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Perché per quest’autunno-inverno si prospetta un “lockdown energetico” ed i rischi per l’Italia

12 Settembre 2022 - di Mario Menichella

EconomiaIn primo pianoSocietàSpeciale

 “Nei momenti di pericolo, non esiste peccato più grave dell’inerzia”.

Dan Brown

L’invasione russa dell’Ucraina ha sconvolto i mercati energetici globali, generando il più grande aumento dei prezzi del petrolio dagli anni ’70. Parallelamente, i prezzi del carbone e del gas hanno tutti raggiunto i massimi storici in termini nominali. In termini reali, tuttavia, solo i prezzi europei del gas naturale hanno raggiunto i massimi storici e rimangono notevolmente al di sopra del picco precedente del 2008. Le conseguenze di tutto ciò per la crescita mondiale saranno significative: è probabile che l’aumento dei prezzi dell’energia, da solo, riduca la produzione globale di quasi l’1% entro la fine del 2023, come suggerisce una recente analisi della Banca Mondiale [1]. Ma per l’Europa – e in particolare per l’Italia – l’impennata dei prezzi del gas e dell’energia elettrica, e quindi delle relative bollette, verosimilmente imporrà la necessità di una sorta di “lockdown energetico” nel prossimo autunno-inverno. Le conseguenze di questo nuovo lockdown sono difficili da stimare, ma poiché l’aumento dei prezzi dell’energia ha un impatto sproporzionato sulle attività imprenditoriali più energivore e sulle famiglie con i redditi più bassi, qualora si superassero determinate soglie critiche si potrebbe lacerare in modo irreparabile il tessuto economico e sociale, innescando una spirale di effetti a catena difficile da arginare e con effetti potenzialmente sistemici. In questo articolo cercherò di illustrare tali rischi alla luce dei nuovi dati oggi disponibili, evidenziando in particolare alcune questioni chiave largamente sottovalutate dal Governo italiano.

I motivi geopolitici della recente impennata dei prezzi dell’energia in Europa

Già prima dell’inizio della guerra, i prezzi del petrolio greggio sono aumentati notevolmente a causa della ripresa economica dalla crisi del Covid, mentre l’offerta non era tornata del tutto al livello pre-crisi. La guerra ha rafforzato questo movimento al rialzo dei prezzi, poiché l’offerta russa è diminuita prima a causa delle difficoltà di trasporto e di pagamento in relazione alle sanzioni, poi per la parziale “chiusura dei rubinetti” da parte di Gazprom, che è controllata dalla Federazione Russa.

Prima della guerra, il prezzo all’esportazione della Russia seguiva da vicino il prezzo del mercato globale per il petrolio Brent, indice di alta sostituibilità di questa materia prima [8]. Dato che la Russia è solo uno dei molti fornitori di petrolio dell’Unione Europea (l’incidenza delle importazioni dalla Russia era del 12,5% per l’Italia, del 22,8% per la UE [34]), il petrolio mancante per le importazioni dell’UE dalla Russia venute meno può essere sostituito da importazioni fatte da altrove; mentre, per la Russia, le mancate esportazioni di petrolio verso l’Occidente possono essere in parte compensate dagli acquisti di India e Cina.

A differenza del petrolio, il mercato del gas è regionale. Esistono, a grandi linee, tre grandi mercati del gas a livello globale: Europa, Nord America e Asia. I prezzi su questi mercati normalmente sono correlati, poiché il gas naturale liquefatto (GNL) può essere spedito a ognuno di essi, tuttavia possono differire fra loro in modo significativo. A partire dal 2021, l’elevata domanda in Asia ha portato a una crescita importante della divergenza tra il prezzo del gas nordamericano (più basso) ed i prezzi in Asia ed Europa (più alti).

Il caso del gas si differenzia da quello del petrolio perché le importazioni europee vengono consegnate principalmente tramite gasdotti: a causa dei vincoli di trasporto, il mercato del gas non è globale (cioè con prezzi allineati fra loro a livello mondiale), ed i prezzi dei 3 mercati regionali non sono unificati, come si può vedere molto bene dalla figura seguente. In essa risulta evidente come l’impennata dei prezzi del gas sia un problema prettamente europeo, non riguarda aree lontane come USA, Giappone, etc.

Il prezzo del gas naturale (espresso in dollari USA) in diverse zone del mondo. Si noti come solo in Europa si sia avuta un’abnorme impennata del prezzo. 20 mmbtu sono equivalenti a circa 6 MWh. (fonte: World Bank and IEA) 

I prezzi del gas sono fortemente aumentati in Europa già a partire dal 2021, poiché il forte aumento della domanda legato alla ripresa economica ha incontrato un’offerta meno dinamica da parte di Paesi Bassi e Russia, con quest’ultima che a seguito delle note vicende belliche ha gradualmente smesso di servire i mercati a breve termine (onorando per un certo tempo solo i suoi contratti a lungo termine già firmati, per poi ridurre ulteriormente i flussi di gas con motivazioni di comodo). E, come succede in questi casi, il prezzo della materia prima che scarseggia si è letteralmente impennato.

Nel 2020 la Russia ha prodotto il 22% del gas mondiale, mentre l’Europa ha consumato il 13% del gas naturale prodotto nel mondo (dati Enerdata). Poiché la Russia rappresenta circa il 40% del gas consumato in Europa (e per l’Italia il 43%), la totale scomparsa di questa fornitura rappresenterebbe uno shock del 13% x 40% = 5% a livello mondiale ma molto di più a livello regionale, poiché la fornitura alternativa è limitata dalla capacità di trasporto e di rigassificazione del Gas Naturale Liquefatto importato (GNL), che oggi rappresenta soltanto il 20% della fornitura europea di gas (secondo i dati forniti da Bruegel).

Sostituire interamente le importazioni russe di gas con GNL significherebbe triplicare le forniture europee di GNL, cosa che nel breve termine non è né tecnicamente possibile (per l’offerta limitata sul mercato mondiale, e per la bassa capacità di rigassificazione aggiuntiva in Europa) né economicamente fattibile (l’Europa è in concorrenza con l’Asia sul mercato del GNL e il reindirizzamento dei flussi verso l’Europa è costoso) [7]. L’AIE prevede quindi la sostituzione con GNL solo del 13% del gas russo mancante.

Per questo, a partire dal 2021, il prezzo del gas è aumentato molto di più del prezzo del petrolio per i Paesi europei: circa +60% a marzo 2022 rispetto a febbraio; e di ben 5 volte ad aprile 2022 rispetto ad aprile 2021. Ed è per tale ragione che, specie in caso di rilevante o totale interruzione delle forniture di gas russo, gli esperti prevedono per quest’autunno-inverno un prezzo estremamente alto della materia prima (e delle relative bollette), o addirittura un razionamento quantitativo di gas e luce sul suolo europeo.

D’altra parte, l’Unione Europea non può, nel corso di quest’anno e del prossimo, sostituire del tutto le importazioni di gas naturale russo [23]. Quindi, nel breve periodo la domanda di gas dell’UE è relativamente anelastica.  In regime di monopolio, un’elasticità così bassa porterebbe la Russia a fissare un prezzo molto alto, anche in assenza di guerra. Il motivo per cui la Russia non l’ha fatto in passato è che l’elasticità sul lungo periodo è sicuramente assicurata, e quindi deve affrontare un compromesso intertemporale: un prezzo molto alto aumenta i ricavi nel breve termine, ma li diminuisce nel lungo termine.

La guerra, tuttavia, ha due effetti evidenti e importanti su questo tipo di calcolo. Il primo è un’esigenza ancora maggiore di maggiori entrate oggi, portando ad un aumento del prezzo. La seconda è che la permanenza futura o l’inasprimento delle sanzioni, nonché la chiara decisione dell’Unione Europea di svezzarsi dalle importazioni di gas russo, riducono gli effetti di un aumento del prezzo sui ricavi futuri, portando ancora una volta la Russia ad aumentare il prezzo mentre la domanda è ancora lì.

In breve, ignorando le sanzioni, la Russia potrebbe voler aumentare le entrate delle esportazioni di energia. Ma mentre per il petrolio ciò implicherebbe un aumento del volume delle esportazioni (dato il prezzo mondiale), per il gas comporterebbe un aumento dei prezzi (e quindi volumi di esportazione in diminuzione) [8]. I veri contratti di gas a lungo termine normalmente precludono tale comportamento, in quanto specificano l’indicizzazione dei prezzi sul petrolio o sulla borsa del gas olandese (TTF). Ma la Russia ha una certa flessibilità per spostare parte della sua offerta dalle consegne nell’ambito di contratti esistenti a vendite sul mercato non regolamentato. In altre parole, i contratti possono essere rivisti o interrotti.

Per cercare di rimpiazzare una parte del gas russo, il Governo italiano si è mosso rapidamente, attraverso gli accordi con Algeria, Angola e Congo, ma il grosso delle forniture aggiuntive non arriverà fino al 2023. L’import di gas annuale dalla Russia verso l’UE prima della guerra era di circa 155 miliardi di metri cubi. È possibile rimpiazzarne poco meno della metà attraverso maggiori forniture da Stati Uniti, Norvegia, Africa. L’Italia può inoltre contare sulla riattivazione di alcune centrali a carbone. Di conseguenza, quest’inverno il deficit di gas per il nostro paese dovrebbe arrivare, al più, al 13-18% del fabbisogno pre-crisi.

Altri shock per l’Europa collegati alla situazione attuale

Oltre al greggio e al gas naturale, la Russia esporta carbone (che viene trasportato via nave, il che lo rende altamente sostituibile con altri fornitori) e prodotti petroliferi raffinati (in particolare il gasolio), dai quali l’Europa occidentale è particolarmente dipendente poiché le capacità di raffinazione sono specifiche e difficili da sostituire a breve termine. La Russia esporta anche metalli rari (nichel, palladio, di cui è il primo produttore mondiale) per i quali la sostituzione è invece delicata, e altri prodotti (fertilizzanti, grano, legno, etc.) che vengono scambiati su un mercato mondiale.

Oltre a questi shock dell’offerta e dei relativi prezzi, gli europei devono aggiungere la perdita di mercati in Russia a causa delle restrizioni alle esportazioni, che a maggio è arrivata a raggiungere circa il 60% dei volumi esportati in quel paese nel 2021, ovvero circa lo 0,4% del PIL europeo. Inoltre, secondo l’interessante analisi di Blanchard & Pisani-Ferry [8], relativa alle implicazioni della guerra Russia-Ucraina per la politica economica dell’Unione Europea, il ritiro delle grandi aziende europee dal territorio russo rappresenterebbe da solo una perdita di circa l’1 per cento del PIL per l’economia europea.

Infine, l’invasione dell’Ucraina potrebbe innescare comportamenti precauzionali da parte di famiglie e imprese in Europa, portandole a rivedere al ribasso i propri investimenti, a risparmiare di più ed a indirizzare i propri risparmi verso asset a basso rischio. Potrebbe anche aumentare l’incertezza sui mercati finanziari, nonché accrescere ulteriormente il deprezzamento dell’euro (che nei confronti del dollaro USA è stato di quasi il 20% nell’ultimo anno), il che potrebbe sostenere le esportazioni extra-UE nel breve termine, aumentando però al contempo le pressioni inflazionistiche.

In realtà, gli shock dei prezzi dell’energia influenzano l’attività economica e l’inflazione attraverso una varietà di canali, con effetti diretti e indiretti sulle economie importatrici ed esportatrici di energia. Gli effetti indiretti possono verificarsi attraverso il commercio e altri mercati delle materie prime, attraverso le risposte di politica monetaria e fiscale e attraverso l’incertezza degli investimenti. Attraverso questi canali, i prezzi dell’energia possono anche avere ripercussioni immediate sui saldi fiscali ed esterni [1].

In Italia, l’aumento dei prezzi dell’energia e dei beni ha spinto l’inflazione fino al +8,4% di agosto, ed essa è per quasi l’80% dovuta proprio all’impennata dei prezzi delle materie prime energetiche. Tali valori sono ben al di sopra dell’obiettivo del 2% che la Banca Centrale Europea si era a suo tempo posta. È probabile che i prezzi aumentino più velocemente del reddito per molte persone. Ciò significa che il costo della vita per un gran numero di italiani sta pesando fortemente sul budget personale e familiare.

L’inflazione in Italia, arrivata in poco tempo a livelli record che non si raggiungevano da 37 anni. (fonte: La Verità)

I prezzi più elevati per i beni che acquistiamo dall’estero sono uno dei motivi principali di ciò. Poiché le restrizioni Covid si sono allentate in molti paesi, le persone hanno iniziato a comprare più cose, avendo accumulato livelli record di risparmi nel corso della pandemia. Ciò ha generato un’impennata della domanda globale di beni di consumo durevoli e non durevoli, portando a carenze sul mercato di alcuni semilavorati e prodotti finali, a “colli di bottiglia” senza precedenti nella produzione e nel commercio, e di conseguenza a prezzi più elevati, in particolare per le merci importate dall’estero.

Anche l’aumento dei prezzi dell’energia ha svolto un ruolo importante. I forti aumenti dei prezzi del petrolio e del gas hanno spinto verso l’alto i prezzi della benzina e le bollette dell’energia, e questi aumenti sono iniziati ben prima dello scoppio della guerra fra Russia e Ucraina. Poiché i prezzi dell’energia verosimilmente continueranno a crescere sul breve termine (e potenzialmente anche sul medio termine, specie se i paesi dell’UE non adottassero misure adeguate o il conflitto nel frattempo si estendesse ad altri paesi), ci si aspetta che l’inflazione salga ulteriormente quest’anno e che l’economia rallenti.

Infine, l’invasione russa dell’Ucraina ha portato ad aumenti assai più accelerati e più consistenti del prezzo di cose come energia e cibo. Come se non bastasse, sia la guerra che i lockdown per Covid in Cina stanno rendendo più difficile importare cose, oltre ad allungare i tempi di consegna. È probabile che ciò faccia in futuro aumentare ulteriormente i prezzi di alcuni beni. Come risultato di questi fattori, prevediamo un aumento dell’inflazione, che potrebbe far addirittura rimpiangere i valori attuali.

A questo quadro, va aggiunto lo “shock” legato al fenomeno dell’immigrazione irregolare, che, dal punto di vista dell’impatto negativo sul tessuto sociale dovuto alla male gestio dello stesso, riguarda principalmente l’Italia, e che è tale soprattutto per i numeri assoluti e senza precedenti che si vanno raggiungendo. Gli immigrati clandestini rappresentano ormai una vera e propria “quinta colonna” in Italia, per questo in qualsiasi paese occidentale serio (Australia, Giappone, Stati Uniti, etc.) tale problema viene considerato una questione di sicurezza nazionale ed è affrontato con metodi assai decisi e risolutivi.

Nei primi 8 mesi di quest’anno, secondo i dati del Viminale [20], sono sbarcati in Italia circa 57.000 migranti (principalmente di nazionalità egiziana, bengalese, tunisina, afghana e siriana), cioè ben tre volte quanti ne erano sbarcati – nello stesso periodo – due anni prima, cioè nel 2020; e potrebbero sfiorare i 100.000 entro la fine dell’anno, da confrontarsi con gli appena 11.500 del 2018 [21]. Inoltre, secondo i dati Istat relativi al 2021, gli stranieri che in Italia vivono in povertà assoluta sono oltre 1.600.000, con un’incidenza pari al 32,4%, oltre quattro volte superiore a quella degli italiani in stato di povertà assoluta (7,2%).

L’impatto dello shock energetico sull’economia di un Paese: i modelli

Una volta definiti gli shock, occorre guardare alle loro conseguenze. Ci limitiamo qui al versante energetico, cominciando dalle conseguenze dell’aumento del prezzo del petrolio sulle famiglie e sulle aziende e passando poi ad analizzare quelle dell’aumento dei prezzi del gas naturale. Ricordo che i prodotti petroliferi possono essere trovati in qualsiasi cosa: dai dispositivi di protezione individuale, plastica, prodotti chimici e fertilizzanti fino all’aspirina, vestiti, carburante per il trasporto e persino pannelli solari.

Per un paese importatore netto, un aumento del prezzo del petrolio porta a un trasferimento di reddito al resto del mondo, e quindi all’impoverimento delle famiglie, in quanto i derivati del petrolio che pesano molto sul budget familiare sono i carburanti per i veicoli e il gasolio da riscaldamento (per chi ha il riscaldamento centralizzato). Se i salari non si adeguano immediatamente all’aumento dei prezzi, il potere d’acquisto e quindi il consumo diminuiranno nel breve termine.

Le aziende, dal canto loro, non possono trasferire immediatamente sui loro prezzi di vendita i maggiori prezzi del petrolio (che incidono sui prezzi dei carburanti, su quelli del trasporto e quindi sui costi di approvvigionamento delle materie prime e di distribuzione dei prodotti finiti o semi-lavorati). Quindi i loro margini si riducono, a scapito degli investimenti. D’altra parte, quando le aziende aumentano i prezzi, preservano i loro margini ma perdono quote di mercato.

Le 5 componenti di prezzo di un prodotto. Gli aumenti di prezzo in atto stanno agendo su ben 3 di essi, riducendo di conseguenza in misura notevole il margine di guadagno per l’imprenditore. (fonte: illustrazione dell’Autore, licenza Creative Commons)

Inoltre, il calo dei redditi in altri paesi europei importatori di petrolio riduce meccanicamente la domanda estera e quindi le esportazioni del nostro Paese verso di essi. Tuttavia, l’aumento dei prezzi del petrolio, a differenza di quello del gas, è uno shock globale. Poiché tutte le aziende devono far fronte a costi più elevati, gli effetti sulla competitività delle nostre aziende sono relativamente limitati.

Veniamo ora invece all’impatto dei prezzi del gas naturale. Nei modelli macroeconometrici standard, il gas non è identificato come tale e si presume che il suo prezzo segua quello del petrolio [7]. A fortiori, un’interruzione della fornitura di gas è difficile da simulare. In questi modelli, la produzione di beni e servizi dipende dal lavoro, dal capitale e da una cosiddetta “Produttività Totale dei Fattori” (PTF) esogena, definibile come la parte residua di output eccedente gli input di lavoro e capitale.

Un’interruzione nella fornitura di gas importato potrebbe essere vista come una diminuzione esogena della PTF. Tuttavia, in questi modelli keynesiani, la PTF è rilevante solo a lungo termine. Nel breve periodo, il PIL è determinato dalla domanda, sebbene i prezzi rispondano agli shock dell’offerta. Pertanto, un modello macroeconometrico standard non è in grado di tenere adeguatamente conto dell’interruzione delle catene del valore (non c’è solo il problema gas: si pensi ad es. alla scarsità di microchip, etc.).

Pertanto, si deve invece utilizzare un modello di equilibrio generale che descriva come lo shock colpisce non solo le industrie che utilizzano direttamente la materia prima che viene meno – in questo caso il gas – ma anche le industrie a valle (chimica, vetro, etc.); e come il relativo impatto sulla filiera può essere attutito dalle sostituzioni e dall’uso delle importazioni a tutti i livelli delle catene del valore. A seconda delle assunzioni del modello, si può arrivare così a stimare un determinato calo del PIL.

Tuttavia, in un’economia rigida, il riequilibrio dei mercati dopo un forte shock implica altrettanto forti variazioni dei prezzi relativi, e quindi un costo economico significativo quando alcuni prezzi si adeguano solo con ritardo. Ad esempio, le aziende del settore del vetro e ceramica, ma anche le fonderie, le cartiere, alcune aziende del settore chimico e alimentare – o comunque molte delle aziende energivore – non riescono a trasferire i costi più elevati sui propri clienti e alcune interrompono la produzione, il che si ripercuote, a cascata, su altre aziende energivore e non che utilizzavano i loro prodotti.

Perciò, è necessaria una combinazione di approcci diversi per arrivare a una stima realistica degli effetti della crisi energetica. Si possono poi aggiungere altri elementi: calo delle esportazioni verso la Russia, deprezzamento di alcuni beni, comportamenti precauzionali, politiche pubbliche, ecc. Data la complessità di queste stime, dubito che l’Europa abbia deciso di rinunciare al gas e al petrolio russo dopo aver fatto – come invece avrebbe dovuto – opportune analisi del rapporto rischi-benefici.

Blanchard & Pisani-Ferry [8] hanno stimato il drenaggio dei redditi europei dovuto a un aumento del 25% del prezzo del petrolio e del gas importato a circa 1 punto di PIL. L’aumento anno su anno del prezzo del gas è stato però assai più alto: circa 5 volte, pari al 500%, per cui l’impatto sul PIL si preannuncia assai elevato. Questa cifra costituisce una forma di costo economico sottovalutato della guerra per gli europei, un costo che potrebbe aumentare a causa di: ulteriori interruzioni dell’offerta, ricadute internazionali sfavorevoli, chiusure di imprese chiave o di intere filiere e/o “fallimenti” di massa delle famiglie più povere.

