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Speciale

La vecchia scuola e il disastro attuale. Una riflessione trasversale tra ideologismi, responsabilità pedagogiche, evidenze e buon senso

8 Agosto 2022 - di Antonio Calvani

Speciale

Questo documento non vuole essere una trattazione sistematica; è una riflessione che prende lo spunto da una recensione al libro di Mastrocola e Ricolfi (Il danno scolastico), abbandonata per cercare relazioni con altri apporti significativi sulla crisi attuale della scuola italiana, alcuni di taglio simile, basati sul richiamo alla scuola di una volta (Galli Della Loggia, Israel), altri di diversa impostazione (Fondazione Agnelli e ricerca evidence-based).

Su quest’ultimo aspetto, di cui si occupa l’Associazione SApIE, dovrò rimandare al documento sulla scuola curato dal sottoscritto e da Roberto Trinchero (SApIE, 2021), oltre a lavori precedenti raccolti nella sezione bibliografica del sito dell’Associazione.
Lo scopo è di mostrare che sono possibili punti di incontro tra posizioni diverse giungendo a proposte concrete, ragionevoli e sostenibili, sulle quali anche la ricerca scientifica più aggiornata ha diversi suggerimenti da offrire, il tutto a patto che si mettano da parte rigide ideologizzazioni e i cliché ricorrenti.

Mi devo scusare con gli autori dei testi citati per aver estratto, arbitrariamente, alcuni passaggi, quelli che più mi sembravano più utili nel ricercare questo possibile tessuto trasversale. Chiedo anche venia al lettore se, data la natura informale di questo documento, ed anche indotto dai frequenti richiami autobiografici presenti nei libri considerati, mi sono consentito qualche divagazione personale inserita nelle note, che, per questo motivo risultano, in qualche caso, debordanti. Spero che ciò possa servire almeno per far comprendere meglio a quei lettori che avranno la pazienza di leggerle, la cornice ideologica -una qualche ideologia di fondo non è mai eliminabile- nella quale mi colloco.

Premessa

Devo ringraziare Marco Gui per avermi indicato una recente recensione al libro di Mastrocola e Ricolfi (Il danno scolastico, la scuola progressista come macchina della disuguaglianza, 2021). Devo conseguentemente allargare il mio ringraziamento ai due recensori, Argentin e Giancola, il cui contributo (Perché un brutto libro fa parlare di sé (e fa danni) ha costituito indirettamente il fattore che mi ha spinto a scrivere queste riflessioni.

Argentin e Giancola esprimono critiche dure verso il libro di Mastrocola e Ricolfi con un tono che appare eccedere quello consueto di una valutazione critica che può anche essere severa quando necessario. Sostengono che il libro non dovrebbe essere letto e si dichiarano quasi costretti a fare la recensione dal fatto “le tesi storte del libretto in questione hanno impoverito e stanno impoverendo il discorso collettivo sulla scuola”. Segue poi una lunga serie di capi di accusa, tra cui la confusione definitoria sulla scuola (democratica/progressista/facilitata/ecc.), la mancanza di contestualizzazione, di cautela necessaria data la autocentratura esperienziale del lavoro, l’ignoranza della vasta letteratura empirica sul tema, l’impiego di modelli ipersemplificati, laddove altri modelli con un numero più ampio di variabili andrebbero a mitigare, se non smontare i nessi causali presentati. Essi spiegano infine il successo commerciale del libro per la sua stessa vaghezza, per il fatto di giocare sulle emozioni e basarsi su considerazioni come quelle secondo cui le conoscenze disciplinari sarebbero più basse, a parità di titolo, di quelle di una volta. Conosco dai lavori uno dei due autori, Argentin, come un bravo ricercatore, per un suo importante contributo sugli insegnanti e l’impegno a dimostrare l’esistenza di una sociologia applicativa di taglio sperimentale sui problemi educativi nel contesto italiano. Critiche così intransigenti da parte di autori qualificati mi hanno sorpreso. Contravvenendo al loro suggerimento mi sono allora affrettato a leggere il libro di Mastrocola e Ricolfi.

Il libro di Mastrocola e Ricolfi

Devo dichiarare che personalmente trovo il libro di gradevole lettura, anche appassionato e avvincente in qualche tratto. Va da sé, ma su questo concorderanno facilmente anche i due recensori, che la modalità della testimonianza o degli sguardi personali (“coi miei occhi”), quando l’oggetto sia significativo, è del tutto legittima a fini di arricchimento conoscitivo, se pur da triangolare con altri dati, e che avanzamenti della ricerca non possano essere certo solo delegati ad indagini empiriche o sperimentali2. Per quanto riguarda il contenuto, le testimonianze di insegnante nella scuola superiore di Mastrocola e quelle universitarie di Ricolfi descrivono nella sostanza percorsi in cui penso si possa ritrovare la maggior parte degli insegnanti della mia generazione, quanto meno ci si ritrova il sottoscritto che, con qualche anno in più di Ricolfi, ha partecipato al movimento studentesco del ‘68, ha vissuto l’una e l’altra esperienza, quella dell’insegnamento nella scuola secondaria prima e nella università poi occupandosi di metodologie e tecnologie didattiche, ma ci si possono ritrovare, credo, tutte le persone che abbiano avuto modo di seguire, anche più indirettamente, cosa è successo nella scuola attraverso figli e nipoti, il confronto di libri adottati e quaderni scolastici nei vari decenni; la conclusione sarà sempre la stessa, in linea con la cornice generale dei due autori: gli apprendimenti hanno subito un costante declino in relazione ad un alleggerimento degli impegni scolastici e degli esami e ad una progressiva deresponsabilizzazione degli alunni.

Non interessa qui andare oltre, mi limito a sottolineare l’attenzione di Mastrocola sulle pratiche di lettura e scrittura come attività fondamentali e sulla natura dello studio come collegamento stretto tra entrambe3, e su operazioni cognitivamente rilevanti come la parafrasi e il distanziamento che la comprensione di un testo, in particolare se antico, richiede. Sono riferimenti banali e scontati? Non credo, in una scuola oggi sovraccarica di stimoli dispersivi e che da qualche decennio ha sostituito gran parte di queste attività con esercizi e quesiti a scelta multipla, mentre oggi anche rilevanti apporti dalle neuroscienze ricordano il valore basilare di queste pratiche fondamentali per la costruzione dalla personalità, con implicazioni non solo cognitive, ma anche emozionali, identitarie e interpersonali, distinguendone inoltre il valore rispetto ad analoghe attività condotte in contesti digitali (Wolf, 2012, 2018). Sono aspetti che non possono essere ignorati in una qualunque seria riflessione che voglia ridare un senso profondo alla scuola.

Non è qui il caso, né sarebbe nelle competenze dello scrivente, di entrare invece nel merito della affidabilità della dimostrazione quantitativa di Ricolfi sull’ipotesi specifica del libro, relativa al danno maggiore che ne ricaverebbero le classi povere, e dunque del fatto che, per la classica eterogenesi dei fini, la scuola che voleva essere più democratica è diventata proprio l’opposto4. Devo dire invece che non sono d’accordo con le critiche alle valutazioni standardizzate (Invalsi), su cui tornerò, e che le tesi del libro francamente non mi appaiono molto originali.

Ma a questo punto, prima di procedere, sarebbe utile che i due pungenti recensori mostrassero più esplicitamente le loro carte, facessero conoscere se, con gli strumenti dell’analisi empirica di cui dispongono, possono negare la sussistenza di questo declino, se possono portare eventuali prove sull’esistenza di competenze nuove e positive che la scuola italiana avrebbe consentito di acquisire nel frattempo, al di là della genericità e retorica con cui solitamente sono presentate le “innovazioni”5 e a cosa si riferiscono parlando di un “discorso collettivo” che verrebbe danneggiato6.

Il declino della scuola: altri lavori

Sul declino della scuola, più o meno corredato da veementi grida di indignazione, esiste ormai una letteratura ampia, che riemerge saltuariamente con documenti o manifesti che occupano per qualche giorno lo spazio dei giornali7. Mi soffermo rapidamente su due testi, a mio avviso i più significativi di questa categoria, che condividono nella sostanza l’impianto principale di Mastrocola e Ricolfi: abbassamento progressivo degli apprendimenti, deresponsabilizzazione degli alunni, scuola ridotta ad un servizio per consumatori, smantellamento progressivo ad opera di una sequenza di “picconate” subentrate soprattutto dopo il ’68, con attribuzione delle responsabilità che, come vedremo, toccano in primo piano la pedagogia.

Un lavoro di rilievo in questa letteratura è quello di Galli della Loggia L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la sua scuola, (2019), a cui il tema è caro e sul quale è intervenuto anche in altre occasioni. L’autore riconosce un grande merito alla scuola che nel passato, soprattutto grazie ad un esercito di diligenti maestre, ha consentito all’Italia di diventare una delle principali economie del mondo; dal ‘68 subentra però il declino progressivo della scuola e del Paese con evidenti correlazioni e connessioni causali tra i due aspetti.

Anche in questo caso trovo assai stimolante l’impianto complessivo ed in particolare la ricchezza di rilievi ed osservazioni che in generale muovono da un comune buon senso da cui, nel parlare di scuola, non si dovrebbe mai prescindere, e sul fatto che la scuola si sia troppo occupata a cambiare piuttosto che a conservare ciò che era già buono, oltre al fatto che si sia prodotta una deriva buro- didattica con un insensato crescente carico per gli insegnanti ed un linguaggio incomprensibile quale quello usato nella folta selva delle indicazioni e circolari ministeriali.

L’autore individua le cause principali del tracollo in un blocco costituitosi tra l’ideologismo progressista di sinistra e un pensiero pedagogico diventato “egemonico”. Oltre ad alcune critiche, come quelle segnalate dall’ottima recensione di Russo (2019)8, credo che la rappresentazione del blocco progressista-pedagogico e l’idea della egemonia che avrebbe esercitato la pedagogia, richiedano almeno qualche osservazione in più (vedi in nota e dopo)9.

Tesi molto simili a quelle di Galli della Loggia e di Mastrocola e Ricolfi erano del resto già presenti in Israel Chi sono i nemici della scienza Riflessioni su un disastro educativo e culturale e documenti di malascienza (2008), un lavoro che include anche un’articolata analisi storica dell’educazione scientifica nel nostro Paese10.

Israel attacca in modo più frontale la pedagogia e dà un volto più concreto alle sue responsabilità. La pedagogia è una “scienza del nulla” che ha favorito il disprezzo dei contenuti disciplinari e delle discipline stesse che dovrebbero lasciare il posto ad attività interdisciplinari, rivolte non all’acquisizione di conoscenze, ma di generiche attitudini ad apprendere qualsiasi cosa (l’imparare ad imparare).

