Barbero, le donne e quel dogma dei cervelli identici

Rapida e puntuale come un riflesso condizionato, è scoppiata la polemica sulle differenze di genere, stavolta a seguito di una domanda “eretica” dello storico Alessandro Barbero: “vale la pena di chiedersi se non ci siano differenze strutturali fra uomo e donna che rendono a quest’ultima più difficile avere successo in certi campi. È possibile che in media, le donne manchino di quella aggressività, spavalderia e sicurezza di sé che aiutano ad affermarsi?”

Queste parole hanno scatenato uno tsunami di commenti scandalizzati su giornali e media, con toni variabili tra l’indignazione e il compatimento. Tra le tante risposte, mi è stata segnalata quella di Antonella Viola, immunologa con un dottorato in biologia evoluzionistica e quindi dotata di una voce autorevole con cui dare pareri sulla questione delle differenze biologiche tra maschi e femmine. In un articolo uscito sulla Stampa, la prof.ssa Viola liquida come una “stupidaggine colossale” l’idea che il successo lavorativo nel mondo contemporaneo possa essere influenzato da differenze biologiche. Prosegue affermando che “dal punto di vista strutturale e funzionale, i cervelli di uomini e donne si somigli[a]no moltissimo”, e che “quando si analizza il cervello, a meno di non studiare i neonati, è impossibile distinguere il contributo del sesso da quello del genere”, attribuendo quest’ultimo agli stereotipi culturali. Anche ammettendo che esistano differenze nella personalità di maschi e femmine, queste sono dovute all’azione degli stereotipi a partire dall’infanzia, non certo a predisposizioni biologiche. Per finire, le disparità di genere nel mondo del lavoro non riflettono le differenze psicologiche tra i sessi ma “una storica gestione del potere da parte degli uomini, che hanno definito il gioco e le sue regole fino a pochissimo tempo fa”.

La prof.ssa Viola è una scienziata eccellente e una divulgatrice di primo piano. È un peccato notare che queste affermazioni, presentate come verità assodate, non rispecchiano tanto lo stato della ricerca scientifica in questo campo quanto certi dogmi ideologici di vecchia data, cristallizzati nel femminismo a partire almeno dagli anni ’70 e in alcuni casi da più di un secolo. Che questi preconcetti continuino a circolare in modo acritico anche tra scienziati e intellettuali di livello testimonia quanto la narrazione sulle questioni di sesso e genere sia diventata semplicistica e distorta, anche sulla scia delle accuse di “neurosessismo” lanciate da ricercatrici e divulgatrici femministe come Cordelia Fine, Gina Rippon, Angela Saini e altre. Questa visione del mondo, che dipinge il cervello come una tabula rasa su cui la cultura incide i suoi stereotipi e pregiudizi, può esercitare un grande fascino su chi ha a cuore valori di giustizia e uguaglianza. Lo so bene anche perché ci sono passato nel corso della mia formazione, prima di cominciare a capire che l’evidenza puntava da un’altra parte e che esisteva un modello alternativo in grado di integrare la psicologia delle differenze di genere con i dati dell’antropologia, della biologia e delle neuroscienze all’interno di una cornice evoluzionistica. Un modello che non è solo meglio fondato dal punto di vista scientifico ma che a mio parere si rivela anche molto più interessante, sofisticato, e rispettoso della realtà psicologica di uomini e donne.

Nel resto di questo articolo rispondo, in estrema sintesi, ai punti sollevati dalla prof.ssa Viola, che rappresentano bene il modello a “tabula rasa” delle differenze di genere. Per ogni punto cerco di offrire una breve panoramica di quello che è lo stato dell’arte della ricerca, con l’obiettivo di ampliare lo spazio della discussione e offrire una prospettiva alternativa. Per non appesantire la lettura, i riferimenti bibliografici si trovano alla fine dell’articolo. A chi volesse approfondire questi e altri aspetti delle differenze di genere, consiglio lo splendido libro di David Geary Male, Female: The Evolution of Human Sex Differences, che purtroppo non è stato ancora tradotto in italiano. Ho discusso alcuni di questi temi in questa intervista per il canale YouTube Il pub del lunedì sera, e a breve ne uscirà un’altra per il canale Liberi oltre le illusioni – STEM. Un’intervista più approfondita (in inglese) si può trovare qui e qui. Come nota a margine, penso che fare distinzioni tra “sesso” (riferito alla biologia del corpo) e “genere” (riferito al comportamento e culturalmente determinato) non sia molto utile a fare chiarezza; è una distinzione che sembra intuitiva ma, esaminata da vicino, si rivela fumosa e incoerente (come ho discusso qui). Per questo motivo uso “sesso” e “genere” come sinonimi, a seconda del contesto.

Distinguere tra natura e cultura: mission impossible?

Dando per scontato che nelle società umane “natura” e “cultura” si intrecciano sempre in modo complesso e creativo, è davvero impossibile identificare i contributi della biologia alle differenze tra i sessi, come sembra implicare la prof.ssa Viola nel suo intervento? Sicuramente è un compito difficile e laborioso, ma (per fortuna) tutt’altro che impossibile. Ci sono almeno quattro fonti di informazione che permettono, in modi diversi tra loro, di separare parzialmente natura e cultura. Ciascuna ha i suoi limiti, ma diventano estremamente potenti quando vengono integrate tra loro.

Per prima cosa ci sono i modelli della biologia evoluzionistica, come quelli che riguardano la selezione sessuale (cioè la selezione naturale che avviene attraverso la scelta del partner e l’accoppiamento). I modelli teorici, di solito espressi in forma matematica, permettono di spiegare le ragioni profonde di alcuni motivi ricorrenti: ad esempio il fatto che, nella maggior parte delle specie animali, i maschi tendono ad essere più aggressivi, competitivi e indiscriminati nella scelta del partner, mentre le femmine tendono ad avere criteri di scelta più stringenti e ad occuparsi di più (quando non in modo esclusivo) della cura dei piccoli. Gli stessi modelli permettono di capire quando e perché queste asimmetrie comportamentali possono attenuarsi (come accade spesso nelle specie in cui entrambi i genitori provvedono alla cura dei piccoli) e di spiegare le eccezioni alla norma (come nei cavallucci marini, dove la gestazione delle uova è portata a termine dai maschi).

La seconda fonte di informazione (strettamente legata alla prima) è il confronto tra specie diverse, più o meno strettamente imparentate e più o meno simili nelle loro caratteristiche ecologiche. Per esempio le differenze di genere negli esseri umani possono essere illuminate dal confronto con altri primati, ma anche con alcune specie di uccelli, che hanno sistemi di accoppiamento e riproduzione per molti versi più vicini a quelli della nostra specie. Per sfatare un luogo comune molto diffuso, vorrei sottolineare che gli studi comparativi possono dare informazioni preziose anche quando evidenziano differenze e unicità; lo scopo è descrivere i fattori che spiegano la variazione e le somiglianze tra specie diverse, non dimostrare che gli esseri umani “sono proprio come” gli scimpanzé, i bonobo o qualche altro animale.

La terza fonte è la comparazione cross-culturale, sia nello spazio (diverse culture nello stesso periodo storico) che nel tempo (la stessa cultura in tempi ed epoche diverse). A dispetto di certi stereotipi, i ricercatori evoluzionisti hanno una lunga tradizione di studi cross-culturali, non solo tra diversi Paesi occidentali ma estesi anche all’Asia e all’Africa. Un ruolo particolare è ricoperto dallo studio dei cacciatori-raccoglitori, che sono in larga parte isolati dall’influenza dei mass media e dei modelli culturali occidentali, oltre a vivere in condizioni molto più simili a quelle in cui la nostra specie si è evoluta per centinaia di migliaia di anni. Le notevoli differenze economiche, sociali e di stile di vita che esistono tra diversi Paesi e regioni del mondo possono essere usate in modo efficace per mettere alla prova ipotesi alternative sulle cause delle differenze di genere.

Per finire, ci sono gli studi in cui tratti, comportamenti e differenze cerebrali vengono correlati a variazioni negli ormoni sessuali, soprattutto estrogeni e androgeni. Naturalmente le correlazioni, prese da sole, non permettono di fare affermazioni certe rispetto alle cause del comportamento. Però i dati correlazionali diventano molto più forti quando l’esposizione agli ormoni avviene all’inizio dello sviluppo, o addirittura prima della nascita durante la gestazione. Con le dovute cautele, i dati raccolti negli esseri umani possono essere confrontati e integrati con quelli degli studi animali, dove invece è possibile applicare controlli sperimentali e manipolare direttamente i meccanismi ormonali. I ricercatori sfruttano anche quelli che possono essere considerati “esperimenti naturali”: patologie o condizioni di sviluppo atipiche in cui vengono modificati i normali processi di differenziazione sessuale. Un esempio è il trasferimento ormonale prenatale tra gemelli, per cui (ad esempio) le gemelle femmine ricevono una dose maggiore di androgeni se passano la gestazione insieme ad un gemello maschio, rispetto a quelle che si sviluppano insieme ad un’altra gemella. Un altro è l’iperplasia surrenale congenita, una patologia che causa un’iper-produzione di androgeni nelle femmine che ne sono affette. Si tratta di dati difficili da ottenere, ma molto utili per isolare in modo preciso gli effetti degli ormoni sessuali nello sviluppo. Ad esempio, gli studi che hanno seguito nel corso degli anni dei campioni di bambine con iperplasia surrenale hanno rivelato effetti importanti degli androgeni sugli stili di gioco e sull’aggressività, e più tardi sugli interessi lavorativi, su certe abilità cognitive, e sull’orientamento sessuale (ma solo in modo marginale sull’identità di genere, nel senso di identificazione con il sesso maschile o femminile).

L’ipotesi di Barbero: realtà o fantasia?

Cosa possiamo dire dell’idea che, in media, le donne manifestino meno “aggressività, spavalderia e sicurezza di sé” degli uomini per ragioni in parte biologiche? Traducendo nel linguaggio della psicologia della personalità, “spavalderia e sicurezza di sé” indicano tratti come assertività, dominanza, autostima e propensione al rischio. Insieme all’aggressività fisica e verbale (la cosiddetta “aggressività relazionale” fa eccezione), tutti questi tratti sono più elevati nei maschi, soprattutto a partire dalla media fanciullezza (il periodo dai 6 agli 11 anni circa, in cui avvengono importanti cambiamenti ormonali) e proseguendo con la pubertà. Queste differenze di genere non sono particolarmente grandi, nel senso che, dal punto di vista statistico, c’è una larga sovrapposizione tra i punteggi di maschi e femmine. Ma sono molto robuste, e vanno nella stessa direzione in culture molto diverse tra loro, comprese le popolazioni di cacciatori-raccoglitori. Contrariamente a quello che ci si aspetterebbe sulla base dei modelli di socializzazione (che attribuiscono lo sviluppo della personalità ad aspettative sociali, stereotipi e discriminazione), queste differenze non diminuiscono nei Paesi con livelli più alti di parità di genere (che tendono anche ad essere più ricchi ed economicamente avanzati). Anzi, nella maggior parte dei casi i dati mostrano l’effetto opposto: al diminuire delle disparità di genere a livello socio-culturale, le differenze di personalità diventano più marcate, come se in presenza di una società più aperta e individualista (e probabilmente una maggiore libertà data al benessere economico) le persone tendessero a esprimere in modo più netto le loro predisposizioni biologiche. Questo è un dato importante, anche perché risulta molto difficile da spiegare con un modello di socializzazione.

Aggressività, dominanza, assertività, autostima e propensione al rischio non sono un assortimento casuale: sono tutti tratti che contribuiscono alla competizione diretta per lo status, cioè la forma di competizione tipica dei maschi, non solo negli esseri umani ma in molti altri primati e mammiferi. Questo è assolutamente in accordo con i modelli di selezione sessuale, che (sulla base delle caratteristiche fisiche riproduttive della nostra specie) predicono una maggiore tendenza maschile alla competizione. Un altro aspetto da considerare è che, in tutte le culture studiate finora, le donne tendono a trovare più attraenti i partner che hanno un alto status sociale; questo implica che, attraverso la nostra storia evolutiva, la selezione per tratti e comportamenti rivolti alla competizione diretta per lo status è stata particolarmente forte nei maschi. Non a caso, la ricerca di dominanza è probabilmente il tratto comportamentale che si associa in modo più robusto agli effetti del testosterone negli adulti. Naturalmente, tutti questi tratti si esprimono e manifestano in modi diversi a seconda del contesto culturale e di sviluppo; lo fanno con luci e ombre, costi e benefici, sia per l’individuo che per la società. La stessa competizione per lo status può avvenire con modalità molto differenti, dall’aggressività fisica alla conquista di ricchezza e ruoli prestigiosi, dall’esibizione di abilità fisiche o intellettuali a quella di qualità morali e di leadership. La cultura incanala, dirige e dà forma alle nostre predisposizioni biologiche, ma non le elimina e soprattutto non le crea dal nulla.

Prima di chiudere questa sezione, c’è un punto fondamentale da chiarire rispetto alle dimensioni delle differenze di genere. Come ho notato prima, le differenze nei tratti di personalità aggressivi e competitivi sono abbastanza contenute, con una larga sovrapposizione tra i punteggi di maschi e femmine. Ma anche quando la differenza media è relativamente piccola, le disparità si amplificano via via che ci si muove verso gli estremi. L’ “uomo medio” non è molto più fisicamente aggressivo della “donna media”, ma se andiamo a vedere chi sono le persone estremamente aggressive, troveremo molti uomini e poche donne. Bisogna anche considerare che, nella maggior parte dei tratti di personalità (così come in molte caratteristiche fisiche come l’altezza), i maschi sono più variabili delle femmine, e quindi hanno una maggiore probabilità di trovarsi sia all’estremo più alto che a quello più basso della distribuzione. Questo vuol dire, per esempio, che ci sono più uomini che donne tra le persone con alta propensione al rischio, ma anche (in misura minore) tra quelle con livelli particolarmente bassi di propensione al rischio. La maggiore variabilità del sesso maschile non è una particolarità degli esseri umani; è una caratteristica comune che si ritrova nella maggior parte delle specie animali e sembra legata, almeno in parte, all’asimmetria della selezione sessuale (che di solito è più intensa nei maschi).

Le stesse considerazioni si applicano anche agli altri tratti discussi qui sopra, e l’effetto si amplifica quando si prendono in considerazione più tratti contemporaneamente. Se so che una persona è piuttosto aggressiva, estremamente dominante e assertiva nelle situazioni sociali, ha l’autostima alle stelle, e non vede l’ora di provare il brivido del rischio e trovarsi in situazioni in cui “o la va o la spacca”, la probabilità che quella persona sia un uomo è davvero molto alta. Da un altro punto di vista: esistono donne con personalità fortemente dominanti, assertive, aggressive, eccetera? Certo che sì, ma sono molte meno degli uomini con le stesse caratteristiche. Anche senza arrivare agli estremi, avere livelli più alti o più bassi della media in questi tratti può influire in modo notevole nei più svariati ambiti di vita. Pensare che queste tendenze a livello della popolazione non abbiano alcun impatto sulle differenze nel successo lavorativo, soprattutto in campi con una forte componente di competizione e/o rischio, è semplicemente assurdo. C’è anche un altro lato della medaglia, che di solito non viene considerato: per i motivi discussi fin qui, possiamo aspettarci che, rispetto alle donne, gli uomini (considerati come gruppo) corrano un rischio più alto di fallimento, spesso proprio negli stessi campi in cui hanno più probabilità di successo. Come ha potuto constatare Barbero, anche solo sfiorare questi temi scatena dei fortissimi tabù intellettuali; ma sono tabù che non hanno motivo di esistere e che non aiutano nessuno a capire le dinamiche sociali, né tantomeno a trovare modi realistici e costruttivi per cambiarle in meglio.

I cervelli di uomini e donne: uguali o diversi?

Anche se Barbero non lo ha nominato, il cervello ha un ruolo di primo piano nell’intervento della prof.ssa Viola, che sottolinea come quest’organo sia “plastico: ciò significa che i circuiti neuronali non sono statici ma si modificano e si creano nel tempo in base agli stimoli ricevuti”. Sicuramente la plasticità è una caratteristica basilare del cervello, dal momento che rende possibili l’apprendimento e la memoria. Però è anche importante non interpretare questo concetto in modo troppo “libero”. La ricerca genetica ha mostrato chiaramente che le caratteristiche anatomiche e funzionali del cervello a livello macroscopico (come il volume e lo spessore di diverse aree, le connessioni tra aree, e i profili di attività sia a riposo che durante compiti cognitivi) sono influenzate in modo sostanziale dalle differenze genetiche tra le persone, e che gli effetti genetici sono spesso più forti di quelli ambientali. Questi dati suggeriscono un certo scetticismo rispetto all’idea che le differenze cerebrali tra maschi e femmine possano essere spiegate facilmente come prodotti dell’esperienza e dell’apprendimento.

Dal punto di vista anatomico, la principale differenza di genere sta nel volume del cervello, che è maggiore del 10-15% negli uomini rispetto alle donne (uno scarto piuttosto ampio dal punto di vista statistico). Questa differenza è solo in parte spiegata dal fatto che gli uomini in media hanno un corpo più grande, e al momento non è per nulla chiaro cosa significhi dal punto di vista funzionale; per esempio, il volume del cervello è correlato al quoziente intellettivo (QI), ma non ci sono differenze marcate nel QI medio tra maschi e femmine. Poi ci sono molte altre differenze, sia nelle dimensioni delle varie regioni cerebrali che nelle connessioni tra regioni. Grazie a queste differenze, è possibile creare algoritmi che, partire dall’anatomia di un cervello, riescono a “indovinare” correttamente il sesso della persona in più del 90% dei casi. Ma una porzione importante di queste differenze è una conseguenza (diretta o indiretta) del maggior volume del cervello dei maschi; quando lo scarto nel volume totale viene corretta con metodi statistici, le differenze diventano nettamente più piccole e l’accuratezza nella classificazione scende al 60-70%.

