del mondo», ha dichiarato a L’aria di domenica su LA7 subito prima di Natale, aggiungendo poi che «su 147 Paesi solo 12 hanno fatto bene: 10 sono asiatici e 2 sono Australia e Nuova Zelanda, dove il Natale in questo momento si celebra normalmente», proprio come Ricolfi ed io stiamo dicendo da mesi.

Certo, uno a questo punto si aspetterebbe delle scuse e magari le dimissioni, nonché un duro atto di accusa contro il governo, mentre il “rappresentante-ma-anche-no” della OMS in Italia se ne guarda bene e continua imperterrito a sostenere che «abbiamo fatto molto bene nella prima fase» e che se «in questa seconda fase» le cose vanno male è (manco a dirlo) colpa della gente che «ha rimosso tutto», il che non spiega nulla e, soprattutto, è falso. In realtà, infatti, le cose vanno male esattamente come prima: 33.500 morti in 3 mesi allora (marzo-maggio), 38.200 morti in 3 mesi ora (ottobre-dicembre), una differenza minima che si spiega col fatto che allora era arrivata l’estate, che aveva fatto scendere i contagi e quindi i morti, mentre ora è arrivato l’inverno, che li sta facendo salire, tanto che a gennaio in soli 10 giorni ne abbiamo già avuti 4.500.

Ma non pretendiamo troppo: per come siamo messi, è già un mezzo miracolo che Ricciardi si sia deciso a dire almeno mezza verità e sarebbe un miracolo tutto intero se riuscisse davvero a convincere il governo a cambiare strada, senza continuare a tirare a campare aspettando che ci salvi il vaccino, che in realtà significa aspettare che ci salvi (di nuovo) l’estate. Infatti, è chiaro a chiunque non sia completamente stupido o in malafede che per vaccinare un numero sufficiente di persone ci vorranno diversi mesi, quindi le cose non miglioreranno prima dell’arrivo del caldo, ovvero per almeno altri 4 mesi, che, gestiti in questo modo demenziale, con l’Italia ridotta a una specie di semaforo impazzito, possono fare più danni di un terremoto.

Merita quindi riflettere un po’ più a fondo su quale tra i vari modelli di contrasto al virus potremmo adottare, giacché, contrariamente a quanto ci ha sempre ossessivamente ripetuto la litania governativa, non ce n’è mai stato uno solo, uguale in tutto il mondo, ma parecchi, solo alcuni dei quali hanno funzionato. Certamente non l’ha fatto il “modello Italia”, che, con buona pace di Ricciardi, non è mai stato tale (vedi mio articolo del 19/10, nonché tutti quelli di Luca Ricolfi), né il “modello Germania”, che tale è stato solo per un po’ e poi si è tragicamente sgonfiato (vedi mio articolo del 23/12), ma altri sì.

Anzitutto, c’è il modello cinese, il primo che abbiamo visto in azione, così sintetizzabile: finché puoi, nega tutto, quando non puoi più, chiudi tutto. Ying e Yang, integrazione degli opposti ed eliminazione degli oppositori, la mascherina come immagine e il fucile come sostanza. Efficace lo è, etico un po’ meno, imitabile (almeno da noi) per nulla.

Quindi, dall’altra parte del mare, nonché del cielo, c’è il modello Taiwan, che per la OMS manco esiste, ma cionondimeno ci guarda tutti dall’alto, o meglio, dal basso dei suoi 0,3 mpm (morti per milione), il miglior risultato al mondo, ottenuto grazie all’atavica diffidenza verso la Cina e le sue bugie, che ha portato alla tempestiva e rigidissima chiusura delle frontiere. Oltre che da alcuni paesi asiatici, è stato replicato, con quasi altrettanto successo, da alcuni paesi dell’ex blocco sovietico e della ex Jugoslavia (anche se poi molti hanno rovinato tutto riaprendo troppo presto al turismo internazionale): sarà un caso che avessero avuto a che fare anche loro per lungo tempo con regimi simili a quello di Pechino? È sicuramente il sistema migliore, ma quando hai già il virus in casa non serve più.