Essa porta a snaturare la funzione dell’insegnante abbandonando quelli che sono i compiti di una adeguata istruzione: “Il docente non è più un insegnante e un educatore ma un animatore culturale, una figura del tutto analoga a quegli animatori delle feste di compleanno dei bambini che facilitano la socializzazione e il divertimento proponendo giochi e guidando la festa nel modo più gradevole possibile” (pag. 62).

[…] Devastante è l’idea che lo studente non vada mai corretto; basta guardare a come scrivono i nostri preadolescenti, lasciati allo spontaneo passaggio dallo scarabocchio alla scrittura senza alcun intervento correttivo: la maggior parte dei maestri non circola tra i banchi controllando come scrivono i bambini, correggendoli attivamente, magari guidando loro la mano. Già perché si tratterebbe di un atteggiamento impositivo e repressivo della spontaneità” (pag. 20). La sua ricostruzione storica della disgregazione della scuola differisce solo per qualche tratto da quelle già considerate: “Il tutto è avvenuto all’insegna di una sorta di americanismo pedagogico in cui hanno trovato sede diverse componenti; un ingenuo puerocentrismo, una falsa mitologia dell’autoapprendimento e della libertà dello studente, una visione aziendalistica e quindi opportunistico consumistica del sistema scuola, crediti e debiti inducono pratiche di basso opportunismo; un voto insufficiente in una materia è come una scatola di pomodori avariata; l’utente protesta con il consumatore” (pag. 68)11.

Le responsabilità della pedagogia

Credo a questo punto necessario introdurre due elementi che vogliono rappresentare un invito ad una revisione critica all’interno dei tre lavori citati. Il primo riguarda le responsabilità della pedagogia, bersaglio comune, il secondo le prove standardizzate. Per il primo devo queste considerazioni se non altro al fatto che nella pedagogia sono cresciuto accademicamente e che reputo che riallacciare un rapporto costruttivo con questo mondo sia importante. Cerchiamo di capire cosa si intende per pedagogia. Incomincio con il dire che parlare di una “egemonia” della pedagogia (Galli Della Loggia), anche se in un senso più modesto di quello gramsciano che l’espressione sembra richiamare, se riferita al peso culturale che la categoria accademica riesce ad esercitare, significa francamente sovrastimarla: è facilmente dimostrabile che nelle decisioni degli ultimi anni i pedagogisti accademici hanno messo poco piede, a fronte di un gioco convulso di altri interessi e urgenze da cui le decisioni sono state travolte, e come del resto le posizioni della pedagogia non siano mai state al centro dell’opinione pubblica. Anche esaminando le riforme politiche, diciamo, pedagogicamente orientate, e i loro esiti, quasi sempre in dissonanza con le intenzioni iniziali, in cui hanno avuto un ruolo centrale autorevoli esponenti della sinistra italiana (Berlinguer, De Mauro, Renzi), di pedagogia non se ne trova molta. A questo livello mi sembra abbiano influito soprattutto altre cornici ideologiche, legate alla visione del rapporto tra scuola e società, scuola e mercato del lavoro, ed altre istanze presenti nella cultura liberale occidentale12.

Un secondo aspetto riguarda le dimensioni pedagogiche e culturali più profonde interne alla nostra personalità. Ci riferiamo all’idea internalizzata dell’autorità e del rispetto delle regole che acquisiamo dalla cultura in cui si vive. Il permissivismo maggiore nel rapporto genitori/figli o educatori/alunni di oggi deriva da qui, è un aspetto connesso ai cambiamenti subentrati nelle condizioni familiari, culturali e sociali degli ultimi decenni (una società sempre più “senza padre”). Ogni insegnante della primaria di una certa età potrà testimoniare come la maggior parte degli alunni arrivi a scuola con minore autocontrollo, più distratta e intollerante ai divieti e alle regole, dati che trovano verifiche empiriche nelle ricerche diacroniche sullo span dell’attenzione (Microsoft, 2015).

Cosa ancora diversa è il riferirsi al mondo vasto e insidioso rappresentato da una sottocultura didattica che attraversa da anni la scuola, in cui confluiscono credenze infondate, estremizzazioni e banalizzazioni di concetti, alcuni dei quali possono avere anche una parte di verità, cliché di moda o formule importate dall’estero quasi mai ben comprese, una vera fiumana di sciocchezze riverberate e conservate nel tempo attraverso la grancassa di una divulgazione didattica di bassa lega13. Tutto quanto abbiamo trovato di “pedagogico” in Israel ed anche, pur parzialmente, in alcuni riferimenti di Galli della Loggia, appartiene a questo livello.

La pedagogia ha le sue colpe. La principale è quella di non aver tagliato chiaramente i ponti con questo magma travolgente di formulette e false credenze, di non aver esercitato sufficiente vigilanza critica su di esso, e di non essersi allo stesso tempo sintonizzata sui problemi centrali della scuola organizzando razionalmente le sue risorse e avanzando proposte significative chiaramente formulate, affidabili e sostenibili.

La dimensione quantitativa e comparativa

Se si vogliono trovare punti ragionevoli di condivisione, su cui basare poi interventi di miglioramento incisivi, occorrono altri elementi di riflessione, partendo innanzitutto dalla necessità di una migliore messa a punto conoscitiva sulle criticità della scuola, sulla loro evoluzione, sulle priorità in cui si presentano. Il secondo aspetto sul quale mi sembra importante richiamare l’attenzione degli autori sinora citati riguarda le prove standardizzate ed in particolare le prove Invalsi, verso le quali converge un proluvio di critiche, sulla scia anche dell’insofferenza presente nella scuola che le vive in gran parte come un obbligo arbitrario e estraneo imposto. Qui occorre un ripensamento critico. E’pienamente giustificata l’ostilità verso un uso indiscriminato del testing didattico14 e del tutto condivisibile che i test implicano limitazioni arbitrarie e che non sono mai “oggettivi”, ma bisognerebbe anche riconoscere che, in particolare quelli internazionali, Ocse-Pisa, Timms, Pirls, si rivolgono a valutare processi cognitivi di alto livello (ragionamento, inferenza, deduzione, interpretazione ecc.), la cui rilevanza è difficilmente disconoscibile, qualunque sia il modello di scuola che si assume, e che sono per questo, a livello internazionale, sempre più considerati buoni predittori dello sviluppo potenziale di un Paese.

Anche i test Invalsi permettono una visione imparziale della nostra scuola strappando il velo di autoreferenzialità che ancora continua ad avvolgere la sua immagine. Essi confermano ormai una situazione disastrosa, mostrando come ad un alto tasso di dispersione esterna, si aggiunga una alta dispersione interna, in matematica e lettura15.

A questi dati, che circolano ormai nelle testate nazionali più importanti, mi permetto di aggiungerne un altro. Si osservi il grafico tratto dalle prove PISA (Fonte OECD 2019) che illustra il trend delle prestazioni nelle scienze che, sempre al di sotto della media europea, vede un tracollo radicale tra il 2012 e il 2018.

Sono elementi che lasciano intravedere un ben triste avvenire per la ricerca scientifica italiana, una volta fiore all’occhiello del Paese. Gli umanisti quanto meno insorgono, cercano di farsi sentire, ma delle scienze nessuno sembra più occuparsene. In altri Paesi europei un fatto del genere avrebbe visto ministri dell’istruzione sobbalzare sulla sedia e chiamare gli addetti ai lavori per cercare rimedi. Chi attualmente sta sollevando questo problema e quali concrete azioni per invertire la tendenza sono sul tavolo? E le associazioni scientifico didattiche -in Italia pur ce ne sono diverse- si attivano e riescono a far sentire la loro voce?16.

È dunque in primo luogo importante che si favorisca un clima culturale a favore delle prove standardizzate rimuovendo la percezione negativa diffusa tra gli insegnanti e favorendo una diversa cultura della valutazione17. Allo stesso tempo vanno favorite iniziative che aiutino il sistema nazionale di valutazione a migliorarsi valorizzando l’aspetto formativo, dinamico e sfidante della valutazione stessa e non quello puramente certificativo, in linea anche con una docimologia che in Italia beneficia di una tradizione avveduta (Visalberghi, Vertecchi, Domenici) che trova oggi conferma nei lavoro di Hattie, che vede nella qualità del feed-back il fattore più importante per il miglioramento e secondo modelli che già esistono nel contesto internazionale18.

Analisi quantitative sono utili, ancor più se integrate con altre, come fa Gavosto in La scuola bloccata (2022), dove l’autore mira a comprendere i meccanismi del sistema scuola per rimuovere gli inceppi e rimetterlo in moto con iniziative non velleitarie19.
Interessante per il nostro discorso è la riflessione conclusiva, la necessità di fare dell’attenzione sugli apprendimenti la leva per un nuovo più ampio spazio di consenso: “Quello che è finora mancato nelle riforme italiane è un tessuto connettivo che rendesse coerente agli occhi dell’opinione pubblica l’insieme delle misure adottate: questo tessuto connettivo non può che essere il livello degli apprendimenti (idem, pag. 122).

Qui in effetti si può trovare il tema unificante su cui far convergere sinergie provenienti dai mondi della ricerca e dell’opinione pubblica orientando l’attenzione sul Iivello e sulla qualità degli apprendimenti a cominciare da quelli fondamentali, includendo, anche se non in modo esclusivo e unidimensionale, quelli richiesti dalle prove standardizzate internazionali20. Chi ha idee le esprima ma abbandonando del tutto retorica e astrattezza, spiegando perché e come le ipotesi attuative dovrebbero funzionare e in che modo i possibili auspicati miglioramenti possano essere resi visibili, verificabili e sostenibili: non si sfugge a questa logica.

Gli apporti della ricerca educativa che i decisori dovrebbero conoscere

A questo punto si rende necessario inserire un ulteriore elemento, più di pertinenza del sottoscritto e dell’Associazione che ospita questo contributo.
Riuscire ad avere strumenti qualitativi o quantitativi che consentano di fare il punto della situazione ed intendersi sulla natura e priorità delle sue criticità è importante ma poi bisogna passare alla decisione sugli interventi che è ragionevole pensare essere più efficaci nell’invertire la tendenza negativa. Qui si entra nel punto più delicato, anche perché l’esperienza ha ben mostrato ormai che tante “buone intenzioni” naufragano all’atto della pratica, o perché erano sostanzialmente ingenue o intrinsecamente insostenibili, o perché non erano state adeguatamente valutate le condizioni al contorno e le trasformazioni, a volte anche poco prevedibili, che si mettono in atto nella loro implementazione.

Un contributo significativo, inimmaginabile fino ad una quindicina di anni fa, viene oggi dalla ricerca educativa (istruzione e apprendimento come ambiti congiunti) che ha fatto passi considerevoli assumendo connotati scientifici decisamente più solidi21 sulla efficacia degli interventi didattici, su cosa funziona e non funziona a vari livelli (classe, scuola, contesto nazionale), valutata attraverso comparazioni su larga scala (meta-analisi, Systematic Review, Best Evidence Synthesis). Molte delle questioni dell’istruzioni si possono affrontare spostando così il dibattito da un livello opinion-based ad uno evidence-based (EBE, Evidence-based education22). Sempre più in un crescente numero di Paesi ci si interroga su come queste nuove conoscenze possano aiutare i decisori rendendoli “informati da evidenza”.