Che conclusioni si possono trarre da questi dati? Non molte, a dire la verità. Alcuni ricercatori hanno messo in evidenza le piccole dimensioni delle differenze (una volta corrette per il volume totale) e i risultati contrastanti degli studi in questo campo; su questa base hanno sostenuto che le differenze di genere nella struttura e funzione cerebrale sono sostanzialmente trascurabili, come sostiene anche la prof.ssa Viola. Ma proprio perché le differenze sono statisticamente deboli mentre le misurazioni sono imprecise e piene di difficoltà tecniche, è probabile che anche gli studi più grandi eseguiti finora siano in realtà troppo piccoli per dare risultati affidabili. Proprio adesso stanno iniziando a uscire i primi studi con decine di migliaia di soggetti, e i risultati sono molto più precisi e robusti di quanto si sia visto finora. Il problema più profondo è che, dal momento che sappiamo molto poco di come la struttura fisica del cervello influisce sul funzionamento cognitivo, risulta molto difficile decidere se differenze che ci sembrano “piccole” possano invece avere effetti rilevanti sul comportamento.

Ancora più importante è il fatto che, se non si correggono statisticamente le misure per eliminare le differenze di genere nel volume cerebrale totale, i cervelli di uomini e donne risultano piuttosto diversi in tutta una serie di caratteristiche anatomiche. Rimuovere queste differenze equivale ad assumere che non abbiano nessuna importanza dal punto di vista funzionale, ma non abbiamo idea se sia davvero così. Per esempio, uno studio recente sulle associazioni tra tratti di personalità e anatomia cerebrale ha trovato le correlazioni più forti proprio con il volume totale e altre misure globali. Anche queste correlazioni però tendono ad essere piuttosto piccole in senso assoluto, in linea con l’idea che la personalità sia determinata soprattutto da meccanismi neurochimici (neurotrasmettitori, ormoni, ecc.) piuttosto che da differenze anatomiche. È probabile che il funzionamento cerebrale sia ancora più differenziato dal punto di vista neurochimico di quanto non lo sia dal punto di vista puramente anatomico.

Anche se capiamo ancora poco del funzionamento del cervello nei due sessi, ne sappiamo molto di più sulle loro abilità cognitive. Come accennavo prima, il QI è una misura dell’intelligenza generale (indipendente dal tipo specifico di compito). Anche se alcuni studi hanno trovato una media leggermente più alta dei maschi, si tratta di differenze abbastanza piccole e statisticamente difficili da misurare con precisione. Le differenze tra maschi e femmine non stanno tanto nel livello generale di intelligenza quanto nella distribuzione delle abilità cognitive specifiche. Soprattutto a partire dall’adolescenza, le femmine sono in media più brave nei compiti basati sul ragionamento verbale, mentre i maschi hanno prestazioni più alte nei compiti che richiedono abilità visivo-spaziali (per esempio visualizzare oggetti tridimensionali complessi), quantitative, e meccaniche. Inoltre le femmine hanno un vantaggio nei compiti che richiedono di dividere l’attenzione tra molti elementi diversi, mentre i maschi sono avvantaggiati nel prestare attenzione in modo focalizzato. Questi “profili cognitivi” tipici dei due sessi sono robusti dal punto di vista statistico, hanno dei paralleli funzionali in molti altri mammiferi, si ritrovano in culture differenti tra loro, e influenzano in modo sostanziale le scelte accademiche e professionali (per esempio, le persone che hanno abilità visivo-spaziali e quantitative relativamente più sviluppate di quelle verbali tendono a scegliere più spesso di iscriversi a facoltà scientifico-matematiche, le cosiddette STEM).

Come nei tratti di personalità, anche nelle abilità cognitive si osserva il fenomeno della maggiore variabilità maschile. I maschi sono più variabili delle femmine nelle misure generali di QI, nelle abilità cognitive specifiche (verbali, visivo-spaziali, matematiche…) e nei punteggi ai test di creatività, oltre che in molti aspetti dell’anatomia cerebrale. Il risultato è che ci sono più maschi che femmine agli estremi più bassi delle abilità cognitive (e molti più maschi che soffrono di ritardo mentale), ma anche agli estremi più alti delle stesse abilità. Se andiamo a vedere chi sono le persone con capacità quantitative e visivo-spaziali fuori dal comune, troveremo una netta preponderanza maschile, perché il vantaggio medio dei maschi in questo tipo di abilità viene amplificato dalla loro maggiore variabilità. Ovviamente ci sono donne a tutti i livelli della distribuzione, fino ai profili di abilità più estremi; ma, come nel caso della personalità, sono meno degli uomini con le stesse caratteristiche. Come si può immaginare, i tabù sulle differenze di genere nella cognizione sono ancora più incandescenti di quelli sulla personalità. Per questo motivo, i dati che ho presentato in questa sezione rimangono spesso confinati nell’ambito specialistico della ricerca sull’intelligenza, nonostante siano robusti, replicabili e importanti dal punto divista sociale.

C’è un altro aspetto delle differenze di genere che si interseca con quello delle abilità, ma probabilmente risulta ancora più importante nel determinare le scelte lavorative di uomini e donne. Si tratta delle preferenze rispetto alla cosiddetta dimensione cose-persone: mentre gli uomini tendono a preferire lavori centrati su oggetti inanimati o concetti astratti, le donne (in media) hanno una preferenza per lavori centrati sulle persone o con una forte componente relazionale. Si tratta di una delle differenze di genere più marcate tra quelle studiate in psicologia; gli interessi per cose e persone emergono molto presto nello sviluppo (forse addirittura alla nascita), e sono influenzati dall’esposizione agli androgeni durante lo sviluppo. La socializzazione sembra avere poco a che fare con l’origine di queste differenze, anche perché lo scarto tra maschi e femmine sulla dimensione cose-persone è rimasto praticamente invariato per più di 50 anni, nonostante i cambiamenti massicci che sono avvenuti nel mondo del lavoro e della formazione. L’origine evoluzionistica di queste predisposizioni si trova, molto probabilmente, nella divisione del lavoro in base al sesso che ha caratterizzato la nostra storia per centinaia di migliaia (se non milioni) di anni. Non c’è alcun dubbio sul fatto che, nel passato degli esseri umani, alcuni compiti (come la caccia e la produzione di utensili) siano stati appannaggio maschile, mentre altri (come la cura dei piccoli) siano stati delle occupazioni prevalentemente femminili. Dal punto di vista evoluzionistico, è davvero difficile pensare che aver ricoperto ruoli specializzati per decine o centinaia di migliaia di generazioni non abbia plasmato anche i nostri interessi e i nostri profili cognitivi.

Il dibattito natura-cultura in quest’ambito si è concentrato soprattutto sulle abilità visivo-spaziali, vista la loro rilevanza per le carriere nell’ambito STEM. I dati indicano chiaramente che queste abilità mostrano un certo livello di plasticità possono essere migliorate con l’esercizio, almeno nel breve periodo. Insieme al fatto che lo scarto tra maschi e femmine aumenta progressivamente durante lo sviluppo, questo risultato è spesso visto come una dimostrazione che le differenze di genere nelle abilità visivo-spaziali sono prodotte dalla socializzazione. Ma si tratta di un’argomentazione debolissima: anche i muscoli sono plastici, e la massa muscolare si può aumentare con l’esercizio, ma questo non toglie che la differenza nella forza fisica di uomini e donne abbia una chiara base biologica. Così come nelle abilità cognitive, anche le differenze nella forza fisica e nella massa muscolare emergono gradualmente nello sviluppo, aumentando nella media fanciullezza e poi con la pubertà. Il fatto che una certa differenza non sia presente alla nascita dice molto poco sulla sua natura biologica o culturale, come si può capire immediatamente pensando a tratti sessualmente differenziati come la voce, la barba, e così via. Sicuramente esiste uno “stereotipo” sul fatto che gli uomini abbiano la voce più profonda delle donne, ma sarebbe surreale argomentare che questo stereotipo è la causa dell’abbassamento della voce nei ragazzi. Lo stesso discorso si può fare rispetto alle differenze nella personalità, nelle preferenze e nelle abilità cognitive: la semplice esistenza di stereotipi di genere (che, messi alla prova empirica, di solito si rivelano sorprendentemente accurati) non dimostra che siano gli stereotipi a causare le differenze e non viceversa. Alcuni lettori avranno sentito parlare della ricerca sullo stereotype threat, secondo cui “attivare” gli stereotipi di genere (per esempio leggendo un brano sul fatto che i maschi sono più bravi in matematica) è sufficiente per far calare la prestazione di donne e ragazze in certi compiti cognitivi. Questo filone di ricerca ha ricevuto una grandissima pubblicità, perché sembrava dimostrare in modo inequivocabile il potere degli stereotipi di plasmare cognizione e comportamento. Quello che pochi sanno è che i risultati iniziali non sono stati replicati negli studi più grandi e meglio controllati, e che una volta corretti i dati per la tendenza a pubblicare più facilmente i risultati positivi, l’effetto si riduce di molto o addirittura scompare.

Le differenze nelle abilità cognitive e quelle nelle preferenze cose-persone si rinforzano tra loro, e insieme contribuiscono a spiegare la minore rappresentazione delle donne nelle professioni STEM (anche se molto probabilmente non la spiegano del tutto). Se c’è un fattore che sicuramente non spiega le differenze nelle discipline STEM, si tratta della disparità di genere a livello socio-culturale. Infatti, nei paesi con più alta parità di genere i profili delle prestazioni cognitive di maschi e femmine tendono a diventare ancora più sbilanciati, e la proporzione di ragazze che si iscrivono a facoltà STEM tende a diminuire invece che aumentare. È probabile che, anche in quest’ambito, l’allentamento delle pressioni sociali ed economiche porti le persone ad esprimere più liberamente le proprie inclinazioni, con il risultato che le differenze di genere vengono amplificate piuttosto che eliminate.

Per concludere

Nel suo intervento, Barbero ha espresso in modo colloquiale un’idea di senso comune ma tutt’altro che ridicola, che di fatto (e con le dovute precisazioni) collima con i risultati della ricerca sulle differenze di genere. Ma le differenze nei tratti competitivi come assertività e propensione al rischio sono solo una tessera di un puzzle molto più ampio, che spazia dalla personalità fino alle abilità cognitive, agli interessi e alle preferenze. Lo studio di queste differenze rivela un panorama complesso e affascinante, collega tra loro diverse discipline scientifiche, e permette di spiegare in modo coerente moltissimi fenomeni del mondo reale. Tra le altre cose, mostra chiaramente che la discriminazione non è l’unica spiegazione possibile delle differenze di genere, e in molti casi neanche la più rilevante. Il tema della discriminazione in campo formativo e lavorativo è troppo ampio per poterlo aprire qui, ma è importante sottolineare che i dati a riguardo non sono né facili da interpretare né tantomeno “a senso unico”; in bibliografia ho messo degli articoli utili da cui partire per esplorare questo tema, soprattutto rispetto all’ambito accademico e alle discipline STEM.

Purtroppo la nostra cultura intellettuale ha un’enorme difficoltà a fare i conti con le differenze, e le risposte a Barbero ne sono una dimostrazione tra le tante. La cosa più grave è che, a forza di ignorare ostinatamente i dati “scomodi” e reagire attaccando chiunque esca dal recinto stretto del politicamente corretto, la narrazione su questi temi diventa sempre più autoreferenziale, povera di contenuti e sganciata dalla realtà. Con questo articolo ho cercato di dare il mio contributo ad una conversazione più aperta e bilanciata. Che il dibattito continui!


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Uno scambio tra un gruppo di psicologi evoluzionisti e uno di “neurofemministe”, che tocca molti dei temi discussi in questo articolo:

https://sfonline.barnard.edu/neurogenderings/eight-things-you-need-to-know-about-sex-gender-brains-and-behavior-a-guide-for-academics-journalists-parents-gender-diversity-advocates-social-justice-warriors-tweeters-facebookers-and-ever/

https://www.psychologytoday.com/us/blog/sexual-personalities/201904/sex-differences-in-brain-and-behavior-eight-counterpoints

https://www.psychologytoday.com/us/blog/sexual-personalities/201907/responding-ideas-sex-differences-in-brain-and-behavior

  1. Distinguere tra natura e cultura: mission impossible?

Selezione sessuale:

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  1. L’ipotesi di Barbero: realtà o fantasia?

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Kling, K. C., Hyde, J. S., Showers, C. J., & Buswell, B. N. (1999). Gender differences in self-esteem: a meta-analysis. Psychological bulletin, 125(4), 470. Link

Mac Giolla, E., & Kajonius, P. J. (2019). Sex differences in personality are larger in gender equal countries: Replicating and extending a surprising finding. International Journal of Psychology, 54(6), 705-711. Link

Nivette, A., Sutherland, A., Eisner, M., & Murray, J. (2019). Sex differences in adolescent physical aggression: Evidence from sixty‐three low‐and middle‐income countries. Aggressive behavior, 45(1), 82-92. Link

Schmitt, D. P. (2015). The evolution of culturally-variable sex differences: Men and women are not always different, but when they are… it appears not to result from patriarchy or sex role socialization. In The evolution of sexuality (pp. 221-256). Springer. Link

Media fanciullezza e cambiamenti ormonali:

Del Giudice, M. (2014). Middle childhood: An evolutionary-developmental synthesis. Child Development Perspectives, 8, 193-200. Link

Del Giudice, M., Angeleri, R., & Manera, V. (2009). The juvenile transition: A developmental switch point in human life history. Developmental Review, 29, 1-31. Link

Preferenze per il partner:

Conroy-Beam, D., Buss, D. M., Pham, M. N., & Shackelford, T. K. (2015). How sexually dimorphic are human mate preferences?. Personality and Social Psychology Bulletin, 41(8), 1082-1093. Link

Shackelford, T. K., Schmitt, D. P., & Buss, D. M. (2005). Universal dimensions of human mate preferences. Personality and individual differences, 39(2), 447-458. Link

Walter, K. V., Conroy-Beam, D., Buss, D. M., Asao, K., Sorokowska, A., Sorokowski, P., … & Zupančič, M. (2020). Sex differences in mate preferences across 45 countries: A large-scale replication. Psychological Science, 31(4), 408-423. Link

Zhang, L., Lee, A. J., DeBruine, L. M., & Jones, B. C. (2019). Are sex differences in preferences for physical attractiveness and good earning capacity in potential mates smaller in countries with greater gender equality?. Evolutionary Psychology, 17(2), 1474704919852921. Link

Testosterone, dominanza, competizione per lo status:

Benenson, J. F., & Abadzi, H. (2020). Contest versus scramble competition: sex differences in the quest for status. Current opinion in psychology, 33, 62-68. Link

Booth, A., Granger, D. A., Mazur, A., & Kivlighan, K. T. (2006). Testosterone and social behavior. Social Forces, 85(1), 167-191. Link

Carré, J. M., & Archer, J. (2018). Testosterone and human behavior: the role of individual and contextual variables. Current opinion in psychology, 19, 149-153. Link

Hooven, C. (2021). T: The story of testosterone, the hormone that dominates and divides us. Holt. Link

Distribuzioni e variabilità:

Archer, J., & Mehdikhani, M. (2003). Variability among males in sexually selected attributes. Review of General Psychology, 7(3), 219-236. Link

Del Giudice, M. (in press). Measuring sex differences and similarities. In D. P. VanderLaan & W. I. Wong (Eds.), Gender and sexuality development: Contemporary theory and research. Springer. Link

Lehre, A. C., Lehre, K. P., Laake, P., & Danbolt, N. C. (2009). Greater intrasex phenotype variability in males than in females is a fundamental aspect of the gender differences in humans. Developmental Psychobiology, 51(2), 198-206. Link

Thöni, C., & Volk, S. (2021). Converging evidence for greater male variability in time, risk, and social preferences. Proceedings of the National Academy of Sciences, 118(23). Link

Wyman, M. J., & Rowe, L. (2014). Male bias in distributions of additive genetic, residual, and phenotypic variances of shared traits. The American Naturalist, 184(3), 326-337. Link

Una sintesi molto leggibile di alcuni risultati importanti riguardo alle differenze di personalità:

https://blogs.scientificamerican.com/beautiful-minds/taking-sex-differences-in-personality-seriously/

  1. I cervelli di uomini e donne: uguali o diversi?

Influenze genetiche sull’anatomia e funzionamento cerebrale:

Adhikari, B. M., Jahanshad, N., Shukla, D., Glahn, D. C., Blangero, J., Fox, P. T., … & Kochunov, P. (2018). Comparison of heritability estimates on resting state fMRI connectivity phenotypes using the ENIGMA analysis pipeline. Human brain mapping, 39(12), 4893-4902. Link

Deary, I. J., Cox, S. R., & Hill, W. D. (2021). Genetic variation, brain, and intelligence differences. Molecular Psychiatry, 1-19. Link

Jansen, A. G., Mous, S. E., White, T., Posthuma, D., & Polderman, T. J. (2015). What twin studies tell us about the heritability of brain development, morphology, and function: a review. Neuropsychology review, 25(1), 27-46. Link

Le Guen, Y., Amalric, M., Pinel, P., Pallier, C., & Frouin, V. (2018). Shared genetic aetiology between cognitive performance and brain activations in language and math tasks. Scientific reports, 8(1), 1-11. Link

Differenze anatomiche generali:

Ritchie, S. J., Cox, S. R., Shen, X., Lombardo, M. V., Reus, L. M., Alloza, C., … & Deary, I. J. (2018). Sex differences in the adult human brain: evidence from 5216 UK biobank participants. Cerebral cortex, 28(8), 2959-2975. Link

Williams, C. M., Peyre, H., Toro, R., & Ramus, F. (2021). Neuroanatomical norms in the UK Biobank: The impact of allometric scaling, sex, and age. Human Brain Mapping, 42(14), 4623-4642. Link