Ci sarebbe anche un modello africano, tanto semplice quanto efficace (appena 5 mpm): muori di qualcos’altro prima dei 55 anni (aspettativa di vita attuale del continente) e difficilmente morirai di Covid, che fa il 97% delle sue vittime al di sopra di questa soglia. Per funzionare funziona, ma dubito che qualcuno sia disposto ad adottarlo, a cominciare, se potessero scegliere, dagli stessi africani.

E poi c’è il “mitico” modello coreano (in realtà usato anche in Giappone, in Australia e, almeno parzialmente, anche in altri paesi del Pacifico occidentale), l’unico di cui anche da noi ogni tanto si è parlato, forse perché piaceva il fatto che si basasse su una “App” o forse perché è sempre stato visto (erroneamente) come una versione più efficiente di quello italiano, il che consentiva al governo di cimentarsi nel suo sport preferito, ovvero scaricare la colpa dell’inefficienza sui cittadini, che sarebbero più indisciplinati dei coreani. Per la stessa ragione è anche il modello che viene in genere preferito da chi invece ritiene che qualcosa dovremmo cambiare, ma senza esagerare. Ma è davvero così?

Basta andare a guardare i numeri e ci imbattiamo subito in un’enorme sorpresa, che scompiglia tutti i nostri luoghi comuni al riguardo. Infatti, nella “classifica” dei test in rapporto alla popolazione la Corea del Sud è appena al 125° posto con il 9,2% di abitanti controllati e il Giappone addirittura al 148° con il 4,2%, mentre tra i primi 40 troviamo quasi tutti i paesi messi peggio, tra cui (ovviamente) l’Italia, che è proprio al 40° posto con il 45%, 5 volte più della Corea e addirittura 11 volte più del Giappone. L’Inghilterra è al 17° posto con l’86%, gli USA al 20° con l’81% e l’eterna “maglia nera” Belgio al 27° con il 62%.

Notato di passaggio che la percentuale dell’Italia è circa la metà di quella degli USA di Trump il Pazzo, a cui continuiamo irragionevolmente a sentirci superiori benché in realtà siamo messi peggio in tutto, passiamo a farci la domanda veramente importante: cosa significa tutto ciò? Forse non era vero quello che sia Ricolfi che io abbiamo sempre sostenuto, cioè che fare tamponi su vasta scala è uno dei punti essenziali per un efficace contenimento?

La risposta in realtà è più complessa. Nei primi 40 posti, infatti, ci sono anche diversi paesi virtuosi o semi-virtuosi, come la Danimarca (266 mpm) al 7° posto con il 194%, l’Islanda (85 mpm) al 12° con il 131%, Singapore (5 mpm) al 14° con il 95%, Hong Kong (21 mpm) al 21° con il 73%, la Norvegia (87 mpm) al 33° con il 54%, l’Australia (35 mpm) al 38° con il 46% e la Finlandia (106 mpm) al 39° con il 46% (l’elenco completo si trova su qui). Resta quindi confermato che, contrariamente a quanto ha sostenuto per lungo tempo la OMS, fare molti tamponi serve. Ma evidentemente non basta.

Anzitutto, farne tanti è difficile, soprattutto per i grandi paesi, per trovare il primo dei quali bisogna infatti scendere fino al 17° posto dell’Inghilterra. Inoltre, non è necessariamente garanzia di successo. Il miglior risultato ce l’hanno le isole Far Oer, con appena 20 mpm grazie a un 426% di test, cioè oltre 4 per persona (che però su una popolazione di meno di 50.000 abitanti significa poco più di 200.000 tamponi). Ma il Bahrain, che guida la classifica grazie a uno stratosferico 1435% (cioè ha controllato ogni abitante per ben 14 volte) ha 206 mpm, cioè il decuplo delle Far Oer pur avendo fatto un numero di controlli 3,5 volte maggiore. Le Bermude, che hanno fatto circa 2,5 test per abitante, hanno un discreto 193 mpm, ma Andorra e Lussemburgo, con un tasso simile, hanno rispettivamente 1099 e 840 mpm. E così via.

Certamente su ciò influiscono molto le altre misure adottate: non è certo un caso che Taiwan sia appena al 192° posto con un misero 0,55%, visto che ha puntato tutto, con successo, sulla chiusura delle frontiere, grazie alla quale ha avuto appena qualche centinaio di contagi. Ma ci sono anche delle differenze che dipendono dal modo di gestire e, prima ancora, di concepire gli stessi tamponi.