Non bisogna certo banalizzare il problema pensando che da questi avanzamenti si possa e debba ricavare una lista di istruzioni pronte all’uso. E’ un dato di fatto tuttavia che su molti problemi, in particolare a livello della didattica in classe e dell’expertise dell’insegnante23, si sono raggiunte conoscenze condivise, altamente affidabili, anche come convergenza tra più settori (Instructional Design, studi empirici sugli insegnanti esperti, scienze cognitive, neuroscienze24); alcuni concetti in particolare portano a rivedere quadri concettuali apparentemente dati per scontati e che vanno invece revisionati o trattati con maggiore consapevolezza25 ed è ragionevolmente possibile individuare i programmi specifici e le tipologie didattiche che li caratterizzano che, applicati nelle diverse discipline nelle varie parti del mondo, sono risultati i migliori.

Trovo qui utile soffermarmi sul fatto che la ricerca educativa evidence-based trova sempre più un punto di accordo nella identificazione dei principi comuni e delle conseguenti raccomandazioni fondamentali per garantire la migliore qualità all’interazione didattica, quale si può riscontrare nel formato della “lezione” che qualunque insegnante deve tenere in una classe in ogni parte del mondo26. Alla base si può individuare una rosa di suggerimenti trasversali alle specifiche didattiche disciplinati e anche alle distinzioni tra didattica generale e didattiche speciali27. In Italia un rilevante lavoro di analisi empirica sulla qualità della lezione in classe è stato compiuto dalla Fondazione Agnelli (Esteban, 2021) che ha messo in risalto evidenti limiti nel modo di condurre questo momento fondamentale della attività didattica in modo adeguatamente strutturato e interattivo da parte di grosse frange di insegnanti28, lavoro a cui dovrebbero seguire ulteriori interventi sperimentali sulla formazione volti a dimostrare come si possa, con modelli e pratica guidata, migliorare la qualità delle lezione, in un’ottica di visibilità e rendicontabilità dei risultati. È stato mostrato come un insegnante possegga una propria rappresentazione interna di lezione in cui possono sussistere misconcezioni, quali l’idea che la cosa più importante sia fornire quante più informazioni possibili, la non comprensione del ruolo del feed-back formativo, la stessa difficoltà a distinguere processi cognitivi di livello diverso o la sottovalutazione di momenti ricapitolativi e metacognitivi (Calvani, Marzano, Morganti, 2022; Miranda, 2022).

Il tragitto che parte da una analisi delle cornici mentali presenti nell’insegnante, alla conoscenza di esempi di didattica esperta e alla pratica guidata, fino al riscontro sugli apprendimenti degli stessi alunni, dovrebbe dunque essere il fulcro centrale su cui far convergere ricerca educativa e formazione.

Mettere al centro dell’attenzione i principi basilari su cui si fonda una didattica efficace, esemplificata nella lezione, sposta gli assetti complessivi della formazione, con una serie di ricadute su diversi piani:

  • rimette la formazione in linea con le necessità primarie concrete dell’insegnante interrompendo una storia che l’ha vista negli anni diventare astratta e dispersiva29;
  • stabilisce un più stretto rapporto teoria-pratica e attribuisce un ruolo dinamico al tirocinio valorizzandone la sua capacità propositiva, in quanto ispirata a modelli di qualità più alta della pratica comune30;
  • fornisce un punto di raccordo per le ataviche controversie tra didattica generale e didattiche disciplinari, che hanno visto anche derive disciplinariste con punte sconcertanti31, tra la stessa didattica generale e la didattica speciale32;
  • offre infine una base importante per una risposta seria e praticabile alla questione degli avanzamenti di carriera oggi tanto discussa e irrisolta33.

Una grande assente: l’inclusione

Un accenno finale ad un’altra grande questione trascurata nel dibattito attuale sulla scuola: l’inclusione.
Ritengo che quando Galli Della Loggia inserisce questa voce nella lista degli orpelli della pedagogia si riferisca alle escrescenze burodidattiche che essa ha generato (Pei, Nuovo Pei) di cui personalmente condivido l’astrattezza, e non alla sostanza in sé del concetto. Purtroppo a distanza di cinquant’anni dalle leggi di chiusura delle scuole speciali, nonostante che sul problema dell’inclusione lavori oggi un considerevole numero di ricercatori e che sul piano della conoscenza delle disabilità specifiche si siano fatti passi avanti considerevoli -si pensi a quanto sappiamo su autismo e dislessia- dobbiamo francamente riconoscere che la scuola inclusiva italiana non si è rivelata capace di fornire evidenze sulla sua efficacia34, nonostante una rappresentazione dominante ovattata e infranta solo da qualche voce autorevole e criticamente avveduta (Cottini, Morganti, 2015; Ianes, Augello, 2019).

Non si registra del resto su questo tema né da parte della stampa, né a livello istituzionale e politico una adeguata attenzione. Sembra che la scuola dovrà continuare ancora per anni a gestire soluzioni che possiamo chiamare “a bassa intensità inclusiva”, con una realtà che vede insegnanti di serie B (“di sostegno”), impegnati a cavarsela con espedienti giornalieri in una sorta di badantato, pur sotto il manto formalmente nobilitante delle indicazioni ministeriali (il PEI).

Il problema dell’inclusione si affronta con una visione più flessibile, unita alla capacità di intervenire su diversi piani, logistico, organizzativo, normativo, formativo, che vanno raccordati.
A livello delle concezioni rimane ancor oggi prevalente un’idea banalizzata di inclusione come semplice coesistenza prossimale di tutti i soggetti nella stessa classe indipendentemente dal fatto che alcuni non abbiano le capacità di partecipare alle attività comuni35. Questa idea, mai esplicitata e discussa criticamente, assunta tacitamente, agisce come fattore frenante e paralizza immediatamente anche ciò che il buon senso e le stesse evidenze mostrano (Neitzel et al., 2021), cioè il fatto che in certe situazioni siano utili gruppi e classi di livello; si pensi ai numerosi minori non italofoni che giungono in Italia senza conoscere una parola di italiano e che vengono immediatamente immessi nelle classi in base all’età.

A livello politico è rimasto irrisolto il problema, pur avanzato da tempo, di equiparare la figura dell’insegnante di sostegno all’insegnante ordinario, con due percorsi formativi in parte distinti, in parte integrati36.
Uno degli impegni importanti del Pnrr sta nella edilizia scolastica. Avere aule e spazi è importante ma dovremmo chiederci: per che cosa? La strada non è quella di utilizzarli per una riduzione del numero degli alunni per classe per contrastare le cosiddette “classi pollaio”, un’altra delle etichette di moda tanto pervasive quanto fuorvianti, pensando che questa operazione condotta con taglio omogeneo possa migliorare i livelli degli apprendimenti ed il benessere delle classi37; si tratta invece, mantenendo costante il principio della massima equi-eterogeneità nella formazione delle classi per evitare il formarsi di situazioni ingestibili, di disporre, oltre alle aule per le attività comuni, nella scuola stessa o in ambiti limitrofi, di altri spazi adeguatamente attrezzati dove possano svolgersi attività periodiche in gruppi più ridotti di alunni eterogenei ma anche omogenei, o in rapporto individuale, valorizzando anche rapporti con agenzie e specialisti esterni e considerando non solo i bisogni dei soggetti con disabilità ma anche quelli dei più dotati.

Conclusione

Il declino progressivo della scuola italiana è ormai un dato difficilmente negabile, documentato, oltre che da resoconti personali, da valutazioni internazionali e nazionali, i cui risultati, assai poco confortanti, tendono tuttavia ancora ad essere disconosciuti, da scarso interesse o da processi di occultamento indotti dal presupposto che quanto è stato fatto negli ultimi decenni, all’insegna dell’innovazione e di tanti buoni propositi, non possa che essere stato migliorativo. Autori come Mastrocola e Ricolfi, ma anche prima di loro Galli Della Loggia e Israel, in linea anche con movimenti di opinione più diffusi, hanno più volte espresso critiche e denunce della scuola attuale sottolineando come questa, dal ’68 in poi, abbia inseguito idee astratte di riforma o di innovazione, anziché cercare di conservare il buono che la scuola già aveva, producendo sovraccarico di iniziative dispersive, abbassamento degli apprendimenti fondamentali, smantellamento degli esami e deresponsabilizzazione degli alunni. La scuola che avrebbe dovuto diventare più democratica portando tutti ad alti livelli di istruzione, porta tutti a livelli molto più bassi senza neanche essere più democratica. Bersagli costanti in questi orientamenti sono la pedagogizzazione della scuola, la burocratizzazione didattica, la subordinazione della scuola al mercato, l’autonomia, il sistema Invalsi, in qualche caso anche l’inclusione.

Queste voci, ricche di testimonianze concrete sugli aspetti positivi disconosciuti che la scuola di una volta possedeva, di forte buon senso, attente ad una visione d’insieme del sistema d’istruzione e seriamente preoccupate sul suo futuro, dovrebbero essere ascoltate, analizzate all’interno anche di una riflessione meno ideologizzata, in cui si dovrebbe anche valutare, almeno su un piano storico e critico, se la scelta dell’autonomia per un Paese come l’Italia sia stata effettivamente una buona scelta, fermo restando che su questo quadro di fondo non è possibile tornare indietro e si tratta semmai di controllarne le possibili distorsioni.

Queste posizioni si infrangono invece dinanzi ad un muro di fuoco fatto di formule retoriche ed epiteti che le tacciano di tradizionalismo, autoritarismo, atteggiamento antidemocratico ed altro, messo in campo dai sostenitori dell’assioma innovazione=miglioramento, i quali tuttavia, pur a fronte di una lista innumerevole di esempi, faticano a produrre le evidenze sui miglioramenti che le azioni innovative avrebbero prodotto, superando la retorica di cui si avvolgono e in cui le carte vengono confuse.

Il dibattito si paralizza così su asserzioni contrapposte, anche perché gli spazi che la stampa dedica alla scuola sono ridotti, limitati a quando questa “fa notizia” e purtroppo, in un contesto di sostanziale indifferenza da parte del livello istituzionale e politico.
Occorre in primo luogo ricomporre un tessuto di base per un dialogo critico e costruttivo, trovare convergenze in primo luogo in quegli ambiti in cui la scuola è oggetto di interesse di studio da parte di ricercatori, di intellettuali e di associazioni informate, al di fuori della ridda convulsa del “ciascuno dica la sua” e delle banali amplificazioni che l’opinionismo riceve nel blogging.