Correlazione tra volume cerebrale e QI:

Deary, I. J., Cox, S. R., & Hill, W. D. (2021). Genetic variation, brain, and intelligence differences. Molecular Psychiatry, 1-19. Link

Pietschnig, J., Penke, L., Wicherts, J. M., Zeiler, M., & Voracek, M. (2015). Meta-analysis of associations between human brain volume and intelligence differences: How strong are they and what do they mean? Neuroscience & Biobehavioral Reviews, 57, 411-432. Link

Predizione del sesso a partire dall’anatomia cerebrale, correzione per il volume:

Anderson, N. E., Harenski, K. A., Harenski, C. L., Koenigs, M. R., Decety, J., Calhoun, V. D., & Kiehl, K. A. (2019). Machine learning of brain gray matter differentiates sex in a large forensic sample. Human brain mapping, 40(5), 1496-1506. Link

Eliot, L., Ahmed, A., Khan, H., & Patel, J. (2021). Dump the “dimorphism”: Comprehensive synthesis of human brain studies reveals few male-female differences beyond size. Neuroscience & Biobehavioral Reviews. Link

Luo, Z., Hou, C., Wang, L., & Hu, D. (2019). Gender identification of human cortical 3-D morphology using hierarchical sparsity. Frontiers in human neuroscience, 13, 29. Link

Sanchis-Segura, C., Ibañez-Gual, M. V., Aguirre, N., Cruz-Gómez, Á. J., & Forn, C. (2020). Effects of different intracranial volume correction methods on univariate sex differences in grey matter volume and multivariate sex prediction. Scientific Reports, 10(1), 1-15. Link

Xin, J., Zhang, Y., Tang, Y., & Yang, Y. (2019). Brain differences between men and women: evidence from deep learning. Frontiers in neuroscience, 13, 185. Link

Un articolo recente di Lise Eliot e colleghi sulla natura (secondo loro trascurabile) delle differenze cerebrali, e alcune risposte critiche:

Eliot, L., Ahmed, A., Khan, H., & Patel, J. (2021). Dump the “dimorphism”: Comprehensive synthesis of human brain studies reveals few male-female differences beyond size. Neuroscience & Biobehavioral Reviews. Link

Goldman, D. (2021). On Dump the “dimorphism”: Comprehensive synthesis of human brain studies reveals few male-female differences beyond size. Link

Hirnstein, M., & Hausmann, M. (2021). Sex/gender differences in the brain are not trivial-a commentary on Eliot et al. (2021). Neuroscience and Biobehavioral Reviews, 130, 408-409. Link

Williams, C. M., Peyre, H., Toro, R., & Ramus, F. (2021). Sex differences in the brain are not reduced to differences in body size. Neuroscience & Biobehavioral Reviews. Link

Correlazioni tra personalità e anatomia cerebrale:

Hyatt, C. S., Sharpe, B. M., Owens, M. M., Listyg, B. S., Carter, N. T., Lynam, D. R., & Miller, J. D. (2021). Searching High and Low for Meaningful and Replicable Morphometric Correlates of Personality. Journal of Personality and Social Psychology. Link

Differenze nelle abilità cognitive:

Arribas-Aguila, D., Abad, F. J., & Colom, R. (2019). Testing the developmental theory of sex differences in intelligence using latent modeling: Evidence from the TEA Ability Battery (BAT-7). Personality and Individual Differences, 138, 212-218. Link

Johnson, W., & Bouchard Jr, T. J. (2007). Sex differences in mental abilities: g masks the dimensions on which they lie. Intelligence, 35(1), 23-39. Link

Reilly, D., Neumann, D. L., & Andrews, G. (2015). Sex differences in mathematics and science achievement: A meta-analysis of National Assessment of Educational Progress assessments. Journal of Educational Psychology, 107(3), 645. Link

Reilly, D., Neumann, D. L., & Andrews, G. (2019). Gender differences in reading and writing achievement: Evidence from the National Assessment of Educational Progress (NAEP). American Psychologist, 74(4), 445. Link

Stoet, G., & Geary, D. C. (2020). Sex-specific academic ability and attitude patterns in students across developed countries. Intelligence, 81, 101453. Link

Wai, J., Hodges, J., & Makel, M. C. (2018). Sex differences in ability tilt in the right tail of cognitive abilities: A 35-year examination. Intelligence, 67, 76-83. Link

Wai, J., Putallaz, M., & Makel, M. C. (2012). Studying intellectual outliers: Are there sex differences, and are the smart getting smarter?. Current Directions in Psychological Science, 21(6), 382-390. Link

Warne, R. T. (2020). In the know: Debunking 35 myths about human intelligence. Cambridge University Press. Link

Scelte formative e professionali:

Dekhtyar, S., Weber, D., Helgertz, J., & Herlitz, A. (2018). Sex differences in academic strengths contribute to gender segregation in education and occupation: A longitudinal examination of 167,776 individuals. Intelligence, 67, 84-92. Link

Halpern, D. F., Benbow, C. P., Geary, D. C., Gur, R. C., Hyde, J. S., & Gernsbacher, M. A. (2007). The science of sex differences in science and mathematics. Psychological science in the public interest, 8(1), 1-51. Link

Wang, M. T., Eccles, J. S., & Kenny, S. (2013). Not lack of ability but more choice: Individual and gender differences in choice of careers in science, technology, engineering, and mathematics. Psychological science, 24(5), 770-775. Link

Variabilità:

Arden, R., & Plomin, R. (2006). Sex differences in variance of intelligence across childhood. Personality and Individual Differences, 41(1), 39-48. Link

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He, W. J., & Wong, W. C. (2011). Gender differences in creative thinking revisited: Findings from analysis of variability. Personality and Individual Differences, 51(7), 807-811. Link

Johnson, W., Carothers, A., & Deary, I. J. (2008). Sex differences in variability in general intelligence: A new look at the old question. Perspectives on psychological science, 3(6), 518-531. Link

Karwowski, M., Jankowska, D. M., Gralewski, J., Gajda, A., Wiśniewska, E., & Lebuda, I. (2016). Greater male variability in creativity: a latent variables approach. Thinking Skills and Creativity, 22, 159-166. Link

Lakin, J. M. (2013). Sex differences in reasoning abilities: surprising evidence that male–female ratios in the tails of the quantitative reasoning distribution have increased. Intelligence, 41(4), 263-274. Link

Wierenga, L. M., Doucet, G. E., Dima, D., Agartz, I., Aghajani, M., Akudjedu, T. N., … & Wittfeld, K. (2020). Greater male than female variability in regional brain structure across the lifespan. Human brain mapping. Link

Preferenze cose-persone:

Berenbaum, S. A., & Beltz, A. M. (2021). Evidence and Implications From a Natural Experiment of Prenatal Androgen Effects on Gendered Behavior. Current Directions in Psychological Science, 30(3), 202-210. Link

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Lippa, R. A. (2010). Sex differences in personality traits and gender-related occupational preferences across 53 nations: Testing evolutionary and social-environmental theories. Archives of sexual behavior, 39(3), 619-636. Link

Lippa, R. A., Preston, K., & Penner, J. (2014). Women’s representation in 60 occupations from 1972 to 2010: More women in high-status jobs, few women in things-oriented jobs. PloS one, 9(5), e95960. Link

Morris, M. L. (2016). Vocational interests in the United States: Sex, age, ethnicity, and year effects. Journal of Counseling Psychology, 63(5), 604. Link

Su, R., Rounds, J., & Armstrong, P. I. (2009). Men and things, women and people: a meta-analysis of sex differences in interests. Psychological bulletin, 135(6), 859. Link

Dibattito sulle abilità spaziali:

Cashdan, E., & Gaulin, S. J. (2016). Why go there? Evolution of mobility and spatial cognition in women and men. Human Nature, 27(1), 1-15. Link

Eliot, L., Ahmed, A., Khan, H., & Patel, J. (2021). Dump the “dimorphism”: Comprehensive synthesis of human brain studies reveals few male-female differences beyond size. Neuroscience & Biobehavioral Reviews. Link

Lauer, J. E., Yhang, E., & Lourenco, S. F. (2019). The development of gender differences in spatial reasoning: A meta-analytic review. Psychological Bulletin, 145(6), 537. Link

Uttal, D. H., Meadow, N. G., Tipton, E., Hand, L. L., Alden, A. R., Warren, C., & Newcombe, N. S. (2013). The malleability of spatial skills: a meta-analysis of training studies. Psychological bulletin, 139(2), 352. Link

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Wood, B. M., Harris, J. A., Raichlen, D. A., Pontzer, H., Sayre, K., Sancilio, A., … & Jones, J. H. (2021). Gendered movement ecology and landscape use in Hadza hunter-gatherers. Nature human behaviour, 5(4), 436-446. Link

Accuratezza degli stereotipi:

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Löckenhoff, C. E., Chan, W., McCrae, R. R., De Fruyt, F., Jussim, L., De Bolle, M., … & Terracciano, A. (2014). Gender stereotypes of personality: Universal and accurate? Journal of Cross-Cultural Psychology, 45(5), 675-694. Link

Fallimenti della teoria dello stereotype threat:

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Shewach, O. R., Sackett, P. R., & Quint, S. (2019). Stereotype threat effects in settings with features likely versus unlikely in operational test settings: A meta-analysis. Journal of Applied Psychology, 104(12), 1514. Link

Parità di genere, profili cognitivi e STEM:

Stoet, G., & Geary, D. C. (2018). The gender-equality paradox in science, technology, engineering, and mathematics education. Psychological science, 29(4), 581-593. Link

Stoet, G., & Geary, D. C. (2020). Sex-specific academic ability and attitude patterns in students across developed countries. Intelligence, 81, 101453. Link

  1. Per concludere

Ceci, S. J., Ginther, D. K., Kahn, S., & Williams, W. M. (2014). Women in academic science: A changing landscape. Psychological science in the public interest, 15(3), 75-141. Link

Ceci, S. J., Kahn, S., & Williams, W. M. (2021). Stewart-Williams and Halsey argue persuasively that gender bias is just one of many causes of women’s underrepresentation in science. European Journal of Personality, 35(1), 40-44. Link

Ceci, S. J., & Williams, W. M. (2011). Understanding current causes of women’s underrepresentation in science. Proceedings of the National Academy of Sciences, 108(8), 3157-3162. Link

Stewart-Williams, S., & Halsey, L. G. (2021). Men, women and STEM: Why the differences and what should be done? European Journal of Personality, 35(1), 3-39. Link

Sito di Marco Del Giudice: https://marcodg.net




Dove va il politicamente corretto? Uno sguardo dagli USA

Intervista di Luca Ricolfi al prof. Marco Del Giudice, docente di psicologia evoluzionistica e metodi quantitativi, che da 8 anni insegna e fa ricerca negli USA”

Sito di Marco Del Giudice: https://marcodg.net

Del Giudice, lei ha lasciato l’Università italiana nel 2013 e sta facendo una brillante carriera negli Stati Uniti. Come sa, il 2013 (secondo alcuni) è anche l’anno del “Great Awokening”, ossia del processo di radicalizzazione del mondo progressista. Lei come ha vissuto quel processo? Quando ha avvertito il cambiamento? Fin dal suo arrivo in America, o solo a un certo punto?
Ho cominciato a vivere per dei periodi negli USA nel 2009, ma il fatidico 2013 l’ho passato in Italia a fare preparativi per il trasferimento. Quando ho preso servizio nel 2014 all’Università del New Mexico insieme a mia moglie Romina (che è stata assunta nello stesso dipartimento), il cambiamento di atmosfera già si sentiva. C’erano stati i primi incidenti tra docenti e studenti legati alla libertà di espressione, e si iniziava a sentire una tensione insolita rispetto a temi come le differenze di genere, che sono uno dei miei argomenti di ricerca come psicologo evoluzionista. Nel giro di un paio d’anni l’atmosfera nelle università si è scaldata con le sempre più frequenti “cancellazioni” degli speaker politicamente controversi, ed è diventata incandescente dopo l’elezione di Trump, che ha letteralmente traumatizzato la sinistra americana. Per dire, subito dopo le elezioni del 2016, molte università e dipartimenti (incluso il nostro) hanno iniziato a mandare mail di conforto a studenti e professori, e tenere gruppi di auto-aiuto per chi era rimasto sconvolto dal risultato elettorale.
La tensione accumulata, amplificata dai lockdown e dalle elezioni imminenti, è esplosa tutta insieme nella primavera del 2020, quando le proteste per l’uccisione di George Floyd hanno innescato una rapidissima auto-radicalizzazione nelle università, nelle scuole, nei media, nelle piattaforme online, e così via. Nel giro di pochi mesi si è arrivati a quello che mi sento di chiamare un clima da rivoluzione culturale, centrato soprattutto sulle questioni etniche e razziali, ma esteso anche a quelle di genere e agli altri temi del movimento che va sotto le etichette di “wokeness”, “social justice”, “intersectionality”, eccetera. Nessuna istituzione o ambito della vita sociale è rimasto fuori da questa ondata di piena, dall’esercito alle congregazioni religiose alle associazioni mediche e scientifiche, dai libri per bambini ai cartoni animati e alle etichette dei prodotti al supermercato. L’elezione di Biden non ha fermato questo processo ma anzi lo ha accelerato, almeno per ora. Mi ha colpito quanto poco di questi avvenimenti sia filtrato nei media italiani… i miei amici in Italia mi ascoltavano raccontare queste cose come se venissi da una specie di realtà parallela. Mi pare che negli ultimi mesi ci sia stato qualche passaggio di informazioni in più, ma soprattutto attraverso canali “non ufficiali” come social e blog.

Parliamo del politicamente corretto negli Stati Uniti oggi. Come definirebbe il politicamente corretto?
Non voglio provare a dare una definizione ma una prospettiva d’insieme. Il politicamente corretto di solito si riferisce al controllo del linguaggio, per esempio tramite la creazione di tabù, la sostituzione di parole e frasi con altre, la ridefinizione di parole comuni all’introduzione di neologismi e nuove forme di etichetta (per esempio indicare i propri pronomi). Se si rimane a questo livello è facile coglierne gli aspetti più assurdi, perfino al limite della comicità. Ma fermarsi qui sarebbe un errore, perché lo scopo del politicamente corretto è modificare la realtà, e il controllo del linguaggio serve solo e unicamente in quanto strumento per incidere sulla realtà. La manifestazione più ingenua di questo atteggiamento è l’idea che si possa modificare la natura delle cose semplicemente cambiando il modo in cui se ne parla; questo può sembrare una specie di pensiero magico, anche se riflette certe idee postmoderne sulla costruzione sociale della realtà. Però ci sono molti altri effetti sul mondo reale, ben più importanti anche se indiretti. Imporre con successo dei cambiamenti linguistici ha l’effetto di legittimare implicitamente le teorie che hanno motivato quei cambiamenti, giuste o sbagliate che siano (per esempio, la teoria che l’uso generico del genere maschile in italiano serva a rinforzare e perpetuare forme di discriminazione femminile). Bollare certe parole e idee come tabù o introdurre significati alternativi di parole comuni restringe lo spazio della discussione, rende impossibile esprimere critiche e dissenso, e in questo modo apre la strada a riforme istituzionali e legislative via via più radicali, in cui ogni passo giustifica quello successivo. Tutto questo viene fatto in nome di ideali nobili come “rispetto”, “dignità” e “uguaglianza”. Il politicamente corretto è difficile da contrastare proprio perché sfrutta l’empatia e l’altruismo delle persone (facendole sentire allo stesso tempo “dalla parte giusta della storia”) e mette i critici nella posizione di sembrare insensibili, irrispettosi e intolleranti.
È anche importante notare che i termini e pensieri “corretti” cambiano velocemente e in modo imprevedibile; quello che oggi è un discorso avanzato e progressista può diventare problematico e bigotto nel giro di pochi anni, o addirittura pochi mesi (come è successo alle femministe radicali, che oggi vengono bollate come reazionarie dagli attivisti transgender perché considerano il sesso come un fatto biologico inalterabile). Questo induce un senso di ansia strisciante e porta le persone ad evitare certi argomenti o autocensurarsi in via preventiva, fa sì che dibattiti cruciali restino impantanati in questioni semantiche senza uscita, e offre pretesti di ogni tipo per “cancellare” retroattivamente gli avversari e distruggerne la reputazione. C’è di più: il politicamente corretto inietta nella cultura l’idea che le parole siano letteralmente forme di violenza e oppressione, e quindi che le idee “pericolose” giustifichino il ricorso alla censura e alla violenza. Le persone spesso intuiscono tutto questo, e reagiscono alle manifestazioni del politicamente corretto in modi che sembrano sproporzionati o allarmisti se ci si ferma al livello della superficie linguistica. Ma la posta in gioco è molto più alta e molto più seria.
La cosa più importante è riuscire a vedere il politicamente corretto non come un fenomeno a sé stante relativo all’uso del linguaggio, ma come la parte più visibile di una “creatura” ideologica molto più complessa e articolata. La chiamo wokeness perché è il termine colloquiale più comune nel mondo anglosassone, ma anche perché coglie bene lo spirito semi-religioso che la anima (essere woke vuol dire letteralmente essersi “svegliati”, aver aperto gli occhi sui sistemi di potere e oppressione che controllano la vita delle persone). L’idea centrale è che la società sia organizzata secondo una matrice più o meno invisibile di pregiudizi e privilegi (lungo molteplici assi di razza, sesso, identità di genere, orientamento sessuale, disabilità…) che si intersecano e rinforzano tra loro: la famosa “intersezionalità”. Questo crea dei sistemi di oppressione che si auto-perpetuano, operando per lo più a livello implicito e inconscio, e producono disparità tra gruppi e categorie sociali. La possibilità che esistano reali differenze culturali o biologiche (per esempio tra maschi e femmine), e che certe disparità non derivino da ingiustizie sociali ma da caratteristiche e scelte delle persone viene esclusa a priori e considerata moralmente inaccettabile, perfino violenta; anche solo suggerirlo come ipotesi è visto come una forma di oppressione e una manifestazione di sessismo, razzismo, ecc.
La wokeness vede la democrazia liberale come un’illusione che perpetua l’oppressione di donne, minoranze etniche e sessuali, e così via dietro una facciata di principi solo apparentemente giusti e imparziali. Qualunque opzione di neutralità politica (per esempio l’idea di tenere il più possibile separata la ricerca scientifica dall’attivismo, o di non usare le scuole per indottrinare politicamente i bambini) viene interpretata come una maniera subdola di perpetuare lo status quo e mantenere i privilegi delle categorie dominanti. Per questo la wokeness è sospettosa (se non ostile) verso principi liberali come la libertà di espressione o l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Abbraccia tutti gli aspetti della società e della cultura con la convinzione di essere dalla parte giusta della storia, e si concentra su come i sistemi di oppressione vengono interiorizzati (spesso in modo inconsapevole) ed espressi nella percezione, nelle emozioni, nel pensiero e nel linguaggio delle persone. In altre parole, ha una visione del mondo profondamente totalitaria, e si esprime in forme totalitarie (censura, processi sommari, delazione, “struggle sessions” e rieducazione, autodenunce e auto da fé…) ogni volta che prende il controllo di un gruppo o di un’istituzione. Il caso sconcertante dell’Evergreen College (documentato in dettaglio da Benjamin Boyce e Mike Nayna) è un esempio emblematico di cosa può succedere quando questi principi vengono messi in pratica a livello istituzionale.
Questa corrente ideologica ha iniziato a prendere forma nella sinistra accademica a partire dagli anni ’70, virando dalle questioni di classe a quelle di identità e incorporando alcuni concetti chiave della filosofia postmoderna. È cresciuta e si è sviluppata nelle università, in particolare nelle discipline umanistiche, in alcune scienze sociali come la sociologia e l’antropologia, e soprattutto nei dipartimenti di educazione (education schools) e nella galassia in continua espansione degli “studies” identitari (tra cui women’s studies, gender studies, queer studies, Black studies, Latino studies e così via). Dalle università ha continuato a diffondersi nelle scuole (ritornando poi alle università via via che i ragazzi crescevano e si iscrivevano al college), ai media, ai dipartimenti di risorse umane delle grandi aziende. Ha iniziato a farsi sentire negli anni ’90, ma non aveva ancora la massa critica per diventare una forza dominante nella sinistra, che pure stava diventando sempre più elitaria e sganciata dagli interessi della working class. Probabilmente anche grazie all’effetto accelerante dei social media, la massa critica è arrivata intorno al 2010, ed eccoci qua. Tra i critici e/o cronisti più interessanti di questo periodo convulso metterei Douglas Murray, Jordan Peterson, James Linsday, Bari Weiss, Wesley Yang, Zachary Goldberg, Richard Hanania, e altri collegati a riviste online come Quillette. Poi ci sono trent’anni di letteratura accademica e non; alla fine dell’intervista posso mettere qualche libro consigliato tra quwlli più recenti. Raccomando anche un’interessante video intervista sul politicamente corretto e identity politics fatta da Dario Maestripieri, mio caro amico e biologo all’università di Chicago.