L’aumento impressionante del prezzo del gas in Italia negli ultimi mesi, all’interno di un arco di quasi 3 anni a cui il grafico si riferisce. In figura sono riportati i prezzi medi mensili dell’indice della Borsa italiana del gas, ovvero del PSV (che sta per “Punto di Scambio Virtuale”). Il prezzo del gas è aumentato di quasi 10 volte rispetto ai livelli pre-crisi. (fonte: elaborazione dell’Autore su dati del Gestore dei Mercati Energetici)

L’impatto teorico del caro-energia sui consumi e sul potere d’acquisto

La politica può – e deve – affrontare lo squilibrio tra domanda e offerta di gas e di petrolio. I responsabili politici devono dare priorità alle politiche che incoraggino una maggiore efficienza energetica e accelerino la transizione verso fonti energetiche a basse emissioni di carbonio, come il fotovoltaico e l’eolico (in particolare quello off-shore) [1]. Il conseguente miglioramento dell’equilibrio tra domanda e offerta di energia può aiutare a ridurre il rischio di stagflazione e superare i venti contrari alla crescita.

Poiché la domanda di energia è – come si dice in gergo – “anelastica” nel breve periodo, i forti aumenti di prezzo dell’energia implicano un calo significativo del potere d’acquisto delle famiglie, che dovrà essere assorbito attraverso: (i) un consumo ridotto di beni e servizi non energetici, (ii) una riduzione del risparmio o (iii) un aumento di reddito [9].Sul breve termine, per attutire gli effetti negativi delle famiglie, il sostegno temporaneo mirato ai gruppi vulnerabili può quindi avere la priorità rispetto ai sussidi energetici che potrebbero ritardare la transizione verso un’economia a zero emissioni di carbonio.

Ma in realtà la partita è assai più grossa. La crisi energetica, come scritto dal Financial Times, è una delle principali cause che hanno portato gli hedge fund a realizzare la più grande scommessa contro il debito italiano dal 2008. Secondo Gianclaudio Torlizzi, fondatore della società di consulenza finanziaria T-Commodity, “il prossimo governo, pur rimanendo all’interno della cornice delle regole europee, dovrà agire per ottenere le necessarie compensazioni per far fronte agli inevitabili razionamenti energetici. I prezzi dei beni energetici sono infatti destinati a rimanere estremi per molto tempo” [10].

In effetti, le variazioni del prezzo del petrolio e del gas possono riflettere sia gli shock dell’offerta di materia prima che quelli della domanda globale. L’aumento dei prezzi dell’energia non sempre porta a una contrazione dei consumi: infatti, possono anche essere una conseguenza di un aumento dei consumi a livello globale. Tuttavia, l’aumento dei prezzi del petrolio e del gas trasferisce ricchezza dai paesi importatori di tali materie prime ai paesi esportatori e quell’effetto ricchezza, a sua volta, ha un impatto negativo sul consumo nei paesi importatori come il nostro, attraverso effetti moltiplicatori.

Secondo un’analisi pubblicata dalla Banca Centrale Europea (a cui hanno contribuito due italiani), “l’impatto economico di una variazione del prezzo del petrolio causata da uno shock imprevisto della domanda globale aggregata è molto diverso da quello di un aumento del prezzo del petrolio causato da una carenza imprevista nella produzione di petrolio. Pertanto, è importante comprendere fino a che punto gli aumenti del prezzo del petrolio sono guidati da diversi tipi di shock prima di formulare risposte politiche” [9].

Quando, ad esempio, i prezzi del petrolio salgono a causa di un aumento della domanda aggregata, aumentano anche i salari e la politica monetaria dovrà diventare più restrittiva. Al contrario, se i prezzi del petrolio aumentano a causa di interruzioni nell’offerta di petrolio e non ci sono effetti di secondo impatto sui salari, la politica monetaria non ha bisogno di inasprirsi per stabilizzare l’inflazione. Tuttavia, è difficile pensare che un’inflazione galoppante non contribuisca a creare un mix socialmente esplosivo.

Infatti, come osservano gli autori dello studio in questione, “poiché spendono una percentuale relativamente elevata del loro reddito per l’energia, le famiglie povere sono particolarmente colpite in termini di inflazione quando i prezzi dell’energia aumentano. In caso di un forte shock dei prezzi dell’energia, l’impatto negativo su alcune famiglie potrebbe essere così ampio da superare facilmente qualsiasi impatto positivo visto attraverso i canali macroeconomici (ad es. l’occupazione)”.

Inoltre, va sottolineato che secondo la teoria economica i prezzi dell’energia più elevati incidono sui consumi privati ​​attraverso canali sia diretti che indiretti. Un aumento dei prezzi dell’energia incide direttamente sul potere d’acquisto delle famiglie attraverso l’aumento dei prezzi dei prodotti energetici (elettricità, gas, benzina, olio combustibile, ecc.). Nell’area dell’euro, circa il 30% di tutto il consumo di energia assume la forma del consumo finale da parte dei consumatori. Il resto riguarda invece l’energia utilizzata nella produzione di beni e servizi non energetici (cioè i “consumi intermedi”).

Al tempo stesso, un aumento dei prezzi dell’energia comporta un aumento dei costi di produzione dei settori non energetici e, nella misura in cui i produttori di beni e servizi non energetici adeguano i loro prezzi finali, un’ulteriore riduzione diretta del potere d’acquisto delle famiglie (l’effetto è dunque, in questo caso, indiretto). Infatti, se tali costi non possono essere trasferiti sui prezzi finali dei beni in questione, ci sarà inevitabilmente un impatto sul potere d’acquisto delle famiglie, poiché i produttori nei settori interessati taglieranno i salari o avranno minori profitti da distribuire.

Non è facile contrastare l’aumento dell’inflazione, che è determinato da molti fattori diversi: dall’aumento dei costi energetici derivanti dagli sviluppi geopolitici, dagli effetti temporanei delle formazioni dei prezzi non supportate dai fondamentali economici, dai forti shock negativi dell’offerta causati dall’aumento dei prezzi globali dell’energia (che incidono sui prezzi alla produzione e sul trasporto di materie prime e prodotti finiti), ma anche dei generi alimentari e delle materie prime agricole e non, dalle continue interruzioni nelle catene di approvvigionamento, etc.

Di fronte a questi problemi e rischi crescenti, secondo gli economisti la politica fiscale di un paese deve essere flessibile e pronta a fornire maggiore sostegno alle famiglie vulnerabili via via che la situazione peggiora. In un grave scenario al ribasso con carenza di gas e costi in aumento per i consumatori di gas, potrebbe essere necessario posticipare il ritorno alla regola europea del freno all’indebitamento affinché i governi nazionali possano assumere ulteriori prestiti per sostenere l’economia [12].

L’impatto reale su famiglie ed imprese e sul tessuto economico

I modelli macroeconometrici, per quanto sofisticati possano essere, non sono in grado di simulare in modo realistico una situazione così complessa come quella fin qui illustrata, in cui per l’Italia si sommano una serie di shock, non ultimo quello da cui siamo appena usciti, legato ai lockdown prima fisici e poi “virtuali” imposti nell’emergenza pandemica, che rappresentano peraltro solo due dei 10 grandi fattori che hanno impoverito imprese e famiglie durante la pandemia (si veda la mia analisi [3]).

Sebbene l’aumento dell’inflazione – e quindi del costo della vita – impatti apparentemente sull’intera popolazione, l’aumento dei prezzi dell’energia, in realtà, ha un impatto sproporzionato sulle attività imprenditoriali più energivore e sulle famiglie con i redditi più bassi. In altre parole, la spesa per gas ed elettricità in proporzione al reddito disponibile è più alta per le famiglie più povere, e rappresenta un fattore crescente nella compressione dei bilanci delle famiglie, e non solo di quelle italiane [2].

Nell’UE, i prezzi dell’energia per le abitazioni colpiscono il 20% più povero delle famiglie più di quanto non colpiscano le famiglie a reddito più elevato. Per quanto riguarda i costi di trasporto, invece, il loro aumento colpisce più le famiglie ad alto reddito che le famiglie a basso reddito in diversi paesi. In effetti, in un terzo dei paesi europei, le famiglie a reddito più elevato spendono quote maggiori del proprio reddito per la guida della propria auto rispetto alle famiglie a reddito più basso, il che riflette generalmente il possesso di un’auto che è meno comune e si concentra tra le famiglie a reddito più alto in questi paesi [13].

Il grafico mostra il rapporto tra il reddito speso per il trasporto dal 20% delle famiglie di reddito più alto e il 20% delle famiglie con il reddito più basso. 100 indica che entrambi i gruppi spendono parti uguali dei loro budget. Ad esempio, in Bulgaria, la quota di reddito dedicata ai costi di trasporto dal 20% delle famiglie più ricche è del 280% la quota del 20% delle famiglie con i redditi più bassi. Fonte: Indagine sul bilancio delle famiglie (2015) [13].

Nel nostro Paese, però, l’impatto dell’aumento dei costi di energia elettrica, gas e carburanti è stato molto più alto che in altri Paesi europei per una serie di ragioni: (1) non abbiamo l’energia nucleare e l’eolico off-shore nel mix delle fonti energetiche; (2) eravamo già prima della pandemia uno dei Paesi dell’UE che paga di più l’elettricità e il gas (si veda la mia analisi sul tema [4]); (3) le misure di mitigazione prese dal Governo negli scorsi mesi sono state largamente insufficienti e, in parte, mal concepite.

Non deve quindi stupire il fatto che la cronaca ci racconti una realtà del tutto diversa da quella fredda, edulcorata e spesso fatta di semplici “medie” dei modelli macroeconometrici. Non c’è giorno che a un gran numero di aziende italiane arrivino bollette “monstre” che le costringono – nel migliore dei casi – a fare a meno di qualche dipendente e, nel peggiore, a chiudere i battenti temporaneamente (come ad es. nel caso di alcuni hotel o di attività più energivore) oppure per sempre. Ripeto, per sempre.

Non è facile quantificare, al momento, l’impatto del caro-bollette sulle aziende in termine di “sofferenze” e di cessate attività. Tuttavia, quest’estate gli aumenti raggiunti dagli importi delle bollette luce e gas sono stati così elevati (da 3 a 5 volte più alti, se non addirittura di più, rispetto ai livelli dell’anno precedente) che non solo i settori industriali più energivori, ma anche la filiera della ristorazione, il settore alberghiero, gli allevamenti di bestiame e perfino la vendita al dettaglio ne sono stati fortemente colpiti.

Secondo un’analisi effettuata ad agosto da Confcommercio-Imprese, già solo per l’impennata dei prezzi delle materie prime energetiche e per l’inflazione, “di qui ai primi mesi del 2023 in Italia potrebbero “saltare” ben 120.000 aziende del terziario di mercato e 370.000 posti di lavoro” [6]. Complessivamente, la spesa in energia per i comparti del terziario nel 2022 ammonterà a 33 miliardi di euro, il triplo rispetto al 2021 (11 miliardi) e più del doppio rispetto al 2019 (14,9 miliardi).

Tra i settori più esposti, il commercio al dettaglio – in particolare la media e grande distribuzione alimentare, che a luglio ha visto quintuplicare le bollette di luce e gas – la ristorazione e gli alberghi, i trasporti (che oltre al caro carburanti, si trovano ora a dover fermare i mezzi a gas metano per i rincari della materia prima); ma sono colpiti anche i liberi professionisti, le agenzie di viaggio, le attività artistiche e sportive, i servizi di supporto alle imprese e il comparto dell’abbigliamento. E le aziende manifatturiere non possono far lievitare i prezzi dei loro prodotti per non perdere competitività rispetto a quelle estere.

“Intere filiere produttive, fra cui quella del legno-arredo, saranno costrette a fermare la produzione, a mettere i lavoratori in cassa integrazione ed a perdere competitività sui mercati. In pratica, già ad ottobre ci sarà il ‘black out’ della nostra filiera” [16]. È questo il grido d’allarme lanciato da Claudio Feltrin, presidente di FederlegnoArredo, che rappresenta una delle filiere più importanti del made in Italy nel mondo. Non è difficile prevedere, quindi che nei prossimi mesi la richiesta di cassa integrazione avrà un “boom”.

Ciò succederà perché – i politici sembrano ignorare questo aspetto – lo stop delle aziende energivore si ripercuoterà a cascata sull’intera filiera. E un discorso del tutto analogo si potrebbe fare per le filiere della chimica, dell’alimentare e di tanti altri settori merceologici. Quindi, se si fermano le aziende energivore, che sono il “canarino del minatore”, non si ferma solo la percentuale di aziende interessate direttamente dal caro-bolletta, ma anche l’indotto, per cui vi è una sorta di inquietante “effetto moltiplicatore”. E questo effetto sembra essere del tutto ignorato anche dagli studi degli organismi statali preposti!

Come raccontato a fine agosto da Piero Scandellari, presidente del Centergross di Bologna (la più grande area commerciale B2B europea della Moda Pronta italiana e dell’ingrosso), “abbiamo al nostro interno 680 aziende e già il 15 per cento di queste ci ha chiesto di staccare loro il gas. Sicuramente, molte devono ancora riaprire e siamo già a queste percentuali destinate a crescere. Ci aspettiamo sicuramente un intervento del Governo, ma è certo che il gas non ci sarà per tutti”.

Questi numeri rappresentano, però, solo la classica “punta dell’iceberg”, se si considera il fatto che per il prossimo autunno-inverno si presenta sempre più concretamente la necessità di un “lockdown energetico”, del quale peraltro poco trapela dal Governo, per quanto riguarda i dettagli operativi per famiglie e aziende, con una mancanza di programmazione, di comunicazione e, in generale, con una mala gestio che ricorda maledettamente quella della pandemia, già portata alla luce dal prof. Ricolfi nel suo saggio La notte delle ninfee e dal sottoscritto nelle analisi pubblicate dalla Fondazione Hume.

Inoltre, a causa degli insoluti di molte aziende, sempre più gli stessi fornitori di luce e gas o si rifiutano tout court di contrattualizzarle – nel qual caso finiscono alimentate, con sovraprezzi notevoli, dal cosiddetto “fornitore di ultima istanza” – oppure richiedono al cliente una fideiussione a garanzia, come racconta il già citato Scandellari: “l’ENI ci ha chiesto una fideiussione sulla metà di quelli che sono i nostri consumi medi annui, cioè 2,5 miliardi di metri cubi. E la vogliono nel giro di una settimana!” [5].

L’impennata dei prezzi del gas colpisce soprattutto chi compra a spot, “ma sono saltate anche fonderie che avevano contratti fissi, per il fallimento di fornitori”, spiega Dario Zanardi di Assofond [24]. In questa tempesta, il rischio di fermo produttivo è reale: “Dipende da tre variabili: non ci fermiamo se la domanda tiene, se i clienti accetteranno gli aumenti e se non saranno imposti razionamenti. Siamo in balia degli eventi e rischiamo molto, proviamo una grande frustrazione, in nostro potere non c’è nulla”. Insomma, è sempre più chiaro che il tessuto economico italiano questa volta rischia davvero di saltare.

Il “lockdown energetico” atteso per aziende, famiglie e Comuni

I siti di stoccaggio del gas quasi pieni consentono un qualche margine di sicurezza per i mesi invernali ma non sono risolutivi. Il Governo Draghi sta perciò preparando un piano su tre livelli di emergenza a seconda dell’aggravarsi della situazione [10] e, come altri paesi europei, si prepara al razionamento dell’energia, che verrebbe attuato sotto forma di una sorta di “lockdown energetico”, volto (si spera) a scongiurare l’incubo di blackout prolungati, che provocherebbero danni economici e sociali ancor maggiori.

Tra le misure del piano già scattate, c’è la riduzione della temperatura negli uffici pubblici, che non potrà essere superiore ai 19°C in inverno e inferiore ai 27°C in estate, cui si aggiungerà il taglio di un’ora nella durata di esercizio degli impianti ma, in caso di peggioramento della situazione, i tagli dovrebbero essere più drastici. Tuttavia, il contributo effettivo di tali misure è del tutto marginale, poiché è ben noto (fonte DOE [15]) che a una riduzione di 1°C sul termostato corrisponde un risparmio di appena l’1%!

Il piano potrebbe poi introdurre una riduzione di 2°C della temperatura nelle case limitando l’orario di accensione del riscaldamento in inverno (una misura nella pratica assai difficile da far rispettare, se non nei condomini dotati di riscaldamento centralizzato) e chiedendo ai Comuni di ridurre l’illuminazione pubblica nelle strade e sui monumenti fino al 40% dei consumi totali (anche in questo caso il contributo effettivo di questa misura è relativamente ridotto, e limitato praticamente ai soli orari notturni).

Al tempo stesso, gli uffici pubblici potrebbero chiudere in anticipo e anche ai negozi potrebbe essere chiesto di chiudere entro le 19 mentre i locali non dovrebbero rimanere aperti oltre le 23. In questo caso, quindi, si tratterebbe di un vero e proprio “lockdown” che non avrebbe nulla da invidiare a quello messo in atto durante la pandemia e che economicamente tanto male ha fatto a tutte le attività imprenditoriali. Reiterarlo, quindi, rende più facile immaginare il possibile disastro che si va prospettando. E tutto ciò potrebbe essere perfino insufficiente, in caso di chiusura totale del flusso di gas russo.

I rischi maggiori, tuttavia, riguarderebbero le industrie energivore, con la possibilità di subire un’interruzione della fornitura per un periodo limitato di tempo. Infatti l’Italia – come del resto altri paesi europei e non – ha da tempo implementato dei sistemi di incentivazione per aziende con grandissimi consumi, che accettano l’attivazione di un sistema transitorio di “interrompibilità energia elettrica” e “interrompibilità gas”. A fronte dell’eventualità di un’interruzione dell’approvvigionamento di energia elettrica e gas, l’azienda riceve dal Ministero un rimborso proporzionale al consumo.

L’esistenza di un piano siffatto, però, non vuol dire che le aziende e le famiglie, il prossimo autunno-inverno, siano al sicuro da guai ancora peggiori. Infatti, oltre al previsto ulteriore raddoppio degli importi delle bollette e al razionamento dell’energia, vi è comunque il rischio di possibili blackout elettrici improvvisi o imprevisti. Questo perché le reti di distribuzione sono complesse e non facili da gestire, sia per quanto riguarda l’interrompibilità (del gas) sia per quanto riguarda il distacco e il ripristino (dell’elettricità), in caso di squilibrio fra la potenza elettrica richiesta e quella disponibile in un dato momento.

Di recente, la premier francese Elisabeth Borne, intervistata dal canale tv TMC, ha avvertito che, se l’inverno sarà molto freddo, sarà necessario staccare la corrente a rotazione – per periodi di “non più di due ore” – alle abitazioni [19]. E, se ciò è quanto succederebbe in un Paese dotato di decine di centrali nucleari (dalle quali dipende per la produzione di circa il 67% della propria elettricità, mentre dal gas dipende appena per il 7%, da confrontarsi con il circa 40% dell’Italia), non è difficile immaginare per il nostro Paese uno scenario di blackout programmati del tutto simile o potenzialmente ben peggiore.

L’aumento impressionante del prezzo dell’elettricità in Italia negli ultimi mesi, all’interno di un arco di 3 anni (in alto) e degli ultimi 12 anni (in basso), a cui i due grafici si riferiscono. In figura sono riportati i prezzi medi mensili dell’indice Ipex della Borsa elettrica italiana Si noti come anche in questo caso, come per il gas, l’aumento sia stato di quasi 10 volte rispetto ai livelli pre-crisi. (fonte: elaborazione dell’Autore su dati del Gestore dei Mercati Energetici)

In Kosovo, uno dei paesi più poveri d’Europa, i blackout programmati sono già una realtà: la corrente si interrompe per 120 minuti (ovvero 2 ore) ogni 6 ore, risparmiando solo infrastrutture critiche come ospedali e alcune industrie [22]. Ciò potrebbe rivelarsi un preludio di quanto accadrà in seguito per le zone più ricche d’Europa. “Mantenere le luci accese quest’inverno sarà molto più impegnativo di quanto i governi europei ammettano”, ha dichiarato di recente un esperto. Chi è coinvolto nel settore sa che purtroppo ormai “è questione di quando, e non se, si verificherà un’escalation della crisi”.

“Il gestore della rete finlandese, in un raro esempio del tipo di trasparenza di cui c’è assolutamente bisogno, già ad agosto ha detto ai cittadini di prepararsi alle carenze quest’inverno. I governi europei hanno il dovere di chiarire con i loro elettori l’entità della crisi in arrivo. Ridurre al minimo la portata del problema o, peggio, fingere che non ci sia un problema, non manterrà la corrente in funzione questo inverno”, osserva Javier Blas, che scrive di energia e materie prime per Bloomberg.