Vanno promosse alcune azioni prioritarie comuni verso l’opinione pubblica, come quelle volte a ricostruire una solidarietà scuola-famiglia, in un contesto nel quale i rapporti tendono troppo spesso ad assumere i tratti di un conflitto sindacale38, quelle che mettono al centro l’urgenza di migliorare i livelli degli apprendimenti, quelle che dovranno sostenere decisioni, sicuramente impopolari, ma che qualche ministro prima o poi dovrà prendere con coraggio per ristabilire prove di uscita (scuola media e diploma di scuola superiore) con richieste di livello più alto e comunque non inferiore a quelle di altri Paesi con cui è lecito l’Italia si confronti.

Gli autori che mettono al centro il richiamo alla scuola di una volta, dal canto loro, dovrebbero rivedere alcuni giudizi troppo sbrigativi sull’autonomia, sulle prove standardizzate e l’Invalsi. Sull’autonomia la scelta di fondo è stata compiuta ed è improponibile rimetterla in discussione; però si può e deve intervenire sui dispositivi che ne possono mitigare gli effetti centrifughi, tra questi sono appunto le prove Invalsi, di cui occorre migliorare il ruolo formativo e le Indicazioni nazionali, decisamente condizionate da un eccessivo metodologismo, da scarsa attenzione e oggi carenti in alcune cognizioni fondamentali che ha ricerca ha acquisito.

In generale, anche tenuto conto delle difficoltà a mettere mano agli aspetti di sistema, conviene spostare l’attenzione dall’“involucro esterno” del sistema (apparato giuridico, normativo, cicli, materie insegnate) alla qualità del contenuto dell’insegnamento disciplinare.

Un punto fondamentale di convergenza tra ricerca e opinione pubblica si può trovare nella qualità degli apprendimenti e nella loro valutazione: cosa fare concretamente per migliorarli. In questo quadro si tratta di ricollocare al centro delle indicazioni operative rivolte agli insegnanti attività fondamentali quali la scrittura, la lettura lo studio e della loro formazione, la lezione in aula, considerata e valorizzata nelle sue dinamiche interne e nella sua migliorabilità.

E’ importante sapere che su questi aspetti la ricerca evidence-based può fornire modelli sperimentati, indicazioni della psicologia cognitiva e delle neuroscienze che si sono rivelati affidabili un po’ dovunque nel mondo, capaci di migliorare gli apprendimenti, non solo intesi nella loro versione banalmente nozionale, ma in senso più ampiamente formativo (alti processi cognitivi con implicazioni emozionali e motivazionali) rendendone visibili i risultati.

Buone basi per convergenze ragionevoli e costruttive dunque esistono ma occorre ampliare i punti di vista personali oltre gli steccati ideologici e di appartenenza (istituzionale, accademica), distaccarsi dai luoghi comuni e da una rappresentazione di cosa sia una buona didattica e un bravo insegnante, vincolata all’essere favorevoli ad “innovare” o ad assecondare l’ultimo slogan didattico che appare sulla scena.

Aggiungiamo in allegato alcuni suggerimenti che dovrebbero contribuire ad orientare verso atteggiamenti e scelte operative scientificamente fondate e ragionevolmente condivisibili.

Elezioni del 25 settembre: LIBERI DI SCEGLIERE

3 Agosto 2022 - di fondazioneHume

PoliticaSpeciale

Elezioni. Manifesto di giuristi e altre personalità della cultura : “Liberi di scegliere. Per una campagna elettorale all’insegna del pluralismo, della pari dignità, della solidarietà politica e della responsabilità”

“Liberi di scegliere”. E’ il titolo del manifesto lanciato da costituzionalisti di diverso orientamento politico per una campagna elettorale all’insegna del pluralismo, della pari dignità, della solidarietà politica e della responsabilità. Un’iniziativa contro la delegittimazione e le campagne denigratorie che purtroppo hanno contraddistinto questa prima fase del confronto elettorale, aperto anche alla adesione di altri accademici e già sottoscritto in poche ore da oltre cento costituzionalisti, giuristi, politologi, sociologi, diplomatici, docenti di diritto e scienza della politica ed altri accademici.

Di seguito il testo dell’appello:

Nei momenti più delicati nella vita di una nazione grava in capo a ciascun componente della comunità il dovere di agire senza mettere in discussione quel minimo comune denominatore, fondato sulla pari dignità sociale dei cittadini, su cui si regge la convivenza politicamente organizzata. La Costituzione italiana evoca questo essenziale principio di condotta già nelle sue prime battute, allorché nell’art. 2 richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, accanto a quelli di solidarietà sociale ed economica. La Carta, inoltre, agli art. 3 e 21, richiama all’osservanza della pari dignità sociale anche nelle manifestazioni del pensiero e delle opinioni e all’art. 49  impone il rispetto del metodo democratico nella competizione tra i partiti.

Tra i fondamenti dell’ordinamento repubblicano vi è certamente il diritto-dovere dei cittadini di scegliere liberamente i propri rappresentanti in Parlamento e il correlato diritto di tutti i partiti politici e dei loro esponenti di competere democraticamente per l’acquisizione del consenso, aspirando al governo del Paese secondo la propria visione dell’interesse generale.

La dialettica democratica, i principi di libertà e rispetto, insieme al richiamato dovere inderogabile di solidarietà politica postulano la reciproca legittimazione dei concorrenti, il ripudio di ogni atteggiamento di contrapposizione radicale, teso a mettere in discussione il diritto di ciascuna forza politica ad aspirare alla guida del Paese con il consenso degli elettori, così come, ancor di più, forme di discriminazione o di screditamento, da qualsiasi parte provengano, fondate sulle caratteristiche fisiche o sulle posture di chi è considerato avversario e, talvolta, addirittura “nemico” politico.

Il dovere di accettare la fisiologia della competizione politica e gli esiti che gli elettori determineranno non grava soltanto sui partiti e sui loro esponenti, ma su tutti i soggetti e le componenti della comunità, che, in ogni democrazia pluralista, contribuiscono ad alimentare il dibattito e ad orientare l’opinione pubblica (stampa, accademia, istituzioni economiche e sociali, etc.)

A maggior ragione nei momenti di grande instabilità economica, sociale e geopolitica come quello che stiamo attraversando – con la necessità di mantenere un saldo impegno corale, insieme agli alleati europei e occidentali, contro gravi minacce da ultimo concretizzatesi con l’aggressione dell’Ucraina da parte della Russia – elementari istanze di responsabilità e di “correttezza costituzionale” impongono il ripudio di ogni atteggiamento discriminatorio o delegittimante, che, prescindendo dalla volontà degli elettori e dal rispetto delle normali dinamiche istituzionali e costituzionali, alimenti contrapposizioni radicali, forme di delegittimazione morale, condizioni di sospetto e inquietudine sociale fondate su congetture, narrazioni prive di riscontri o addirittura vere e proprie “fake news”.

Nell’architettura democratica e pluralista della Carta repubblicana ogni diritto e ogni libertà – compresa la libertà di manifestazione del pensiero e quella di stampa – si declinano in parallelo ai doveri di solidarietà, al principio di responsabilità, di osservanza del metodo democratico e all’esigenza di rispetto della dignità della persona.

Auspichiamo, dunque, che tutti i soggetti convolti nella campagna elettorale appena iniziata, ma anche nel dibattito pubblico a questa connesso, rispettino le istanze del pluralismo e del reciproco rispetto, pur nella legittima e necessaria dialettica tra differenti visioni politiche e culturali, affinché possa svolgersi un confronto chiaro e netto tra idee, programmi, progetti alternativi sui quali gli elettori potranno liberamente esprimersi.

Per sottoscrivere il manifesto: liberidiscegliere2022@gmail.com

La guerra, la pace, i valori. La lezione ignorata di Isaiah Berlin

12 Luglio 2022 - di Dino Cofrancesco

Speciale

I. La guerra in Ucraina non segna soltanto una svolta nei rapporti internazionali tra le potenze che tengono nelle loro mani i destini del mondo ma comporta una profonda rinnovata riflessione sulle grandi questioni che da secoli travagliano l’umanità, soprattutto occidentale. A leggere i giornali e a seguire i talkshow televisivi (che non sempre meritano il disprezzo di cui sono oggetto), si ha l’impressione di un enorme rimescolamento delle carte: amici, conoscenti, colleghi, intellettuali, giornalisti, politici che da tempo immemorabile si riconoscono nei valori della destra o della sinistra si ritrovano dalla stessa parte dei loro antichi avversari. Le appartenenze ideologiche diventano magmatiche e ogni giorno nascono raggruppamenti trasversali inediti. Vecchi atlantisti ritengono che la Casa Bianca e Joe Biden abbiano scatenato una guerra per procura contro la Federazione Russa al fine di ridurla a ‘potenza regionale’ non più in grado di nuocere; mentre un esponente della sinistra più radicale, come Pancho Pardi, sul ‘Manifesto’ dell’8 giugno u.s., critica aspramente Emmanuel Macron (e un po’ anche Enrico Letta), in un articolo che già nel titolo è un atto di accusa, Per non umiliare Putin, si consiglia all’Ucraina la resa. Come scriveva E.M. Cioran nel suo breviario spirituale, L’inconveniente di essere nati (1973), “nei confronti di un qualunque atto della vita, lo spirito fa la parte del guastafeste”. Nel fervore dello scontro tra atlantisti nuovi e stagionati e quanti vengono accusati di comprendere le buone ragioni di Putin, avanzare dubbi e perplessità sulla guerra russo-ucraina diventa un peccato contro lo spirito. Un noto politico democristiano, intervenendo a ‘Stasera Italia’, ha sostenuto che non si può consentire a chi nega la verità di esporre le sue tesi (chiaro riferimento al Prof. Alessandro Orsini). Giustamente Augusto Minzolini sul ‘Giornale’ del 7 giugno u.s. – L’arma del silenzio – ha ribattuto ai censori, paladini del Vero, del Bello e del Buono: “chi è forte dei propri argomenti non dovrebbe temere quelli degli avversari”. Eppure nel mondo capovolto in cui viviamo, sembra che l’arma del ‘silenzio’ cioè il tentativo di stendere una cappa sul dissenso, sia diventata la ’scorciatoia’ preferita pure in Occidente. Si tratta, però di una scorciatoia ‘pericolosa’ perché racchiude in sé un germe autoritario che è incompatibile con ogni democrazia degna di questo nome; ma, nel contempo, seducente perché è molto meno faticosa del confronto. Il sottoscritto, ad esempio ha sempre pensato che si debba stare dalla parte dell’Ucraina, che sia doveroso assicurarle le armi di cui ha bisogno per difendersi, che la precondizione di ogni mediazione debba essere il ‘sì’ di Kiev. Detto questo, la ‘caccia’ ai putiniani e le liste di proscrizione nei confronti di dubbiosi e ‘pseudo pacifisti’ sono atteggiamenti ridicoli, che offrono a Mosca una patina di vittimismo.