Può farci qualche esempio concreto, per far capire al lettore italiano come si manifesta il politicamente corretto nella sua università e, se vuole, anche nella vita quotidiana.
Gli Stati Uniti sono un Paese incredibilmente vario dal punto di vista sociale e politico, per cui le esperienze di vita quotidiana dipendono molto dal posto in cui si vive. Più che un aneddoto specifico, mi sento di condividere un’esperienza che sta diventando sempre più comune: se non si è tra persone di fiducia o che si sa per certo essere “dalla stessa parte”, la reazione immediata è smettere di dire quello che si pensa, iniziare a pesare ogni parola, e usare frasi fatte e generiche, evitando accuratamente qualsiasi argomento che possa essere vissuto come problematico o offensivo (la lista si allunga ogni giorno di più). Prevedibilmente, il politicamente corretto ha tolto spontaneità alle relazioni sociali e le ha rese molto più caute, superficiali e legnose. Mi rendo conto che è difficile da spiegare se non si è provato. Quest’anno mia moglie ed io siamo tornati in Italia per qualche mese; la prima sensazione che ci ha sorpreso è stata che le persone si parlassero normalmente, tranquillamente, in un modo a cui non eravamo più abituati; come se all’improvviso si fosse sollevato un velo. Un’altra esperienza rivelatrice è quella di guardare film o serie TV girate negli anni ’90, nei primi anni 2000, o perfino intorno al 2010, e restare sorpresi per come fosse possibile dire o mostrare cose che ora sarebbero verboten. Lo spazio pubblico del discorso e delle rappresentazioni si sta restringendo velocemente, a fronte di una concentrazione sempre più ossessiva su pochi temi (questioni di razza, genere, orientamento sessuale, eccetera); è incredibile quanto in fretta ci si abitua, l’unico modo per rendersene conto è confrontare la produzione di oggi con quella del passato, anche molto recente.
Per quanto riguarda l’accademia USA, si tratta di una specie di Stato a sé, con una cultura molto uniforme e pochissimo radicamento nelle realtà locali (gli accademici americani si spostano molto di più tra università e Stati di quanto non succede in Italia o in Europa). Dentro le università, secondo me siamo già oltre la fase del politicamente corretto: con poche eccezioni, il conformismo ideologico è talmente capillare da essere diventato quasi un fatto naturale, come l’aria che si respira. Gli speech code che regolamentano il linguaggio e puniscono frasi e atteggiamenti “offensivi”; i training obbligatori su cosa si può e non si può dire quando si presentano situazioni problematiche con studenti e colleghi; il fatto che i candidati vengono valutati in modo diverso a seconda della razza, del sesso e dell’orientamento ideologico; i libri di testo depurati per non offendere nessuna categoria sensibile e celebrare “equità, diversità e inclusione”; i messaggi dall’amministrazione universitaria, sempre allineati con i progressisti sui temi politici del momento; potrei andare avanti per un bel po’.
Decenni di compromessi, silenzi e quieto vivere da parte degli accademici non attivisti hanno portato (lentamente, passo dopo passo) ad un sistema paternalistico e soffocante, dove limitazioni alla libertà individuale che hanno dell’incredibile (come i codici che disciplinano lo humor e, in qualche caso, le espressioni facciali) vengono vissute come normali, quasi ovvie. È una vera tragedia, perché le università americane sono piene di qualità e competenze a livelli altissimi; ma schierandosi politicamente, dando la priorità a obiettivi ideologici come “equità” e “giustizia sociale” a scapito del rigore accademico, e definendosi sempre più come fabbriche di attivisti stanno bruciando ad una velocità allarmante il capitale di fiducia che hanno accumulato nel tempo. Alla lunga non saranno in grado di mantenere gli standard su cui si basano il loro successo e il loro prestigio; peggio ancora, visto il loro ruolo di leadership rischiano di trascinare con sé una buona parte del sistema accademico internazionale.
A chi volesse farsi un’idea più precisa della situazione, raccomando il sito della Foundation for Individual Rights in Education (FIRE), un’associazione apolitica che lotta da vent’anni per ripristinare i diritti costituzionali del Primo Emendamento nelle università. La National Association of Scholars (NAS) ha un taglio politico più conservatore, e sta portando avanti battaglie e campagne di informazione importantissime, spesso come unica voce critica nel panorama accademico americano.

Ma secondo lei qui in Italia abbiamo idea di che cosa sta accadendo negli Stati Uniti? O viviamo felicemente all’oscuro perché da noi il great awokening è appena all’inizio, e magari non potrà mai veramente esplodere, perché manca l’ingrediente razziale?
Come accennavo all’inizio, mi pare che la consapevolezza di quello cha sta succedendo negli USA (e in altri Paesi anglosassoni come Canada, UK, Australia) a livello sociale e politico sia piuttosto scarsa, e questo è uno dei motivi che mi hanno spinto a fare questa intervista. Parlo di quello che ho potuto vedere nei principali media italiani e sentire parlando con amici e colleghi; naturalmente, molto dipende da quali canali online si seguono e di quali “bolle” politiche e informative si fa parte.
Per quanto riguarda la wokeness, si tratta di un fenomeno globale e globalizzato, anche se è maturato negli USA e in altri Paesi anglosassoni. Esploderà anche in Italia? Fare previsioni è molto difficile, ma provo a fare una lista di differenze sociali e culturali che potrebbero influenzare il corso degli eventi. Per esempio, l’Italia ha una società che si muove e cambia più lentamente, con più inerzia e stacchi meno netti tra le generazioni. I legami familiari e locali sono più forti e contrastano la tendenza all’atomizzazione e all’isolamento, che rendono le persone più fragili ed esposte alla manipolazione emotiva (penso soprattutto agli studenti universitari). Poi c’è una differenza culturale indefinibile, una specie di disincanto “all’italiana” per cui si tende a non prendere le cose troppo sul serio; manca quel fondo idealistico e puritano che negli Stati Uniti si sente, eccome. Naturalmente tutti questi aspetti della società italiana possono essere sia dei vantaggi che dei limiti. Per esempio l’inerzia generazionale e la dimensione locale possono frenare l’innovazione e sprecare occasioni e potenzialità; però possono anche rallentare i cambiamenti impulsivi e smorzare certi eccessi prima di fare troppi danni. Poi in Italia esiste la memoria del fascismo, che da un lato può essere invocata “a sinistra” per sopprimere il dissenso, ma dall’altro può funzionare da anticorpo e rendere più facile riconoscere i sintomi di una deriva totalitaria. Forse non è un caso che i Paesi dove la wokeness ha attecchito più profondamente siano quelli che non hanno fatto l’esperienza di dittature e regimi totalitari nel passato recente.
Un’altra differenza importante è che gli USA hanno avuto più di 50 anni di legislazione espansiva sui diritti civili che, al di là dei suoi risultati positivi, ha portato alla creazione di un’enorme e potente burocrazia a tutela di “equità, diversità e inclusione” nelle aziende e nelle istituzioni. Questa burocrazia tentacolare è stata terreno fertile per la crescita e diffusione della wokeness, ed è uno dei motivi per cui una manciata di attivisti può condizionare o mettere in ginocchio università, aziende, e così via. Christopher Caldwell ha scritto The age of entitlement, un libro importantissimo dove argomenta che la legislazione sui diritti civili a partire dagli anni ‘60 ha di fatto creato una “costituzione parallela” che si pone in conflitto sempre più aperto con quella formale del 1789. Richard Hanania ha fatto un’analisi molto lucida di questo fenomeno in un articolo intitolato Woke institutions is just civil rights law.
Detto tutto questo, sarebbe un errore illudersi che l’Italia sia al riparo. È vero, la questione razziale è molto meno profonda e centrale che negli USA, ma non bisogna dimenticare che la wokeness è un’ideologia totalizzante basata sul principio dell’intersezionalità. Il punto di partenza preciso importa poco: qualsiasi aspetto della storia o della società che possa essere inquadrato nella dinamica privilegio/oppressione può servire come innesco per iniziare il processo di radicalizzazione. Se non è la razza, può essere benissimo il sesso o l’identità di genere. Per fare un altro esempio, l’Italia non ha conosciuto lo schiavismo e la segregazione razziale come gli Stati Uniti; però ha avuto un periodo coloniale che, in linea di principio, potrebbe svolgere la stessa funzione di “peccato originale” da espiare. Ancora: i social media non conoscono frontiere e tendono a creare una monocultura globale molto permeabile, soprattutto per i più giovani. Per via dei miei interessi di ricerca sulle differenze di genere, seguo abbastanza da vicino le evoluzioni del femminismo e dell’attivismo transgender; è molto facile notare che gli attivisti italiani (e i media che ne amplificano la voce) usano le stesse parole, immagini e strategie retoriche delle loro controparti americane. Sono sistemi di idee adattabili e “contagiosi”, capaci di attraversare facilmente le barriere culturali.

Parliamo ancora dell’Università. Immagino che ci siano anche studenti e colleghi che non amano il politicamente corretto, o addirittura lo contestano apertamente. Che cosa succede a chi non si allinea?
Per cominciare, chi non si allinea paga il prezzo dell’ostracismo di colleghi e studenti, e sa di mettere a rischio la propria reputazione (con ricadute sulle possibilità di ricevere finanziamenti, promozioni, offerte lavorative, riconoscimenti, incarichi prestigiosi…). I professori dissidenti vengono bollati come sessisti, razzisti, transfobici e via dicendo, e rischiano di diventare bersagli di boicottaggi o denunce agli uffici per la diversità. Nel regime degli speech code, può bastare una denuncia anonima da parte di uno studente o un collega per far partire lunghi processi interni, sospensioni dall’insegnamento, e altri tipi di sanzioni amministrative. E chi non ha la tenure (il posto a tempo indeterminato) oppure lavora in un’università privata rischia seriamente di perdere il lavoro e la carriera. Sia NAS che FIRE mantengono dei database di professori “cancellati” o finiti nei guai per aver espresso opinioni scomode (o anche solo per aver infastidito qualche attivista con trasgressioni reali o immaginarie). Naturalmente, questo clima incoraggia l’autocensura, specialmente da parte dei più moderati e di chi ha molto da perdere in termini professionali; il silenzio dei moderati lascia campo libero agli attivisti, e così il circolo vizioso continua.
Nel nostro dipartimento, io e mia moglie siamo stati tra i pochi a schierarci apertamente per la libertà di espressione, per la neutralità politica dell’accademia, e contro la subordinazione dell’insegnamento e della ricerca a obiettivi ideologici di “giustizia sociale” e simili. Ovviamente i rapporti all’interno del dipartimento ne hanno risentito, ci siamo presi insulti da alcuni colleghi, e mi è giunta voce che i dottorandi più politicizzati hanno iniziato a boicottare i miei corsi. Devo dire che siamo stati comunque fortunati, perché lavoriamo in un dipartimento dove altri colleghi hanno espresso il loro dissenso, e sebbene si tratti di un gruppetto molto piccolo non ci sentiamo completamente soli. Siamo riusciti anche a ottenere qualche vittoria, e il nostro dipartimento non ha capitolato immediatamente quando l’estate scorsa gli studenti attivisti hanno scritto una lettera di denuncia con richieste di “decolonizzare il curriculum”, introdurre training sulle “microaggressioni” e sulla giustizia razziale, ridurre l’uso di test standardizzati nella valutazione dei candidati, e così via. Molti amici e colleghi in altri dipartimenti e università si trovano isolati, e spesso troppo spaventati per parlare o protestare. Alcuni hanno perso il lavoro o sono diventati “intoccabili” per aver pubblicato articoli e studi politicamente scorretti. Da studente, mi aveva stupito e turbato il fatto che, in tutta l’accademia italiana, solo dodici professori (più o meno uno su cento) avessero rifiutato di giurare fedeltà al fascismo nel 1931. Adesso mi sembra del tutto ovvio, purtroppo.

Esistono oggi negli Stati Uniti gruppi o forze che si oppongono al politicamente corretto? O la resistenza è puramente individuale, e magari anche un po’ criptica?
Gli USA sono un Paese grande, complesso e pieno di energia. Da qui arrivano le manifestazioni più estreme del politicamente corretto, ma anche le voci più forti e interessanti dell’opposizione. Oltre ad organizzazioni avviate come NAS e FIRE, negli ultimi anni stanno nascendo altre realtà come Counterweight, Academic Freedom Alliance (AFA), e Foundation Against Intolerance and Racism (FAIR). Heterodox Academy è un’altra associazione nata qualche anno fa per contrastare il pensiero unico nelle università, ma secondo me si è rivelata troppo debole e timida quando i nodi sono venuti al pettine. In questo momento, le forze in campo sono estremamente sbilanciate a favore della wokeness, ma è difficile prevedere come la situazione si evolverà nei prossimi cinque-dieci anni.
In modo sempre più esplicito, questa nuovo capitolo delle culture wars sta diventando una questione centrale nella politica dei partiti e degli Stati. Per esempio, in questi mesi si stanno combattendo delle importanti battaglie mediatiche e legislative riguardo all’uso nelle scuole pubbliche della critical race theory, che è una componente fondamentale della wokeness a livello teorico/accademico ed è stata adottata in varie forme da una larga fetta di educatori e amministratori scolastici. In parte, la stessa elezione di Trump è stata una reazione all’awokening delle élite progressiste iniziato qualche anno prima. Mi aspetto che negli anni a venire la wokeness e il politicamente corretto (che ne è una manifestazione) monopolizzeranno sempre di più il dibattito politico, non solo negli USA ma anche in Italia e in Europa.

E in Italia? Secondo lei la resistenza al ddl Zan sull’omotransfobia è anche alimentata dalla diffidenza per il politicamente corretto?
Ovviamente sì. Entrambe le parti (pro e contro) si comportano come se la posta in gioco fosse molto più alta rispetto al contenuto specifico del decreto, e hanno assolutamente ragione! Come dicevo, la questione dell’identità di genere è un possibile punto di innesco della wokeness (come lo è stato per certi versi anche negli USA, soprattutto intorno al 2014), e si presta molto bene ad iniettare i principi del politicamente corretto nelle istituzioni e nella cultura usando la forza della legge.