La verità è che, come ha spiegato più volte il prof. Crisanti (che pure durante la prima fase ha salvato migliaia di vite in Veneto proprio facendo fare i tamponi a tappeto), alla lunga questo sistema funziona solo se abbinato a un efficace sistema di tracciamento dei contagi. Ciò, infatti, permette di fare i test in modo “mirato”, ottenendo risultati molto superiori con numeri molto inferiori: ecco perché Corea e Giappone ne fanno così pochi. A tal fine, però, non basta avere la mitica “App”: questa, infatti, si limita a segnalare quando si entra in contatto con una persona contagiosa, ma perché questa informazione serva occorre che venga usata immediatamente, in modo da spegnere il focolaio sul nascere.

Il problema è che tutto ciò non si improvvisa, perché richiede un sistema sanitario rapido ed efficiente, cioè tutto il contrario di quello italiano, che come qualità è ottimo, ma ha il suo tallone d’Achille proprio nei tempi di attesa, dovuti alla iper-burocratizzazione. Era quindi improbabile già in partenza che il tracciamento potesse funzionare, anche se il catastrofico fallimento della App Immuni, che ha scoperto poco più di 1200 contagi, è andato al di là di tutte le più pessimistiche previsioni. Comunque, siccome è ovviamente impossibile che si faccia ora ciò che non si è fatto in dieci mesi, neanche questa strada è ormai praticabile. Ma potrebbe non essere un male, se ci spingesse ad adottare quello che non solo è l’unico sistema attuabile nella nostra situazione, ma è anche il più efficace di tutti, ovvero il “modello Jacinda”, creato dalla giovanissima premier neozelandese Jacinda Ardern.

Il suo metodo è tanto semplice quanto efficace e si può sintetizzare, come lei stessa ha fatto, nel motto dei mitici All Blacks della Nazionale di rugby: “Hard and early”, ovvero “colpisci duro e subito”. Anche la sua logica è molto semplice: siccome il numero dei contagi dipende dai contatti fra le persone, se si impediscono i contatti, i contagi si azzerano; e siccome il numero dei morti dipende dal numero dei contagi, prima si azzerano i contagi, meno morti ci sono.

Lockdown, quindi, ma totale e immediato: non come da noi, dove è stato deciso con un mese di ritardo e anche nel momento di teorica chiusura totale erano autorizzate a circolare quasi 10 milioni di persone. Ma neanche come in Cina, perché Jacinda per imporlo non ha usato né la forza, come da loro, né la paura, come da noi, bensì la ragione e il coraggio, spiegando pacatamente i motivi della sua scelta e i vantaggi che avrebbe portato e prendendosi sempre personalmente la responsabilità di qualsiasi cosa, anche minima, che fosse andata storta (altro che Conte e soci, per i quali la colpa è sempre nostra).

Per qualche mese il “modello Jacinda” se l’è giocata alla pari con quello coreano, ma da qualche mese in qua la sua superiorità, che io ho sempre sostenuto, mi sembra stia diventando evidente a tutti. È vero, infatti, che il lockdown è molto più duro del tracciamento, ma è anche molto più breve, perché il tempo massimo di incubazione del virus è di 2 settimane, per cui basta chiudere per un tempo di poco superiore per azzerare i contagi. Ma, soprattutto, dopo è davvero finita: in Nuova Zelanda si è tornati alla vita normale già da maggio, mentre coreani e giapponesi sono ancora alle prese con mascherine, disinfettanti e controlli di ogni tipo.

Inoltre, proprio perché molto complesso da gestire, il modello coreano costringe a vivere sempre sul filo del rasoio, tanto più poi col Covid, che, come pare ormai accertato, non ha una diffusione omogenea, ma viene propagato da pochi individui super-contagiosi, per cui basta farsene sfuggire qualcuno per ritrovarsi in pochi giorni davanti a un focolaio di grandi dimensioni.