Sennonché il problema non è solo quello della tolleranza delle opinioni politiche che non condividiamo ma è, soprattutto, quello della disponibilità ad ammettere che in quelle opinioni potrebbero esserci valori che non sono i nostri ma che, non pertanto, sono meno degni di rispetto e di considerazione. In non pochi interventi di storici e di analisti politici che onorano le patrie lettere è proprio il dubbio scettico – il momento più alto della saggezza dell’Occidente – che è venuto meno. Ben pochi hanno preso sul serio il pluralismo (non taroccato e non retorico) che costituisce la quintessenza del liberalismo di Isaiah Berlin. Rispondendo a Guy Sorman, – v. I veri pensatori del nostro tempo, Ventotto incontri con i protagonisti del pensiero contemporaneo (Ed. Tea, Milano 1989 p. 287) – il filosofo politico oxoniense, andando ben oltre il mero principio del rispetto che si deve agli altri e riprendendo un tema milliano (abbiamo bisogno di chi non la pensa come noi giacché è la dialettica delle opinioni che porta alla verità) rilevava ironicamente che: “essere liberale non significa soltanto accettare le opinioni divergenti, ma ammettere che forse hanno ragione gli avversari”. I nostri liberali italiani, sembra, “non appreser ben quell’arte”: col tempo, senza rendersene conto, dopo aver abbandonato la chiestacomunista, ricadono nei peccati di gioventù – il bisogno di certezze assolute, l’incapacità di mettersi nei panni degli altri, di rimanere fedeli al dovere della professione intellettuale che è quello di trasformare un fatto in un problema. Un maestro del ‘sospetto’ come il ricordato Cioran, diceva che “nei confronti di un qualunque atto della vita, lo spirito fa la parte del guastafeste” e che “penser, c’est saper, se saper” ed è per questo che si preferisce l’azione al pensiero, giacché “agire comporta meno rischi, perché l’azione riempie il divario tra le cose e noi, mentre il pensare lo allarga pericolosamente”.

Confesso di essere sconcertato dalla ‘trahison des clercs’ che constato ogni giorno. Amici e colleghi che considero degni di stima e che, talora, mi hanno dato insegnamenti preziosi di tipo storico e metodologico, intervenendo sul conflitto in Ucraina, non si limitano a esternare, a buon diritto, le loro opinioni su una tragedia epocale ma si rifiutano di prendere in considerazione quanti la pensano diversamente da loro, squalificandoli moralmente e intellettualmente. Ancora una volta, ci troviamo dinanzi al rifiuto di accettare il fatto che “il mondo è pieno di dei” e alla pretesa che solo i nostri sono veri dei mentre gli altri sono demoni.

Uno studioso che stimo molto, Giovanni Belardelli, – uno dei più importanti studiosi di Giuseppe Mazzini e della cultura fascista – anche se non usa il termine, non ha esitato, in sostanza, a riguardare come ‘panciafichisti’ – cioè quanti serbano la pancia per i fichi, ovvero evitano vilmente il pericolo, tenendo alla propria pelle: la parola fu coniata polemicamente nel 1914 per indicare coloro che allo scoppio della prima guerra mondiale erano contrarî all’intervento italiano nel conflitto – i (presunti) putiniani d’Italia. Nell’articolo Gli eroici ucraini hanno reso impossibile la nostra tranquilla vita d’antan. È per questo che, ahinoi, in tanti non li sopportano più (‘Il Foglio’ 21 maggio), ha rilevato: “Ciò che tanti hanno difficoltà ad accettare, fino al punto di prendere le parti del dittatore del Cremlino, è la fine di un’illusione, il dissolversi di una storia che ci raccontavamo da decenni e in cui avevamo finito col credere. L’idea che, nonostante grandi e pic­coli sconvolgimenti mondiali, i cittadini delle democrazie europee avrebbero potuto continuare a vivere per sempre in un continente caratterizzato dalla pace, avrebbero continuato a godersi un benessere pressoché unico – nonostante qualche recente battuta d’arresto – nell’intera storia umana. La resistenza degli ucraini ha insomma distrutto il sogno dì una nuova belle époque che era iniziata nel 1945 ma, a differenza di quella sprofondata a Sarajevo, non avrebbe mai avuto fine. Dietro tanti discorsi sugli aiuti militari e sulle armi difensive o offensive, su Biden e la Nato, sul battaglione Azov e così via, c’è anche (soprattutto?) il fatto che gli ucraini, resistendo hanno reso impossibile la nostra tranquilla vita d’antan. Per questo in molti cominciano a non sopportarli più. Insomma gli ‘eroici ucraini’ hanno fatto irruzione nelle nostre case come elefanti nei negozi di cristallo: stavamo tanto bene sprofondati nelle nostre comode poltrone ed ecco che i guastafeste ci ricordano che le guerre non sono un ricordo del passato ma all’improvviso possono tornare seminando distruzioni e morti come ieri, più di ieri”.

Leggendo le parole di Belardelli si può davvero fare a meno di pensare che i suoi avversari politici non vengano messi “in cattiva luce”, ridotti ad egoisti preoccupati unicamente della loro tranquillità domestica? L’antiamericanismo è una costante della cultura italiana ma l’antiqualunquismo non è da meno, col suo hate speech nei confronti dell’italiano familista amorale, sollecito solo del proprio particulare (l’intramontabile ‘uomo del Guicciardini’ stigmatizzato da Francesco De Sanctis!): come al primo, anche al secondo si nega ogni parentela con i valori e la dimensione etica dell’esistenza. Ma davvero non hanno nulla a che vedere con la morale quanti si preoccupano delle conseguenze economiche e politiche della guerra ucraina? A causa della globalizzazione – che ci ha insegnato a definire sovraniste e autarchiche le preoccupazioni di chi avrebbe voluto che la dipendenza di materie prime cruciali per il nostro apparato produttivo non fosse totale e che pertanto campi di grano, centrali idroelettriche, giacimenti di gas e di petrolio nazionali non cadessero in disuso – l’aggressione criminale di Putin sta mettendo in crisi interi settori economici. Migliaia di imprese, di piccole e medie industrie chiudono i battenti per il rincaro delle bollette energetiche, scene di disperazione di chi non può più ‘andare avanti’ vengono trasmesse tutte le sere dai vari canali televisivi (soprattutto Mediaset) e noi quasi ci dovemmo vergognare se l’uomo della strada si chiede ”ma” è giusto che accada tutto questo solo per non riconoscere alla Federazione russa l’annessione di regioni da sempre contese e in preda alla guerra civile, lacerate come sono dalla difficile convivenza di etnie culturali simili ma sempre più ‘parenti serpenti’?

All’uomo della strada la violazione del diritto internazionale (che oggettivamente è innegabile da parte della prepotente autocrazia russa) è indifferente ma non per questo è condannato al ruolo del vigliacco se non vuol morire per Danzica o per il Donbass.

In fondo, per il qualunquista la patria (quella propria e quella degli altri) non è il valore più alto mentre la guerra è sicuramente il male peggiore che possa abbattersi sugli uomini. Lo testimonia già nel XVI secolo con forti e crudi accenti Angelo Beolco, detto il Ruzante nel Parlamento di Ruzante che torna dalla guerra 1528-9. “Cancaro a i campi, a la guerra e a i soldé, e a i soldé e a la guerra3! A’ sé che te no me ghe archiaperé pì in campo! A’ no sentiré zà pì ste remore de tramburlini, con’ a’ fasea; ni è trombe mo, criar «Arme!» mo… Aretu mo pì paura, mo? che, com a’ sentia criar «Arme!», a’ parea un tordo che aesse abù una sbolzonà. Schiopitti mo, trelarì mo? a’ sé che le no me arvisinerà; sì, le me darà mo, in lo culo! Ferze mo, muzare mo? A’ dromiré pur i mié soni. A’ magneré pur, che me farà pro. Pota, mo squase che qualche bota a’ no avea destro da cagare, che ’l me fesse pro. Oh, Marco, Marco4! A’ son pur chì, a la segura” (“Canchero alla guerra e alla vita militare, e alla guerra e ai soldati, e ai soldati e alla guerra! So che tu non mi ci acchiapperai più a fare il soldato! Non sentirò certo più questi rumori di tamburini, come sentivo; né (vi) sono trombe, ora, a gridare «All’armi!», ora… Avrai tu più paura, ora? che, come sentivo gridare «All’armi!», sembravo un tordo che avesse avuto una frecciata. Schioppi ora, artiglierie ora? so che non mi verranno vicine; sì, mi daranno ora, nel culo! Frecce ora, scappare ora? dormirò infine i miei sonni. Mangerò anche, che mi farà pro. Potta, pure che qualche volta quasi non avevo modo di cacare, che mi facesse pro. Oh, Marco, Marco! Sono infine qui, e al sicuro”).

Ma non è da meno il fondatore dell’Uomo Qualunque, Guglielmo Giannini, che, nella raccolta dei suoi pensieri, La Folla(1945, pp. 106-107) demolisce l’ideale patriottico e le guerre alle quali esso conduce in termini che sarebbe eufemistico definire eversivi. “La sconfitta, realtà per i Capi, che perdono lo stipendio, è soltanto un’opinione per la Folla. Supponiamo che l’Italia dovesse cedere il Veneto alla Iugoslavia, e che la Iugoslavia fosse tanto sciocca da prenderselo. Cosa accadrebbe per la Folla? Niente. L’autore di libri continuerebbe a vendere i suoi libri nel Veneto, dove i libri iugoslavi non potrebbero essere venduti poiché nessuno saprebbe leggerli. Chi commerciava con Treviso, Udine, Padova, continuerebbe a commerciarvi. Su tutto il territorio ceduto si continuerebbe a fare l’amore, nascerebbero’ dei bimbi che imparerebbero a parlare italiano con accento veneto, e andrebbero poi a studiare, nelle scuole italiane, delle sciocchezze poco diverse da quelle che studierebbero se il provveditore agli studi dipendesse da Roma anziché da Belgrado. La fisica, la matematica – le cose veramente serie, insomma – sarebbero le stesse. […] Unico vero cambiamento: il prefetto di Venezia sarebbe iugoslavo anziché napoletano o piemontese. E cos’importa all’uomo della Folla che un prefetto si chiami Milan Nencic anziché Gennaro Coppola o Alberto Rossi? Deve dare la vita dei suoi figli e la sua per così poco?”.