Per finire, una domanda sulle sue scelte di vita, anche familiare. Come è oggi l’America (o meglio il New Mexico, dove lei vive) per uno studioso che ha dei bambini? Potesse tornare al 2013 sceglierebbe sempre di trasferirsi in America? E, per il futuro, pensa di restarvi o non esclude di tornare in Italia?
Non rimpiango la decisione di essermi trasferito e lo rifarei se tornassi indietro. Ho avuto la possibilità di lavorare con colleghi eccezionali, conoscere persone e realtà di ogni tipo, e godere di un ambiente accademico produttivo e amichevole, soprattutto nei primi tempi. I nostri bambini sono nati in America e qui abbiamo costruito la nostra famiglia. Però ci troviamo in un momento molto strano: la sensazione è che la sinistra woke abbia deciso fermamente di smantellare proprio gli aspetti di questo Paese che più ci hanno attirato qui, come la libertà personale e di ricerca, la varietà dei pensieri e delle opinioni, la meritocrazia e lo spirito competitivo. Non credo sia un caso che molti tra i critici più agguerriti della wokeness siano immigrati come noi o vengano da famiglie di immigrati.
Per quanto riguarda il futuro, abbiamo cominciato a considerare seriamente la possibilità di tornare in Italia, soprattutto per i bambini che tra poco inizieranno ad andare a scuola. Sta diventando sempre più difficile trovare scuole (pubbliche o private) che non siano dedicate anima e corpo all’indottrinamento ideologico degli studenti. E la nostra situazione non è neanche così estrema: il New Mexico è uno stato Democratico ma abbastanza periferico, senza il fervore ideologico del Midwest o degli Stati costieri come la California, Washington o New York. Ci stiamo chiedendo se sia giusto far crescere i nostri figli in un contesto dove l’autocensura, il conformismo e la “cancel culture” stanno diventando la norma, dove sta diventando impossibile parlare apertamente della realtà (anche di cose banali come il fatto che esistono due sessi biologici), dove bambini e ragazzi vengono educati a vivere la società come un gigantesco teatro di oppressione e guardare il mondo solo attraverso le lenti deformanti dell’identità razziale e di genere. Non siamo gli unici: attraverso il passaparola, negli ultimi tempi sono stato contattato da altri accademici italiani che lavorano negli USA e stanno facendo le nostre stesse riflessioni. Nel mio piccolo, sto cercando di prendermi le mie responsabilità, facendo quello che posso nell’ambiente accademico qui negli Stati Uniti e cercando di avvertire i miei colleghi italiani di quello che sta succedendo e che potrebbe succedere in futuro. Quando ho letto il Manifesto della libera parola sul sito della Fondazione Hume, l’ho subito voluto sottoscrivere come spero faranno molti altri. Grazie di cuore per avermi dato la possibilità di fare questa intervista e lanciare il mio sasso nello stagno!


 

Letture consigliate:

Bawer, B. (2012). The victims’ revolution: The rise of identity studies and the closing of the liberal mind. Broadside.

Caldwell, C. (2020). The age of entitlement: America since the Sixties. Simon & Schuster.

Campbell, B. (2018). The rise of victimhood culture: Microaggressions, safe spaces, and the new culture wars. Palgrave.

Flynn, J. R. (2019). A book too risky to publish: Free speech and universities. Academica Press.

Lukianoff, G., & Haidt, J. (2019). The coddling of the American mind: How good intentions and bad ideas are setting up a generation for failure. Penguin.

Mac Donald, H. (2018). The diversity delusion: How race and gender pandering corrupt the university and undermine our culture. St. Martin’s Press.

Pluckrose, H., & Lindsay, J. (2020). Cynical theories: How activist scholarship made everything about race, gender, and identity―and why this harms everybody. Pitchstone.

Rauch, J. (1995). Kindly inquisitors: The new attacks on free thought. University of Chicago Press.




Manifesto della Libera Parola

 Chi ha paura della libertà di espressione?

Manifesto della Libera Parola

 

Felici i tempi in cui puoi provare i sentimenti che vuoi, 
e ti è lecito dire i sentimenti che provi
(Tacito)

Io sono responsabile di quello che dico, non di quello che capisci tu
(Massimo Troisi)

 

1 – C’è stato un tempo in cui la censura era di destra e la libertà di espressione era di sinistra.
Era logico, perché la cultura dominante era conservatrice, autoritaria, e un po’ bigotta. I film di Pasolini erano considerati pornografia, e un letterato come Aldo Braibanti poteva essere condannato e imprigionato per plagio, mentre il ragazzo da lui “plagiato” poteva venir rinchiuso in manicomio e sottoposto a elettroshock. Era anche il tempo in cui, per gli omosessuali, uscire allo scoperto richiedeva coraggio, molto coraggio. Un coraggio che ebbero in pochi: Pier Paolo Pasolini, Paolo Poli, Angelo Pezzana, e non molti altri.
In quel tempo, che si prolunga fin verso la metà degli anni ’70, la sinistra ufficiale è ancora guardinga, ma l’intelligentia progressista si schiera risolutamente dalla parte della libertà di espressione in tutti i campi: cinema, arte, teatro, stampa, vita privata. I maggiori scrittori, artisti e intellettuali dell’epoca sono quasi tutti dalla parte di Aldo Braibanti, impegnati contro la censura e contro il reato di plagio.

2 – Tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80, anche grazie al femminismo e alle lotte sull’aborto e i diritti LGBT, le cose cominciano a cambiare. La cultura dominante non è più né bigotta, né conservatrice. Nel 1978 passa la legge sull’aborto, nel 1981 viene abolito il reato di plagio, nel 1982 viene approvata la prima legge che consente il cambiamento di sesso. La stagione delle lotte sociali cede il passo a quella dei diritti civili, le idee progressiste penetrano sempre più nella coscienza collettiva.
E’ in quegli anni che, anche in Italia, prima in modo appena avvertibile, poi in modi sempre più massicci e pervasivi, prendono piede i principi del politicamente corretto.
Essere progressisti comincia a significare, per molti, farsi legislatori del linguaggio. Parte una furia nominalistica che, con ogni sorta di eufemismo e neologismo, si premura di stabilire come dobbiamo chiamare le cose e le persone, in totale spregio del linguaggio e della sensibilità della gente comune.
Solo Natalia Ginzburg, dalle colonne della Stampa prima e dell’Unità poi, avverte del pericolo, con due bellissimi articoli che denunciano l’ipocrisia, e la sopraffazione verso il comune sentire dei ceti popolari, implicite nella pretesa di imporci come dobbiamo parlare e pensare.
Ci troviamo così circondati di parole che non sono nate dal nostro vivo pensiero, ma sono state fabbricate artificialmente con motivazioni ipocrite, per opera di una società che fa sfoggio e crede con esse di aver mutato e risanato il mondo (…).
Così accade che la gente abbia un linguaggio suo, un linguaggio dove gli spazzini sono spazzini e i ciechi sono ciechi, e però trovi quotidianamente intorno a sé un linguaggio artificioso, e se apre un giornale non incontra il proprio linguaggio ma l’altro. Un linguaggio artificioso, cadaverico, fatto di quelle che Wittgenstein chiamava parole-cadaveri. Per docilità, per ubbidienza – la gente è spesso ubbidiente e docile – ci si studia di adoperare quei cadaveri di parole quando si parla in pubblico o comunque a voce alta, e il nostro vero linguaggio lo conserviamo dentro di noi clandestino.  Sembra un problema insignificante ma non lo è. Il linguaggio delle parole-cadaveri ha contribuito a creare una distanza incolmabile fra il vivo pensiero della gente e la società pubblica. Toccherebbe agli intellettuali sgomberare il suolo da tutte queste parole-cadaveri, seppellirle e fare in modo che sui giornali e nella vita pubblica riappaiano le parole della realtà.
Ma le preoccupazioni della Ginzburg cadono nel vuoto. Ormai il politicamente corretto ha iniziato la sua colonizzazione di tutti i gangli della società. Scuole, università, giornali, istituzioni, associazioni professionali, agenzie pubblicitarie, case editrici, reti radio e tv, aziende private, e negli ultimi tempi gli stessi giganti del web, fanno propri i principi della nuova religione della parola, imponendo codici linguistici e sorvegliando il loro rispetto.

3 – Parallelamente, si moltiplicano le richieste di essere messi al riparo da ogni espressione di idee, sentimenti, convinzioni che possano risultare lesive di qualsiasi singola sensibilità: è l’era della suscettibilità, come la chiama Guia Soncini.
Cresce a dismisura la schiera dei “suscettibili”, dei potenzialmente offesi, di tutti coloro che si sentono vittime di un odio, o anche solo di una trascuratezza o maleducazione, o persino di un’intenzione.
O nemmeno: si vedono intenzioni anche dove non ce ne sono. E se ne scoprono di vecchie, andando a ritroso nello spazio e nel tempo. Le opere d’arte del passato vengono sottomesse ai raggi X delle odierne sensibilità, e spesso tagliate, edulcorate o ritirate dalla circolazione. E’ il trionfo della cancel culture, che pretende di togliere dalla vista qualsiasi opera o manifestazione del pensiero che, con la sensibilità di oggi, possa apparire offensiva per qualcuno. Ed è la Caporetto della satira e dell’ironia, forme del discorso che per essere intese richiedono troppa intelligenza e distacco.

4 – Accade così che l’opposizione al politicamente corretto, troppo costosa e sconveniente negli spazi pubblici ufficiali e nell’interazione face to face, trovi solo sui social lo spazio in cui manifestarsi liberamente, per giunta con la protezione di un presunto anonimato. Ma sui social l’opposizione diventa puro sfogo, i pensieri si immiseriscono in brevi formule ad effetto, le parole si colorano di odio. Trionfano insulti e volgarità, proliferano haters e leoni da tastiera. Tutto questo incendia ancor più gli animi benpensanti dei nuovi progressisti, e finisce per esasperare il politicamente corretto. In un circolo vizioso inarrestabile.
Eppure dovrebbe essere chiaro: i cattivi sentimenti che dilagano sui social sono anche mutazioni, varianti più aggressive (e più trasmissibili!) del dissenso. Se chi non è in sintonia con i canoni del politicamente corretto viene sistematicamente squalificato, delegittimato e sanzionato nei luoghi “seri”, è possibile che una parte di quel medesimo dissenso cambi non solo luogo, ma anche natura, trasformandosi in odio, disprezzo, rivalsa, aggressività.  Odio e disprezzo peraltro ricambiati dai custodi del Bene, ai quali spesso risulta difficile non vedere gli avversari come mostri, destituiti di ogni umanità.

5 – In ogni ambiente si crea un clima di sospetto e paura. Si teme di dire la parola sbagliata, fraintendibile, ambigua: in ogni caso, al di là delle intenzioni effettive, offensiva. O anche solo non in linea, non conforme: quindi non accettabile. E si avvia, più o meno inconsapevolmente, un processo di censura preventiva delle proprie idee e delle proprie parole.
Non solo l’informazione (giornali e tivù) si muove con questa circospezione, ma anche l’arte, da sempre per definizione espressione di libertà. Le nuove opere (in letteratura, teatro, cinema, arte figurativa) si formano in un clima di autocensura, in cui la prima preoccupazione degli autori è schivare ogni possibile accusa di offensività o scorrettezza politica. Così, accanto alla massa delle opere prodotte effettivamente, cresce quella delle opere che non si sono prodotte, e forse neppure pensate, per timore dei nuovi conformismi.
L’impegno diventa una condizione necessaria: cessa di essere una delle tante possibilità dell’arte, per diventare l’arma impropria che assicura un vantaggio (e uno scudo) a chi lo pratica e lo ostenta. Il confronto e lo scontro pubblico – aperto e leale – fra concezioni e sensibilità opposte, diventa semplicemente impossibile.

6 – In questo clima la libertà di espressione declina non tanto perché le suscettibilità offese possono ricorrere alla magistratura, naturalmente sensibile allo spirito del tempo, per punire ogni manifestazione giudicata lesiva della propria sensibilità, autostima, reputazione, onorabilità; ma perché sono le stesse istituzioni pubbliche e private a provvedere motu proprio a sanzionare i reprobi, senza aspettare la condanna della magistratura, sulla sola base della violazione di codici aziendali o etici più o meno espliciti. Al posto della censura classica e pubblica (ma ancora fatta da persone in carne e ossa), che ritira i libri e vieta ai minorenni i film scabrosi, si installa un nuovo tipo di censura, tecnologica e privata, non di rado fondata su algoritmi e programmi di intelligenza artificiale, incaricati di scovare ogni contenuto o parola potenzialmente lesiva di qualche principio etico assoluto, o di qualche sensibilità – individuale o di gruppo – giudicata degna di protezione. Con un esito paradossale: i codici etici, indispensabili a qualsiasi soggetto che svolga attività di interesse pubblico, rischiano di trasformarsi in strumenti di censura, o di imposizione delle visioni del mondo dominanti.
Il nuovo clima, vagamente inquisitorio e intimidatorio, non tocca solo scrittori, registi, professori, giornalisti, utenti di internet, ma finisce per inquinare le stesse relazioni faccia a faccia tra le persone, a partire dai giovani e dagli studenti. Lo ha denunciato con forza la femminista libertaria Nadine Strossen:
Gli studenti hanno paura persino di discutere argomenti importanti e delicati come quelli del razzismo, della violenza sessuale e dell’immigrazione, per timore di essere fraintesi, di dire involontariamente qualcosa che possa essere considerato “insensibile” (o peggio), e di diventare oggetto di azioni punitive – che possono andare dal linciaggio sui social alla perdita di opportunità di lavoro. Per troppi giovani negli Stati Uniti sono state ritirate le ammissioni al college a causa di isolati post sui social pubblicati quando erano adolescenti. In breve, temo per la “cancellazione” delle opportunità future, così come dell’attuale libertà di espressione, proprio in nome delle persone oggi più impotenti e vulnerabili.
Anche in ambiti ben più circoscritti e privati, ad esempio a una cena tra amici, succede che si abbia paura di parlare dei temi scottanti del momento (migranti, omofobia, sessismo). Se lo si fa, se si decide di esprimere comunque le proprie idee o anche solo usare le proprie parole in dissonanza con le idee e le parole imposte dal clima circostante, si paga un prezzo, anche molto caro: il gelo immediato degli astanti, il litigio, la rottura definitiva di legami sociali e anche affettivi, l’esclusione futura da ogni cena o incontro, nonché da eventuali rapporti di lavoro, incarichi, carriere e finanziamenti.

7Ed ecco il punto. In un’epoca nella quale l’ideologia fondamentale del mondo progressista è divenuta il politicamente corretto, e il politicamente corretto stesso è diventato il verbo dell’establishment, non stupisce che la censura di ogni espressione disallineata sia diventata una tentazione per la sinistra, e la lotta contro la censura una insperata occasione libertaria per la destra.
Ma è un errore in entrambi i casi. Silenziare, oggi, chi viola il politicamente corretto non è più nobile di quanto lo fosse, ieri, silenziare chi offendeva “il comune senso del pudore”. Le idee e gli atteggiamenti che non ci piacciono si combattono con altre idee e modi di essere, non impedendo agli altri di esprimersi.
Una società moderna, aperta e non bigotta, non può lasciare a una sola parte politica l’esclusiva della difesa della libertà di espressione. Perché la libertà non è né di destra né di sinistra, ma è il principio supremo del nostro vivere civile.

I LiberoParolisti si impegnano affinché la libertà di idee, sentimenti e parole sia sempre e ovunque salvaguardata, affermata, e difesa con forza.

 

Pubblicato su La Ragione del 2 giugno 2021

 

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Se i Pro-Vax fanno più danni dei No-Vax

Grazie al cielo, i vaccini stanno funzionando. E anche bene. Tanto bene che perfino in Italia, con solo il 30% della popolazione che ha ricevuto la prima dose, cominciamo ad assistere a un significativo calo dei contagi. Le morti, invece, per ora sono scese meno, ma questo in gran parte è fisiologico, perché, sia nel bene che nel male, per ovvie ragioni la loro curva presenta sempre un ritardo di un paio di settimane rispetto a quella del contagio, quindi è lecito essere ottimisti anche a questo proposito (anche se in parte ha pesato pure il ritardo con cui abbiamo provveduto a vaccinare gli anziani, che invece non è affatto fisiologico, bensì scandaloso, ma anche questo, finalmente, più o meno lo stiamo sistemando).

Inoltre, guardando ai dati dei paesi che sono più avanti di noi sembra confermato quello che avevo scritto nell’articolo dell’11 marzo scorso, cioè che per incominciare a vedere un abbattimento davvero drastico dei contagi bisogna arrivare intorno al 35% di prime dosi, traguardo che per fortuna è ormai molto vicino, anche perché nelle ultime settimane, come attesta l’Indice DQP di Ricolfi, il ritmo delle vaccinazioni ha finalmente iniziato a crescere in modo sostenuto.

Se a ciò aggiungiamo l’arrivo del caldo, ormai imminente, sembra lecito supporre che entro fine maggio (come avevo previsto nell’articolo suddetto) la situazione dovrebbe tornare a una parvenza di normalità, anche se per uscirne del tutto ci vorrà ancora qualche mese e soprattutto bisognerà che le nostre autorità stavolta usino l’estate per finire di mettere in sicurezza il paese anziché per scrivere libri autocelebrativi (ogni riferimento a quello pubblicato e poi ritirato in tutta fretta l’anno scorso dal Ministro Speranza non è casuale, ma deliberatamente voluto, anche se il problema non si riduce certo a lui soltanto).

Ciò detto, non bisogna tuttavia dimenticare la “falsa partenza” della campagna vaccinale, che ci è già costata migliaia di morti e che rischia di causare danni economici incalcolabili, perché altri paesi sono già tornati o stanno tornando alla normalità, sicché già godono e per diversi mesi per mesi ancora godranno di un vantaggio enorme su chi, come noi, è ancora in mezzo al guado. Ed è giusto ricordare che di tale ritardo e dei gravissimi danni che provocherà è responsabile innanzitutto il governo Conte, insieme alle autorità della UE, che purtroppo di autorità hanno dimostrato di averne ben poca.