Questo è successo in modo emblematico all’Australia, che, dopo avere praticamente azzerato i contagi già a fine aprile con appena 102 morti (3,8 mpm, secondo miglior tasso al mondo dopo Taiwan), a metà luglio si è lasciata sfuggire un grosso focolaio a Melbourne, che in 3 mesi ha fatto oltre 800 morti. A questo punto gli australiani hanno decisamente virato in direzione dei “cugini”, adottando per Melbourne un lockdown in stile neozelandese, anche se un po’ ammorbidito, per cui ci hanno messo 3 mesi anziché 3 settimane per azzerare i contagi. Alla fine, però, ce l’hanno fatta e ormai anche da loro si è tornati alla vita normale.

Ma anche quando non si verifichi nulla di così eclatante, col sistema coreano è quasi inevitabile che alla lunga i piccoli errori, che non possono mai essere completamente eliminati, sommandosi provochino una progressiva accelerazione dell’epidemia, all’inizio quasi impercettibile, ma destinata col tempo a prendere sempre più velocità, come ha spiegato benissimo Ricolfi nel suo articolo del 24 ottobre (senza contare poi che più tempo ci si tiene il virus in casa, più è probabile che muti, diventando più contagioso: vedi mio articolo del 7 gennaio). Inoltre, anche nel più efficiente dei paesi il tracciamento funziona solo finché il numero dei contagi giornalieri è basso, per cui se quest’ultimo comincia ad aumentare si innesca un circolo vizioso che, superato un certo limite, manda in crisi il sistema. E sembra che proprio questo stia accadendo negli ultimi tempi, sia in Giappone che perfino nella “mitica” Corea del Sud.

A fine aprile questi paesi avevano rispettivamente 4,1 e 5 mpm, cioè erano più o meno allo stesso livello di Nuova Zelanda (5) e Australia (3,8). Oggi, però, in Corea la mortalità è salita a 22 mpm, cioè è più che quintuplicata, mentre in Giappone è arrivata a 32 mpm, cioè è aumentata di quasi 8 volte. La Nuova Zelanda, invece, ha tuttora 5 mpm, mentre l’Australia dopo Melbourne era salita a 35, ma da allora, cioè da quando si è “Jacindizzata”, da quel 35 non si è più mossa.

Ancor più inquietante è il paragone con l’Italia, che a fine aprile aveva 480 mpm, mentre oggi ne ha 1300, il che significa che da noi (così come, più o meno, anche negli altri paesi europei), la mortalità è cresciuta di 2,7 volte, ovvero la metà della Corea e un terzo del Giappone. Intendiamoci, stiamo parlando di una situazione che è ancora da 40 a 60 volte migliore della nostra, però a me sembra che questi dati dimostrino inequivocabilmente che la prolungata convivenza col virus, anche a bassa o bassissima intensità, non è mai una buona idea, e non solo perché c’è sempre il rischio che la situazione possa sfuggire di mano.

In primo luogo, infatti, mantenere a lungo un sistema di sorveglianza così complesso implica un enorme sforzo, sia organizzativo che economico. Inoltre, si è costretti a sopportare tutta una serie di disagi che, per quanto molto inferiori a quelli che stanno toccando a noi europei, su tempi lunghi non fanno bene né al morale né all’economia, per non parlare delle limitazioni alla libertà personale e alla privacy, che più durano, più diventano pericolose. Ma, infine e soprattutto, perché mai dovremmo fare uno sforzo simile per mantenere basso il livello dei contagi, quando si può azzerarlo del tutto con uno sforzo molto minore?

La Nuova Zelanda (che inizialmente aveva adottato anch’essa il metodo coreano) ci ha messo 3 settimane a capirlo. L’Australia 5 mesi e 900 morti. Noi invece non l’abbiamo capito neanche ora, dopo 10 mesi e 80.000 morti. La domanda è: perché? La risposta è molto complessa, dato che non è univoca, ma dipende da diversi fattori, che cercherò di analizzare in un prossimo articolo.




Covid: solo il Belgio fa peggio dell’Italia

In più di un paese su 3 non c’è stata alcuna seconda ondata

Se in Italia la curva dei contagi (misurata come rapporto fra nuovi positivi e casi testati) ha finalmente iniziato una fase decrescente, i decessi non sembrano ancora aver invertito la rotta. Il trend di crescita sta rallentando, ma i numeri rimangono ancora alti.

Occorre però guardare a ciò che è successo in altri paesi per meglio valutare l’evoluzione dell’epidemia in Italia. Tutti i paesi sono stati investiti da una seconda ondata o vi è chi è riuscito a tenere sotto controllo l’epidemia?