Nei Taccuini di guerra 1943-1945 (Ed. Adelphi) di Benedetto Croce si legge, alla data 26 ottobre 1945: “È venuto a farmi visita […] la sera, dopo pranzo, il Giannini, direttore dell’«Uomo qua-lunque», che mi ha chiesto che il partito liberale accolga in sé le centinaia di migliaia dei suoi lettori e seguaci. Gli ho risposto che questo è impossibile, perché noi siamo un organismo politico, e il suo partito è una folla. È rimasto un po’ deluso, e dalla conversazione con lui (che è napoletano ) mi è apparso un ingenuo e di fondo sentimentale e doloroso, che sta contro gli uomini di politica e di guerra, e tutta la storia del mondo che costoro hanno governata, perché egli ha perduto l’unico suo figlio, che volle andare in guerra e nell’aviazione ed è morto in un incidente aviatorio: donde la campagna che egli ha intrapresa e il libro che ha scritto e che io ho scorso alcune settimane fa a Napoli”. È difficile non avvertire nelle parole del filosofo tutta l’umana comprensione per un padre dolorosamente colpito nei suoi affetti più cari per colpa delle guerre del duce, ma è altrettanto difficile non cogliere nella pagina di Giannini una protesta morale, certo lontana anni luce dal republicanism della cultura azionista e in genere dal giacobinismo ideale, comune a tutto l’arco antifascista ma non meno iscritta nell’umano. Augusto Del Noce ha scritto, in proposito, pagine memorabili che, meditate a fondo, avrebbero potuto guarire il liberalismo italiano dal suo coté moralistico e dogmatico.

Tornando a Giannini (e al suo antenato Ruzante) è azzardato immaginare come si sarebbe schierato nella guerra in corso? E la sua numerosa progenie che, stando ai sondaggi elettorali, è contraria all’invio di armi a Zelensky va considerata come una massa damnationis che, essendo in maggioranza, andrebbe tenuta, quanto più è possibile, lontana dalle urne. In realtà è in questi frangenti che emerge quell’ineliminabile ‘conflitto di valori’ al quale purtroppo è condannato il mal seme d’Adamo. Valori da una parte, valori dall’altra ma proprio per questo il filosofo, nel senso classico del termine, non può scendere in campo, fingendo di essere rimasto sugli spalti. Si prenda la figura del ‘disertore’ che ha ispirato testi teatrali e film. Il bersagliere Alessandro Anderloni (1881) come ha raccontato il regista omonimo nel film Al disertore (1918), mentre infuriava la battaglia sull’Altopiano di Asiago, abbandonò la trincea per raggiungere la moglie, Maria Zumerle, in fin di vita e la figlia Norma. Fermato dai carabinieri venne fucilato il 7 marzo 1917. Portando la vicenda sulle scene teatrali e sul set il regista ha inteso protestare contro la guerra e certo oggi, commossi, comprendiamo bene l’etica del ‘disertore’ (che tra l’altro sarebbe stato considerato tale anche oggi in Ucraina) ma l’agraphos nomos che lo aveva portato a lasciare la prima linea non era in contrasto col dovere di servire la patria anche col sacrificio della vita? Anderloni aveva le sue ‘ragioni’ ma anche l’esercito impegnato nella ‘grande guerra’ ne aveva e se gli Anderloni e i Ruzanti di oggi sono contrari all’invio di armi a Kiev vanno trattati come “sciaurati che mai non fur vivi?”.

Credo che in una società aperta si debba tener conto di tutte le opinioni, anche di quelle contrarie alla ‘difesa della democrazia’ fuori dai confini patri. Che i loro sostenitori siano ‘putiniani’ o ‘facciano il gioco di Putin’ è qualcosa che certo si può sostenere, astenendosi però dal metter in dubbio la buona fede e/o l’intelligenza del prossimo. Anche i comunisti italiani ‘facevano il gioco di Stalin’ ma non era ciò che si proponevano quando si battevano sulle piazze o nelle aule parlamentari per una giustizia sociale che ponesse termine alle diseguaglianze tra classi e tra regioni della penisola. Analogamente non ‘fanno il gioco di Putin’ quanti chiedono la pace e che il governo italiano si assuma le sue responsabilità. Come ho scritto recentemente nella rubrichetta Vistodagenova che tengo sul ‘Giornale del Piemonte e della Liguria’: “ritengo che, ora come ora, aiutare gli Ucraini – anche con le armi – a sedersi al tavolo del negoziato in veste di non perdenti davanti ai russi non vincenti, sia tutto sommato ragionevole”. Ma il problema non è questo, bensì è quello di mantenere lo sguardo lucido, di non ritenersi i vicari di Cristo in Terra (solo il papa lo è per i credenti) e di guardarci bene dall’ergerci a giudici di chi sulla guerra, le sue cause, il modo di por fine alle ostilità ha idee che non collimano con le nostre.

II. Repetita juvant. Non intendo ‘dire la mia’ sulla guerra russo-ucraina anche perché farsene un’idea è particolarmente difficile giacché, per quanto riguarda l’informazione, ci troviamo dinanzi a un fenomeno unico per un paese, come il nostro, che non essendo in guerra, non sarebbe tenuto a fornire ‘narrazioni’ (ma che brutto termine, quando ce ne potremo liberare?) di parte. Mi riferisco al disaccordo non solo sulle interpretazioni, ma sui fatti stessi. Natoatlantisti e (presunti) filoputiani convergono solo nel riconoscere che a febbraio c’è stata un’aggressione russa all’Ucraina e che l’ira funesta di Putin ‘infiniti addusse lutti agli Achei’ – distruzione di vite umane, di edifici civili, di monumenti storici, di scuole, di chiese etc. Per il resto, non si è d’accordo su niente. Nei giornali e nei talk show si confrontano tesi così opposte che sembrano quasi riferite a vicende e a personaggi omonimi ma diversi. Zelensky è un eroe della resistenza ucraina / Zelensky non è diverso da Putin, è un politicante ricco e dalle frequentazioni ambigue. Gli Ucraini, anche i russofoni, sono spiritualmente uniti, difendono la nazione contro ogni tentativo di dividerla; gli Ucraini sono da tempo impegnati in una guerra civile, giacché le etnie culturali minoritarie non si rassegnano al dominio di Kiev. Gli Stati Uniti non hanno alcun interesse a difendere l’Ucraina se non quello di non consentire al despota russo di ricostituire l’impero zarista; gli Stati Uniti hanno armato l’Ucraina, spendendo miliardi di dollari, per ridurre la Federazione Russa a potenza regionale. Le sanzioni contro Mosca hanno dei costi per l’Europa e per la stessa America ma sono rovinose per Putin che prima o poi dovrà fare i conti con un’economia al collasso; le sanzioni contro la Russia sono inefficaci, come tutte le sanzioni storiche che conosciamo, ma determineranno, in Europa, una crisi duratura e un ritorno alle politiche autarchiche. L’Ucraina, modello di stato democratico, ha un governo liberamente eletto dal popolo;l’Ucraina ha un regime non meno autoritario di quello russo e l’attuale dirigenza si è affermata solo grazie a un golpe, sul quale i mass media occidentali hanno steso un velo di silenzio. Per la Russia la conquista dell’Ucraina è un primo passo sulla via del ritorno all’Europa pre-1991; in Ucraina la Russia vuol riprendersi solo i territori russofoni di cui Kiev minaccia di cancellare l’identità culturale. Una Nato – forza militare di difesa e di pace – non costituisce alcuna minaccia per la Federazione russa; la Nato, per adoperare l’immagine di Papa Francesco, è un cane che abbia alle porte di Mosca e non meraviglia, pertanto, che preoccupi il suo progressivo allargamento. L’Ucraina difendendo il proprio diritto alla sopravvivenza, difende tutto l’Occidente, e va considerata quindi un avamposto della democrazia e della libertà; la guerra in corso si spiega con ragioni di strategia geopolitica: ideologie, crociate e missioni sono soltanto orpelli retorici, che mascherano i vecchi conflitti di potenza. Putin ha scatenato una guerra dagli esiti imprevedibili temendo il contagio di una Ucraina libera e democratica sul popolo russo asservito a una dittatura non meno spietata di quella sovietica; Putin non teme alcun contagio e gli bastano le scene dell’assalto a Capitol Hill per togliere ai russi ogni illusione sull’Occidente e sull’America. A chi non ha alcuna esitazione nel dichiarare che è stata la ‘paura della libertà’ (Erich Fromm non poteva mancare!) a scatenare il nuovo zar, fa riscontro chi giustifica l’intervento russo con il dovere di bonificare Kiev dai nazisti. Il battaglione Azov ad alcuni ricorda Leonida e le Termopili, ad altri i proscritti dei Freikorps. Se non ‘i ragazzi venuti dal Brasile’. Ci troviamo alle prese con una miriade di fatti e di congetture che forse solo gli storici del domani potranno districare. Quello che colpisce, in ogni caso, sono le tetragone sicurezze con le quali storici, analisti politici, pubblicisti di prestigio sostengono l’una o l’altra tesi: nessuno sembra sfiorato dal dubbio scettico (e metodologico) che sta alla base della nostra civiltà, a nessuno viene in mente la saggezza piemontese, cara a Norberto Bobbio, esageruma nen.

Certo non mancano neppure da noi analisti liberalconservatori (Sergio Romano) o di sinistra (Lucio Caracciolo) che hanno preso sul serio il ‘lavoro intellettuale come professione” e cercano, pertanto, di mostrare, nella tragedia bellica in corso, le due facce della medaglia ma a differenza dei combattenti dell’una e dell’altra barricata non sembrano avere molto seguito (anche se il numero di ‘Limes’ la Russia cambia l’Europa ha richiesto una ristampa). I telespettatori in genere non amano la complessità e i conduttori televisivi, per vivacizzare il dibattito per lo più preferiscono i portatori di tetragone certezze – tipo Antonio Caprarica o Giorgio Bianchi – ai problematici.

Questo passa il convento e io certo non pretendo giudicare le parti contendenti e assidermi arbitro in mezzo a lor, semmai in nome del vecchio banale adagio in medio stat virtus. Quando si scende in campo, bisogna stare lealmente da una parte o dall’altra: la militanza non deve mai spegnere la luce dell’intelligenza ma seppur si deve dire sempre la verità non si è tenuti a dirla tutta.

Quello che uno studioso coscienzioso può fare, invece, nel difficile periodo che stiamo vivendo, è richiamarsi, come ho scritto sopra, alla grande lezione di Isaiah Berlin, mettendo a fuoco i valori che ispirano anche quanti sono più lontani dal nostro universo etico-politico. Mi riferisco ai ‘deterrenti’(quelli che avrebbero preferito la resa immediata di Kiev ai massacri) ai quali nulla mi lega ma che leggo spesso portati ad esempio di pusillanimità e di rinuncia alla difesa della libertà e della dignità del popolo ucraino. “Ma davvero – è il rimprovero loro mosso – volete che gli Ucraini alzino bandiera bianca e si arrendano alle forze soverchianti del nemico?”