A tal proposito, la cosa più preoccupante è che ciò non sembra dipendere tanto dalle persone che ci rappresentano, ma piuttosto dal fatto che nel mondo reale esse di fatto non ci rappresentano, perché nella percezione che se ne ha dall’esterno la UE è sostanzialmente una non-entità, a cui si può fare qualsiasi sgarbo rischiando poco o nulla (anche la famosa vicenda della “sedia negata” dovrebbe indurci alla riflessione più che all’indignazione: perché Erdogan è certamente un volgare dittatore e un becero maschilista, ma altrettanto certamente la Von Der Layen non era la prima donna che riceveva, però è stata la prima a cui ha deciso di fare uno scherzo del genere; e forse sarebbe il caso di cominciare a chiederci il perché).

Tuttavia, proprio considerando che la situazione è già abbastanza complicata di suo, non si sentiva davvero il bisogno di altri problemi. Per questo non si può tacere sulle responsabilità di chi, sia pure involontariamente, ha contribuito a peggiorarla ulteriormente, provocando ritardi supplementari nella già troppo lenta campagna vaccinale italiana ed europea.

Sto parlando anzitutto, ovviamente, dei No-Vax, che in questi mesi stanno dando il peggio di sé, dopo che con le loro folli teorie, diffuse soprattutto “grazie” a Internet, negli ultimi anni erano già riusciti a convincere una fetta non trascurabile della popolazione mondiale (e quindi anche italiana) a guardare con sospetto o addirittura a rifiutare uno degli strumenti più efficaci mai prodotti dalla scienza umana, ovvero i vaccini. Ma sto parlando anche – e ciò è assai meno ovvio, ma purtroppo non meno vero – di molti che di per sé ai vaccini sono favorevoli, ma sui vaccini anti-Covid hanno sollevato perplessità di varia natura, tanto inconsistenti nelle loro motivazioni quanto devastanti nelle loro conseguenze.

Ciò ha infatti contribuito ad allargare il fronte dei contrari ben al di là del tradizionale “bacino di utenza” dei No-Vax “duri e puri”, rendendo scettiche o quantomeno dubbiose moltissime persone che perlopiù si fidano dei vaccini in generale, ma non di “questi” vaccini (quelli che il generale Figliuolo ha definito, ironicamente ma esattamente, “Ni-Vax”). E questo rischia seriamente di metterci di fronte alla “scelta impossibile” tra due alternative ugualmente gravide di conseguenze disastrose: rinunciare a raggiungere l’immunità di gregge o rendere obbligatoria la vaccinazione per tutti.

Un primo tipo di perplessità è nato a causa della grande rapidità con cui i vaccini sono stati creati e testati, benché i principali, che stiamo usando attualmente, fossero molto innovativi e alcuni (i famosi vaccini a RNA di Pfizer/Biontech e Moderna) addirittura di concezione completamente nuova. Tuttavia, benché a prima vista, almeno all’inizio, qualche dubbio potesse sembrare giustificato, in realtà nessuno dei rischi paventati era scientificamente fondato (e infatti nessuno si è concretizzato), come ho cercato di spiegare nell’articolo del 7 gennaio 2021, scritto in collaborazione con il mio amico e collega biologo Alberto Vianelli.

Quanto alla presunta eccessiva rapidità delle verifiche fatte dall’EMA, che qualcuno riteneva (senza peraltro essere in grado di esibire prova alcuna di ciò) frutto di pressioni politiche e/o di interessi economici, anche qui i dubbi erano del tutto infondati, dato che per tutti i vaccini sono state completate le prime tre fasi previste dal protocollo standard, che sono le più importanti, dato che riguardano l’efficacia e la sicurezza. Il vero motivo per cui tutto è stato molto più veloce rispetto al solito è semplicemente che questa volta abbiamo investito molto di più sulla ricerca.

Semmai, se proprio vogliamo trovare qualcosa da criticare, dovremmo piuttosto prendercela con l’eccesso di precauzione usato con il vaccino della Johnson & Johnson, che si poteva adottare con un provvedimento d’urgenza, senza richiedere anche l’approvazione dell’EMA, che non si capisce cosa potesse mai aggiungere a quella delle autorità sanitarie degli Stati Uniti, che di certo non sono meno competenti e affidabili delle nostre. E anche la resistenza allo Sputnik russo sembra difficile da giustificare, visto che con esso San Marino ha già praticamente azzerato i contagi e le morti con appena il 63% di prime dosi somministrate: e poiché la popolazione è di circa 34.000 persone, stiamo parlando di una “sperimentazione” svolta su un campione assolutamente adeguato e per di più nel mondo reale, il che la rende più significativa di qualsiasi test di laboratorio.

L’unica procedura in qualche modo “straordinaria” (peraltro ampiamente giustificata dalla situazione straordinaria in cui ci troviamo) che è stata realmente adottata riguarda la quarta fase, relativa alla verifica della durata della protezione vaccinale e la ricerca di effetti avversi molto rari. Peraltro, per ovvie ragioni, tale fase almeno in parte avviene sempre “sul campo” e inoltre in questo caso poteva essere eseguita nel modo tradizionale solo ritardando di anni la distribuzione dei vaccini, il che sarebbe stato come buttarli nella spazzatura, perché è ora che ci servono. Inoltre, quanto più rapidamente si concluderà la campagna vaccinale, tanto più probabile sarà che il tempo di copertura garantito dai vaccini sia sufficiente, anche qualora si rivelasse abbastanza breve (cosa che peraltro, almeno fino a prova contraria, non c’è ragione di supporre, dato che in genere i vaccini fin qui prodotti per altre malattie immunizzano almeno per qualche anno).

La cosa più paradossale, comunque, è che se la protezione garantita dagli attuali vaccini fosse realmente breve, l’unica cosa ragionevole da fare sarebbe accelerare la campagna vaccinale e non frenarla richiedendo ulteriori controlli, che risulterebbero non solo inutili, ma addirittura controproducenti. Infatti, questi vaccini sono gli unici che abbiamo e anche se si scoprisse che l’immunità che garantiscono è breve non ci sarebbe comunque modo di aumentarla, sicché l’unica cosa che possiamo fare è ridurre al massimo il tempo per cui è necessario che ci proteggano, cercando di raggiungere l’immunità di gregge il più presto possibile. Di conseguenza, la posizione di chi chiede ulteriori controlli è sbagliata se è sbagliata (perché in tal caso non ci sarebbe nessun problema da risolvere) ed è doppiamente sbagliata se è giusta (perché in tal caso il problema ci sarebbe, ma ulteriori controlli lo aggraverebbero anziché risolverlo).

Un secondo tipo di dubbi riguarda invece l’efficacia dei vaccini. Ora, a parte quelle puramente aprioristiche basate sulla velocità del processo, di cui ho appena parlato, le altre perplessità di questo tipo si basavano (e tuttora si basano, nella misura in cui tuttora persistono) quasi esclusivamente su un famoso articolo di Peter Doshi, indubbiamente un luminare del campo, che aveva suscitato molto scalpore, affermando che i risultati delle sperimentazioni portavano a concludere che la loro efficacia reale poteva essere tra il 19% e il 29% invece del 95% dichiarato.

In realtà, però, leggendo attentamente l’articolo si nota subito che l’intera analisi di Doshi si basa sull’assurdo presupposto di calcolare come contagi da Covid tutti i casi “sospetti” verificatisi nel gruppo dei vaccinati anziché solo i casi successivamente “confermati”, sostenendo, contro ogni logica, che ciò sarebbe «clinicamente più significativo».

Inoltre, pochi giorni dopo Marco Cavaleri dell’EMA gli aveva risposto in modo molto preciso con un’intervista, che personalmente ho trovato subito molto convincente, smontando punto per punto le sue tesi, che sono poi state ulteriormente messe in crisi dai dati sull’uso reale dei vaccini, soprattutto quelli della Gran Bretagna. Nel Regno Unito, infatti, il premier Boris Johnson ha scelto di immunizzare il maggior numero di persone possibile nel minor tempo possibile, usando perciò quasi tutti i vaccini disponibili per le prime dosi e limitando al minimo indispensabile i richiami, scommettendo, contro il parere di molti scienziati, sul fatto che già le prime dosi garantissero un’immunità sufficientemente robusta, come è di fatto avvenuto.

Ma oltre alle statistiche sull’andamento dell’epidemia stanno iniziando a uscire anche i primi studi scientifici, che finora hanno sempre confermato l’elevata efficacia dei vaccini anti-Covid. In particolare, il 14 maggio sonno stati annunciati i risultati della prima ricerca sull’efficacia dei vaccini in Italia. L’articolo deve ancora uscire, ma i risultati sono stati sintetizzati in un’intervista a Quotidiano Sanità dal professsor Lamberto Manzoli, dell’Università di Ferrara, che ha diretto il gruppo di ricerca e confermano per tutti i vaccini usati un’efficacia, anche rispetto alle varianti, di circa il 95% nel prevenire il contagio e del 99% nel prevenire lo sviluppo di sintomi gravi.

Molto interessante è il fatto che il tanto bistrattato AstraZeneca è risultato il migliore di tutti, con un’efficacia che sfiora addirittura il 100% già con la prima dose. Anche Moderna ha un’efficacia vicina a quella massima già dopo la prima dose, mentre Pfizer, in genere ritenuto il migliore, dopo la prima dose arriva “solo” al 70% (che comunque non è male). Questo spiega in parte anche il successo del “metodo inglese”, dato che in Gran Bretagna si è usato moltissimo AstraZeneca (certo anche perché di produzione inglese, essendo stato progettato dalla Oxford University).

Risultati molto simili sono stati ottenuti anche dallo studio, pubblicato l’8 maggio, sull’efficacia del vaccino Pfizer in Qatar (Qatar National Study Group for COVID-19 Vaccination, Effectiveness of the BNT162b2 Covid-19 Vaccine against the B.1.1.7 and B.1.351 Variants, DOI: 10.1056/NEJMc2104974), che conferma un’efficacia vicina al 95% anche rispetto alle varianti, benché con alcune di esse la capacità di impedire del tutto la replicazione del virus nell’organismo e non solo l’insorgere di sintomi gravi risulti inferiore, ma comunque sempre elevata (nel caso peggiore, oltre il 70%).

Un altro argomento che fino a qualche tempo fa era molto di moda addurre (lo ha fatto perfino Crisanti, per sostenere la maggiore efficacia del suo metodo dei tamponi di massa rispetto ai vaccini, il che mi è veramente dispiaciuto, data la stima che ho per lui, essendo uno dei pochissimi che ha davvero fatto cose buone per l’Italia) era il caso apparentemente anomalo del Cile, che ancora a inizio aprile non riusciva a far calare i contagi nonostante avesse già vaccinato oltre il 50% della sua popolazione.

Quello che si dimenticava, però, è che, avendo il Cile adottato un approccio molto “ortodosso” e avendo quindi fatto un elevato numero di richiami, la percentuale di prime dosi era in realtà solo del 30%, cioè non ancora sufficiente a produrre effetti significativi. Inoltre, in Cile si era fatto un uso massiccio del vaccino cinese Sinovac, che, per ammissione delle stesse autorità di Pechino, non è molto efficace.

E infatti, col progredire del numero di prime dosi somministrate (attualmente circa il 46%) e l’arrivo di vaccini più efficaci, anche in Cile le cose hanno iniziato a migliorare, benché un po’ più lentamente che negli altri paesi con percentuali simili, verosimilmente perché pesa ancora il gran numero di persone poco protette dallo scadente vaccino cinese. In ogni caso, il picco dei contagi è stato raggiunto ormai da oltre un mese (il 9 aprile, con 9151) e da allora la media è scesa di circa il 25% (da circa 7000 casi al giorno a metà aprile a circa 5300 a metà maggio), mentre per i morti, il picco è stato il 15 aprile con 218 e la media è scesa dai 120 di allora ai 92 attuali, anche qui con un calo di circa il 25%. Dunque, anche il Cile si può ormai considerare “normalizzato” e non rappresenta più un’obiezione valida.

Un’altra obiezione è che i vaccini anti-Covid servirebbero solo a impedire l’insorgere di sintomi gravi, ma non sarebbero sterilizzanti, cioè non impedirebbero la diffusione del virus nell’organismo.

Ora, a tale riguardo bisogna anzitutto aver chiaro che nessun vaccino (e, in generale, nessuna medicina) è in grado di impedire a un virus o a un qualsiasi altro agente patogeno di entrare nel nostro organismo: l’unico modo di ottenere questo risultato sarebbe infilarsi uno scafandro a tenuta stagna (come infatti fanno i medici quando devono intervenire in situazioni ad elevato rischio di contaminazione).

Inoltre, la differenza tra vaccini sterilizzanti e non sterilizzanti non dipende per nulla dal fatto che certi vaccini bloccherebbero solo lo sviluppo dei sintomi, ma non la replicazione del virus. Qualsiasi vaccino, infatti, ha un solo modo di impedire lo sviluppo dei sintomi, cioè, per l’appunto, bloccare (anche se con metodi diversi) la replicazione del virus, giacché i sintomi appaiono proprio quando il virus si replica oltre un certo limite (anzi, ad essere precisi il vaccino di per sé non “blocca” proprio un bel niente: a farlo è il sistema immunitario, ovviamente stimolato dal vaccino). Quindi, a rigore, tutte le persone vaccinate in cui il virus riesce ad entrare sono teoricamente contagiose, perché portano il virus nel proprio organismo per qualche tempo.

La differenza sta nell’efficienza con cui la replicazione del virus viene bloccata o addirittura completamente impedita e con essa lo sviluppo dei sintomi, sicché la persona vaccinata ha una probabilità bassissima o addirittura nulla di contagiarne altre. Se invece la replicazione del virus viene bloccata meno efficacemente, allora la malattia si svilupperà in forma asintomatica, mentre se la risposta immunitaria sarà ancor più debole si svilupperà la malattia vera e propria, con sintomi conclamati: in entrambi questi casi (quindi non solo quando ci si ammala gravemente, ma anche quando si resta asintomatici) la persona vaccinata può contagiarne altre anche realmente e non solo teoricamente. Ciò però non dipende solo dal vaccino in sé e dal metodo che utilizza, ma anche dalla risposta dell’organismo, che è diversa per ogni singolo essere umano, per cui anche con il miglior vaccino possibile ci sarà sempre una certa percentuale di persone che non sviluppano una resistenza sufficiente e si ammalano lo stesso: è per questo che l’efficacia non è mai del 100%.

Ciò significa anzitutto che la differenza tra vaccini sterilizzanti e non sterilizzanti è solo una differenza di grado, perché tutti i vaccini dotati di una qualche efficacia sono in certa misura sterilizzanti, mentre nessuno lo è completamente. In secondo luogo, pur non essendoci una corrispondenza esatta tra i due aspetti (altrimenti la distinzione non avrebbe senso), è difficile che un vaccino poco sterilizzante abbia un’efficacia molto alta, perché se il virus si replica troppo nell’organismo causerà inevitabilmente dei sintomi. Di conseguenza, per sostenere che i vaccini anti-Covid non sono abbastanza sterilizzanti bisogna o disporre di evidenze molto solide (che però finora nessuno ha prodotto) oppure essere convinti che in realtà il vaccino non abbia neanche un’alta efficacia, come per l’appunto credono in genere i sostenitori di questa tesi, il che però, come già detto, non sembra giustificato dai fatti.

Almeno finora, infatti, ovunque questi vaccini sono stati impiegati sia i contagi che i morti sono sempre calati molto rapidamente, fin dalla somministrazione della sola prima dose ad appena un terzo della popolazione: un dato impressionante, che non solo appare incompatibile con l’ipotesi della bassa efficacia e della scarsa sterilizzazione, ma sembrerebbe anzi indicare una capacità altissima di prevenire non solo la malattia, ma anche il contagio, forse perfino superiore a quanto ipotizzato dalle stesse case farmaceutiche, il che, peraltro, non mi sembra così strano. Anzitutto, infatti, le case farmaceutiche non sono certo enti di beneficenza, ma neanche delle associazioni a delinquere che vogliono solo far soldi sulla pelle dei malati, come oggi è di moda pensare (salvo quando entriamo in farmacia perché ci serve un medicinale). Inoltre, avendo addosso gli occhi di tutto il mondo, gli stessi interessi economici spingono semmai verso un eccesso di prudenza, piuttosto che verso un eccesso di ottimismo.

Un’ulteriore obiezione è quella di chi dice che i vaccini vanno sì fatti, ma solo dopo avere abbattuto con altri mezzi il numero dei contagi, altrimenti c’è il rischio che si sviluppino varianti resistenti ai vaccini stessi.

Tuttavia, come già da molto tempo è stato dimostrato in maniera inequivocabile, le mutazioni nei virus e nei batteri nascono tutte in modo casuale. Di conseguenza, i vaccini non possono causare una mutazione resistente, ma solo selezionarla dopo che si sia prodotta, il che avviene perché i vaccini fanno fuori tutti gli altri ceppi, finché resterà in circolazione solo quello resistente, che, se non si troverà rapidamente un nuovo vaccino capace di fermarlo, si espanderà fino a contagiare tutta la popolazione, compresa quella già vaccinata, dato che non è sensibile all’azione dei vaccini esistenti. Ciò può dare l’impressione che vaccinare a epidemia in corso sia più rischioso, ma in realtà si tratta di una pura illusione ottica: una volta prodottasi, infatti, la variante resistente verrà comunque selezionata dai vaccini non appena si comincerà ad usarli e a quel punto si diffonderà comunque a tutta la popolazione, indipendentemente dal numero di contagi e quindi dal momento in cui si è cominciato a usare i vaccini.

Dunque, l’unico vero rischio, che dobbiamo assolutamente cercare di evitare (perché, se si verifica, indipendentemente dal come e dal quando, siamo comunque fregati), è la nascita della mutazione resistente. E poiché le mutazioni dei virus si producono completamente a caso, ne segue che la probabilità della nascita di una variante resistente dipende esclusivamente da un fattore, ovvero il numero di “tentativi” che il virus ha a disposizione, il che a sua volta dipende dal numero di particelle virali in circolazione, giacché quante più ce ne saranno, tante più mutazioni si produrranno e tanto più alta sarà, di conseguenza, la probabilità che, per puro caso, una di queste sia resistente ai vaccini.