Tuttavia, non è detto che in Italia si arrivi al razionamento ed ai blackout programmati. Questa potrebbe sembrare una buona notizia, ma non lo è, perché probabilmente significherebbe che siamo finiti nello scenario peggiore: quello per cui un grande numero di aziende, oltre a quelle più energivore, sono costrette a chiudere i battenti per sempre o, quanto meno, a fermare la produzione per alcuni mesi, con tutto quello che ciò comporta. Insomma, paradossalmente, il conseguente calo dei consumi di gas e di elettricità, insieme a quello delle famiglie costrette a consumare meno, potrebbe forse evitarci il lockdown. Non è fantasia: già a luglio, in Italia i consumi elettrici industriali sono crollati del 12% [42].

Nelle proiezioni macroeconomiche per l’economia italiana fornite a giugno dalla Banca d’Italia [14], le conseguenze per le attività economiche, nello scenario della sospensione della fornitura del gas dalla Russia a partire dai mesi estivi, sono esaminate nello “scenario avverso”. Poiché per l’Italia tale sospensione sarebbe solo parzialmente compensata ricorrendo ad altre fonti, nel documento si assumono inoltre le seguenti ipotesi: un impatto diretto di tale interruzione, in particolare sulle attività manifatturiere più energivore; un significativo aumento dei prezzi delle materie prime energetiche.

Ebbene, in queste ipotesi, per il PIL la Banca d’Italia prevede una crescita media praticamente nulla nel 2022, ed in calo di oltre 1 punto percentuale nel 2023. E probabilmente – come vedremo fra poco – queste stime sono perfino ottimistiche, poiché verosimilmente non tengono conto di tutta una serie di fattori, alcuni dei quali accennati nel presente articolo. È chiaro che più si riuscirà a limitare l’impiego di gas e più si riuscirà a contenere anche l’ascesa dei prezzi, ma nel frattempo le aziende rischiano di andare gambe all’aria una dopo l’altra, come in un domino; per cui, altro che -1% di PIL!

Infine – per completare il quadro – il presidente dell’ Anci (Associazione nazionale Comuni italiani), Decaro, e quello dell’Upi (Unione province italiane), De Pascale, hanno affermato in una dichiarazione congiunta che “è indispensabile che fra i provvedimenti urgenti del Governo sia compresa una misura di sostegno per i Comuni e le Province, in assenza della quale i bilanci degli enti locali sono destinati a saltare. È necessario uno stanziamento straordinario di almeno altri 350 milioni di euro per compensare l’impennata delle nostre spese energetiche, altrimenti i sindaci saranno costretti a tagli dolorosi dei servizi pubblici” [18].

I rischi socio-economici legati al possibile superamento di “soglie critiche”

La fornitura dell’energia nei 27 paesi dell’Unione Europea (escluso il Regno Unito) dipende essenzialmente da petrolio (33%, praticamente tutto importato), gas (24%, principalmente importato) e carbone (12%, principalmente importato) [8]. Altre fonti includono le rinnovabili (domestico), nucleare (essenzialmente domestico, poiché il combustibile stesso è una piccola parte del costo totale) ed elettricità importata. La Russia è per l’UE un importante fornitore di tutti e tre: petrolio, gas e carbone.

La discussione precedente ha chiarito che, a seconda di molti fattori – sia quelli che influenzano le decisioni russe sia quelli che influenzano la scelta e l’intensità delle sanzioni – vi è una sostanziale incertezza sulla futura evoluzione dei prezzi del gas, del petrolio e, di conseguenza, dei carburanti nell’Unione Europea. Il nostro Paese, però, anche a causa delle pessima gestione della pandemia da parte degli ultimi due Governi (di cui ho analizzato l’impatto sulle imprese in un mio precedente articolo [3]) non può permettersi ulteriori shock economici per aziende e famiglie, perché le prime rischierebbero l’estinzione.

Anzi, ora si rischia sul serio un’“estinzione di massa” come quelle verificatesi in passato sulla Terra, portando alla scomparsa di una frazione rilevante delle specie animali. Ma, nel caso dell’Italia, il danno non si fermerebbe alle estinzioni in sé di imprese e attività commerciali (ed alla perdita di occupazione associata), bensì si accompagnerebbe a maggiori rischi sistemici e ad una maggiore povertà. Infatti, i sussidi del Governo Conte alle imprese hanno comportato un enorme aumento del debito pubblico e, al tempo stesso, i prestiti garantiti dallo Stato hanno prodotto un forte aumento del debito privato.

Attualmente, come osservato da Antonio Patuelli, presidente dell’Associazione bancaria italiana [10], “è in corso un gravissimo terremoto finanziario, perché il prezzo del gas sta continuamente moltiplicandosi, il che rischia presto di creare una grave esplosione dei costi per le imprese, con il conseguente rischio di una spirale di crisi aziendali, quindi finanziarie e occupazionali”. Né più né meno di quanto avevo prospettato già nell’aprile 2021, a un livello di dettaglio molto più spinto, in un altro mio articolo sul “boom dei prezzi” e sulla “tempesta perfetta” per l’Italia [11], al quale rimando dunque il lettore interessato.

Oggi il rischio di fallimenti a catena di imprese e di istituti bancari è tutt’altro che irrealistico, e un ulteriore shockbancario e creditizio sarebbe per l’Italia insostenibile. Il successivo downgrade del rating dei Titoli di Stato italiani potrebbe completare l’opera, poiché sarebbe di fatto come il crollo di una diga. Del resto, già a ottobre 2020, il Governatore della Banca d’Italia Visco metteva in guardia gli Istituti di credito dalla nuova ondata di credi deteriorati [41]. Ed a novembre 2020 la BCE dichiarava: “Probabili fallimenti bancari dopo la pandemia”. Ora, con la crisi energetica, il rischio è rinnovato, ma è anche moltiplicato di entità.

Confronto tra (1) la rapida successione di fasi che ha portato nel 2007-08 dalla crisi dei mutui subprime alla Grande Recessione e (2) la possibile crisi catastrofica che potrebbe essere innescata da un grande numero di fallimenti fra imprese e soggetti economici privati sommato al downgrade del rating dei Titoli di stato italiani. In questo scenario, si rischierebbe il default di banche sistemiche e il “contagio” (principalmente via derivati) ad altri Paesi, per cui si potrebbe precipitare rapidamente in una situazione da incubo, potendosi attivare la “bomba nucleare” dei derivati a cui farebbero da “detonatore” i precedenti default bancari. (fonte: illustrazione dell’Autore, licenza Creative Commons)

Se il Governo non interviene, le aziende o scaricano i costi sui clienti o sospendono l’attività. Perciò Confcommercio ha chiesto al Governo di potenziare immediatamente il credito d’imposta anche per le imprese non energivore e non gasivore [25]. Un credito d’imposta del 15% per l’energia elettrica non è assolutamente adeguato agli extra-costi che le imprese stanno sostenendo ora. Occorre portarlo al 50%, ma presto, altrimenti si rischia d’innescare anche una spirale inflazionistica destinata a gelare i consumi. Il Governo, però, partorisce solo “pannicelli caldi”, e intanto qualcuno guadagna alle spalle di altri.

Infine, sebbene tutti gli italiani stiano sperimentando un aumento del costo della vita, l’energia rappresenta una quota maggiore dei budget di alcune famiglie rispetto ad altre, quindi lo shock energetico rischia di amplificare le disuguaglianze esistenti. Se a ciò si aggiunge l’aumento della criminalità e del degrado portato dalla mala gestio dell’immigrazione clandestina, è facile capire come il tessuto sociale italiano si avvicini sempre più pericolosamente verso livelli di lacerazione, o “punti di rottura”. E purtroppo nessuno sa dove si collochino esattamente le soglie critiche nei sistemi sociali ed economici.

Peraltro, pochi italiani sanno – perché nessuno glielo dice – che chi è in regola con le bollette elettriche deve oggi pure coprire alcuni buchi lasciati dai morosi: si tratta del cosiddetto “Cmor” o “corrispettivo morosità”. È questo, in sintesi, il contenuto di una delibera, la 50/2018, emanata dall’Autorità di regolazione per energia, reti e ambiente (Arera), che il 1° febbraio 2018 ha emanato un provvedimento che assegna ai consumatori – e non ai fornitori dell’energia – l’onere di rifondere i debiti per gli oneri generali di sistema accumulati dai morosi verso le aziende fornitrici a partire dal 1° gennaio 2016.

Gli oneri di sistema, dunque, devono sempre essere pagati dai fornitori di energia elettrica all’Authority che li ha decisi, anche sulle bollette non pagate per morosità o per altri motivi. Per ora, l’ Authority ha deciso di accollare a tutti i consumatori solo una parte degli oneri non pagati, pari a 200 milioni. E quindi, su bollette elettriche già cariche di oneri, da qualche anno si è aggiunto un nuovo prelievo a carico di chi paga regolarmente. Certo, in questi mesi gli oneri di sistema sono stati tagliati dalle bollette elettriche di famiglie e aziende con i decreti del Governo, ma questa misura è solo temporanea.

Già nel 2018, si stimava attorno al miliardo di euro l’insoluto totale delle bollette elettriche non pagate dai morosi [33]. Prima di allora, diverse aziende elettriche erano entrate in crisi, e qualcuna aveva addirittura dovuto chiudere i battenti, per questo il Governo intervenne introducendo il Cmor. D’altra parte, poiché la coperta evidentemente è corta, qualcuno dovrà pur pagare i crescenti insoluti dei clienti: se non i consumatori, le aziende fornitrici di elettricità (sempre più a rischio fallimento, come dimostravano già i numerosi default dello scorso anno in Cina, in Gran Bretagna e in altri paesi) o il Governo.

I leader europei dovrebbero dunque prendere atto del fatto che applicare sanzioni contro la Russia sul gas e sul petrolio è stata una scelta “improvvida”, per usare un gentilissimo eufemismo. L’Europa occidentale ha deciso di suicidarsi, in un senso che appare sempre meno metaforico e sempre più letterale. I nostri politici devono scegliere: o due anni di recessioni e probabili default a catena (forse pure di paesi) o addio sanzioni. E intanto l’Ungheria, membro dell’UE, si accorda con Gazprom [29] per avere 5,8 milioni di metri cubi al giorno in più (poco meno di un terzo di quanti ne riceveva l’Italia a fine agosto!).

Cosa potrebbe succedere e perché vedo il futuro dell’Italia assai “nero”

Credo che a questo punto risulti piuttosto evidente al lettore che, qualora si superassero determinate soglie critiche per il perseverare di scelte improvvide, e nell’incapacità di rimediare in tempi brevi agli errori fatti in precedenza, si potrebbe lacerare in modo irreparabile il tessuto economico e sociale del nostro Paese, innescando una spirale di effetti a catena difficile da arginare e con effetti potenzialmente sistemici. Peccato, però, che l’Italia sia too big to fail, non sia la piccola Grecia condannata da Draghi & Co.!

Le avvisaglie di ciò che nel giro di un anno potrebbe succedere nel nostro Paese in questa situazione sempre più potenzialmente esplosiva all’estero ci sono già. E non mi riferisco al movimento contro il caro-vita Don’t pay UK, nato nel Regno Unito e che spinge affinché le famiglie si rifiutino di pagare le bollette a partire da ottobre [27]. Infatti, il mancato pagamento comporterebbe seri rischi, tra cui l’accumulo di debiti e l’impatto sui punteggi di credito dei clienti; pertanto, un’iniziativa del genere “funzionerebbe” solo se vi aderisse un numero di persone elevato, ben più dei circa 100.000 del Regno Unito.

Lo spread BTP-Bund è in forte risalita, dopo un breve periodo di stabilizzazione su bassi livelli. Che valori raggiungerebbe se si verificassero gli scenari più pessimistici a seguito della crisi energetica o se le famiglie italiane smettessero in massa di pagare le bollette luce e gas per i costi insostenibili? Infine, è da considerarsi un caso che lo spread abbia toccato il minimo degli ultimi 5 anni con il Governo Conte e abbia iniziato un’inversione di tendenza (cioè una salita) da quel minimo proprio in coincidenza con l’insediamento del Governo Draghi?

Penso, piuttosto, alle dimostrazioni di massa e rivolte che ci sono in diversi paesi sudamericani, in Egitto e perfino in Olanda, nel silenzio dei giornali italiani. Ma, come spiegano Becchi & Zibordi [28], “l’esempio più eclatante dell’effetto distruttivo sulle vite umane delle politiche delle élite occidentali lo si è visto nello Sri Lanka, che oggi è nel caos. La ragione dichiarata è che la nazione è in bancarotta, soffrendo la peggiore crisi finanziaria degli ultimi decenni e milioni di persone stanno lottando per trovare cibo, medicine e carburante. La carenza di energia e l’inflazione sono stati i principali fattori alla base della crisi”.

Come raccontano gli autori del pezzo, “i manifestanti hanno fatto irruzione nelle residenze ufficiali del Primo Ministro e del Presidente, che per paura sono fuggiti”. I leader politici del Paese avevano seguito alla lettera le direttive delle élite “verdi” occidentali che chiedevano agricoltura biologica sostenibile, seguendo criteri ambientali, sociali e di governance rivolti a ridurre la CO2 (di cui sono pieni anche i piani dell’UE). Inoltre, là il lockdown dovuto al Covid-19 è stato imposto in modo drastico (vi ricorda qualcosa?), sempre perché i leader del Paese erano allineati con le direttive dell’OMS e degli Stati Uniti.

In pratica, nell’aprile 2021 in Sri Lanka sono stati vietati i fertilizzanti sintetici, usati dal 90% degli agricoltori locali, e così successivamente l’85% di questi ha subito perdite di raccolto, con un crollo nella produzione di riso e un aumento dei prezzi del 50% in sei mesi. Il prezzo di carote e pomodori è aumentato di cinque volte. Alla fine dello scorso agosto, il presidente Rajapaksa aveva dichiarato lo stato di emergenza e, dopo di allora, il caos e la violenza sono aumentati fino a quando i leader sono tutti dovuti scappare e nelle loro ville campeggiano ora i manifestanti. La miccia di tutto? Una scelta politica improvvida.

Come, del resto, improvvide sono le sanzioni attuate nei confronti della Russia dai paesi europei, che non hanno valutato il rapporto rischi-benefici delle singole misure che stavano andando ad applicare, esattamente come – non molti mesi prima – non avevano neppure lontanamente valutato il rapporto rischi-benefici (che oggi sappiamo essere certamente sfavorevole per le persone non anziane e prive di co-morbidità) dei vaccini anti-Covid, di fatto imposti ai cittadini europei ed in particolare a quelli italiani. Insomma, di questa Europa c’è davvero da avere paura quando si tratta di questioni vitali.

Peraltro, la Russia ha guadagnato moltissimo dalle sanzioni dell’UE sul gas e sul petrolio, dato che queste hanno fatto impennare i relativi prezzi di mercato, e di certo gli acquirenti asiatici che possano sostituire in buona parte quelli europei non mancano. Quindi, anche da un punto di vista strettamente logico, perseverare con queste sanzioni dimostra la totale mancanza di buon senso di chi prende queste decisioni. Del resto, la mancanza di buon senso – e un notevole livello di ignoranza – si nota anche nel dibattito della politica su questi temi, il che non fa certo ben sperare nella soluzione dei problemi impellenti.

L’Italia si distingue sempre nel panorama europeo. Ho ancora nella mente un articolo [30] in cui i ristoratori di Lucca esprimono la loro rabbia per il caro-bollette, ma non per l’aumento in sé – o meglio non solo per quello – ma soprattutto per il fatto che, a causa di vincoli della Soprintendenza, viene loro impedito di installare i pannelli fotovoltaici che permetterebbero di salvare le loro attività. Ma è veramente incredibile vedere come in tutti questi mesi il Governo e il Ministro competente in materia non abbiano trovato il modo di rimuovere tali ostacoli, favorendo concretamente la transizione alle rinnovabili.

Ancora una volta, in effetti, si è vista la cecità del Governo nell’affrontare un maxi-problema, già vista con la pandemia. Esattamente come in quel caso si è scelta una gestione una gestione “centralizzata” e in sostanza monotematica – somministrazione di vaccini ignorando praticamente del tutto l’esistenza di farmaci efficaci in fase di prevenzione e di cura, snobbando così le cure domiciliari – oggi con il caro-bollette Governo e Ministero non fanno informazione sulle possibili soluzioni di risparmio energetico, né spingono la popolazione ad adottarle, pensando che siano sufficienti le soluzioni “calate dall’alto”.

Già nel caso del Covid abbiamo visto che puntare solo sulle soluzioni calate dall’alto – vaccini e anticorpi monoclonali, questi ultimi soltanto per Massimo Galli ed i pochi fortunati che hanno potuto usufruirne – non solo non ha evitato un gran numero di morti per Covid e per effetti avversi, ma addirittura si è rivelato un boomerang, se si considera che gli effetti avversi dei vaccini potrebbero essere anche largamente sottostimati perché a lungo termine, se non addirittura trans-generazionali. Con l’energia si sta ripetendo pari pari lo stesso errore, invece di coinvolgere la popolazione per un’azione anche dal basso.

Eppure, basta leggere il mio precedente articolo sul tema [31] per avere già alcuni esempi delle tante cose che le persone potrebbero fare per risparmiare notevolmente sulla spesa energetica (ad es. su quella per il riscaldamento invernale, che ne costituisce la voce principale). Ma se le persone non le si informa, come potranno mai contribuire alla rapida soluzione del problema energetico, che non lascerà a famiglie e ad aziende il tempo per attendere molte delle soluzioni “calate dall’alto”? In tale mancanza di informazione, purtroppo, anche i media hanno un ruolo, poiché sono quasi del tutto latitanti.

I meccanismi di formazione dei prezzi e le soluzioni adottate in altri Paesi

La struttura del mercato del gas può oggi essere vista come costituita da una Russia monopolista di fronte a un gran numero di acquirenti dell’UE che possono acquistare gas da altre fonti, ma solo a un costo in forte aumento. Come detto, anche in assenza di sanzioni, la Russia potrebbe voler aumentare il suo prezzo e ridurre l’offerta. Ciò, però, non spiega perché gli italiani paghino ora delle bollette gas e luce salatissime, quando il gas venduto loro – o usato per produrre elettricità – è stato in buona parte acquistato dai big player con contratti a medio o lungo termine, cioè a prezzi ben più bassi di quelli attuali.

Il gas è utilizzato fondamentalmente nella generazione di elettricità (per circa 1/3), per industria e servizi (circa 1/3) e per famiglie (un po’ meno di 1/3). È molto sostituibile in alcuni dei suoi usi (l’elettricità generata dal gas può essere sostituita da elettricità generata da altre fonti), ma assai meno per alcuni altri (un sistema di riscaldamento a gas non può bruciare petrolio o carbone). In media, Il gas russo rappresenta l’8,4% della fornitura di energia primaria nell’UE, ma ci sono ampie variazioni tra gli Stati: il Portogallo non importa gas dalla Russia, mentre l’Italia nel 2021 ne importava circa il 40% del suo fabbisogno.

Rispetto alla media della UE, il mix energetico italiano nel periodo pre-crisi si contraddistingueva per una quota maggiore di energia prodotta con il gas naturale e un peso minore di quella prodotta con il carbone e altri combustibili fossili solidi, oltre che per l’assenza di energia nucleare. Con particolare riferimento alla generazione elettrica, dal gas naturale si ottiene fino al 50% dell’elettricità prodotta nel Paese, contro il 20% circa dell’UE [35]. Pertanto, il nostro Paese dipende fortemente dal prezzo del gas, ed è interessante capire il meccanismo attraverso il quale esso si ripercuote sulle maxi-bollette di gas e luce.

A Rotterdam, esiste un mercato (il TTF) in cui viene trattata solo una piccola percentuale del gas consumato in Europa: quello che arriva per nave liquefatto (ad es. dagli USA) e che in buona parte non è soggetto a contratti a lungo termine [17]. Questo è un mercato cosiddetto “spot”, cioè dove compri e vendi ogni giorno. È solo il prezzo al TTF che nell’ultimo anno è esploso, ma esso rappresenta una piccola parte del gas totale che ci arriva ed è consumato. Tuttavia, anche tutto il resto del gas (e di conseguenza) l’elettricità venduti all’ingrosso sono esplosi di prezzo seguendo il piccolo mercato olandese. Perché?

Semplice, poiché è in atto una speculazione bella e buona (specie da parte di grossisti e big player), come messo in evidenza sia dal sottoscritto in una lunga e dettagliata analisi [26, 31], sia da Becchi & Zibordi [17], i quali osservano come “il prezzo dell’80 o 90% del gas che ci arriva via gasdotto non sia in realtà variato” (in quanto acquistato anni prima con contratti a medio o lungo termine). Ma è difficile – oltre che del tutto insufficiente per mettere un freno a questo andazzo – ottenere un tetto europeo al prezzo del gas come ha chiesto l’Italia. Le resistenze della Germania e dell’Olanda, infatti, non sembrano superabili.