L’unico indicatore affidabile che ci permette di fare comparazioni internazionali è il numero di decessi rapportato alla popolazione. L’individuazione di nuovi casi dipende pesantemente dalle diverse politiche adottate sui tamponi.

Un primo punto interessante da sottolineare è che l’epidemia non ha rialzato la testa ovunque. Su 25 paesi a noi più comparabili (società avanzate esclusi i paesi di piccole dimensioni) 10 non hanno affatto registrato una seconda ondata. Si tratta di Nuova Zelanda, Giappone, Australia, Corea del Sud, Hong Kong, Taiwan e di quattro paesi europei (Irlanda, Danimarca, Finlandia e Norvegia).

Fra questi ve ne sono ben 6 in cui non si può neppure parlare di prima ondata (Nuova Zelanda, Giappone, Australia, Corea del Sud, Hong Kong e Taiwan).

Due (Israele e Grecia), invece, sono i paesi che hanno registrato numeri molto contenuti durante il primo periodo e solo ora sono entrati in una fase acuta dell’epidemia.

Nei restanti 13, l’epidemia ha accelerato sia nella prima che nella seconda fase.

Come si vede dai grafici seguenti, in Svizzera, Austria e Portogallo la seconda ondata è stata addirittura più grave della prima. Mentre però in Svizzera la curva è tornata a puntare verso il basso, Austria e Portogallo non hanno ancora invertito il trend.

I numeri sono in aumento anche per Regno Unito, Grecia, Germania, Svezia, Canada e Italia.

Se si considera però quel che è successo negli ultimi due mesi (ottobre e novembre), solo il Belgio registra numeri peggiori dell’Italia.

Nota tecnica

I dati utilizzati nell’analisi provengono dal database dalla Johns Hopkins University aggiornati al 29 novembre.

Quanto possibile, i dati sono stati corretti per tenere conto dei ricalcoli effettuati dalle autorità nazionali che hanno fornito il dato.

Per “ondata” intendiamo una situazione in cui i nuovi contagiati settimanali per 100 mila abitanti è superiore a 1.




Quanti sono i contagiati in Italia?

Nel grafico seguente riportiamo alcune stime del numero di persone contagiate dal virus Sars-Cov-2 dall’inizio dell’epidemia alla fine di luglio e le confrontiamo con la stima fornita dall’Istat all’inizio di agosto sulla base di una vasta indagine nazionale di sieroprevalenza.

La traiettoria dei contagiati è stata costruita assumendo, prudentemente, che il numero effettivo di morti per Covid-19 sia un po’ inferiore al doppio del numero ufficiale (per l’esattezza: 1.71 volte), e che il tasso di letalità sia compreso fra lo 0.5% e l’1.5%.

Le tre curve sviluppano tre ipotesi sul tasso di letalità (0.5%, 1%, 1.5%) secondo la seguente espressione:

contagiatit = 1.7 * mortit+τ / λhyp

dove τ rappresenta la sfasatura fra contagio e morte (assunta pari a 14 giorni), e λhyp è il tasso di letalità sotto le 3 ipotesi (λ1 = 0.005, curva rossa; λ2 = 0.01, curva gialla; λ1 = 0.015, curva verde).

Il valore di τ è presumibilmente variabile nel tempo ma, nel range 10-25 giorni, non modifica in modo apprezzabile il profilo delle varie curve.

La linea orizzontale in basso rappresenta la stima dell’Istat, ottenuta con un’indagine di sieroprevalenza svolta fra la fine di maggio e la fine di luglio.

Il grafico si ferma al 31 luglio perché, dopo quella data, a causa dell’abbassamento dell’età mediana dei contagiati e la conseguente progressiva riduzione (temporanea) del tasso di letalità medio, non è più possibile assumere la sostanziale proporzionalità fra numero di contagiati e numero di morti.

Come si vede l’Istat stima 1.5 milioni di contagiati, mentre le nostre stime suggeriscono un numero di contagiati compreso fra 4 e 12 milioni.

Per una spiegazione più ampia vedi “Il Messaggero” del 2 ottobre 2020 e, a partire dal 3 ottobre, il sito della Fondazione Hume.