Ha scritto Ernesto Galli della Loggia, in un editoriale memorabile sul coraggio dell’Ucraina (“Corriere della Sera” del 1° marzo 2022): “dietro l’esempio di coraggio che oggi stanno dando l’Ucraina e la sua gente è facile indovinare un senso fortissimo di dignità personale e di appartenenza collettiva, si sente risuonare di un suono chiarissimo l’idea per cui la vita può essere sacrificata nonché la convinzione che non deve essere tollerata la prepotenza di chi vuole imporci la sua volontà. […] Il patriottismo non è l’orgoglio e la ricerca della potenza della propria nazione. È innanzitutto l’amore per il proprio paese, per la sua storia e i suoi costumi, e insieme il desiderio di vivervi da liberi, liberi di deciderne le sorti condividendole con gli altri che parlano la nostra stessa lingua ma con i quali siamo capaci d’intenderci senza bisogno di parole bensì con uno sguardo, con un semplice cenno del capo. È dal patriottismo, da questo alto e pur elementare sentimento del vivere e delle virtù civili, da questo legame che tiene insieme le società umane, che nasce il coraggio odierno degli ucraini”. Parole bellissime – a parte il fatto che anche i russofoni della Crimea e del Donbass potrebbero richiamarsi al diritto di vivere con chi parla la loro stessa lingua e con cui ci si può intendere “senza bisogno di parole bensì con uno sguardo” – ma che pongono un problema grande come una montagna e che così si potrebbe sintetizzare: l’idea della comunità politica si esaurisce nello Stato e nel regime politico che di volta in volta lo definisce oppure è qualcosa, un bene prezioso, un retaggio storico che sta oltre lo Stato, il governo, i parlamenti, i partiti politici che ne sono i custodi? E le stesse vite dei cittadini che abitano la comunità politica in un determinato periodo, sono qualcosa di cui lo Stato può disporre ad libitum e a cui può chiedere ogni sacrificio, – tanto, chi per la patria muor vissuto è assai – o vanno messe a rischio ma solo entro ragionevoli limiti? Se un bandito assalta una banca, ne svuota i forzieri e in cambio del cessate il fuoco da parte delle forze dell’ordine accorse sul luogo chiede di poter uscire con qualche ostaggio e di disporre di un auto veloce a garanzia della fuga, lasceremo distruggere la banca e ammazzare tutti i clienti che vi si trovavano occasionalmente per una questione di principio, pur di “non tollerare la prepotenza di chi vuole imporci la sua volontà”? Si fa presto a dire “propter vitam, vivendi perdere causas”: nel mondo umano è tutto questione di misura, di quantità. Se il numero dei morti ammazzati è spaventosamente alto, se delle città invase non rimangono che cumuli di macerie, è da vigliacchi alzare bandiera bianca e consentire agli invasori di occupare, senza spargimento di sangue, Roma, Parigi, Milano, Bruxelles, Firenze per farvi ritornare la vita e la libertà quando le sorti del conflitto avranno ricacciato i ‘barbari’ oltre le frontiere?

I bombardamenti sulle città italiane iniziarono l’11 giugno 1940, circa 24 ore dopo la dichiarazione di guerra alla Francia e alla Gran Bretagna, mentre le ultime bombe caddero all’inizio di maggio 1945 sulle truppe tedesche in ritirata verso il Brennero. Nei cinque anni che passarono tra queste due date, quasi ogni città italiana fu bombardata. I centri industriali del nord come Genova, Milano e Torino subirono più di 50 attacchi ciascuno; le città portuali del sud, come Messina e Napoli, più di un centinaio. Milano registrò più di 2000 vittime civili; Napoli, nell’anno peggiore, il 1943, perse quasi 6.100 abitanti sotto le bombe. Città più piccole furono pure pesantemente danneggiate: per esempio, a Foggia le bombe distrussero il 75% degli edifici residenziali, mentre altre località come Rimini subirono ripetuti attacchi per periodi prolungati perché si trovarono per mesi sulla linea del fronte. L’Italia centrale non fu attaccata fino alla primavera del 1943 (e per questa ragione ospitò gli sfollati da altre regioni), per diventare la parte più bombardata del paese nei 15 mesi seguenti mentre il fronte, lentamente, si spostava dal sud al nord Italia”. Il 9 luglio 1943, lo sbarco degli americani in Sicilia segnò la fine del fascismo e di Mussolini, anche se si dovettero aspettare ancora due mesi per tirarsi fuori dal conflitto. Ricordiamo tutti il discorso del Maresciallo Pietro Badoglio dell’8 settembre: “Il governo italiano, riconosciuta la impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane”. Per quanto discutibili fossero state prima le strategie del Re e del Maresciallo, cos’altro c’era da fare? Sottoporre l’Italia che non si arrendeva al trattamento inflitto dagli Anglo-americani alla millenaria abbazia di Montecassino (17 gennaio – 18 maggio 1944)?

Dice un vecchio proverbio napoletano: “quanno si’ncudine statte e quanno si martello vatte” (“Quando sei incudine stattifermo, quando sei martello percuoti”). In un raccontino fantapolitico – Se l’Alto Adige fosse come il Donbass pubblicato il 6 giugno u.s. su ‘La Zuppa di Porro’ – mi sono chiesto: qualora le soverchianti forze militari di una ipotetica Federazione austro-tedesca invadesse l’Alto-Adige per ricongiungerlo al Tirolo, lasceremmo distruggere Trento e Rovereto, Verona e Trieste in nome dei sacri confini della patria? E se lo facessimo la cancellazione della storia scolpita nelle pietre di quelle città, l’incendio dei suoi parchi, l’abbattimento dei suoi monumenti, la distruzione di scuole, stadi, teatri, ospedali, non indurrebbe a chiederci con quale diritto disponiamo di un patrimonio ideale e materiale che ci eravamo impegnati a prendere in custodia? Ancora una volta, in politica è questione di quantità: fino a che punto si possono sacrificare uomini e cose in nome della dignità? Galli della Loggia invita a “chiedersi ad esempio se il nostro discorso pubblico – al di là dell’algida e vuota ritualità di ogni cerimonia ufficiale – mostri di apprezzare realmente i valori che si accompagnano al patriottismo, se i protagonisti della nostra vita politica mostrino qualche coerenza personale rispetto a quei valori. Chiedersi, ad esempio, se questi valori medesimi, viceversa, non siano abitualmente circondati, specie nell’ambito intellettuale e dei media, da un’ironica condiscendenza che li dipinge come qualcosa ormai fuori dal tempo”. Non si può dargli torto per quanto riguarda il tramonto dell’idea di nazione nei nostri giovani e nelle nostre scuole ma non potrebbe essere la stessa idea di nazione a sconsigliare una resistenza a oltranza, distruttiva di vite e di beni che nessuna ricostruzione ci restituirà più? La prima guerra mondiale ci costò seicentomila morti: se i morti fossero stati tre milioni non avremmo accusato le classi dirigenti di aver scatenato un’inutile strage? Non le avremmo messe sotto accusa come pure facemmo in qualche modo a quota seicentomila?

Un comandante che lascia distruggere la nave, ammazzare il suo equipaggio, violentare i suoi passeggeri, rubare il suo carico prezioso, pur di non darla vinta ai pirati che se ne sono impadroniti non ha qualche responsabilità dinanzi al tribunale del genere umano? In base all‘etica politica’ squalificata come ‘pacifista’, nessuno Stato, nessun governo ha il diritto di fare terra bruciata e di chiedere ai cittadini di rinunciare a tutto, alla vita, ai beni, alla famiglia per impedire agli abitanti di Bozen e di Bruneck di ritornare nel seno della patria secolare.

Tornando a Badoglio e all’8 settembre, fu il Mussolini di Salò – quello del Tempo del bastone e della carota – a rammaricarsi della mancata resistenza degli Italiani ai nemici angloamericani fin dai tempi di Pantelleria. Fosse dipeso da lui, le macerie del Colosseo, dell’Altare della Patria, del Quirinale – come quelle di Montecassino utilizzate, dopo l’assurdo bombardamento angloamericano, dai tedeschi – avrebbero dovuto trasformarsi in trincee per fermare l’invasore. Arrendendosi agli Alleati, gli Italiani, invece, rinunciarono a far parte del novero delle potenze che decidono i destini del pianeta ma recuperarono il piacere del ‘vivere liberi’. Certo allora ci siamo arresi a chi esportava la democrazia, mentre oggi gli ucraini, è l’obiezione rivolta ai desistenti, dovrebbero arrendersi a chi, dietro i carri armati, porterebbe loro uno stato poliziesco, una dittatura fuori stagione e asservita al Cremlino. E tuttavia Putin non è Hitler e non è Stalin: occupati dall’Armata rossa (si chiama ancora così), ai vinti sarebbero rimaste la resistenza non violenta (nel solco di Gandhi), la non collaborazione coi vincitori, le sfilate di protesta davanti ai quartieri generali dell’occupante, insomma la ‘disobbedienza civile’, difficile da neutralizzare senza un bagno di sangue alla Tienanmen. Forse quelle di quanti si oppongono ad armare Kiev sono congetture non ragionevoli ma qui si sta parlando dei ‘valori’, non del loro riscontro fattuale.

Con queste considerazioni per così dire ‘filosofiche e storiche non sto dando ragione ai desistenti – o agli ucraini, ce ne saranno pure, renitenti alla leva – ma di richiamare l’attenzione su una lezione della celeberrima Politica come professione (1918) di Max Weber che non dovrebbe mai essere dimenticata: “e quanto alla nobiltà dei fini ultimi, anche gli odiati avversari pretendono di averla dal canto loro, e, soggettivamente, in perfetta buona fede”.

Come si legge nei Quattro saggi sulla libertà (1989) di Isaiah Berlin – a mio avviso, il momento più alto del liberalismo novecentesco – : “Il mondo in cui c’imbattiamo nell’esperienza ordinaria ci pone dí fronte a una scelta tra fini ultimi ed esigenze egualmente assolute; la realizzazione di alcuni dei quali implica inevitabilmente il sacrificio di altro. In realtà, è proprio perché si trovano in questa condizione che gli uomini attribuiscono un valore così immenso alla libertà di scelta; perché se avessero la certezza che in qualche stato perfetto, realizzabile in terra dagli uomini, nessuno dei fini che essi perseguono sarà mai in conflitto con altri, scomparirebbero la necessità e il tormento della scelta e con essa l’importanza centrale della libertà di scegliere. Se, come credo, i fini degli uomini sono molteplici e non tutti sono in linea di principio compatibili l’uno con gli altri, allora non si può mai eliminare del tutto la possibilità del conflitto – e della tragedia – dalla vita umana, sia personale sia sociale”.

È questo lo ‘stile di pensiero’ che non vedo nei giornali, nella saggistica politica, nei salotti televisivi, dove intolleranza ed hate speech regnano sovrani e per caratterizzare quanti sono perplessi sull’aiuto militare a Kiev e, pertanto, vengono arruolati, ipso facto, come putiniani si manda in onda un servizio sulla cellula comunista di… Zagarolo e se ne intervistano gli stalinisti incrollabilmente certi che Putin ha invaso l’Ucraina per scacciarne i nazisti e per completare l’opera della seconda guerra mondiale.