Nel caso dell’elettricità, a questo effetto speculativo si somma poi il meccanismo di formazione del prezzo sulla Borsa elettrica, che è il cosiddetto criterio del prezzo marginale [4]: le offerte di energia elettrica vengono accettate in ordine di prezzo crescente, fino a quando la loro somma in termini di kWh arriva a soddisfare la domanda, dopodiché il prezzo del kWh dell’ultimo offerente accettato (quindi quello più alto) viene attribuito a tutte le offerte. Questo meccanismo andava bene trent’anni fa, quando le rinnovabili avevano una quota marginale, ma certamente non più oggi; oltretutto, anche i costi di produzione delle centrali idro-elettriche sono ora molto più bassi di quello del gas.

Il perverso criterio del prezzo marginale nella formazione del prezzo giornaliero alla Borsa elettrica, che fa piacere soprattutto ai produttori di elettricità che posseggono grandi impianti a fonti rinnovabili ma molto meno al consumatore finale. (fonte: G.B. Zorzoli / Quale Energia [43])

L’Unione Europea – seppure con grande e colpevole ritardo – sta perciò lavorando al “disaccoppiamento” dei prezzi dell’energia elettrica da quelli del gas, come da tempo richiesto da Spagna, Portogallo (che usano pochissimo gas e molte rinnovabili per produrre energia elettrica), Francia (che usa soprattutto il nucleare), e ora anche dalla Germania [40]. Così si impedirebbe alla Russia di dettare all’Europa i prezzi dell’elettricità con l’interruzione parziale o totale delle forniture di gas, sebbene non ci si potesse certo ingenuamente aspettare che Putin reagisse in modo diverso alle durissime sanzioni inflitte al proprio Paese.

Oltretutto, per le aziende esiste un tema di competitività sia rispetto alle imprese europee che extra-europee, che godono di prezzi energetici inferiori ai nostri. Alcuni Paesi hanno introdotto importanti agevolazioni che noi invece non abbiamo. Ad es. la Bormioli ha uno stabilimento in Spagna che, grazie al tetto al prezzo del gas introdotto dal Governo spagnolo, si rifornisce a prezzi molto più bassi di quelli italiani [32]. L’unica soluzione di rapida attuazione sarebbe quella di introdurre un tetto al prezzo del gas. In assenza di interventi, sia a livello europeo che nazionale, avremo un autunno di forti tensioni sociali.

Sia la Spagna che il Portogallo traggono oggi i frutti di un tetto massimo del costo del gas che è stato di recente introdotto in entrambi i paesi [39]. Il prezzo massimo è stato concordato dalla Commissione Europea (ottenendo nel contempo l’Autorizzazione a disconnettere temporaneamente la Penisola iberica dal mercato elettrico dell’UE) e il prezzo del gas utilizzato per la produzione di energia elettrica è stato fissato a 40 euro per MWh. Tenendo conto degli aumenti in corso, che probabilmente saranno necessari, si prevede che il limite di prezzo raggiungerà una media di 50 € nei prossimi 10 mesi. Il governo spagnolo si è assicurato un accordo sul fatto che rimarrà in vigore fino al 31 maggio 2023.

Spagna e Portogallo occupano una posizione unica all’interno dell’UE, perché non dipendono dalle forniture russe per il loro gas naturale come altre nazioni. La loro posizione geografica significa che importano la maggior parte delle loro forniture di gas dall’Algeria e da altri paesi. Altri vantaggi unici di Spagna e Portogallo sono che la Spagna è il paese con la più grande capacità di stoccaggio e rigassificazione del gas in Europa (ha ben 6 rigassificatori) e che il Portogallo è un leader nel settore delle energie rinnovabili nel mercato europeo. Producono una notevole quantità di energia solare, idraulica ed eolica.

Entrambe le nazioni hanno forniture energetiche incredibilmente autosufficienti. A causa della loro posizione vantaggiosa, si sono definiti un’“isola dell’energia”. Sia il primo ministro spagnolo Pedro Sánchez che il suo omologo portoghese António Costa hanno utilizzato proprio questo termine. I due paesi rappresentano dunque un esempio virtuoso da seguire (la Spagna, fra l’altro, lo è stato anche nella gestione della pandemia, dove ha avuto molti meno morti e contraccolpi economici non introducendo alcun Green Pass). Dunque, questi due paesi oggi risentono ben poco della crisi energetica.

Anche la Francia si è mossa con intelligenza per risolvere il problema. Ha chiesto alla principale società elettrica di limitare l’aumento dei prezzi al 4% per il 2022 e fino a soddisfare la domanda a quel prezzo, chiedendo così all’azienda di assorbire una buona parte del costo, determinando una forte diminuzione anticipata dei flussi di cassa e una grande diminuzione del valore di mercato [8]. Ciò comporta un’inefficienza, in quanto il prezzo è inferiore al costo marginale, ma consente un aumento ampio del surplus del consumatore, a costo di una maggiore diminuzione del surplus del produttore.

L’Italia, invece, ha scelto strade inadeguate sia rispetto al tipo sia alla portata del problema. Infatti, ha puntato, da una parte, su una sorta di “sussidi” (peraltro non automatici) per le fasce più povere – ma i sussidi non diminuiscono la domanda di energia, contribuendo così a mantenere alti i prezzi dell’energia [8] – e, dall’altra, sulla tassazione del 25% degli “extraprofitti” delle società del settore energetico, rivelatasi un vero e proprio “flop”, con solo 1 miliardo incassato a fronte dei circa 5 previsti. Peraltro, un’aliquota del 25% è ridicolmente bassa. E meno male che quello di Draghi era il Governo dei “migliori”!

Qualche suggerimento non richiesto ai nostri futuri governanti

I rischi per il nostro Paese credo che siano stati ben illustrati in questo mio articolo, e dipenderanno dalle soluzioni attuate o meno nel frattempo. Nel breve periodo, come sottolineato dalla Relazione annuale della Banca d’Italia [34], “la possibilità di ricorrere a fornitori alternativi è limitata ai paesi già collegati attraverso gasdotto (Algeria, Azerbaigian, Libia, Norvegia e Paesi Bassi) e alle importazioni via nave di gas naturale liquefatto, tenendo conto della capacità di rigassificazione degli impianti esistenti. Nel medio periodo, un contributo essenziale potrà derivare da maggiori investimenti in fonti rinnovabili”.

In realtà, gli investimenti e gli investitori nelle rinnovabili in Italia ci sarebbero, ma sono bloccati a livello autorizzativo. La soluzione per aumentare l’indipendenza energetica e ridurre la bolletta elettrica è l’installazione di 60 GW di nuovi impianti da fonti rinnovabili nei prossimi tre anni, come spiegato [36] dal presidente di Elettricità Futura, Agostino Re Rebaudengo, il quale chiede al Governo di “autorizzare 60 GW di nuovi impianti da rinnovabili, pari a solo un terzo delle domande di allaccio già presentate a Terna. Essi faranno risparmiare 15 miliardi di Smc di gas ogni anno, ovvero il 20% del gas importato!”.

Questi 60 GW di nuove installazioni – che, darebbero un contributo oltre 7 volte superiore rispetto a quanto il Governo stima di ottenere con l’aumento dell’estrazione di gas nazionale – potrebbero provenire per 12 GW da eolico, idroelettrico e bioenergie e per 48 GW dal fotovoltaico. Se poi per ipotesi i 48 GW di fotovoltaico fossero tutti realizzati su superficie agricola, si utilizzerebbe appena lo 0,3% della superficie totale, oppure l’1,3% della superficie agricola già oggi abbandonata. Peraltro, gli impianti agrovoltaici previsti non sottrarrebbero neanche un metro quadrato di terreno!

Ciò in attesa degli accumuli elettrici (2025) e dell’eolico off-shore per aumentare la stabilità della rete. I costi di produzione di energia attraverso le rinnovabili, fra l’altro, sono calati moltissimo nell’ultimo decennio [37]: “Tra il 2010 e il 2021 i costi di produzione dell’elettricità degli impianti fotovoltaici si sono ridotti dell’88 %, mentre nello stesso periodo i costi di produzione degli impianti eolici si sono ridotti del 68%. Dati gli elevati costi di produzione dell’energia legati all’aumento del prezzo del gas, in Europa nel 2022 la produzione di energia da fonti rinnovabili è stata nettamente meno costosa”.

Già oggi le aziende che hanno investito per aumentare l’autosufficienza energetica, puntando sull’autoproduzione di energia attraverso il solare, “stanno godendo di un guadagno di competitività clamoroso verso i concorrenti”. Chi menziona il nucleare di nuova generazione come soluzione del problema energetico probabilmente non sa che una centrale nucleare impiega in media circa 14 anni e mezzo per essere costruita [38], dalla fase di progettazione fino alla messa in funzione. Pertanto, occorre puntare forte sulle rinnovabili, rimuovendo soprattutto i vincoli burocratici e amministrativi.

Da gennaio a giugno, invece, in Italia – come spiega un esperto [42] – “sono stati autorizzati grandi impianti per appena 2 GW, mentre avrebbero dovuto essere come minimo 10 volte tanto. Nel nostro Paese c’è ancora un grave problema di iter amministrativo e autorizzazioni. Questo stallo dipende prevalentemente dall’incapacità dello Stato di conciliare lo sviluppo delle rinnovabili con le strutture amministrative regionali e con il Ministero dei beni culturali. La procedura ‘VIA’ nazionale è di fatto bloccata, e le Regioni approvano a macchia di leopardo in maniera umorale. Gli unici impianti eolici di grande taglia sono stati autorizzati direttamente per firma del presidente del Consiglio. Vogliamo affrontare la crisi cosi?”.

Non c’è più spazio per il gas nel nostro sistema energetico verso la neutralità climatica: il gas continuerà a ricoprire un ruolo di accompagnamento della transizione energetica ma dovrà ridursi del 30% entro il 2030, in tutte le tipologie di consumo (per il riscaldamento, per i processi industriali, etc.) ma soprattutto nella generazione elettrica, perché è lì che disponiamo già in abbondanza di una alternativa sicura, efficace ed economica: le fonti rinnovabili, appunto, cui si aggiungeranno in futuro le rinnovabili basate sulle LENR (Low Energy Nuclear Reaction), che sembrano uscite da un libro di fantascienza ma sono reali.

Inoltre, non è pensabile di risolvere il problema energetico italiano agendo su solo uno o due fattori. Come illustrai a suo tempo in un mio lungo articolo [4], esistono ben 10 fattori che già prima della pandemia rendevano le bollette delle aziende e delle famiglie italiane fra le più care dell’Unione Europea. Frutto in molti casi di “favori” alle lobby di turno, negli anni sono state introdotte anche delle riforme che hanno disincentivato il passaggio alle fonti rinnovabili degli utenti. Quindi, se si vuole realmente prendere di petto la questione, occorre studiarsi per bene quelle 10 cause e intervenire sul maggior numero possibile.

Come osservato da Matteo Leonardi, co-fondatore e direttore esecutivo di ECCO, il think tank indipendente per il clima, il Governo Draghi ha tolto gli oneri di sistema dalle bollette elettriche “indipendentemente dai livelli di consumo e anche per le seconde case. Le misure per le famiglie sono quindi generiche e non selettive, mentre quelle per le imprese non sono sufficienti né pensate per soluzioni strutturali, di efficienza e produzione rinnovabile, anche impiegando le risorse del PNRR. Inoltre, il disaccoppiamento del prezzo del gas da quello dell’elettricità ha senso, ma solo se viene fatto non come misura di emergenza ma nell’ottica di una riformulazione complessiva del disegno del mercato elettrico” [42].

Si noti che il lockdown energetico (o “lockdown produttivo”) non si avrebbe solo in caso di futuri blackout programmati, ma si ha già ora per quelle attività produttive i cui costi dell’energia sono tali che esse sono costrette a fermarsi per non lavorare in perdita. Purtroppo, mi è capitato in più occasioni di rendermi conto che il dibattito pubblico su questi argomenti è viziato da una conoscenza della materia generalmente molto scarsa, il che rende difficile ai decisori politici di intervenire in maniera corretta, come abbiamo visto negli scorsi mesi con le misure adottate dal Governo, che non stanno evitando la morìa di imprese.

In più, abbiamo una carta stampata omologata (con poche lodevoli eccezioni), social network con la censura sempre pronta se non sei allineato, politiche sempre più coercitive e restrittive delle libertà, povertà in costante aumento, immigrazione incontrollata che aumenta la criminalità, il degrado delle città ed alimenta lo scontro sociale. Da arma di “distrazione di massa”, le fake news e le veline di regime veicolate dai media mainstream rischiano ora di diventare un’arma di “distruzione di massa” per il nostro Paese. Il tempo stringe, urge un’inversione di rotta, o arriverà presto la fine che tutti temiamo.

Mario Menichella (fisico e divulgatore scientifico) – m.menichella@gmail.com

Riferimenti bibliografici

[1]  Guenette G.D. & Khadan J., “The energy shock could sap global growth for years”, Blog della World Bank, worldbank.org, 22 giugno 2022.

[2]  Office for National Statistics of the United Kingdom, “Energy prices and their effect on households”, ons.gov.uk, 1° febbraio 2022.

[3]  Menichella M., “Gli effetti della pandemia economica in Italia: perché la ‘variante imprese’ rischia di dilagare”, Fondazione David Hume, 10 febbraio 2022.

[4]  Menichella M., “Le 10 cause del caro-bolletta energetica italiano: anatomia di un disastro”, Fondazione David Hume, 10 gennaio 2022.

[5]  Raschi M., “Moltissime aziende ci hanno già chiesto di staccare il gas”, Il Resto del Carlino, 28 agosto 2022.

[6]  Redazione, “Confcommercio: a rischio 120mila imprese e 370mila posti”, askanews.it, 25 agosto 2022.

[7]  Benassy-Quere A., “Energy crisis: Europe by candlelight?”, tresor.economie.gouv.fr, 27 maggio 2022.

[8]  Blanchard O. & Pisani-Ferry J., “Fiscal support and monetary vigilance: Economic policy implications of the Russia-Ukraine war for the European Union”, piie.com, aprile 2022.

[9]  Battistini N. et al., “Energy prices and private consumption: what are the channels?”, European Central Bank, ecb.europa.eu, marzo 2022.

[10]  Giubilei F., “Il prezzo del gas va alle stelle. Verso un inverno con razionamento”, il giornale.it, 26 agosto 2022.

[11]  Menichella M., “Il ‘boom’ dei prezzi e l’impatto del lockdown: l’Italia rischia ora la ‘tempesta perfetta’”, Fondazione David Hume, 21 aprile 2021.

[12]  Germany Country Team dell’IMF, “Germany Faces Weaker Growth Amid Energy Concerns”, International Monetary Fund, imf.org, 21 luglio 2022.

[13]  Blake H. & Bulman T., “Surging energy prices are hitting everyone, but which households are more exposed?”, Ecoscope, oecdecoscope.blog, 10 maggio 2022.

[14]  Eurosystem Staff Economic Projections, “Macroeconomic Projections for the Italian Economy”, Banca d’Italia, 10 giugno 2022.

[15]  Crank J., “How Much Can You Save By Adjusting Your Thermostat?”, Direct Energy Blog, 10 aprile 2018.

[16]  Redazione, Feltrin “Senza misure contro caro-bollette, a ottobre black out filiera legno-arredo”, Italpress, 31 agosto 2022.

[17]  Becchi P. & Zibordi G., “Cosa c’è (davvero) dietro gli aumenti dell’elettricità”, nicolaporro.it, 26 luglio 2022.

[18]  Redazione ANSA, “Energia: Anci e Upi, altri 350 milioni o tagli ai servizi”, ansa.it, 31 agosto 2022.

[19]  Redazione, “Gazprom ferma il Nord Stream 1. Eni: ‘Consegne di gas ridotte’. La premier francese: ‘In inverno potremmo dover staccare la luce alle case’”, ilfattoquotidiano.it, 31 agosto 2022.

[20]  Dipartimento per le Libertà civili e l’Immigrazione, “Sbarchi e accoglienza dei migranti: tutti i dati – Cruscotto statistico del 1° settembre 2022”, interno.gov.it, 1° settembre 2022.

[21]  Cadeddu G., “Migranti, gli sbarchi in Italia dal 1997 al 2022: i dati del Viminale”, tg24sky.it, 12 maggio 2022.

[22]  Fotia F., “Escalation della crisi energetica, dai blackout in Kosovo all’allerta della Finlandia”, meteoweb.eu, 27 agosto 2022.

[23]  International Energy Agency, “How Europe can cut natural gas imports from Russia significantly within a year”, iea.org, 3 marzo 2022.

[24]  Giannoni A., “Industrie a rischio stop: ‘Energia, costi impazziti’”, il giornale.it, 1° settembre 2022.

[25]  Redazione, “Emergenza energia, ‘Occorre agire subito’”, confcommercio.it, 26 agosto 2022.

[26]  Menichella M., “Le speculazioni sul gas che stanno creando il caro-bollette. E le Authority stanno a guardare…”, Fondazione David Hume, 4 marzo 2022.

[27]  Allocca A., “’Non pagate più le bollette di gas ed elettricità’: in UK nasce il movimento contro il caro vita, londraitalia.com, 10 agosto 2022.

[28]  Becchi P. & Zibordi G., “Energia, inflazione, follie green: cosa imparare dalle rivolte in Sri Lanka”, nicolaporro.it, 11 luglio 2022.

[29]  Redazione ANSA, “Ungheria firma contratto con Gazprom, +5,8 mln metri cubi”, ansa.it, 31 agosto 2022.

[30]  “Caro bollette, la rabbia dei ristoratori di Lucca: ‘No ai pannelli solari perché l’area è protetta’”, tgcom24.mediaset.it, 30 agosto 2022.

[31]  Menichella M., “Le possibili soluzioni del problema del caro-bollette per evitare il ‘lockdown energetico’”, Fondazione David Hume, 9 maggio 2022.

[32]  Redazione, “Caro energia, il distretto del vetro e delle piastrelle verso il fermo: ‘Forni spenti in attesa che il governo intervenga. Da settembre i dipendenti saranno in cassa’”, ilfattoquotidiano.it, 31 agosto 2022.

[33]  Giliberto J., “Le bollette elettriche non pagate saranno (in parte) a carico degli altri utenti”, ilsole24ore.com, 14 febbraio 2018.

[34]  Redazione, “Gas russo, Bankitalia fa il punto: ‘Fino a oggi il 43% del gas in Italia importato da Mosca’”, globalist.it, 31 maggio 2022.

[35]  I4C – Italy for Climate, “L’Italia produce il 50% dell’elettricità da gas, la più alta in UE”, italyforclimate.org, 10 giugno 2022.

[36]  “Re Rebaudengo (Elettricità Futura) sul caro bollette: ‘Il Governo autorizzi 60 GW di nuovi impianti da FER entro giugno 2022’”, Solare B2B, 28 febbraio 2022.

[37]  “Caro energia, Ref ricerche: ‘Per l’area euro costo di almeno 500 miliardi. I settori energivori ridurranno la produzione a favore dei concorrenti extra Ue’”, ilfattoquotidiano.it, 29 agosto 2022.

[38]  Jacobson M.Z., “Le 7 ragioni per cui l’energia nucleare non è la risposta per risolvere il cambiamento climatico”, greenreport.it, 3 gennaio 2022.

[39]  Redazione, “Spanish Energy Price Cap Introduced Across Spain”, rightcasa.com, 15 luglio 2022.

[40]  De Re G.M., “Bruxelles. La Ue ora si prepara a ‘sganciare’ i prezzi dell’energia da quelli del gas”, avvenire.it, 30 agosto 2022.

[41]  Scorzoni M.T., “Visco: “Covid, shock senza precedenti: farà qualche vittima tra le banche”, First online, 22 ottobre 2020.

[42]  Redazione, “Caro energia, Leonardi (Ecco): ‘Per affrontarlo indispensabile ridurre i consumi. I rigassificatori? Scommessa con rischi a carico dei cittadini’”, ilfattoquotidiano, 3 settembre 2022.

[43]  Zorzoli G.B., “La formazione del prezzo dell’elettricità e le rinnovabili”, qualenergia.it, 18 febbraio 2021.

La vecchia scuola e il disastro attuale. Una riflessione trasversale tra ideologismi, responsabilità pedagogiche, evidenze e buon senso

8 Agosto 2022 - di Antonio Calvani

Speciale

Questo documento non vuole essere una trattazione sistematica; è una riflessione che prende lo spunto da una recensione al libro di Mastrocola e Ricolfi (Il danno scolastico), abbandonata per cercare relazioni con altri apporti significativi sulla crisi attuale della scuola italiana, alcuni di taglio simile, basati sul richiamo alla scuola di una volta (Galli Della Loggia, Israel), altri di diversa impostazione (Fondazione Agnelli e ricerca evidence-based).