Ciò significa che l’unico modo che abbiamo (e sottolineo l’unico) di ridurre il più possibile la probabilità che nasca una variante resistente è ridurre il più possibile e nel più breve tempo possibile il numero delle persone contagiate. Ed è chiaro che per conseguire tale obiettivo dobbiamo usare fin dall’inizio tutti i mezzi che abbiamo, compresi ovviamente i vaccini. Se infatti non li usiamo, per quanto velocemente possa scendere il numero dei contagiati, scenderà comunque più lentamente che usandoli, giacché è evidente che l’efficacia di A+B è superiore a quella di A da solo, salvo che B sia del tutto inefficace, il che non è certo il caso dei vaccini anti-Covid, la cui efficacia nemmeno i critici più severi ritengono pari a zero. Di conseguenza, non usandoli anche la probabilità che si generi una variante resistente sarà comunque maggiore che usandoli.

Si badi che con questo non sto dicendo che non possa prodursi una variante resistente anche usando i vaccini fin dall’inizio: trattandosi di un evento casuale, infatti, evitarlo non dipende solo da noi, ma anche dalla fortuna. Tuttavia, qualora ciò dovesse accadere, non vorrebbe dire che se non avessimo usato i vaccini la variante resistente non si sarebbe prodotta, bensì, esattamente al contrario, che non solo si sarebbe prodotta lo stesso, ma probabilmente si sarebbe prodotta in un maggior numero di persone, avendo avuto a disposizione un maggior numero di individui infetti e quindi un maggior numero di “tentativi”.

Una chiara riprova di ciò è data dal fatto che tutte le varianti attualmente più diffuse (per fortuna non resistenti ai vaccini) si sono generate prima che iniziasse la campagna vaccinale, quando il contagio era molto esteso e quindi il virus aveva a disposizione moltissimi “tentativi” per produrre una più efficiente versione di sé stesso. Al contrario, nessuna variante di rilievo si è finora prodotta in paesi che sono già molto avanti con le vaccinazioni e in cui perciò il numero di contagi è drasticamente diminuito. Non fa eccezione nemmeno quella indiana, sorta quando la campagna vaccinale in India era sì iniziata, ma aveva toccato solo una minima parte della popolazione.

Riassumendo, dunque, il vero (e gravissimo) errore che abbiamo commesso in Occidente e in particolare in Italia non è stato affatto avere cominciato a usare i vaccini prima di avere diminuito i contagi con altri mezzi, ma, esattamente all’opposto, non avere diminuito al più presto e il più possibile i contagi usando anche tutti gli altri mezzi disponibili. Non però al posto dei vaccini, bensì insieme ad essi, come per esempio ha fatto l’Inghilterra, che, non a caso, è il paese che finora ha ottenuto i migliori risultati e che ha affiancato ai vaccini misure restrittive molto più rigide delle nostre (ma che in compenso, proprio per questo, sono finite molto prima) nonché un uso massiccio di vitamina D3.

Ciò che tuttavia rende particolarmente grave, nonché particolarmente scandalosa, la situazione italiana (anche se purtroppo era ampiamente prevedibile: e infatti Ricolfi l’aveva detto subito, ma nessuno l’ha ascoltato) è che da noi i vaccini sono stati usati come scusa per non far nulla (o meglio, per continuare a non far nulla), senza capire (o senza voler capire) che i danni causati dal ritardato ritorno alla normalità non avrebbero costituito solo una piccola “coda” di quelli già subiti, ma sarebbero stati enormi a tutti i livelli, sia in termini di morti che di soldi. E la miglior prova di ciò è che alla fine siamo stati costretti a riaprire in condizioni ancora piuttosto rischiose, semplicemente perché il paese non ce la faceva più ad andare avanti così.

È quindi vero, come ha scritto Ricolfi, che a questo punto gli “aperturisti” hanno paradossalmente ragione in pratica pur avendo torto in teoria. Il problema è che “a questo punto” non ci dovevamo arrivare: e di ciò sono responsabili tutti, sia i “chiusuristi” (che hanno ostinatamente reiterato misure palesemente inefficaci) sia gli “aperturisti” (che non hanno mai saputo indicare alternative migliori), anche se i primi lo sono in misura maggiore, dato che sono stati al governo fin dall’inizio dell’epidemia e non solo da qualche mese.

Comunque, non c’è dubbio che le perplessità che hanno prodotto i maggiori danni sono state quelle relative ad AstraZeneca, che sono tanto più imperdonabili in quanto le loro conseguenze erano facilmente prevedibili, mentre le loro giustificazioni erano risibili. Infatti, di fronte a 25 (possibili) morti su oltre 20 milioni di vaccinazioni l’unica risposta sensata era un bel “chi se ne frega”, non per insensibilità, ma perché nessuna persona sana di mente si preoccupa di un evento che ha una probabilità di verificarsi di uno su un milione, ovvero circa la stessa che abbiamo di vincere la Lotteria di Capodanno. Giusto per avere un termine di paragone, in Italia la probabilità di morire in un incidente automobilistico nel corso di quest’anno è di 1 su 18.000, ovvero 55 volte maggiore, mentre nel corso dell’intera vita è di circa 1 su 250, cioè addirittura 4000 volte maggiore, eppure non mi risulta che qualcuno la ritenga una buona ragione per non usare l’auto.

Chi ha richiesto la sospensione temporanea di AstraZeneca in attesa di ulteriori controlli in genere l’ha giustificata dicendo che questo sarebbe stato un segno in più dell’estrema attenzione con cui la UE stava controllando i vaccini, il che in teoria era anche vero. Tuttavia, era del tutto evidente che nella percezione della gente (che in questo caso è l’unica che conta) avrebbe assunto il significato diametralmente opposto, come infatti è puntualmente accaduto, tanto più che tali controlli nel brevissimo tempo concesso (pochi giorni) non potevano dare (e infatti non hanno dato) risultati certi.

È paradossale che la più convinta promotrice di questa sciagurata decisione sia stata Angela Merkel, che negli ultimi mesi sembra vittima di un autentico cupio dissolvi, visto che sta sistematicamente demolendo tutti i risultati ottenuti nella prima fase dell’epidemia, che, pur non essendo certo stati straordinari, erano almeno discreti, il che, in un contesto generale catastrofico, non era poco. Ma anche molti scienziati non sono stati da meno. Solo per fare un esempio fra i tanti, la celebre storica della medicina Eugenia Tognotti in uno dei suoi tanti editoriali su La Stampa ha sostenuto che sì, è vero che il rischio di per sé è molto basso, ma il caso dei vaccini è diverso da quello delle altre medicine, perché queste le prende chi sta già male, mentre il vaccino lo fa uno che sta bene, per cui è inaccettabile fargli correre anche il minimo rischio.

Ora, a parte il fatto che il rischio zero nel mondo reale semplicemente non esiste e men che meno in campo medico, per cui è assurdo pretenderlo, la Tognotti evidentemente non ha considerato che attualmente in Italia il rischio di morire di Covid è di circa 1 su 500, cioè 2000 volte maggiore del (presunto) rischio di vaccinarsi con AstraZeneca: quindi, se l’illustre scienziata ritiene tale rischio inaccettabile, secondo logica dovrebbe ritenere 2000 volte più inaccettabile il rischio di non vaccinarsi. Il fatto che la Tognotti non la pensi così spiega meglio di molte altre cose perché siamo al punto in cui siamo: se infatti anche molti scienziati si dimostrano incapaci del più elementare ragionamento logico, come si può pretendere che ne siano capaci i politici, i giornalisti o la gente comune?

In conclusione, dunque, possiamo dire che se un problema c’è stato con la campagna vaccinale in Italia e, più in generale, nella UE, questo non sta nel fatto che è stata troppo affrettata, bensì, esattamente al contrario, che è stata troppo lenta. E a questo rallentamento hanno contribuito molto più le immotivate perplessità di tanti scienziati Pro-Vax in cerca di visibilità mediatica (o che semplicemente hanno perso la bussola) che neanche i deliri dei No-Vax, il che rappresenta un ulteriore, folle tassello da aggiungere al triste mosaico della bancarotta dell’Occidente di fronte al virus.

L’unica cosa di cui potremmo e dovremmo andare giustamente fieri in mezzo a tutto questo disastro è infatti proprio la rapidissima creazione e sperimentazione dei vaccini, che dimostra cosa può fare la ricerca scientifica quando viene adeguatamente finanziata, soprattutto in Occidente: e lo dice uno che da oltre un anno non fa che elogiare sperticatamente i paesi orientali. Tuttavia, se questi hanno dimostrato un’efficienza e, prima ancora, un senso della realtà incomparabilmente superiori quanto alla gestione dell’epidemia, è un fatto che quando si è trattato di creare qualcosa di davvero nuovo hanno dimostrato che la loro creatività è ancora inferiore alla nostra, visto che tutti i vaccini più efficaci e più innovativi sono stati prodotti in paesi occidentali: Stati Uniti (Pfizer/Biontech, Moderna, Johnson & Johnson), Germania (Pfizer/Biontech), Inghilterra, Svezia e Italia (AstraZeneca).

Quindi, anziché continuare nella nostra follia autodistruttiva, dovremmo cominciare a pensare a valorizzare le nostre migliori risorse, cioè l’università e la ricerca, a cominciare dal Recovery Plan. Per esempio, rispetto ai problemi ecologici, che saranno il prossimo grande scoglio da affrontare, sarebbe bene piantarla con la scellerata politica di spendere cifre folli in sussidi statali a supporto di tecnologie non ancora abbastanza efficienti, come quelle delle attuali energie rinnovabili (e che lo siano è provato dal fatto stesso che abbiano bisogno di sussidi statali, dato che una tecnologia efficiente si diffonde perché è efficiente e non perché lo Stato ci paga per usarla), per dirottarli invece, per l’appunto, verso l’università e la ricerca.

Se lo faremo, in breve tempo avremo le tecnologie adeguate a risolvere non solo i nostri attuali problemi, ma anche molti altri che si presenteranno in futuro, proprio come i nuovi vaccini a RNA non risolveranno solo il problema del Covid, ma apriranno la strada per risolverne molti altri che adesso nemmeno possiamo immaginare. Se invece non lo faremo, andrà a finire come con le misure antivirus, cioè con un completo disastro, con l’ulteriore aggravante che, se si verificasse davvero, stavolta probabilmente ci sarebbe fatale, considerando quanto si sono indebolite le nostre capacità di resistenza, sia individuali che sistemiche. Speriamo che lo capisca almeno Draghi, perché gli altri (tutti gli altri) non mi sembrano averlo affatto chiaro…

Ciò detto, resta però ancora una domanda, che è poi la solita che ci tocca farci ogni volta che parliamo di questa sciagurata vicenda: come è possibile che non solo i politici, ma anche molti scienziati, illustri e meno illustri (anche se per fortuna non tutti), abbiano avanzato obiezioni al tempo stesso così poco fondate e così tanto dannose? E, ancora una volta, molto probabilmente la verità è che non c’è una risposta univoca, ma piuttosto un insieme di fattori, che poi sono sempre più o meno i soliti: mania di protagonismo, voglia di compiacere il pubblico, tendenza a uscire dal proprio ambito di competenza, rivalità personali, desiderio di enfatizzare i meriti delle proprie proposte denigrando quelle altrui, sudditanza psicologica verso il “pandemically correct”, rifiuto di riconoscere i propri errori e via dicendo.

Mi sembra tuttavia che ci sia anche un altro fattore, che in realtà è presente da tempo nella nostra società, ma in questo caso specifico tende a emergere con maggiore evidenza: si tratta della pretesa di abolire il rischio dalla vita (e non solo di contenerlo entro limiti ragionevoli), che da molto tempo ritengo essere il vero “peccato originale” della modernità (cfr. Paolo Musso, La scienza e l’idea di ragione, Mimesis 2011, anche se consiglio di far riferimento alla 2a edizione ampliata del 2019). Alcuni ulteriori elementi che confermano questa tesi con riferimento specifico alla campagna vaccinale si possono trovare nella lettera del Dottor Paolo De Bonfioli Cavalcabo appena pubblicata su questo sito, che ho trovato interessantissima.

Cercherò di tornare su ciò in modo più sistematico e dettagliato quanto prima. Infatti, riflettere su come una pretesa così palesemente irragionevole abbia potuto diventare addirittura il principio guida di un’intera civiltà ci aiuterà a capire meglio anche qual è la radice ultima della disastrosa gestione del virus in Occidente e qual è il punto da cui dobbiamo ripartire se vogliamo evitare che una cosa simile possa ripetersi di fronte a qualche altra futura emergenza, il che molto probabilmente causerebbe il definitivo collasso del mondo come lo conosciamo (ammesso e non concesso che non accada già stavolta).

(Ringrazio il mio amico e collega Alberto Vianelli, biologo dell’Università dell’Insubria, per l’utile scambio di idee a proposito di alcuni punti trattati in questo articolo)




COVID-19 e vaccini: un po’ di domande “impertinenti” all’immunologo De Berardinis (CNR)

Quando si parla della pandemia o dei vaccini anti-COVID, le questioni “spinose” che si vorrebbe discutere in modo aperto con uno specialista sono davvero numerose. Grazie alla sua grande disponibilità – ed avendo nel frattempo messo da parte diverse domande – ho potuto farlo con uno dei maggiori esperti italiani del settore, che ringrazio: Piergiuseppe De Berardinis, direttore del Laboratorio di immunologia presso l’Istituto di Biochimica e Biologia Cellulare del CNR, che in questi anni si è occupato di studiare la risposta immunitaria e la problematica dei vaccini sia dal punto di vista sperimentale che divulgativo.

D.: Dottor De Berardinis, come in una sorta di “partita a scacchi con il virus”, non poteva certamente mancare, dopo la variante Inglese, una variante Indiana, che analogamente a quella Sudafricana presenta due diverse mutazioni. Ciò mi ricorda un po’ il film Wargames, dove il computer tenta di indovinare, un carattere dopo l’altro, il codice di lancio dei missili balistici, ed è solo questione di tempo perché vi riesca. Nel caso del SARS-CoV-2, però, ciò potrebbe significare rendere d’un colpo inutili i vaccini attuali, che non sono “universali”, bensì rivolti tutti verso la famosa proteina Spike. Come vede, da immunologo, questo rischio, cogliendone certamente meglio di un “non addetto ai lavori” gli aspetti sia qualitativi sia quantitativi?

Il Dr. Piergiuseppe De Berardinis insieme ad alcune ricercatrici del Gruppo che coordina presso il CNR.

R.: C’è un gioco molto popolare in Giappone che si chiama “Acchiappa la talpa” e consiste nel cercare di colpire con un martello le talpe che appaiono in modo casuale nel tabellone. È reale il timore che per contrastare la lotta alle varianti la comunità scientifica dovrà partecipare a questo gioco. C’è da dire che i dati finora ottenuti indicano che i vaccini che si stanno somministrando hanno la capacità di indurre anticorpi protettivi nei confronti delle varianti come quella inglese nella totalità dei casi, ma anche nei confronti delle varianti brasiliana e sudafricana. Ci auguriamo, pertanto, che sia così anche per la variante “indiana” che ricordiamo presenta (anche se in unico ceppo) due mutazioni già presenti  in  altre varianti. In ogni caso l’insorgenza delle varianti ci fa capire quanto sia urgente e di fondamentale importanza assicurare una vaccinazione globale nei tempi più brevi possibili allo scopo di limitare la circolazione virale.

Inoltre, come già anticipato nella domanda, un obiettivo primario per la comunità scientifica resta la realizzazione di un vaccino in grado di proteggere contro diversi coronavirus e, in prospettiva, anche nei confronti di quelli che potranno emergere nei prossimi anni. Un tale vaccino, a detta di chi lavora sul campo, sembrerebbe alla portata  nei prossimi anni per proteggere contro l’infezione,  se non  di tutti i coronavirus,  perlomeno  contro quelli del sottogruppo “sarbecovirus” a cui appartengono i virus SARS-CoV-2 e SARS-CoV. Infatti, a dispetto di molti aspetti ancora ignoti, il rapido successo dei vaccini anti SARS-CoV-2 ha sparso ottimismo. Il coronavirus non sembra difficile da combattere con un vaccino, a differenza di altri patogeni come il virus  HIV-1 o lo stesso virus dell’influenza.

Il razionale per tali vaccini pan-coronavirus si basa principalmente sulla presenza di sequenze conservate nei differenti virus (come sequenze di RNA in virus isolati dal pangolino e da diversi pipistrelli, o domini conservati nella proteina “spike” di molti coronavirus che infettano l’uomo). In questo ambito, diversi gruppi di ricerca stanno già lavorando in varie parti del mondo alla formulazione di vaccini basati su:  “mosaic vaccines”, proteine spike chimeriche, costruzione di nanoparticelle che assemblano RNA di diversi betacoronavirus e cocktails di virus inattivati.

C’è infine da dire che, su questa tematica, l’opinione della comunità scientifica è quasi radicalmente mutata in questi ultimi mesi. Nel 2017 l’agenzia statunitense che sovraintende e finanzia le ricerche sui vaccini – il “National Institute of Allergy and Infectious Diseases” (NIAID) diretto da  Anthony Fauci – giudicò di bassa priorità la richiesta di un finanziamento per un vaccino pan-Beta coronavirus (a quel tempo si parlava principalmente dei virus SARS-CoV e MERS). Ma, nel novembre 2020, l’Agenzia ha modificato il suo giudizio, sollecitando l’accettazione di finanziamenti per ricerche in condizioni di Emergenza. Inoltre, a marzo 2021 un’altra organizzazione sovranazionale, denominata CEPI (Coalition for Epidemic Prepardness Innovations) ha annunciato di finanziare con 200 milioni di dollari un nuovo programma per vaccini anti pan-betacoronovirus. È, d’altronde, opinione di molti esperti che nei prossimi 10-50 anni potremo verosimilmente assistere all’insorgere di nuove infezioni pandemiche causate da coronavirus.