Su quest’ultimo aspetto, di cui si occupa l’Associazione SApIE, dovrò rimandare al documento sulla scuola curato dal sottoscritto e da Roberto Trinchero (SApIE, 2021), oltre a lavori precedenti raccolti nella sezione bibliografica del sito dell’Associazione.
Lo scopo è di mostrare che sono possibili punti di incontro tra posizioni diverse giungendo a proposte concrete, ragionevoli e sostenibili, sulle quali anche la ricerca scientifica più aggiornata ha diversi suggerimenti da offrire, il tutto a patto che si mettano da parte rigide ideologizzazioni e i cliché ricorrenti.

Mi devo scusare con gli autori dei testi citati per aver estratto, arbitrariamente, alcuni passaggi, quelli che più mi sembravano più utili nel ricercare questo possibile tessuto trasversale. Chiedo anche venia al lettore se, data la natura informale di questo documento, ed anche indotto dai frequenti richiami autobiografici presenti nei libri considerati, mi sono consentito qualche divagazione personale inserita nelle note, che, per questo motivo risultano, in qualche caso, debordanti. Spero che ciò possa servire almeno per far comprendere meglio a quei lettori che avranno la pazienza di leggerle, la cornice ideologica -una qualche ideologia di fondo non è mai eliminabile- nella quale mi colloco.

Premessa

Devo ringraziare Marco Gui per avermi indicato una recente recensione al libro di Mastrocola e Ricolfi (Il danno scolastico, la scuola progressista come macchina della disuguaglianza, 2021). Devo conseguentemente allargare il mio ringraziamento ai due recensori, Argentin e Giancola, il cui contributo (Perché un brutto libro fa parlare di sé (e fa danni) ha costituito indirettamente il fattore che mi ha spinto a scrivere queste riflessioni.

Argentin e Giancola esprimono critiche dure verso il libro di Mastrocola e Ricolfi con un tono che appare eccedere quello consueto di una valutazione critica che può anche essere severa quando necessario. Sostengono che il libro non dovrebbe essere letto e si dichiarano quasi costretti a fare la recensione dal fatto “le tesi storte del libretto in questione hanno impoverito e stanno impoverendo il discorso collettivo sulla scuola”. Segue poi una lunga serie di capi di accusa, tra cui la confusione definitoria sulla scuola (democratica/progressista/facilitata/ecc.), la mancanza di contestualizzazione, di cautela necessaria data la autocentratura esperienziale del lavoro, l’ignoranza della vasta letteratura empirica sul tema, l’impiego di modelli ipersemplificati, laddove altri modelli con un numero più ampio di variabili andrebbero a mitigare, se non smontare i nessi causali presentati. Essi spiegano infine il successo commerciale del libro per la sua stessa vaghezza, per il fatto di giocare sulle emozioni e basarsi su considerazioni come quelle secondo cui le conoscenze disciplinari sarebbero più basse, a parità di titolo, di quelle di una volta. Conosco dai lavori uno dei due autori, Argentin, come un bravo ricercatore, per un suo importante contributo sugli insegnanti e l’impegno a dimostrare l’esistenza di una sociologia applicativa di taglio sperimentale sui problemi educativi nel contesto italiano. Critiche così intransigenti da parte di autori qualificati mi hanno sorpreso. Contravvenendo al loro suggerimento mi sono allora affrettato a leggere il libro di Mastrocola e Ricolfi.

Il libro di Mastrocola e Ricolfi

Devo dichiarare che personalmente trovo il libro di gradevole lettura, anche appassionato e avvincente in qualche tratto. Va da sé, ma su questo concorderanno facilmente anche i due recensori, che la modalità della testimonianza o degli sguardi personali (“coi miei occhi”), quando l’oggetto sia significativo, è del tutto legittima a fini di arricchimento conoscitivo, se pur da triangolare con altri dati, e che avanzamenti della ricerca non possano essere certo solo delegati ad indagini empiriche o sperimentali2. Per quanto riguarda il contenuto, le testimonianze di insegnante nella scuola superiore di Mastrocola e quelle universitarie di Ricolfi descrivono nella sostanza percorsi in cui penso si possa ritrovare la maggior parte degli insegnanti della mia generazione, quanto meno ci si ritrova il sottoscritto che, con qualche anno in più di Ricolfi, ha partecipato al movimento studentesco del ‘68, ha vissuto l’una e l’altra esperienza, quella dell’insegnamento nella scuola secondaria prima e nella università poi occupandosi di metodologie e tecnologie didattiche, ma ci si possono ritrovare, credo, tutte le persone che abbiano avuto modo di seguire, anche più indirettamente, cosa è successo nella scuola attraverso figli e nipoti, il confronto di libri adottati e quaderni scolastici nei vari decenni; la conclusione sarà sempre la stessa, in linea con la cornice generale dei due autori: gli apprendimenti hanno subito un costante declino in relazione ad un alleggerimento degli impegni scolastici e degli esami e ad una progressiva deresponsabilizzazione degli alunni.

Non interessa qui andare oltre, mi limito a sottolineare l’attenzione di Mastrocola sulle pratiche di lettura e scrittura come attività fondamentali e sulla natura dello studio come collegamento stretto tra entrambe3, e su operazioni cognitivamente rilevanti come la parafrasi e il distanziamento che la comprensione di un testo, in particolare se antico, richiede. Sono riferimenti banali e scontati? Non credo, in una scuola oggi sovraccarica di stimoli dispersivi e che da qualche decennio ha sostituito gran parte di queste attività con esercizi e quesiti a scelta multipla, mentre oggi anche rilevanti apporti dalle neuroscienze ricordano il valore basilare di queste pratiche fondamentali per la costruzione dalla personalità, con implicazioni non solo cognitive, ma anche emozionali, identitarie e interpersonali, distinguendone inoltre il valore rispetto ad analoghe attività condotte in contesti digitali (Wolf, 2012, 2018). Sono aspetti che non possono essere ignorati in una qualunque seria riflessione che voglia ridare un senso profondo alla scuola.

Non è qui il caso, né sarebbe nelle competenze dello scrivente, di entrare invece nel merito della affidabilità della dimostrazione quantitativa di Ricolfi sull’ipotesi specifica del libro, relativa al danno maggiore che ne ricaverebbero le classi povere, e dunque del fatto che, per la classica eterogenesi dei fini, la scuola che voleva essere più democratica è diventata proprio l’opposto4. Devo dire invece che non sono d’accordo con le critiche alle valutazioni standardizzate (Invalsi), su cui tornerò, e che le tesi del libro francamente non mi appaiono molto originali.

Ma a questo punto, prima di procedere, sarebbe utile che i due pungenti recensori mostrassero più esplicitamente le loro carte, facessero conoscere se, con gli strumenti dell’analisi empirica di cui dispongono, possono negare la sussistenza di questo declino, se possono portare eventuali prove sull’esistenza di competenze nuove e positive che la scuola italiana avrebbe consentito di acquisire nel frattempo, al di là della genericità e retorica con cui solitamente sono presentate le “innovazioni”5 e a cosa si riferiscono parlando di un “discorso collettivo” che verrebbe danneggiato6.

Il declino della scuola: altri lavori

Sul declino della scuola, più o meno corredato da veementi grida di indignazione, esiste ormai una letteratura ampia, che riemerge saltuariamente con documenti o manifesti che occupano per qualche giorno lo spazio dei giornali7. Mi soffermo rapidamente su due testi, a mio avviso i più significativi di questa categoria, che condividono nella sostanza l’impianto principale di Mastrocola e Ricolfi: abbassamento progressivo degli apprendimenti, deresponsabilizzazione degli alunni, scuola ridotta ad un servizio per consumatori, smantellamento progressivo ad opera di una sequenza di “picconate” subentrate soprattutto dopo il ’68, con attribuzione delle responsabilità che, come vedremo, toccano in primo piano la pedagogia.

Un lavoro di rilievo in questa letteratura è quello di Galli della Loggia L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la sua scuola, (2019), a cui il tema è caro e sul quale è intervenuto anche in altre occasioni. L’autore riconosce un grande merito alla scuola che nel passato, soprattutto grazie ad un esercito di diligenti maestre, ha consentito all’Italia di diventare una delle principali economie del mondo; dal ‘68 subentra però il declino progressivo della scuola e del Paese con evidenti correlazioni e connessioni causali tra i due aspetti.

Anche in questo caso trovo assai stimolante l’impianto complessivo ed in particolare la ricchezza di rilievi ed osservazioni che in generale muovono da un comune buon senso da cui, nel parlare di scuola, non si dovrebbe mai prescindere, e sul fatto che la scuola si sia troppo occupata a cambiare piuttosto che a conservare ciò che era già buono, oltre al fatto che si sia prodotta una deriva buro- didattica con un insensato crescente carico per gli insegnanti ed un linguaggio incomprensibile quale quello usato nella folta selva delle indicazioni e circolari ministeriali.

L’autore individua le cause principali del tracollo in un blocco costituitosi tra l’ideologismo progressista di sinistra e un pensiero pedagogico diventato “egemonico”. Oltre ad alcune critiche, come quelle segnalate dall’ottima recensione di Russo (2019)8, credo che la rappresentazione del blocco progressista-pedagogico e l’idea della egemonia che avrebbe esercitato la pedagogia, richiedano almeno qualche osservazione in più (vedi in nota e dopo)9.

Tesi molto simili a quelle di Galli della Loggia e di Mastrocola e Ricolfi erano del resto già presenti in Israel Chi sono i nemici della scienza Riflessioni su un disastro educativo e culturale e documenti di malascienza (2008), un lavoro che include anche un’articolata analisi storica dell’educazione scientifica nel nostro Paese10.

Israel attacca in modo più frontale la pedagogia e dà un volto più concreto alle sue responsabilità. La pedagogia è una “scienza del nulla” che ha favorito il disprezzo dei contenuti disciplinari e delle discipline stesse che dovrebbero lasciare il posto ad attività interdisciplinari, rivolte non all’acquisizione di conoscenze, ma di generiche attitudini ad apprendere qualsiasi cosa (l’imparare ad imparare).

Essa porta a snaturare la funzione dell’insegnante abbandonando quelli che sono i compiti di una adeguata istruzione: “Il docente non è più un insegnante e un educatore ma un animatore culturale, una figura del tutto analoga a quegli animatori delle feste di compleanno dei bambini che facilitano la socializzazione e il divertimento proponendo giochi e guidando la festa nel modo più gradevole possibile” (pag. 62).

[…] Devastante è l’idea che lo studente non vada mai corretto; basta guardare a come scrivono i nostri preadolescenti, lasciati allo spontaneo passaggio dallo scarabocchio alla scrittura senza alcun intervento correttivo: la maggior parte dei maestri non circola tra i banchi controllando come scrivono i bambini, correggendoli attivamente, magari guidando loro la mano. Già perché si tratterebbe di un atteggiamento impositivo e repressivo della spontaneità” (pag. 20). La sua ricostruzione storica della disgregazione della scuola differisce solo per qualche tratto da quelle già considerate: “Il tutto è avvenuto all’insegna di una sorta di americanismo pedagogico in cui hanno trovato sede diverse componenti; un ingenuo puerocentrismo, una falsa mitologia dell’autoapprendimento e della libertà dello studente, una visione aziendalistica e quindi opportunistico consumistica del sistema scuola, crediti e debiti inducono pratiche di basso opportunismo; un voto insufficiente in una materia è come una scatola di pomodori avariata; l’utente protesta con il consumatore” (pag. 68)11.

Le responsabilità della pedagogia

Credo a questo punto necessario introdurre due elementi che vogliono rappresentare un invito ad una revisione critica all’interno dei tre lavori citati. Il primo riguarda le responsabilità della pedagogia, bersaglio comune, il secondo le prove standardizzate. Per il primo devo queste considerazioni se non altro al fatto che nella pedagogia sono cresciuto accademicamente e che reputo che riallacciare un rapporto costruttivo con questo mondo sia importante. Cerchiamo di capire cosa si intende per pedagogia. Incomincio con il dire che parlare di una “egemonia” della pedagogia (Galli Della Loggia), anche se in un senso più modesto di quello gramsciano che l’espressione sembra richiamare, se riferita al peso culturale che la categoria accademica riesce ad esercitare, significa francamente sovrastimarla: è facilmente dimostrabile che nelle decisioni degli ultimi anni i pedagogisti accademici hanno messo poco piede, a fronte di un gioco convulso di altri interessi e urgenze da cui le decisioni sono state travolte, e come del resto le posizioni della pedagogia non siano mai state al centro dell’opinione pubblica. Anche esaminando le riforme politiche, diciamo, pedagogicamente orientate, e i loro esiti, quasi sempre in dissonanza con le intenzioni iniziali, in cui hanno avuto un ruolo centrale autorevoli esponenti della sinistra italiana (Berlinguer, De Mauro, Renzi), di pedagogia non se ne trova molta. A questo livello mi sembra abbiano influito soprattutto altre cornici ideologiche, legate alla visione del rapporto tra scuola e società, scuola e mercato del lavoro, ed altre istanze presenti nella cultura liberale occidentale12.

Un secondo aspetto riguarda le dimensioni pedagogiche e culturali più profonde interne alla nostra personalità. Ci riferiamo all’idea internalizzata dell’autorità e del rispetto delle regole che acquisiamo dalla cultura in cui si vive. Il permissivismo maggiore nel rapporto genitori/figli o educatori/alunni di oggi deriva da qui, è un aspetto connesso ai cambiamenti subentrati nelle condizioni familiari, culturali e sociali degli ultimi decenni (una società sempre più “senza padre”). Ogni insegnante della primaria di una certa età potrà testimoniare come la maggior parte degli alunni arrivi a scuola con minore autocontrollo, più distratta e intollerante ai divieti e alle regole, dati che trovano verifiche empiriche nelle ricerche diacroniche sullo span dell’attenzione (Microsoft, 2015).

Cosa ancora diversa è il riferirsi al mondo vasto e insidioso rappresentato da una sottocultura didattica che attraversa da anni la scuola, in cui confluiscono credenze infondate, estremizzazioni e banalizzazioni di concetti, alcuni dei quali possono avere anche una parte di verità, cliché di moda o formule importate dall’estero quasi mai ben comprese, una vera fiumana di sciocchezze riverberate e conservate nel tempo attraverso la grancassa di una divulgazione didattica di bassa lega13. Tutto quanto abbiamo trovato di “pedagogico” in Israel ed anche, pur parzialmente, in alcuni riferimenti di Galli della Loggia, appartiene a questo livello.

La pedagogia ha le sue colpe. La principale è quella di non aver tagliato chiaramente i ponti con questo magma travolgente di formulette e false credenze, di non aver esercitato sufficiente vigilanza critica su di esso, e di non essersi allo stesso tempo sintonizzata sui problemi centrali della scuola organizzando razionalmente le sue risorse e avanzando proposte significative chiaramente formulate, affidabili e sostenibili.

La dimensione quantitativa e comparativa

Se si vogliono trovare punti ragionevoli di condivisione, su cui basare poi interventi di miglioramento incisivi, occorrono altri elementi di riflessione, partendo innanzitutto dalla necessità di una migliore messa a punto conoscitiva sulle criticità della scuola, sulla loro evoluzione, sulle priorità in cui si presentano. Il secondo aspetto sul quale mi sembra importante richiamare l’attenzione degli autori sinora citati riguarda le prove standardizzate ed in particolare le prove Invalsi, verso le quali converge un proluvio di critiche, sulla scia anche dell’insofferenza presente nella scuola che le vive in gran parte come un obbligo arbitrario e estraneo imposto. Qui occorre un ripensamento critico. E’pienamente giustificata l’ostilità verso un uso indiscriminato del testing didattico14 e del tutto condivisibile che i test implicano limitazioni arbitrarie e che non sono mai “oggettivi”, ma bisognerebbe anche riconoscere che, in particolare quelli internazionali, Ocse-Pisa, Timms, Pirls, si rivolgono a valutare processi cognitivi di alto livello (ragionamento, inferenza, deduzione, interpretazione ecc.), la cui rilevanza è difficilmente disconoscibile, qualunque sia il modello di scuola che si assume, e che sono per questo, a livello internazionale, sempre più considerati buoni predittori dello sviluppo potenziale di un Paese.

Anche i test Invalsi permettono una visione imparziale della nostra scuola strappando il velo di autoreferenzialità che ancora continua ad avvolgere la sua immagine. Essi confermano ormai una situazione disastrosa, mostrando come ad un alto tasso di dispersione esterna, si aggiunga una alta dispersione interna, in matematica e lettura15.

A questi dati, che circolano ormai nelle testate nazionali più importanti, mi permetto di aggiungerne un altro. Si osservi il grafico tratto dalle prove PISA (Fonte OECD 2019) che illustra il trend delle prestazioni nelle scienze che, sempre al di sotto della media europea, vede un tracollo radicale tra il 2012 e il 2018.

Sono elementi che lasciano intravedere un ben triste avvenire per la ricerca scientifica italiana, una volta fiore all’occhiello del Paese. Gli umanisti quanto meno insorgono, cercano di farsi sentire, ma delle scienze nessuno sembra più occuparsene. In altri Paesi europei un fatto del genere avrebbe visto ministri dell’istruzione sobbalzare sulla sedia e chiamare gli addetti ai lavori per cercare rimedi. Chi attualmente sta sollevando questo problema e quali concrete azioni per invertire la tendenza sono sul tavolo? E le associazioni scientifico didattiche -in Italia pur ce ne sono diverse- si attivano e riescono a far sentire la loro voce?16.

È dunque in primo luogo importante che si favorisca un clima culturale a favore delle prove standardizzate rimuovendo la percezione negativa diffusa tra gli insegnanti e favorendo una diversa cultura della valutazione17. Allo stesso tempo vanno favorite iniziative che aiutino il sistema nazionale di valutazione a migliorarsi valorizzando l’aspetto formativo, dinamico e sfidante della valutazione stessa e non quello puramente certificativo, in linea anche con una docimologia che in Italia beneficia di una tradizione avveduta (Visalberghi, Vertecchi, Domenici) che trova oggi conferma nei lavoro di Hattie, che vede nella qualità del feed-back il fattore più importante per il miglioramento e secondo modelli che già esistono nel contesto internazionale18.

Analisi quantitative sono utili, ancor più se integrate con altre, come fa Gavosto in La scuola bloccata (2022), dove l’autore mira a comprendere i meccanismi del sistema scuola per rimuovere gli inceppi e rimetterlo in moto con iniziative non velleitarie19.
Interessante per il nostro discorso è la riflessione conclusiva, la necessità di fare dell’attenzione sugli apprendimenti la leva per un nuovo più ampio spazio di consenso: “Quello che è finora mancato nelle riforme italiane è un tessuto connettivo che rendesse coerente agli occhi dell’opinione pubblica l’insieme delle misure adottate: questo tessuto connettivo non può che essere il livello degli apprendimenti (idem, pag. 122).

Qui in effetti si può trovare il tema unificante su cui far convergere sinergie provenienti dai mondi della ricerca e dell’opinione pubblica orientando l’attenzione sul Iivello e sulla qualità degli apprendimenti a cominciare da quelli fondamentali, includendo, anche se non in modo esclusivo e unidimensionale, quelli richiesti dalle prove standardizzate internazionali20. Chi ha idee le esprima ma abbandonando del tutto retorica e astrattezza, spiegando perché e come le ipotesi attuative dovrebbero funzionare e in che modo i possibili auspicati miglioramenti possano essere resi visibili, verificabili e sostenibili: non si sfugge a questa logica.

Gli apporti della ricerca educativa che i decisori dovrebbero conoscere

A questo punto si rende necessario inserire un ulteriore elemento, più di pertinenza del sottoscritto e dell’Associazione che ospita questo contributo.
Riuscire ad avere strumenti qualitativi o quantitativi che consentano di fare il punto della situazione ed intendersi sulla natura e priorità delle sue criticità è importante ma poi bisogna passare alla decisione sugli interventi che è ragionevole pensare essere più efficaci nell’invertire la tendenza negativa. Qui si entra nel punto più delicato, anche perché l’esperienza ha ben mostrato ormai che tante “buone intenzioni” naufragano all’atto della pratica, o perché erano sostanzialmente ingenue o intrinsecamente insostenibili, o perché non erano state adeguatamente valutate le condizioni al contorno e le trasformazioni, a volte anche poco prevedibili, che si mettono in atto nella loro implementazione.

Un contributo significativo, inimmaginabile fino ad una quindicina di anni fa, viene oggi dalla ricerca educativa (istruzione e apprendimento come ambiti congiunti) che ha fatto passi considerevoli assumendo connotati scientifici decisamente più solidi21 sulla efficacia degli interventi didattici, su cosa funziona e non funziona a vari livelli (classe, scuola, contesto nazionale), valutata attraverso comparazioni su larga scala (meta-analisi, Systematic Review, Best Evidence Synthesis). Molte delle questioni dell’istruzioni si possono affrontare spostando così il dibattito da un livello opinion-based ad uno evidence-based (EBE, Evidence-based education22). Sempre più in un crescente numero di Paesi ci si interroga su come queste nuove conoscenze possano aiutare i decisori rendendoli “informati da evidenza”.

Non bisogna certo banalizzare il problema pensando che da questi avanzamenti si possa e debba ricavare una lista di istruzioni pronte all’uso. E’ un dato di fatto tuttavia che su molti problemi, in particolare a livello della didattica in classe e dell’expertise dell’insegnante23, si sono raggiunte conoscenze condivise, altamente affidabili, anche come convergenza tra più settori (Instructional Design, studi empirici sugli insegnanti esperti, scienze cognitive, neuroscienze24); alcuni concetti in particolare portano a rivedere quadri concettuali apparentemente dati per scontati e che vanno invece revisionati o trattati con maggiore consapevolezza25 ed è ragionevolmente possibile individuare i programmi specifici e le tipologie didattiche che li caratterizzano che, applicati nelle diverse discipline nelle varie parti del mondo, sono risultati i migliori.

Trovo qui utile soffermarmi sul fatto che la ricerca educativa evidence-based trova sempre più un punto di accordo nella identificazione dei principi comuni e delle conseguenti raccomandazioni fondamentali per garantire la migliore qualità all’interazione didattica, quale si può riscontrare nel formato della “lezione” che qualunque insegnante deve tenere in una classe in ogni parte del mondo26. Alla base si può individuare una rosa di suggerimenti trasversali alle specifiche didattiche disciplinati e anche alle distinzioni tra didattica generale e didattiche speciali27. In Italia un rilevante lavoro di analisi empirica sulla qualità della lezione in classe è stato compiuto dalla Fondazione Agnelli (Esteban, 2021) che ha messo in risalto evidenti limiti nel modo di condurre questo momento fondamentale della attività didattica in modo adeguatamente strutturato e interattivo da parte di grosse frange di insegnanti28, lavoro a cui dovrebbero seguire ulteriori interventi sperimentali sulla formazione volti a dimostrare come si possa, con modelli e pratica guidata, migliorare la qualità delle lezione, in un’ottica di visibilità e rendicontabilità dei risultati. È stato mostrato come un insegnante possegga una propria rappresentazione interna di lezione in cui possono sussistere misconcezioni, quali l’idea che la cosa più importante sia fornire quante più informazioni possibili, la non comprensione del ruolo del feed-back formativo, la stessa difficoltà a distinguere processi cognitivi di livello diverso o la sottovalutazione di momenti ricapitolativi e metacognitivi (Calvani, Marzano, Morganti, 2022; Miranda, 2022).

Il tragitto che parte da una analisi delle cornici mentali presenti nell’insegnante, alla conoscenza di esempi di didattica esperta e alla pratica guidata, fino al riscontro sugli apprendimenti degli stessi alunni, dovrebbe dunque essere il fulcro centrale su cui far convergere ricerca educativa e formazione.

Mettere al centro dell’attenzione i principi basilari su cui si fonda una didattica efficace, esemplificata nella lezione, sposta gli assetti complessivi della formazione, con una serie di ricadute su diversi piani:

  • rimette la formazione in linea con le necessità primarie concrete dell’insegnante interrompendo una storia che l’ha vista negli anni diventare astratta e dispersiva29;
  • stabilisce un più stretto rapporto teoria-pratica e attribuisce un ruolo dinamico al tirocinio valorizzandone la sua capacità propositiva, in quanto ispirata a modelli di qualità più alta della pratica comune30;
  • fornisce un punto di raccordo per le ataviche controversie tra didattica generale e didattiche disciplinari, che hanno visto anche derive disciplinariste con punte sconcertanti31, tra la stessa didattica generale e la didattica speciale32;
  • offre infine una base importante per una risposta seria e praticabile alla questione degli avanzamenti di carriera oggi tanto discussa e irrisolta33.

Una grande assente: l’inclusione

Un accenno finale ad un’altra grande questione trascurata nel dibattito attuale sulla scuola: l’inclusione.
Ritengo che quando Galli Della Loggia inserisce questa voce nella lista degli orpelli della pedagogia si riferisca alle escrescenze burodidattiche che essa ha generato (Pei, Nuovo Pei) di cui personalmente condivido l’astrattezza, e non alla sostanza in sé del concetto. Purtroppo a distanza di cinquant’anni dalle leggi di chiusura delle scuole speciali, nonostante che sul problema dell’inclusione lavori oggi un considerevole numero di ricercatori e che sul piano della conoscenza delle disabilità specifiche si siano fatti passi avanti considerevoli -si pensi a quanto sappiamo su autismo e dislessia- dobbiamo francamente riconoscere che la scuola inclusiva italiana non si è rivelata capace di fornire evidenze sulla sua efficacia34, nonostante una rappresentazione dominante ovattata e infranta solo da qualche voce autorevole e criticamente avveduta (Cottini, Morganti, 2015; Ianes, Augello, 2019).

Non si registra del resto su questo tema né da parte della stampa, né a livello istituzionale e politico una adeguata attenzione. Sembra che la scuola dovrà continuare ancora per anni a gestire soluzioni che possiamo chiamare “a bassa intensità inclusiva”, con una realtà che vede insegnanti di serie B (“di sostegno”), impegnati a cavarsela con espedienti giornalieri in una sorta di badantato, pur sotto il manto formalmente nobilitante delle indicazioni ministeriali (il PEI).

Il problema dell’inclusione si affronta con una visione più flessibile, unita alla capacità di intervenire su diversi piani, logistico, organizzativo, normativo, formativo, che vanno raccordati.
A livello delle concezioni rimane ancor oggi prevalente un’idea banalizzata di inclusione come semplice coesistenza prossimale di tutti i soggetti nella stessa classe indipendentemente dal fatto che alcuni non abbiano le capacità di partecipare alle attività comuni35. Questa idea, mai esplicitata e discussa criticamente, assunta tacitamente, agisce come fattore frenante e paralizza immediatamente anche ciò che il buon senso e le stesse evidenze mostrano (Neitzel et al., 2021), cioè il fatto che in certe situazioni siano utili gruppi e classi di livello; si pensi ai numerosi minori non italofoni che giungono in Italia senza conoscere una parola di italiano e che vengono immediatamente immessi nelle classi in base all’età.

A livello politico è rimasto irrisolto il problema, pur avanzato da tempo, di equiparare la figura dell’insegnante di sostegno all’insegnante ordinario, con due percorsi formativi in parte distinti, in parte integrati36.
Uno degli impegni importanti del Pnrr sta nella edilizia scolastica. Avere aule e spazi è importante ma dovremmo chiederci: per che cosa? La strada non è quella di utilizzarli per una riduzione del numero degli alunni per classe per contrastare le cosiddette “classi pollaio”, un’altra delle etichette di moda tanto pervasive quanto fuorvianti, pensando che questa operazione condotta con taglio omogeneo possa migliorare i livelli degli apprendimenti ed il benessere delle classi37; si tratta invece, mantenendo costante il principio della massima equi-eterogeneità nella formazione delle classi per evitare il formarsi di situazioni ingestibili, di disporre, oltre alle aule per le attività comuni, nella scuola stessa o in ambiti limitrofi, di altri spazi adeguatamente attrezzati dove possano svolgersi attività periodiche in gruppi più ridotti di alunni eterogenei ma anche omogenei, o in rapporto individuale, valorizzando anche rapporti con agenzie e specialisti esterni e considerando non solo i bisogni dei soggetti con disabilità ma anche quelli dei più dotati.

Conclusione

Il declino progressivo della scuola italiana è ormai un dato difficilmente negabile, documentato, oltre che da resoconti personali, da valutazioni internazionali e nazionali, i cui risultati, assai poco confortanti, tendono tuttavia ancora ad essere disconosciuti, da scarso interesse o da processi di occultamento indotti dal presupposto che quanto è stato fatto negli ultimi decenni, all’insegna dell’innovazione e di tanti buoni propositi, non possa che essere stato migliorativo. Autori come Mastrocola e Ricolfi, ma anche prima di loro Galli Della Loggia e Israel, in linea anche con movimenti di opinione più diffusi, hanno più volte espresso critiche e denunce della scuola attuale sottolineando come questa, dal ’68 in poi, abbia inseguito idee astratte di riforma o di innovazione, anziché cercare di conservare il buono che la scuola già aveva, producendo sovraccarico di iniziative dispersive, abbassamento degli apprendimenti fondamentali, smantellamento degli esami e deresponsabilizzazione degli alunni. La scuola che avrebbe dovuto diventare più democratica portando tutti ad alti livelli di istruzione, porta tutti a livelli molto più bassi senza neanche essere più democratica. Bersagli costanti in questi orientamenti sono la pedagogizzazione della scuola, la burocratizzazione didattica, la subordinazione della scuola al mercato, l’autonomia, il sistema Invalsi, in qualche caso anche l’inclusione.

Queste voci, ricche di testimonianze concrete sugli aspetti positivi disconosciuti che la scuola di una volta possedeva, di forte buon senso, attente ad una visione d’insieme del sistema d’istruzione e seriamente preoccupate sul suo futuro, dovrebbero essere ascoltate, analizzate all’interno anche di una riflessione meno ideologizzata, in cui si dovrebbe anche valutare, almeno su un piano storico e critico, se la scelta dell’autonomia per un Paese come l’Italia sia stata effettivamente una buona scelta, fermo restando che su questo quadro di fondo non è possibile tornare indietro e si tratta semmai di controllarne le possibili distorsioni.

Queste posizioni si infrangono invece dinanzi ad un muro di fuoco fatto di formule retoriche ed epiteti che le tacciano di tradizionalismo, autoritarismo, atteggiamento antidemocratico ed altro, messo in campo dai sostenitori dell’assioma innovazione=miglioramento, i quali tuttavia, pur a fronte di una lista innumerevole di esempi, faticano a produrre le evidenze sui miglioramenti che le azioni innovative avrebbero prodotto, superando la retorica di cui si avvolgono e in cui le carte vengono confuse.

Il dibattito si paralizza così su asserzioni contrapposte, anche perché gli spazi che la stampa dedica alla scuola sono ridotti, limitati a quando questa “fa notizia” e purtroppo, in un contesto di sostanziale indifferenza da parte del livello istituzionale e politico.
Occorre in primo luogo ricomporre un tessuto di base per un dialogo critico e costruttivo, trovare convergenze in primo luogo in quegli ambiti in cui la scuola è oggetto di interesse di studio da parte di ricercatori, di intellettuali e di associazioni informate, al di fuori della ridda convulsa del “ciascuno dica la sua” e delle banali amplificazioni che l’opinionismo riceve nel blogging.

Vanno promosse alcune azioni prioritarie comuni verso l’opinione pubblica, come quelle volte a ricostruire una solidarietà scuola-famiglia, in un contesto nel quale i rapporti tendono troppo spesso ad assumere i tratti di un conflitto sindacale38, quelle che mettono al centro l’urgenza di migliorare i livelli degli apprendimenti, quelle che dovranno sostenere decisioni, sicuramente impopolari, ma che qualche ministro prima o poi dovrà prendere con coraggio per ristabilire prove di uscita (scuola media e diploma di scuola superiore) con richieste di livello più alto e comunque non inferiore a quelle di altri Paesi con cui è lecito l’Italia si confronti.

Gli autori che mettono al centro il richiamo alla scuola di una volta, dal canto loro, dovrebbero rivedere alcuni giudizi troppo sbrigativi sull’autonomia, sulle prove standardizzate e l’Invalsi. Sull’autonomia la scelta di fondo è stata compiuta ed è improponibile rimetterla in discussione; però si può e deve intervenire sui dispositivi che ne possono mitigare gli effetti centrifughi, tra questi sono appunto le prove Invalsi, di cui occorre migliorare il ruolo formativo e le Indicazioni nazionali, decisamente condizionate da un eccessivo metodologismo, da scarsa attenzione e oggi carenti in alcune cognizioni fondamentali che ha ricerca ha acquisito.

In generale, anche tenuto conto delle difficoltà a mettere mano agli aspetti di sistema, conviene spostare l’attenzione dall’“involucro esterno” del sistema (apparato giuridico, normativo, cicli, materie insegnate) alla qualità del contenuto dell’insegnamento disciplinare.

Un punto fondamentale di convergenza tra ricerca e opinione pubblica si può trovare nella qualità degli apprendimenti e nella loro valutazione: cosa fare concretamente per migliorarli. In questo quadro si tratta di ricollocare al centro delle indicazioni operative rivolte agli insegnanti attività fondamentali quali la scrittura, la lettura lo studio e della loro formazione, la lezione in aula, considerata e valorizzata nelle sue dinamiche interne e nella sua migliorabilità.

E’ importante sapere che su questi aspetti la ricerca evidence-based può fornire modelli sperimentati, indicazioni della psicologia cognitiva e delle neuroscienze che si sono rivelati affidabili un po’ dovunque nel mondo, capaci di migliorare gli apprendimenti, non solo intesi nella loro versione banalmente nozionale, ma in senso più ampiamente formativo (alti processi cognitivi con implicazioni emozionali e motivazionali) rendendone visibili i risultati.

Buone basi per convergenze ragionevoli e costruttive dunque esistono ma occorre ampliare i punti di vista personali oltre gli steccati ideologici e di appartenenza (istituzionale, accademica), distaccarsi dai luoghi comuni e da una rappresentazione di cosa sia una buona didattica e un bravo insegnante, vincolata all’essere favorevoli ad “innovare” o ad assecondare l’ultimo slogan didattico che appare sulla scena.

Aggiungiamo in allegato alcuni suggerimenti che dovrebbero contribuire ad orientare verso atteggiamenti e scelte operative scientificamente fondate e ragionevolmente condivisibili.

Elezioni del 25 settembre: LIBERI DI SCEGLIERE

3 Agosto 2022 - di fondazioneHume

PoliticaSpeciale

Elezioni. Manifesto di giuristi e altre personalità della cultura : “Liberi di scegliere. Per una campagna elettorale all’insegna del pluralismo, della pari dignità, della solidarietà politica e della responsabilità”

“Liberi di scegliere”. E’ il titolo del manifesto lanciato da costituzionalisti di diverso orientamento politico per una campagna elettorale all’insegna del pluralismo, della pari dignità, della solidarietà politica e della responsabilità. Un’iniziativa contro la delegittimazione e le campagne denigratorie che purtroppo hanno contraddistinto questa prima fase del confronto elettorale, aperto anche alla adesione di altri accademici e già sottoscritto in poche ore da oltre cento costituzionalisti, giuristi, politologi, sociologi, diplomatici, docenti di diritto e scienza della politica ed altri accademici.

Di seguito il testo dell’appello:

Nei momenti più delicati nella vita di una nazione grava in capo a ciascun componente della comunità il dovere di agire senza mettere in discussione quel minimo comune denominatore, fondato sulla pari dignità sociale dei cittadini, su cui si regge la convivenza politicamente organizzata. La Costituzione italiana evoca questo essenziale principio di condotta già nelle sue prime battute, allorché nell’art. 2 richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, accanto a quelli di solidarietà sociale ed economica. La Carta, inoltre, agli art. 3 e 21, richiama all’osservanza della pari dignità sociale anche nelle manifestazioni del pensiero e delle opinioni e all’art. 49  impone il rispetto del metodo democratico nella competizione tra i partiti.

Tra i fondamenti dell’ordinamento repubblicano vi è certamente il diritto-dovere dei cittadini di scegliere liberamente i propri rappresentanti in Parlamento e il correlato diritto di tutti i partiti politici e dei loro esponenti di competere democraticamente per l’acquisizione del consenso, aspirando al governo del Paese secondo la propria visione dell’interesse generale.

La dialettica democratica, i principi di libertà e rispetto, insieme al richiamato dovere inderogabile di solidarietà politica postulano la reciproca legittimazione dei concorrenti, il ripudio di ogni atteggiamento di contrapposizione radicale, teso a mettere in discussione il diritto di ciascuna forza politica ad aspirare alla guida del Paese con il consenso degli elettori, così come, ancor di più, forme di discriminazione o di screditamento, da qualsiasi parte provengano, fondate sulle caratteristiche fisiche o sulle posture di chi è considerato avversario e, talvolta, addirittura “nemico” politico.

Il dovere di accettare la fisiologia della competizione politica e gli esiti che gli elettori determineranno non grava soltanto sui partiti e sui loro esponenti, ma su tutti i soggetti e le componenti della comunità, che, in ogni democrazia pluralista, contribuiscono ad alimentare il dibattito e ad orientare l’opinione pubblica (stampa, accademia, istituzioni economiche e sociali, etc.)

A maggior ragione nei momenti di grande instabilità economica, sociale e geopolitica come quello che stiamo attraversando – con la necessità di mantenere un saldo impegno corale, insieme agli alleati europei e occidentali, contro gravi minacce da ultimo concretizzatesi con l’aggressione dell’Ucraina da parte della Russia – elementari istanze di responsabilità e di “correttezza costituzionale” impongono il ripudio di ogni atteggiamento discriminatorio o delegittimante, che, prescindendo dalla volontà degli elettori e dal rispetto delle normali dinamiche istituzionali e costituzionali, alimenti contrapposizioni radicali, forme di delegittimazione morale, condizioni di sospetto e inquietudine sociale fondate su congetture, narrazioni prive di riscontri o addirittura vere e proprie “fake news”.

Nell’architettura democratica e pluralista della Carta repubblicana ogni diritto e ogni libertà – compresa la libertà di manifestazione del pensiero e quella di stampa – si declinano in parallelo ai doveri di solidarietà, al principio di responsabilità, di osservanza del metodo democratico e all’esigenza di rispetto della dignità della persona.

Auspichiamo, dunque, che tutti i soggetti convolti nella campagna elettorale appena iniziata, ma anche nel dibattito pubblico a questa connesso, rispettino le istanze del pluralismo e del reciproco rispetto, pur nella legittima e necessaria dialettica tra differenti visioni politiche e culturali, affinché possa svolgersi un confronto chiaro e netto tra idee, programmi, progetti alternativi sui quali gli elettori potranno liberamente esprimersi.

Per sottoscrivere il manifesto: liberidiscegliere2022@gmail.com

La guerra, la pace, i valori. La lezione ignorata di Isaiah Berlin

12 Luglio 2022 - di Dino Cofrancesco

Speciale

I. La guerra in Ucraina non segna soltanto una svolta nei rapporti internazionali tra le potenze che tengono nelle loro mani i destini del mondo ma comporta una profonda rinnovata riflessione sulle grandi questioni che da secoli travagliano l’umanità, soprattutto occidentale. A leggere i giornali e a seguire i talkshow televisivi (che non sempre meritano il disprezzo di cui sono oggetto), si ha l’impressione di un enorme rimescolamento delle carte: amici, conoscenti, colleghi, intellettuali, giornalisti, politici che da tempo immemorabile si riconoscono nei valori della destra o della sinistra si ritrovano dalla stessa parte dei loro antichi avversari. Le appartenenze ideologiche diventano magmatiche e ogni giorno nascono raggruppamenti trasversali inediti. Vecchi atlantisti ritengono che la Casa Bianca e Joe Biden abbiano scatenato una guerra per procura contro la Federazione Russa al fine di ridurla a ‘potenza regionale’ non più in grado di nuocere; mentre un esponente della sinistra più radicale, come Pancho Pardi, sul ‘Manifesto’ dell’8 giugno u.s., critica aspramente Emmanuel Macron (e un po’ anche Enrico Letta), in un articolo che già nel titolo è un atto di accusa, Per non umiliare Putin, si consiglia all’Ucraina la resa. Come scriveva E.M. Cioran nel suo breviario spirituale, L’inconveniente di essere nati (1973), “nei confronti di un qualunque atto della vita, lo spirito fa la parte del guastafeste”. Nel fervore dello scontro tra atlantisti nuovi e stagionati e quanti vengono accusati di comprendere le buone ragioni di Putin, avanzare dubbi e perplessità sulla guerra russo-ucraina diventa un peccato contro lo spirito. Un noto politico democristiano, intervenendo a ‘Stasera Italia’, ha sostenuto che non si può consentire a chi nega la verità di esporre le sue tesi (chiaro riferimento al Prof. Alessandro Orsini). Giustamente Augusto Minzolini sul ‘Giornale’ del 7 giugno u.s. – L’arma del silenzio – ha ribattuto ai censori, paladini del Vero, del Bello e del Buono: “chi è forte dei propri argomenti non dovrebbe temere quelli degli avversari”. Eppure nel mondo capovolto in cui viviamo, sembra che l’arma del ‘silenzio’ cioè il tentativo di stendere una cappa sul dissenso, sia diventata la ’scorciatoia’ preferita pure in Occidente. Si tratta, però di una scorciatoia ‘pericolosa’ perché racchiude in sé un germe autoritario che è incompatibile con ogni democrazia degna di questo nome; ma, nel contempo, seducente perché è molto meno faticosa del confronto. Il sottoscritto, ad esempio ha sempre pensato che si debba stare dalla parte dell’Ucraina, che sia doveroso assicurarle le armi di cui ha bisogno per difendersi, che la precondizione di ogni mediazione debba essere il ‘sì’ di Kiev. Detto questo, la ‘caccia’ ai putiniani e le liste di proscrizione nei confronti di dubbiosi e ‘pseudo pacifisti’ sono atteggiamenti ridicoli, che offrono a Mosca una patina di vittimismo.