D.: Il vaccino Astrazeneca – e pare non solo quello – ormai sappiamo in modo statisticamente abbastanza affidabile che produce dei trombi, almeno in alcune persone. Come è possibile che nessun soggetto terzo e indipendente rispetto ai produttori – come ad esempio il CNR – non abbia iniziato a esaminare, in un piccolo campione di vaccinandi, i livelli ematici, pre- e post-dose somministrata degli indicatori del livello di coagulazione del sangue e magari di altri parametri, al fine di capire se si tratti di un fenomeno comune (al di là dei casi in cui si manifesta in modo rilevante, che potrebbero rappresentare solo la punta dell’iceberg)? Cosa ne pensa? E lo suggerirebbe alle Autorità Sanitarie, visto che l’AIFA non lo fa?

R.: Sulle problematiche relative al vaccino Astrazeneca le autorità decisionali dei vari paesi hanno assunto una posizione non ben definita e basata più che altro sulla cautela e sull’attesa. Analogamente, il Comitato Tecnico-Scientifico del nostro paese non ha assunto, perlomeno inizialmente, una chiara linea di condotta e di conseguenza l’Autorità politica ha proceduto un po’ alla cieca. Oramai, nella terminologia scientifica relativa al COVID-19 è entrato l’acronimo VITT (Vaccine-induced Immune Thrombotic Thrombocytopenia). Si è chiaramente dimostrata la presenza, nel siero dei pazienti colpiti da tromboembolia piastrinopenica, di anticorpi contro il fattore piastrinico 4 (pF4).

È stato inoltre dimostrato, in studi in vitro su vaccini adenovirali, che l’aggiunta di pF4 e/o di anticorpi anti-pF4 aumenta la grandezza delle particelle di vaccino e che in questi aggregati le proteine pF4, le proteine capsidiche del vettore adenovirale e le piastrine sono strettamente connesse. Tuttavia, a tutt’oggi manca un evidenza diretta ex vivo o tramite studi di anatomia patologica del coinvolgimento diretto dei vettori adenovirali nella formazione dei trombi nei pazienti che hanno sofferto di questi gravi effetti indesiderati.

C’è infine da dire che anticorpi anti-pF4 sono presenti anche nel siero di individui a cui è stata somministrata la vaccinazione a mRNA. Tuttavia, nel vaccino Astrazeneca è stato rinvenuto anche l’eccipiente EDTA, che può  causare nello 0,1-2% dei campioni di sangue il “clumping” in vitro delle piastrine, un fenomeno noto come “EDTA dependent-Pseudothrombocytopenia” (EDTA-PCTP). C’è, pertanto, chi suggerisce di effettuare questa analisi ed escludere dalla vaccinazione con Astrazeneca chi risultasse positivo al test in vitro per EDTA-PCTP.

In sostanza, in un contesto ancora incerto, ci sarebbe bisogno di ricevere chiare linee guida sulla necessità e il tipo di esami di laboratorio da eseguire. Questo deve essere un compito dell’Autorità sanitaria di riferimento, a cui nessuno dovrebbe sostituirsi onde evitare ulteriore confusione e sconcerto nella popolazione. Con questo non voglio assolvere il CNR, la cui capacità di rispondere all’emergenza ponendo le proprie strutture al servizio del paese è stata nulla o debolissima, come ho avuto occasione di dire in altri contesti. Il CNR è stato praticamente senza una guida scientifica fino a qualche settimana fa, quando il ministro competente ha nominato il nuovo Presidente, sul cui operato tutti noi Ricercatori e Tecnologi nutriamo molte aspettative.

D.: In occasione dell’epidemia di SARS del 2002-03, in cui non fu possibile usare i vaccini per i problemi incontrati nel loro sviluppo e perché nel frattempo il problema era stato risolto usando contromisure “classiche”, se non sbaglio l’immunità naturale nei soggetti contagiati durò un tempo molto lungo: 2-4 anni. Dato che i vaccini attuali sembrano essere molto più potenti, in quanto a immunità indotta, rispetto a quella naturale – sia nei casi sintomatici sia, a maggior ragione, in quelli sintomatici o pauci-sintomatici – secondo lei è ragionevole supporre che, salvo sorprese relative a nuove varianti, almeno per chi si è vaccinato con i vaccini più protettivi possa non essere necessario un richiamo dopo un solo anno?  

R.: Qui entriamo nel campo delle ipotesi e le risposte certe solo il tempo sarà in grado di darle.

Il problema è ovviamente connesso alla persistenza endemica del virus nei prossimi mesi o, più pessimisticamente, a nuove ondate di infezione in una popolazione non coperta dalla vaccinazione e all’emergere di altre varianti. Per quanto riguarda la durata dell’immunità protettiva dobbiamo considerare  una possibile variabilità individuale e anche una variabilità indotta dai differenti tipi di vaccini somministrati, che al momento risultano tutti protettivi. Io non penso che si possa sostenere oggi con certezza la necessità di un secondo percorso di vaccinazione, ma è sempre meglio prepararsi a questa eventuale evenienza.

D.: Se si va a vedere nei rapporti dell’AIFA il tasso di effetti avversi segnalati per i vaccini anti-COVID in funzione dell’età dei vaccinati, si scopre che, diversamente da quanto l’uomo della strada potrebbe pensare, esso è maggiore nei giovani che non negli anziani. Suppongo che ciò avvenga perché l’effetto del vaccino si somma alla risposta immunitaria naturale, che è notoriamente massima nei giovani e decresce con l’età, fino a raggiungere il minimo negli anziani. Si tratta di una lettura corretta? E, in tal caso, non sarebbe opportuno dare ai giovanissimi una dose minore di vaccino (evidentemente per loro “sovradimensionato”), come si fa per alcuni farmaci, la cui dose consigliata è proporzionale al peso corporeo?  

R.: Penso che adottare una somministrazione personalizzata dipendente dall’età, dal peso corporeo come anche dalle condizioni di salute, di capacità di risposta immunitaria o metabolica di ciascuno di noi è qualcosa di futuribile, che rientra nel campo della medicina di precisione e della medicina personalizzata. Pensare di attuare simili pratiche in una campagna di vaccinazione di massa lo ritengo molto difficile. D’altronde stiamo parlando di effetti indesiderati di lieve entità.

D.: Il principale vaccino italiano in corso di sviluppo, ReiThera, essendo a vettore virale Come Astrazeneca, Johnson&Johnson e Sputnik, rischia di finire in un “cul de sac”, travolto dalla scelta europea di privilegiare i più tecnologici e moderni vaccini a mRNA messaggero. Sebbene questi ultimi abbiano il non trascurabile vantaggio di essere aggiornabili rapidamente in caso di nuove varianti del virus, non trova assurdo rinunciare a mesi di lavoro già fatto solo per l’errata comunicazione del rischio relativa ai vaccini a vettore virale? E cosa pensa dell’idea dell’UE di rinnovare gli accordi di fornitura fino al 2023 per vaccini a mRNA, quando invece dovremmo puntare a vaccini “universali” (che nel frattempo vi saranno)?  

R.: Indubbiamente i vaccini a mRNA sono quelli di più nuova concezione e, a oggi, quelli che hanno risposto meglio in termini di protezione e assenza di effetti indesiderati gravi. Resta il problema, per questi vaccini, della catena del freddo. In questo campo le ricerche stanno progredendo e la stessa Pfizer ha iniziato un trial clinico utilizzando un vaccino stabilizzato mediante liofilizzazione. Si tratta di un procedimento costoso, e al contempo altre strategie vengono perseguite, come l’alterazione delle particelle lipidiche che proteggono e custodiscono le molecole di RNA, in modo da rendere il preparato stabile a temperature meno stringenti. È ipotizzabile ritenere che, per le prossime pandemie, potremo anche avere  un vaccino a mRNA  che non necessiti della catena del freddo.

Non trovo pertanto sbagliato che  per il futuro si punti in modo particolare su questa piattaforma, anche per la formulazione di vaccini cosiddetti universali. D’altronde, da notizie apparse sulla stampa ho appreso che anche ReiThera, a cui è stato assegnato il compito di formulare e produrre un vaccino “italiano”, abbia dichiarato di volersi orientare verso questa nuova tecnologia. Per dirla tutta, personalmente non credo che sia facilmente attuabile una riconversione così immediata e non credo neanche che sia giusto dover investire in un vaccino cosiddetto italiano. Credo invece nella necessità di investire risorse pubbliche nella ricerca e produzione di vaccini, ma penso che ciò vada fatto in un contesto europeo in cui l’Italia con le sue strutture e le sue capacità professionali abbia un ruolo di protagonista.

Questa è una scelta che spetta alla politica congiuntamente ai vertici delle nostre Istituzioni di Ricerca e che spero venga fatta. D’altra parte, ritengo che questa sia un’esigenza condivisa anche da altri paesi europei.  Ad esempio la Francia si trova in  condizioni  simili alle nostre. Dopo l’annuncio, nei mesi scorsi, da parte del direttore scientifico dell’istituto Pasteur Christophe D’Enfert di aver abbandonato lo sviluppo di un vaccino anti-COVID-19, ve ne è stato uno, più recente, di voler di nuovo investire sullo sviluppo e sulla produzione di vaccini utilizzando le piattaforme più innovative.

Anche in Francia si lamenta che quest’“impasse” sia non solo la conseguenza di problemi strutturali dovuti al peso burocratico esercitato sulla ricerca biomedica pubblica e privata, ma anche della riduzione dei finanziamenti. Nel numero della rivista Science del 23 aprile è riportata una tabella indicativa della contrazione delle spese in campo Biomedico in Francia tra il 2011 e il 2018,  che risulta essere del 28%, a fronte di un incremento in altri paesi, come la Germania o il Regno Unito. È importante far presente che, dalla stessa tabella, si evince che la contrazione per l’Italia – che già partiva da un investimento minore – è stata, negli stessi anni, del 39%.

D.: Se si fa una ricerca su Google digitando le due semplici parole “COVID CNR”, si ottiene un risultato abbastanza sorprendente: nelle prime quattro pagine di news, al di là delle previsioni indipendenti del matematico Giovanni Sebastiani (IAC-CNR), di un articolo sul contact tracing pubblicato su Nature e di uno studio CNR-ISS-INMI sull’utilizzo di interferone beta per la cura domiciliare dei pazienti COVID-19, il suo Ente di ricerca pare molto assente, specie sul versante vaccini, nonostante il polo di 2 Istituti in cui lavora sia un fiore all’occhiello in questo campo. Perché il CNR non è più coinvolto, soprattutto nello sviluppo di un vaccino anti-COVID, cosi importante per l’indipendenza da Paesi terzi e aziende?     

R.: Non posso che essere d’accordo sull’analisi dello stato del CNR che c’è nella sua domanda. Posso anche assumere una quota di colpe – come ricercatore CNR – per l’ incapacità a eccellere in questo campo della ricerca. Tuttavia, ritengo che le responsabilità maggiori siano a carico di chi ha governato il CNR indirizzando e promuovendo la sua attività scientifica negli anni  passati e più o meno recenti, e che da ultimo non ha posto le condizioni affinché anche il CNR potesse dare un contributo alle più importanti ricerche sul COVID-19.

Per quanto riguarda i vaccini COVID, purtroppo Il CNR si è prestato al ruolo di “Bancomat” ministeriale, dirottando 3 milioni di euro ad un accordo con Regione Lazio e Istituto Spallanzani volto a finanziare il vaccino della ReiThera, senza nessun coinvolgimento dei propri ricercatori. Mi duole aggiungere che, all’inizio dell’emergenza COVID, il CNR ha allestito una cabina di regia costituita esclusivamente da dirigenti amministrativi, ad eccezione di un direttore d’istituto con specifiche competenze in virologia e non in rappresentanza della comunità scientifica. Ciò ha determinato un blocco della ricerca, relegando gran parte delle attività di Ricerca in “lavoro agile”.

D.: Secondo uno studio uscito a marzo, svolto dall’Ospedale Niguarda di Milano in collaborazione con l’Università di Milano, il 98,4% dei circa 2.500 sanitari vaccinati (tra gennaio e febbraio con due dosi) presso tale ospedale è risultato immunizzato contro il COVID-19, ma l’1,6% no. Si trattava, a quanto pare, di 4 persone immunodepresse, con trascorso di trapianti o patologie che implicano l’uso di farmaci che inibiscono la naturale risposta immunitaria, per cui hanno sviluppato un livello di anticorpi molto basso, nettamente inferiore rispetto al resto della popolazione. La domanda sorge quindi spontanea: come si devono proteggere soggetti simili, posto che l’immunità di gregge pare essere una chimera?

R.: Esistono, in questo caso, delle chiare linee guida reperibili nel portale del Ministero della Salute che riguardano in particolare le raccomandazioni per le persone immunodepresse. Anche riguardo all’accesso alle vaccinazioni le indicazioni del Ministero della Salute sono chiare. Infatti, secondo il piano strategico le persone con immunodeficienza o in trattamento con farmaci immunomodulatori devono essere vaccinati nelle prime fasi. Aggiungo che, a tutt’oggi, non è stata riportata nessuna infezione severa nei soggetti vaccinati e pertanto si spera che un minimo di protezione si instauri anche in individui immunodepressi. In linea generale, come sottinteso nella sua domanda, questa fascia della popolazione è quella che dovrebbe maggiormente beneficiare dell’“effetto gregge” determinato dalla vaccinazione di massa.

D.: Il professor Andrea Gambotto (Università di Pittsburgh, Pennsylvania), uno scienziato italiano trapiantato negli USA, dove è ricercatore di punta di un centro di eccellenza, è stato il primo studioso a individuare, nel 2003, la proteina “spike” come bersaglio dei vaccini anti-coronavirus. Il suo studio del 2003 pubblicato su Lancet è infatti stato il primo in letteratura sul tema, ma all’epoca nessuno finanziò i trial clinici sull’uomo, altrimenti avremmo avuto subito un vaccino efficace contro il SARS-CoV-2. In compenso, grazie all’attuale “corsa ai vaccini”, contro qualsiasi nuovo coronavirus che emergerà in futuro da un serbatoio animale, la prossima volta dovremmo essere assai più pronti. O non è detto?  

R.: Lo spero ardentemente e ricordo il noto aforisma dello studioso che ha rivoluzionato la Scienza (Louis Pasteur, ndr), aprendo la strada della vaccinologia: “La fortuna favorisce le menti preparate”.

D.: Secondo una dottoressa laureata in chimica e tecnologie farmaceutiche che ha lavorato per vent’anni nell’industria farmaceutica, i vaccini anti-COVID sintetizzati usando linee cellulari immortalizzate (ad es. Astrazeneca) sono potenzialmente pericolosi sul lungo termine poiché, se rimangono residui di lavorazione nel vaccino, potrebbero innescare cancerogenesi. In effetti, Astrazeneca usa la linea cellulare HEK-293. È già stata usata per produrre precedenti tipi di vaccini? Quali tecniche di purificazione, fra le varie possibili, sono state usate per Astrazeneca (io non le ho trovate)? Non crede che debbano essere condotte analisi da terze parti per verificare, magari a campione, la totale assenza di tali cellule nei vaccini prodotti? 

R.: Sono d’accordo sull’importanza di conoscere in dettaglio le composizioni dei preparati vaccinali e la necessità di analisi terze. In un articolo ancora in preprint ed a cui ho fatto riferimento in una precedente risposta parlando di VITT, Andrea Greinacher et al. hanno identificato, mediante spettrometria H-NMR, alcuni additivi presenti nel vaccino Astrazeneca, come ad esempio EDTA, saccarosio ed istidina. Nello stesso preprint è riportato come la preparazione del vaccino comporti un trattamento con nucleasi per ridurre la contaminazione del DNA delle cellule packaging HEK-293. Essendo, se pur remoto, ipoteticamente possibile il rischio di integrazione cromosomica del DNA dei vettori adenovirali, tale rischio potrebbe aumentare utilizzando DNA in cui ci fossero rotture della doppia elica. È tuttavia doveroso dire che tali integrazioni non sono mai state dimostrate negli studi preclinici e clinici finora effettuati.

D.: Il virologo e grande esperto di vaccini Geert Vanden Bossche (che ha lavorato per OMS, FDA, CDC, GAVI, Bill e Melinda Gates Foundation, etc.) è assai preoccupato: fare una vaccinazione di massa a pandemia in corso con vaccini “non sterilizzanti”, oltre a rischiare di creare una variante che “bypassi” i vaccini attuali, ha un’altra importante conseguenza: la soppressione temporanea del baluardo contro questo virus costituito dall’immunità naturale “innata”, cosa assai problematica (specie fra i più giovani), poiché renderebbe addirittura controproducente l’immunità artificiale indotta dagli attuali vaccini, che è solo “proteina spike-specifica”, il che rischierebbe di causare un’ecatombe. È d’accordo con la sua analisi?

R.: Sono in completo disaccordo con queste affermazioni. Basterebbe ricordare i 50 milioni di morti della pandemia “Spagnola” del 1918, che colpì un mondo meno interconnesso e meno densamente popolato di quello attuale. I dati che emergono da paesi come Israele, Regno Unito e Stati Uniti, in cui le vaccinazioni hanno coperto un maggior numero di persone, indicano una netta riduzione di mortalità. C’è oramai un generale consenso, da parte degli epidemiologi, sulla necessità di vaccinare prima la popolazione anziana ed a rischio di malattia grave. La risposta ai vaccini risulta essere policlonale e, sebbene limitata alla proteina spike, aumenta di fatto il repertorio della risposta anticorpale rispetto all’infezione naturale. Credo che si debba continuare con la vaccinazione di massa, estendendola a tutte le fasce di età ed a tutti i paesi del globo.