Sennonché il problema non è solo quello della tolleranza delle opinioni politiche che non condividiamo ma è, soprattutto, quello della disponibilità ad ammettere che in quelle opinioni potrebbero esserci valori che non sono i nostri ma che, non pertanto, sono meno degni di rispetto e di considerazione. In non pochi interventi di storici e di analisti politici che onorano le patrie lettere è proprio il dubbio scettico – il momento più alto della saggezza dell’Occidente – che è venuto meno. Ben pochi hanno preso sul serio il pluralismo (non taroccato e non retorico) che costituisce la quintessenza del liberalismo di Isaiah Berlin. Rispondendo a Guy Sorman, – v. I veri pensatori del nostro tempo, Ventotto incontri con i protagonisti del pensiero contemporaneo (Ed. Tea, Milano 1989 p. 287) – il filosofo politico oxoniense, andando ben oltre il mero principio del rispetto che si deve agli altri e riprendendo un tema milliano (abbiamo bisogno di chi non la pensa come noi giacché è la dialettica delle opinioni che porta alla verità) rilevava ironicamente che: “essere liberale non significa soltanto accettare le opinioni divergenti, ma ammettere che forse hanno ragione gli avversari”. I nostri liberali italiani, sembra, “non appreser ben quell’arte”: col tempo, senza rendersene conto, dopo aver abbandonato la chiestacomunista, ricadono nei peccati di gioventù – il bisogno di certezze assolute, l’incapacità di mettersi nei panni degli altri, di rimanere fedeli al dovere della professione intellettuale che è quello di trasformare un fatto in un problema. Un maestro del ‘sospetto’ come il ricordato Cioran, diceva che “nei confronti di un qualunque atto della vita, lo spirito fa la parte del guastafeste” e che “penser, c’est saper, se saper” ed è per questo che si preferisce l’azione al pensiero, giacché “agire comporta meno rischi, perché l’azione riempie il divario tra le cose e noi, mentre il pensare lo allarga pericolosamente”.

Confesso di essere sconcertato dalla ‘trahison des clercs’ che constato ogni giorno. Amici e colleghi che considero degni di stima e che, talora, mi hanno dato insegnamenti preziosi di tipo storico e metodologico, intervenendo sul conflitto in Ucraina, non si limitano a esternare, a buon diritto, le loro opinioni su una tragedia epocale ma si rifiutano di prendere in considerazione quanti la pensano diversamente da loro, squalificandoli moralmente e intellettualmente. Ancora una volta, ci troviamo dinanzi al rifiuto di accettare il fatto che “il mondo è pieno di dei” e alla pretesa che solo i nostri sono veri dei mentre gli altri sono demoni.

Uno studioso che stimo molto, Giovanni Belardelli, – uno dei più importanti studiosi di Giuseppe Mazzini e della cultura fascista – anche se non usa il termine, non ha esitato, in sostanza, a riguardare come ‘panciafichisti’ – cioè quanti serbano la pancia per i fichi, ovvero evitano vilmente il pericolo, tenendo alla propria pelle: la parola fu coniata polemicamente nel 1914 per indicare coloro che allo scoppio della prima guerra mondiale erano contrarî all’intervento italiano nel conflitto – i (presunti) putiniani d’Italia. Nell’articolo Gli eroici ucraini hanno reso impossibile la nostra tranquilla vita d’antan. È per questo che, ahinoi, in tanti non li sopportano più (‘Il Foglio’ 21 maggio), ha rilevato: “Ciò che tanti hanno difficoltà ad accettare, fino al punto di prendere le parti del dittatore del Cremlino, è la fine di un’illusione, il dissolversi di una storia che ci raccontavamo da decenni e in cui avevamo finito col credere. L’idea che, nonostante grandi e pic­coli sconvolgimenti mondiali, i cittadini delle democrazie europee avrebbero potuto continuare a vivere per sempre in un continente caratterizzato dalla pace, avrebbero continuato a godersi un benessere pressoché unico – nonostante qualche recente battuta d’arresto – nell’intera storia umana. La resistenza degli ucraini ha insomma distrutto il sogno dì una nuova belle époque che era iniziata nel 1945 ma, a differenza di quella sprofondata a Sarajevo, non avrebbe mai avuto fine. Dietro tanti discorsi sugli aiuti militari e sulle armi difensive o offensive, su Biden e la Nato, sul battaglione Azov e così via, c’è anche (soprattutto?) il fatto che gli ucraini, resistendo hanno reso impossibile la nostra tranquilla vita d’antan. Per questo in molti cominciano a non sopportarli più. Insomma gli ‘eroici ucraini’ hanno fatto irruzione nelle nostre case come elefanti nei negozi di cristallo: stavamo tanto bene sprofondati nelle nostre comode poltrone ed ecco che i guastafeste ci ricordano che le guerre non sono un ricordo del passato ma all’improvviso possono tornare seminando distruzioni e morti come ieri, più di ieri”.

Leggendo le parole di Belardelli si può davvero fare a meno di pensare che i suoi avversari politici non vengano messi “in cattiva luce”, ridotti ad egoisti preoccupati unicamente della loro tranquillità domestica? L’antiamericanismo è una costante della cultura italiana ma l’antiqualunquismo non è da meno, col suo hate speech nei confronti dell’italiano familista amorale, sollecito solo del proprio particulare (l’intramontabile ‘uomo del Guicciardini’ stigmatizzato da Francesco De Sanctis!): come al primo, anche al secondo si nega ogni parentela con i valori e la dimensione etica dell’esistenza. Ma davvero non hanno nulla a che vedere con la morale quanti si preoccupano delle conseguenze economiche e politiche della guerra ucraina? A causa della globalizzazione – che ci ha insegnato a definire sovraniste e autarchiche le preoccupazioni di chi avrebbe voluto che la dipendenza di materie prime cruciali per il nostro apparato produttivo non fosse totale e che pertanto campi di grano, centrali idroelettriche, giacimenti di gas e di petrolio nazionali non cadessero in disuso – l’aggressione criminale di Putin sta mettendo in crisi interi settori economici. Migliaia di imprese, di piccole e medie industrie chiudono i battenti per il rincaro delle bollette energetiche, scene di disperazione di chi non può più ‘andare avanti’ vengono trasmesse tutte le sere dai vari canali televisivi (soprattutto Mediaset) e noi quasi ci dovemmo vergognare se l’uomo della strada si chiede ”ma” è giusto che accada tutto questo solo per non riconoscere alla Federazione russa l’annessione di regioni da sempre contese e in preda alla guerra civile, lacerate come sono dalla difficile convivenza di etnie culturali simili ma sempre più ‘parenti serpenti’?

All’uomo della strada la violazione del diritto internazionale (che oggettivamente è innegabile da parte della prepotente autocrazia russa) è indifferente ma non per questo è condannato al ruolo del vigliacco se non vuol morire per Danzica o per il Donbass.

In fondo, per il qualunquista la patria (quella propria e quella degli altri) non è il valore più alto mentre la guerra è sicuramente il male peggiore che possa abbattersi sugli uomini. Lo testimonia già nel XVI secolo con forti e crudi accenti Angelo Beolco, detto il Ruzante nel Parlamento di Ruzante che torna dalla guerra 1528-9. “Cancaro a i campi, a la guerra e a i soldé, e a i soldé e a la guerra3! A’ sé che te no me ghe archiaperé pì in campo! A’ no sentiré zà pì ste remore de tramburlini, con’ a’ fasea; ni è trombe mo, criar «Arme!» mo… Aretu mo pì paura, mo? che, com a’ sentia criar «Arme!», a’ parea un tordo che aesse abù una sbolzonà. Schiopitti mo, trelarì mo? a’ sé che le no me arvisinerà; sì, le me darà mo, in lo culo! Ferze mo, muzare mo? A’ dromiré pur i mié soni. A’ magneré pur, che me farà pro. Pota, mo squase che qualche bota a’ no avea destro da cagare, che ’l me fesse pro. Oh, Marco, Marco4! A’ son pur chì, a la segura” (“Canchero alla guerra e alla vita militare, e alla guerra e ai soldati, e ai soldati e alla guerra! So che tu non mi ci acchiapperai più a fare il soldato! Non sentirò certo più questi rumori di tamburini, come sentivo; né (vi) sono trombe, ora, a gridare «All’armi!», ora… Avrai tu più paura, ora? che, come sentivo gridare «All’armi!», sembravo un tordo che avesse avuto una frecciata. Schioppi ora, artiglierie ora? so che non mi verranno vicine; sì, mi daranno ora, nel culo! Frecce ora, scappare ora? dormirò infine i miei sonni. Mangerò anche, che mi farà pro. Potta, pure che qualche volta quasi non avevo modo di cacare, che mi facesse pro. Oh, Marco, Marco! Sono infine qui, e al sicuro”).

Ma non è da meno il fondatore dell’Uomo Qualunque, Guglielmo Giannini, che, nella raccolta dei suoi pensieri, La Folla(1945, pp. 106-107) demolisce l’ideale patriottico e le guerre alle quali esso conduce in termini che sarebbe eufemistico definire eversivi. “La sconfitta, realtà per i Capi, che perdono lo stipendio, è soltanto un’opinione per la Folla. Supponiamo che l’Italia dovesse cedere il Veneto alla Iugoslavia, e che la Iugoslavia fosse tanto sciocca da prenderselo. Cosa accadrebbe per la Folla? Niente. L’autore di libri continuerebbe a vendere i suoi libri nel Veneto, dove i libri iugoslavi non potrebbero essere venduti poiché nessuno saprebbe leggerli. Chi commerciava con Treviso, Udine, Padova, continuerebbe a commerciarvi. Su tutto il territorio ceduto si continuerebbe a fare l’amore, nascerebbero’ dei bimbi che imparerebbero a parlare italiano con accento veneto, e andrebbero poi a studiare, nelle scuole italiane, delle sciocchezze poco diverse da quelle che studierebbero se il provveditore agli studi dipendesse da Roma anziché da Belgrado. La fisica, la matematica – le cose veramente serie, insomma – sarebbero le stesse. […] Unico vero cambiamento: il prefetto di Venezia sarebbe iugoslavo anziché napoletano o piemontese. E cos’importa all’uomo della Folla che un prefetto si chiami Milan Nencic anziché Gennaro Coppola o Alberto Rossi? Deve dare la vita dei suoi figli e la sua per così poco?”.

Nei Taccuini di guerra 1943-1945 (Ed. Adelphi) di Benedetto Croce si legge, alla data 26 ottobre 1945: “È venuto a farmi visita […] la sera, dopo pranzo, il Giannini, direttore dell’«Uomo qua-lunque», che mi ha chiesto che il partito liberale accolga in sé le centinaia di migliaia dei suoi lettori e seguaci. Gli ho risposto che questo è impossibile, perché noi siamo un organismo politico, e il suo partito è una folla. È rimasto un po’ deluso, e dalla conversazione con lui (che è napoletano ) mi è apparso un ingenuo e di fondo sentimentale e doloroso, che sta contro gli uomini di politica e di guerra, e tutta la storia del mondo che costoro hanno governata, perché egli ha perduto l’unico suo figlio, che volle andare in guerra e nell’aviazione ed è morto in un incidente aviatorio: donde la campagna che egli ha intrapresa e il libro che ha scritto e che io ho scorso alcune settimane fa a Napoli”. È difficile non avvertire nelle parole del filosofo tutta l’umana comprensione per un padre dolorosamente colpito nei suoi affetti più cari per colpa delle guerre del duce, ma è altrettanto difficile non cogliere nella pagina di Giannini una protesta morale, certo lontana anni luce dal republicanism della cultura azionista e in genere dal giacobinismo ideale, comune a tutto l’arco antifascista ma non meno iscritta nell’umano. Augusto Del Noce ha scritto, in proposito, pagine memorabili che, meditate a fondo, avrebbero potuto guarire il liberalismo italiano dal suo coté moralistico e dogmatico.

Tornando a Giannini (e al suo antenato Ruzante) è azzardato immaginare come si sarebbe schierato nella guerra in corso? E la sua numerosa progenie che, stando ai sondaggi elettorali, è contraria all’invio di armi a Zelensky va considerata come una massa damnationis che, essendo in maggioranza, andrebbe tenuta, quanto più è possibile, lontana dalle urne. In realtà è in questi frangenti che emerge quell’ineliminabile ‘conflitto di valori’ al quale purtroppo è condannato il mal seme d’Adamo. Valori da una parte, valori dall’altra ma proprio per questo il filosofo, nel senso classico del termine, non può scendere in campo, fingendo di essere rimasto sugli spalti. Si prenda la figura del ‘disertore’ che ha ispirato testi teatrali e film. Il bersagliere Alessandro Anderloni (1881) come ha raccontato il regista omonimo nel film Al disertore (1918), mentre infuriava la battaglia sull’Altopiano di Asiago, abbandonò la trincea per raggiungere la moglie, Maria Zumerle, in fin di vita e la figlia Norma. Fermato dai carabinieri venne fucilato il 7 marzo 1917. Portando la vicenda sulle scene teatrali e sul set il regista ha inteso protestare contro la guerra e certo oggi, commossi, comprendiamo bene l’etica del ‘disertore’ (che tra l’altro sarebbe stato considerato tale anche oggi in Ucraina) ma l’agraphos nomos che lo aveva portato a lasciare la prima linea non era in contrasto col dovere di servire la patria anche col sacrificio della vita? Anderloni aveva le sue ‘ragioni’ ma anche l’esercito impegnato nella ‘grande guerra’ ne aveva e se gli Anderloni e i Ruzanti di oggi sono contrari all’invio di armi a Kiev vanno trattati come “sciaurati che mai non fur vivi?”.

Credo che in una società aperta si debba tener conto di tutte le opinioni, anche di quelle contrarie alla ‘difesa della democrazia’ fuori dai confini patri. Che i loro sostenitori siano ‘putiniani’ o ‘facciano il gioco di Putin’ è qualcosa che certo si può sostenere, astenendosi però dal metter in dubbio la buona fede e/o l’intelligenza del prossimo. Anche i comunisti italiani ‘facevano il gioco di Stalin’ ma non era ciò che si proponevano quando si battevano sulle piazze o nelle aule parlamentari per una giustizia sociale che ponesse termine alle diseguaglianze tra classi e tra regioni della penisola. Analogamente non ‘fanno il gioco di Putin’ quanti chiedono la pace e che il governo italiano si assuma le sue responsabilità. Come ho scritto recentemente nella rubrichetta Vistodagenova che tengo sul ‘Giornale del Piemonte e della Liguria’: “ritengo che, ora come ora, aiutare gli Ucraini – anche con le armi – a sedersi al tavolo del negoziato in veste di non perdenti davanti ai russi non vincenti, sia tutto sommato ragionevole”. Ma il problema non è questo, bensì è quello di mantenere lo sguardo lucido, di non ritenersi i vicari di Cristo in Terra (solo il papa lo è per i credenti) e di guardarci bene dall’ergerci a giudici di chi sulla guerra, le sue cause, il modo di por fine alle ostilità ha idee che non collimano con le nostre.

II. Repetita juvant. Non intendo ‘dire la mia’ sulla guerra russo-ucraina anche perché farsene un’idea è particolarmente difficile giacché, per quanto riguarda l’informazione, ci troviamo dinanzi a un fenomeno unico per un paese, come il nostro, che non essendo in guerra, non sarebbe tenuto a fornire ‘narrazioni’ (ma che brutto termine, quando ce ne potremo liberare?) di parte. Mi riferisco al disaccordo non solo sulle interpretazioni, ma sui fatti stessi. Natoatlantisti e (presunti) filoputiani convergono solo nel riconoscere che a febbraio c’è stata un’aggressione russa all’Ucraina e che l’ira funesta di Putin ‘infiniti addusse lutti agli Achei’ – distruzione di vite umane, di edifici civili, di monumenti storici, di scuole, di chiese etc. Per il resto, non si è d’accordo su niente. Nei giornali e nei talk show si confrontano tesi così opposte che sembrano quasi riferite a vicende e a personaggi omonimi ma diversi. Zelensky è un eroe della resistenza ucraina / Zelensky non è diverso da Putin, è un politicante ricco e dalle frequentazioni ambigue. Gli Ucraini, anche i russofoni, sono spiritualmente uniti, difendono la nazione contro ogni tentativo di dividerla; gli Ucraini sono da tempo impegnati in una guerra civile, giacché le etnie culturali minoritarie non si rassegnano al dominio di Kiev. Gli Stati Uniti non hanno alcun interesse a difendere l’Ucraina se non quello di non consentire al despota russo di ricostituire l’impero zarista; gli Stati Uniti hanno armato l’Ucraina, spendendo miliardi di dollari, per ridurre la Federazione Russa a potenza regionale. Le sanzioni contro Mosca hanno dei costi per l’Europa e per la stessa America ma sono rovinose per Putin che prima o poi dovrà fare i conti con un’economia al collasso; le sanzioni contro la Russia sono inefficaci, come tutte le sanzioni storiche che conosciamo, ma determineranno, in Europa, una crisi duratura e un ritorno alle politiche autarchiche. L’Ucraina, modello di stato democratico, ha un governo liberamente eletto dal popolo;l’Ucraina ha un regime non meno autoritario di quello russo e l’attuale dirigenza si è affermata solo grazie a un golpe, sul quale i mass media occidentali hanno steso un velo di silenzio. Per la Russia la conquista dell’Ucraina è un primo passo sulla via del ritorno all’Europa pre-1991; in Ucraina la Russia vuol riprendersi solo i territori russofoni di cui Kiev minaccia di cancellare l’identità culturale. Una Nato – forza militare di difesa e di pace – non costituisce alcuna minaccia per la Federazione russa; la Nato, per adoperare l’immagine di Papa Francesco, è un cane che abbia alle porte di Mosca e non meraviglia, pertanto, che preoccupi il suo progressivo allargamento. L’Ucraina difendendo il proprio diritto alla sopravvivenza, difende tutto l’Occidente, e va considerata quindi un avamposto della democrazia e della libertà; la guerra in corso si spiega con ragioni di strategia geopolitica: ideologie, crociate e missioni sono soltanto orpelli retorici, che mascherano i vecchi conflitti di potenza. Putin ha scatenato una guerra dagli esiti imprevedibili temendo il contagio di una Ucraina libera e democratica sul popolo russo asservito a una dittatura non meno spietata di quella sovietica; Putin non teme alcun contagio e gli bastano le scene dell’assalto a Capitol Hill per togliere ai russi ogni illusione sull’Occidente e sull’America. A chi non ha alcuna esitazione nel dichiarare che è stata la ‘paura della libertà’ (Erich Fromm non poteva mancare!) a scatenare il nuovo zar, fa riscontro chi giustifica l’intervento russo con il dovere di bonificare Kiev dai nazisti. Il battaglione Azov ad alcuni ricorda Leonida e le Termopili, ad altri i proscritti dei Freikorps. Se non ‘i ragazzi venuti dal Brasile’. Ci troviamo alle prese con una miriade di fatti e di congetture che forse solo gli storici del domani potranno districare. Quello che colpisce, in ogni caso, sono le tetragone sicurezze con le quali storici, analisti politici, pubblicisti di prestigio sostengono l’una o l’altra tesi: nessuno sembra sfiorato dal dubbio scettico (e metodologico) che sta alla base della nostra civiltà, a nessuno viene in mente la saggezza piemontese, cara a Norberto Bobbio, esageruma nen.

Certo non mancano neppure da noi analisti liberalconservatori (Sergio Romano) o di sinistra (Lucio Caracciolo) che hanno preso sul serio il ‘lavoro intellettuale come professione” e cercano, pertanto, di mostrare, nella tragedia bellica in corso, le due facce della medaglia ma a differenza dei combattenti dell’una e dell’altra barricata non sembrano avere molto seguito (anche se il numero di ‘Limes’ la Russia cambia l’Europa ha richiesto una ristampa). I telespettatori in genere non amano la complessità e i conduttori televisivi, per vivacizzare il dibattito per lo più preferiscono i portatori di tetragone certezze – tipo Antonio Caprarica o Giorgio Bianchi – ai problematici.

Questo passa il convento e io certo non pretendo giudicare le parti contendenti e assidermi arbitro in mezzo a lor, semmai in nome del vecchio banale adagio in medio stat virtus. Quando si scende in campo, bisogna stare lealmente da una parte o dall’altra: la militanza non deve mai spegnere la luce dell’intelligenza ma seppur si deve dire sempre la verità non si è tenuti a dirla tutta.

Quello che uno studioso coscienzioso può fare, invece, nel difficile periodo che stiamo vivendo, è richiamarsi, come ho scritto sopra, alla grande lezione di Isaiah Berlin, mettendo a fuoco i valori che ispirano anche quanti sono più lontani dal nostro universo etico-politico. Mi riferisco ai ‘deterrenti’(quelli che avrebbero preferito la resa immediata di Kiev ai massacri) ai quali nulla mi lega ma che leggo spesso portati ad esempio di pusillanimità e di rinuncia alla difesa della libertà e della dignità del popolo ucraino. “Ma davvero – è il rimprovero loro mosso – volete che gli Ucraini alzino bandiera bianca e si arrendano alle forze soverchianti del nemico?”

Ha scritto Ernesto Galli della Loggia, in un editoriale memorabile sul coraggio dell’Ucraina (“Corriere della Sera” del 1° marzo 2022): “dietro l’esempio di coraggio che oggi stanno dando l’Ucraina e la sua gente è facile indovinare un senso fortissimo di dignità personale e di appartenenza collettiva, si sente risuonare di un suono chiarissimo l’idea per cui la vita può essere sacrificata nonché la convinzione che non deve essere tollerata la prepotenza di chi vuole imporci la sua volontà. […] Il patriottismo non è l’orgoglio e la ricerca della potenza della propria nazione. È innanzitutto l’amore per il proprio paese, per la sua storia e i suoi costumi, e insieme il desiderio di vivervi da liberi, liberi di deciderne le sorti condividendole con gli altri che parlano la nostra stessa lingua ma con i quali siamo capaci d’intenderci senza bisogno di parole bensì con uno sguardo, con un semplice cenno del capo. È dal patriottismo, da questo alto e pur elementare sentimento del vivere e delle virtù civili, da questo legame che tiene insieme le società umane, che nasce il coraggio odierno degli ucraini”. Parole bellissime – a parte il fatto che anche i russofoni della Crimea e del Donbass potrebbero richiamarsi al diritto di vivere con chi parla la loro stessa lingua e con cui ci si può intendere “senza bisogno di parole bensì con uno sguardo” – ma che pongono un problema grande come una montagna e che così si potrebbe sintetizzare: l’idea della comunità politica si esaurisce nello Stato e nel regime politico che di volta in volta lo definisce oppure è qualcosa, un bene prezioso, un retaggio storico che sta oltre lo Stato, il governo, i parlamenti, i partiti politici che ne sono i custodi? E le stesse vite dei cittadini che abitano la comunità politica in un determinato periodo, sono qualcosa di cui lo Stato può disporre ad libitum e a cui può chiedere ogni sacrificio, – tanto, chi per la patria muor vissuto è assai – o vanno messe a rischio ma solo entro ragionevoli limiti? Se un bandito assalta una banca, ne svuota i forzieri e in cambio del cessate il fuoco da parte delle forze dell’ordine accorse sul luogo chiede di poter uscire con qualche ostaggio e di disporre di un auto veloce a garanzia della fuga, lasceremo distruggere la banca e ammazzare tutti i clienti che vi si trovavano occasionalmente per una questione di principio, pur di “non tollerare la prepotenza di chi vuole imporci la sua volontà”? Si fa presto a dire “propter vitam, vivendi perdere causas”: nel mondo umano è tutto questione di misura, di quantità. Se il numero dei morti ammazzati è spaventosamente alto, se delle città invase non rimangono che cumuli di macerie, è da vigliacchi alzare bandiera bianca e consentire agli invasori di occupare, senza spargimento di sangue, Roma, Parigi, Milano, Bruxelles, Firenze per farvi ritornare la vita e la libertà quando le sorti del conflitto avranno ricacciato i ‘barbari’ oltre le frontiere?

I bombardamenti sulle città italiane iniziarono l’11 giugno 1940, circa 24 ore dopo la dichiarazione di guerra alla Francia e alla Gran Bretagna, mentre le ultime bombe caddero all’inizio di maggio 1945 sulle truppe tedesche in ritirata verso il Brennero. Nei cinque anni che passarono tra queste due date, quasi ogni città italiana fu bombardata. I centri industriali del nord come Genova, Milano e Torino subirono più di 50 attacchi ciascuno; le città portuali del sud, come Messina e Napoli, più di un centinaio. Milano registrò più di 2000 vittime civili; Napoli, nell’anno peggiore, il 1943, perse quasi 6.100 abitanti sotto le bombe. Città più piccole furono pure pesantemente danneggiate: per esempio, a Foggia le bombe distrussero il 75% degli edifici residenziali, mentre altre località come Rimini subirono ripetuti attacchi per periodi prolungati perché si trovarono per mesi sulla linea del fronte. L’Italia centrale non fu attaccata fino alla primavera del 1943 (e per questa ragione ospitò gli sfollati da altre regioni), per diventare la parte più bombardata del paese nei 15 mesi seguenti mentre il fronte, lentamente, si spostava dal sud al nord Italia”. Il 9 luglio 1943, lo sbarco degli americani in Sicilia segnò la fine del fascismo e di Mussolini, anche se si dovettero aspettare ancora due mesi per tirarsi fuori dal conflitto. Ricordiamo tutti il discorso del Maresciallo Pietro Badoglio dell’8 settembre: “Il governo italiano, riconosciuta la impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane”. Per quanto discutibili fossero state prima le strategie del Re e del Maresciallo, cos’altro c’era da fare? Sottoporre l’Italia che non si arrendeva al trattamento inflitto dagli Anglo-americani alla millenaria abbazia di Montecassino (17 gennaio – 18 maggio 1944)?

Dice un vecchio proverbio napoletano: “quanno si’ncudine statte e quanno si martello vatte” (“Quando sei incudine stattifermo, quando sei martello percuoti”). In un raccontino fantapolitico – Se l’Alto Adige fosse come il Donbass pubblicato il 6 giugno u.s. su ‘La Zuppa di Porro’ – mi sono chiesto: qualora le soverchianti forze militari di una ipotetica Federazione austro-tedesca invadesse l’Alto-Adige per ricongiungerlo al Tirolo, lasceremmo distruggere Trento e Rovereto, Verona e Trieste in nome dei sacri confini della patria? E se lo facessimo la cancellazione della storia scolpita nelle pietre di quelle città, l’incendio dei suoi parchi, l’abbattimento dei suoi monumenti, la distruzione di scuole, stadi, teatri, ospedali, non indurrebbe a chiederci con quale diritto disponiamo di un patrimonio ideale e materiale che ci eravamo impegnati a prendere in custodia? Ancora una volta, in politica è questione di quantità: fino a che punto si possono sacrificare uomini e cose in nome della dignità? Galli della Loggia invita a “chiedersi ad esempio se il nostro discorso pubblico – al di là dell’algida e vuota ritualità di ogni cerimonia ufficiale – mostri di apprezzare realmente i valori che si accompagnano al patriottismo, se i protagonisti della nostra vita politica mostrino qualche coerenza personale rispetto a quei valori. Chiedersi, ad esempio, se questi valori medesimi, viceversa, non siano abitualmente circondati, specie nell’ambito intellettuale e dei media, da un’ironica condiscendenza che li dipinge come qualcosa ormai fuori dal tempo”. Non si può dargli torto per quanto riguarda il tramonto dell’idea di nazione nei nostri giovani e nelle nostre scuole ma non potrebbe essere la stessa idea di nazione a sconsigliare una resistenza a oltranza, distruttiva di vite e di beni che nessuna ricostruzione ci restituirà più? La prima guerra mondiale ci costò seicentomila morti: se i morti fossero stati tre milioni non avremmo accusato le classi dirigenti di aver scatenato un’inutile strage? Non le avremmo messe sotto accusa come pure facemmo in qualche modo a quota seicentomila?

Un comandante che lascia distruggere la nave, ammazzare il suo equipaggio, violentare i suoi passeggeri, rubare il suo carico prezioso, pur di non darla vinta ai pirati che se ne sono impadroniti non ha qualche responsabilità dinanzi al tribunale del genere umano? In base all‘etica politica’ squalificata come ‘pacifista’, nessuno Stato, nessun governo ha il diritto di fare terra bruciata e di chiedere ai cittadini di rinunciare a tutto, alla vita, ai beni, alla famiglia per impedire agli abitanti di Bozen e di Bruneck di ritornare nel seno della patria secolare.

Tornando a Badoglio e all’8 settembre, fu il Mussolini di Salò – quello del Tempo del bastone e della carota – a rammaricarsi della mancata resistenza degli Italiani ai nemici angloamericani fin dai tempi di Pantelleria. Fosse dipeso da lui, le macerie del Colosseo, dell’Altare della Patria, del Quirinale – come quelle di Montecassino utilizzate, dopo l’assurdo bombardamento angloamericano, dai tedeschi – avrebbero dovuto trasformarsi in trincee per fermare l’invasore. Arrendendosi agli Alleati, gli Italiani, invece, rinunciarono a far parte del novero delle potenze che decidono i destini del pianeta ma recuperarono il piacere del ‘vivere liberi’. Certo allora ci siamo arresi a chi esportava la democrazia, mentre oggi gli ucraini, è l’obiezione rivolta ai desistenti, dovrebbero arrendersi a chi, dietro i carri armati, porterebbe loro uno stato poliziesco, una dittatura fuori stagione e asservita al Cremlino. E tuttavia Putin non è Hitler e non è Stalin: occupati dall’Armata rossa (si chiama ancora così), ai vinti sarebbero rimaste la resistenza non violenta (nel solco di Gandhi), la non collaborazione coi vincitori, le sfilate di protesta davanti ai quartieri generali dell’occupante, insomma la ‘disobbedienza civile’, difficile da neutralizzare senza un bagno di sangue alla Tienanmen. Forse quelle di quanti si oppongono ad armare Kiev sono congetture non ragionevoli ma qui si sta parlando dei ‘valori’, non del loro riscontro fattuale.

Con queste considerazioni per così dire ‘filosofiche e storiche non sto dando ragione ai desistenti – o agli ucraini, ce ne saranno pure, renitenti alla leva – ma di richiamare l’attenzione su una lezione della celeberrima Politica come professione (1918) di Max Weber che non dovrebbe mai essere dimenticata: “e quanto alla nobiltà dei fini ultimi, anche gli odiati avversari pretendono di averla dal canto loro, e, soggettivamente, in perfetta buona fede”.

Come si legge nei Quattro saggi sulla libertà (1989) di Isaiah Berlin – a mio avviso, il momento più alto del liberalismo novecentesco – : “Il mondo in cui c’imbattiamo nell’esperienza ordinaria ci pone dí fronte a una scelta tra fini ultimi ed esigenze egualmente assolute; la realizzazione di alcuni dei quali implica inevitabilmente il sacrificio di altro. In realtà, è proprio perché si trovano in questa condizione che gli uomini attribuiscono un valore così immenso alla libertà di scelta; perché se avessero la certezza che in qualche stato perfetto, realizzabile in terra dagli uomini, nessuno dei fini che essi perseguono sarà mai in conflitto con altri, scomparirebbero la necessità e il tormento della scelta e con essa l’importanza centrale della libertà di scegliere. Se, come credo, i fini degli uomini sono molteplici e non tutti sono in linea di principio compatibili l’uno con gli altri, allora non si può mai eliminare del tutto la possibilità del conflitto – e della tragedia – dalla vita umana, sia personale sia sociale”.

È questo lo ‘stile di pensiero’ che non vedo nei giornali, nella saggistica politica, nei salotti televisivi, dove intolleranza ed hate speech regnano sovrani e per caratterizzare quanti sono perplessi sull’aiuto militare a Kiev e, pertanto, vengono arruolati, ipso facto, come putiniani si manda in onda un servizio sulla cellula comunista di… Zagarolo e se ne intervistano gli stalinisti incrollabilmente certi che Putin ha invaso l’Ucraina per scacciarne i nazisti e per completare l’opera della seconda guerra mondiale.

Il più grande storico italiano della seconda metà del Novecento, Rosario Romeo, nella voce ‘Nazione’ per l’Enciclopedia del Novecento (1979) scriveva non senza coraggio e spregiudicatezza intellettuale: “sia da parte delle potenze dell’Asse che da parte delle Nazioni Unite, l’intreccio degli egoismi e delle ambizioni nazionali con motivazioni universalistiche che pretendevano a un’assoluta validità etica induceva a configurare gli avversari non già come esponenti di interessi contrapposti e dotati ciascuno di una propria legittimità, ma come fautori di una causa che si collocava al di fuori della comunità civile, e dunque privi dei diritti che la tradizione dell’Europa illuministica e cristiana riconosceva agli avversari in qualche modo legittimati dalla fedeltà al proprio paese o ai propri ideali. La guerra venne dunque ad assumere carattere, come allora si disse (Croce), di guerra civile o di religione, nella quale amici e avversari si cercavano e riconoscevano nell’identità degli ideali al di là delle frontiere nazionali. […] Da ciò, anche, la tendenza al totale annientamento dell’avversario, addirittura relegato dal nazismo in una sfera biologicamente inferiore, e dagli alleati identificato con la causa del Male e dell’Errore. Che erano atteggiamenti scomparsi da secoli nella coscienza dell’Europa civile, anche se in passato se n’erano avute, specie nei paesi anglosassoni, manifestazioni significative, ispirate alla calvinistica tendenza a vedere le lotte dei popoli e degli Stati in termini di lotte fra reprobi ed eletti: come era accaduto al tempo della guerra contro Napoleone o durante la prima guerra mondiale, quando uomini come John Dewey e George Santayana avevano dichiarato responsabile della «perversità della Germania» il soggettivismo e apriorismo della sua tradizione filosofica, mentre a livello popolare era risuonato sempre più spesso lo slogan «hang the Kaiser»”.

Mi chiedo: quell’“intreccio degli egoismi e delle ambizioni nazionali con motivazioni universalistiche” riconosciuto persino nella guerra dell’Asse, oggi è scomparso nel conflitto russo-ucraino dove le figure del Bene e del Male occupano la scena e non consentono al dubbio di salirvi? Si comprende il linguaggio di Zelensky, impegnato in prima linea, in una partita che non vuole pareggiare ma vincere (in nome delle altissime idealità illustrate da Galli della Loggia) ma perché il linguaggio dell’eroico combattente dev’essere anche quello dello spettatore che si pone al servizio della verità? Con gli squilli di tromba si avvicina il giorno della pace? E se si dice che Putin è davvero il nuovo Hitler – e non un brigante da strada che si è impadronito della diligenza e col quale il ricatto delle pistole impone di venire a patti – perché, coerentemente, non si chiede di fermarlo, entrando in guerra con la Federazione russa? Per evitare la terza guerra mondiale e una probabile catastrofe nucleare? Ed è morale lasciar dissanguare l’Ucraina e coventrizzare le sue città, i suoi campi, i suoi apparati industriali per infliggere all’orso russo ferite tali da costringerlo a tornare nella sua tana?

Vittorio Parsi, ordinario di Relazioni internazionali all’Università di Milano – v. ‘Il Dubbio’ del 26 maggio u.s. – ha affermato che “la proposta di Kissinger all’Ucraina || [cedere territori in cambio della pace] || è ‘irricevibile’. […] Come al solito Kissinger dice cose sulla pelle degli altri. Tanto per ricordare di chi stiamo parlando, è quello del golpe contro Allende in Cile nel 1973. Con le parole sull’Ucraina conferma il suo approccio cinico alla politica internazionale”. Evidentemente Parsi ricorda male le vicende cilene (forse anche perché quanto ne hanno scritto autori come Jean-François Revel o Arturo Valenzuela è stato sommerso dalla saggistica retorica antifascista) se crede che un Segretario di Stato Usa abbia potuto liquidare in quattro e quattr’otto un’antica democrazia come quella cilena, caratterizzata dalla tradizionale non ingerenza dei militari negli affari politici.

In un impeccabile articolo pubblicato su ‘La Repubblica’ del 9 giugno u.s., L’ora della Realpolitik, Furio Colombo ha sintetizzato come meglio non si sarebbe potuto l’essenza dell’insegnamento di Kissinger: “lo stato delle cose conta più dei progetti, quelli aggressivi e quelli eroici. Non è una sgridata agli ucraini che resistono e un gesto di tolleranza per i russi che si ostinano. È la stessa posizione che ha indotto la potentissima America a interrompere la guerra in Vietnam. Non importa se una visione politica (russa) sia giusta o distorta, se una resistenza (ucraina) sia eroicamente condotta. L’importante è interrompere, perché i due contendenti sono destinati a restare uno accanto all’altro e in mezzo all’Europa. È la politica della realtà che ha sempre guidato Kissinger. Non si tratta di approvarla, né di pensare che Kissinger sia venuto a benedire una delle parti. Dell’Ucraina lo irrita il sentimento, che non coincide con la strategia. Della Russia non condivide l’incancellabile strappo con l’Europa a cui dovrà tentare in tutti i modi di porre rimedio”.

Questa non è l’Etica tout court: è solo l’‘etica della responsabilità’, scolpita da Weber nel Lavoro intellettuale come professione (1918). Accanto ad essa c’è l’etica della convinzione – mirante non alle conseguenze dell’agire ma alle sue motivazioni ideali – e ce ne sono altre infinite, religiose e laiche, secolari e trascendenti. Tenerne conto non evita certo i flagelli della guerra ma può contribuire a un confronto pacato tra le diverse opinioni e i diversi interessi e valori in campo: un confronto che potrebbe rendere meno difficili gli inevitabili compromessi senza i quali la parola resta solo alle armi.

Dieci buoni motivi per non credere (troppo) ai sondaggi – 6. Errore di copertura e 7. Errore di mancata risposta

11 Luglio 2022 - di Paolo Natale

SocietàSpeciale

I due tipi di distorsione che vedremo ora fanno entrambi parte del cosiddetto errore di rilevazione; al contrario dell’errore di campionamento, sempre presente ma calcolabile, questo tipo di errore potrebbe teoricamente non esserci (peraltro solo in teoria…) ma non è comunque mai calcolabile: non sappiamo dunque di quanto sbagliamo nella generalizzazione delle nostre stime.

L’errore di copertura si verifica in diverse fasi dell’indagine e per diversi motivi. Può essere dovuto alla mancanza di un elenco completo dell’universo dei possibili intervistati, da cui estrarre il campione, alla impossibilità di reperimento di una quota significativa di individui campionati o al loro rifiuto preventivo di rispondere alle domande. Nel primo caso nulla si può fare, mentre negli altri due è possibile ovviare al problema estraendo preventivamente ulteriori campioni, chiamati “di riserva”, che prenderanno il posto dei soggetti irreperibili, sostituendoli quindi con nuovi individui reperibili e/o disponibili a collaborare. Ma è ovvio che così facendo introduciamo una (possibile) fonte di distorsione a volte piuttosto grave: come possiamo sapere se l’individuo sostituito risponderebbe in maniera simile al suo sostituto? Solitamente, quando si pubblicano i risultati di un sondaggio, in caratteri molto piccoli, a volte quasi invisibili, viene inserito anche il dato relativo al numero delle sostituzioni, che molto spesso sono almeno tre-quattro volte più numerose delle interviste effettivamente effettuate, come nel caso (tipico) qui riportato.

Indagine condotta con tecnica mista CATI-CAMI-CAWI su un campione di 1200 soggetti maggiorenni residenti in Italia (4566 non rispondenti) il 7 giugno 2022.

Il che significa molto semplicemente che l’Istituto di ricerca è riuscito a intervistare 1200 soggetti facendo quasi 6000 tentativi! Quei quasi cinquemila individui irreperibili o non disponibili avrebbero dato risposte simili? Può darsi di sì o può darsi di no; non lo sappiamo né potremo mai saperlo.

 

L’errore di mancata risposta si verifica invece quando una parte di coloro che vengono intervistati non vogliono rispondere ad alcune delle domande del questionario, oppure si dichiarano indecisi sulla risposta da fornire oppure ancora non sanno semplicemente cosa rispondere. Prendiamo ad esempio il caso più ricorrente, un sondaggio cioè sulle intenzioni di voto, con una numerosità campionaria di 800 casi: negli ultimi mesi, il numero di intervistati che si dichiara indeciso, che non vuole rispondere o che opta per l’astensione risulta spesso pari se non superiore al 40% del campione. Una parte di loro, diciamo intorno al 25%, non si recherà effettivamente alle urne, ma il restante 15% ci andrà e avrà un certo comportamento di voto, che potrebbe ribaltare completamente i risultati che ci vengono proposti. Come possiamo sapere se chi oggi non indica la propria preferenza elettorale si distribuirà, il giorno delle votazioni, esattamente come chi l’ha invece indicata? Ma non solo. Il problema ulteriore è che le stime che noi leggiamo si riferiscono non più a 800, ma soltanto a 480 individui (con un errore di campionamento – peraltro – molto superiore a quello indicato), che ci dicono siano rappresentativi della popolazione elettorale italiana. Saranno davvero rappresentativi di tutti gli elettori oppure soltanto di quelli più sicuri del proprio voto e/o propensi a dichiararlo?

Paolo Natale

*estratto del volume “Sondaggi”, in uscita nel prossimo autunno presso Laterza

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