Il più grande storico italiano della seconda metà del Novecento, Rosario Romeo, nella voce ‘Nazione’ per l’Enciclopedia del Novecento (1979) scriveva non senza coraggio e spregiudicatezza intellettuale: “sia da parte delle potenze dell’Asse che da parte delle Nazioni Unite, l’intreccio degli egoismi e delle ambizioni nazionali con motivazioni universalistiche che pretendevano a un’assoluta validità etica induceva a configurare gli avversari non già come esponenti di interessi contrapposti e dotati ciascuno di una propria legittimità, ma come fautori di una causa che si collocava al di fuori della comunità civile, e dunque privi dei diritti che la tradizione dell’Europa illuministica e cristiana riconosceva agli avversari in qualche modo legittimati dalla fedeltà al proprio paese o ai propri ideali. La guerra venne dunque ad assumere carattere, come allora si disse (Croce), di guerra civile o di religione, nella quale amici e avversari si cercavano e riconoscevano nell’identità degli ideali al di là delle frontiere nazionali. […] Da ciò, anche, la tendenza al totale annientamento dell’avversario, addirittura relegato dal nazismo in una sfera biologicamente inferiore, e dagli alleati identificato con la causa del Male e dell’Errore. Che erano atteggiamenti scomparsi da secoli nella coscienza dell’Europa civile, anche se in passato se n’erano avute, specie nei paesi anglosassoni, manifestazioni significative, ispirate alla calvinistica tendenza a vedere le lotte dei popoli e degli Stati in termini di lotte fra reprobi ed eletti: come era accaduto al tempo della guerra contro Napoleone o durante la prima guerra mondiale, quando uomini come John Dewey e George Santayana avevano dichiarato responsabile della «perversità della Germania» il soggettivismo e apriorismo della sua tradizione filosofica, mentre a livello popolare era risuonato sempre più spesso lo slogan «hang the Kaiser»”.

Mi chiedo: quell’“intreccio degli egoismi e delle ambizioni nazionali con motivazioni universalistiche” riconosciuto persino nella guerra dell’Asse, oggi è scomparso nel conflitto russo-ucraino dove le figure del Bene e del Male occupano la scena e non consentono al dubbio di salirvi? Si comprende il linguaggio di Zelensky, impegnato in prima linea, in una partita che non vuole pareggiare ma vincere (in nome delle altissime idealità illustrate da Galli della Loggia) ma perché il linguaggio dell’eroico combattente dev’essere anche quello dello spettatore che si pone al servizio della verità? Con gli squilli di tromba si avvicina il giorno della pace? E se si dice che Putin è davvero il nuovo Hitler – e non un brigante da strada che si è impadronito della diligenza e col quale il ricatto delle pistole impone di venire a patti – perché, coerentemente, non si chiede di fermarlo, entrando in guerra con la Federazione russa? Per evitare la terza guerra mondiale e una probabile catastrofe nucleare? Ed è morale lasciar dissanguare l’Ucraina e coventrizzare le sue città, i suoi campi, i suoi apparati industriali per infliggere all’orso russo ferite tali da costringerlo a tornare nella sua tana?

Vittorio Parsi, ordinario di Relazioni internazionali all’Università di Milano – v. ‘Il Dubbio’ del 26 maggio u.s. – ha affermato che “la proposta di Kissinger all’Ucraina || [cedere territori in cambio della pace] || è ‘irricevibile’. […] Come al solito Kissinger dice cose sulla pelle degli altri. Tanto per ricordare di chi stiamo parlando, è quello del golpe contro Allende in Cile nel 1973. Con le parole sull’Ucraina conferma il suo approccio cinico alla politica internazionale”. Evidentemente Parsi ricorda male le vicende cilene (forse anche perché quanto ne hanno scritto autori come Jean-François Revel o Arturo Valenzuela è stato sommerso dalla saggistica retorica antifascista) se crede che un Segretario di Stato Usa abbia potuto liquidare in quattro e quattr’otto un’antica democrazia come quella cilena, caratterizzata dalla tradizionale non ingerenza dei militari negli affari politici.

In un impeccabile articolo pubblicato su ‘La Repubblica’ del 9 giugno u.s., L’ora della Realpolitik, Furio Colombo ha sintetizzato come meglio non si sarebbe potuto l’essenza dell’insegnamento di Kissinger: “lo stato delle cose conta più dei progetti, quelli aggressivi e quelli eroici. Non è una sgridata agli ucraini che resistono e un gesto di tolleranza per i russi che si ostinano. È la stessa posizione che ha indotto la potentissima America a interrompere la guerra in Vietnam. Non importa se una visione politica (russa) sia giusta o distorta, se una resistenza (ucraina) sia eroicamente condotta. L’importante è interrompere, perché i due contendenti sono destinati a restare uno accanto all’altro e in mezzo all’Europa. È la politica della realtà che ha sempre guidato Kissinger. Non si tratta di approvarla, né di pensare che Kissinger sia venuto a benedire una delle parti. Dell’Ucraina lo irrita il sentimento, che non coincide con la strategia. Della Russia non condivide l’incancellabile strappo con l’Europa a cui dovrà tentare in tutti i modi di porre rimedio”.

Questa non è l’Etica tout court: è solo l’‘etica della responsabilità’, scolpita da Weber nel Lavoro intellettuale come professione (1918). Accanto ad essa c’è l’etica della convinzione – mirante non alle conseguenze dell’agire ma alle sue motivazioni ideali – e ce ne sono altre infinite, religiose e laiche, secolari e trascendenti. Tenerne conto non evita certo i flagelli della guerra ma può contribuire a un confronto pacato tra le diverse opinioni e i diversi interessi e valori in campo: un confronto che potrebbe rendere meno difficili gli inevitabili compromessi senza i quali la parola resta solo alle armi.

Dieci buoni motivi per non credere (troppo) ai sondaggi – 6. Errore di copertura e 7. Errore di mancata risposta

11 Luglio 2022 - di Paolo Natale

SocietàSpeciale

I due tipi di distorsione che vedremo ora fanno entrambi parte del cosiddetto errore di rilevazione; al contrario dell’errore di campionamento, sempre presente ma calcolabile, questo tipo di errore potrebbe teoricamente non esserci (peraltro solo in teoria…) ma non è comunque mai calcolabile: non sappiamo dunque di quanto sbagliamo nella generalizzazione delle nostre stime.

L’errore di copertura si verifica in diverse fasi dell’indagine e per diversi motivi. Può essere dovuto alla mancanza di un elenco completo dell’universo dei possibili intervistati, da cui estrarre il campione, alla impossibilità di reperimento di una quota significativa di individui campionati o al loro rifiuto preventivo di rispondere alle domande. Nel primo caso nulla si può fare, mentre negli altri due è possibile ovviare al problema estraendo preventivamente ulteriori campioni, chiamati “di riserva”, che prenderanno il posto dei soggetti irreperibili, sostituendoli quindi con nuovi individui reperibili e/o disponibili a collaborare. Ma è ovvio che così facendo introduciamo una (possibile) fonte di distorsione a volte piuttosto grave: come possiamo sapere se l’individuo sostituito risponderebbe in maniera simile al suo sostituto? Solitamente, quando si pubblicano i risultati di un sondaggio, in caratteri molto piccoli, a volte quasi invisibili, viene inserito anche il dato relativo al numero delle sostituzioni, che molto spesso sono almeno tre-quattro volte più numerose delle interviste effettivamente effettuate, come nel caso (tipico) qui riportato.

Indagine condotta con tecnica mista CATI-CAMI-CAWI su un campione di 1200 soggetti maggiorenni residenti in Italia (4566 non rispondenti) il 7 giugno 2022.

Il che significa molto semplicemente che l’Istituto di ricerca è riuscito a intervistare 1200 soggetti facendo quasi 6000 tentativi! Quei quasi cinquemila individui irreperibili o non disponibili avrebbero dato risposte simili? Può darsi di sì o può darsi di no; non lo sappiamo né potremo mai saperlo.

 

L’errore di mancata risposta si verifica invece quando una parte di coloro che vengono intervistati non vogliono rispondere ad alcune delle domande del questionario, oppure si dichiarano indecisi sulla risposta da fornire oppure ancora non sanno semplicemente cosa rispondere. Prendiamo ad esempio il caso più ricorrente, un sondaggio cioè sulle intenzioni di voto, con una numerosità campionaria di 800 casi: negli ultimi mesi, il numero di intervistati che si dichiara indeciso, che non vuole rispondere o che opta per l’astensione risulta spesso pari se non superiore al 40% del campione. Una parte di loro, diciamo intorno al 25%, non si recherà effettivamente alle urne, ma il restante 15% ci andrà e avrà un certo comportamento di voto, che potrebbe ribaltare completamente i risultati che ci vengono proposti. Come possiamo sapere se chi oggi non indica la propria preferenza elettorale si distribuirà, il giorno delle votazioni, esattamente come chi l’ha invece indicata? Ma non solo. Il problema ulteriore è che le stime che noi leggiamo si riferiscono non più a 800, ma soltanto a 480 individui (con un errore di campionamento – peraltro – molto superiore a quello indicato), che ci dicono siano rappresentativi della popolazione elettorale italiana. Saranno davvero rappresentativi di tutti gli elettori oppure soltanto di quelli più sicuri del proprio voto e/o propensi a dichiararlo?

Paolo Natale

*estratto del volume “Sondaggi”, in uscita nel prossimo autunno presso Laterza

Controlled Mechanical Ventilation (CMV) works

25 Marzo 2022 - di fondazioneHume

Data AnalysisSpeciale

Controlled Mechanical Ventilation (CMV) works

 

  1. Research

The Marche Region financed, in March 2021, a tender for the purchase and installation of Controlled Mechanical Ventilation (CMV) systems in school classrooms. The aim was to ensure face-to-face lessons, as the available scientific evidence indicated that Controlled Mechanical Ventilation (CMV) was an effective tool to counter the spread of Sars-CoV-2, reducing the permanence of pollutants in the air. The applications were  187, for a total of 3,027 classrooms distributed in 323 schools in the Marche region, for a funded amount of 9 million euros. The first schools benefiting from the funding, set up mechanical ventilation systems during the summer period, in order to start school with active and properly functioning equipment. On this basis, with the collaboration of Hume Foundation, in 2021/2022 a study was developed allowing the comparison between two sets of observations:

1) In the first group: classes with the installation of Controlled Mechanical Ventilation (more than 300, 3% of the classes total)

2) In the second set: classes without mechanical ventilation.

This comparison was structured by analyzing the incidence data (the new positive cases) from Sars-CoV-2 in the two sets under observation (classes with CMV vs classes without ventilation) involving all school levels, from kindergarten to upper secondary school.

On this premise, the Hume Foundation asked the Marche Region to analyze the data collected, in order to estimate the effectiveness of CMV in counteracting the infection’s transmission.

For this purpose, a number of mathematical-statistical models have been built, designed to assess the impact of CMV on the transmission risk, net of other effects such as the order of the school and the number of pupils per class.

  1. Methods

To estimate the effectiveness of the CMV, two transmission indicators in particular were used, both based on the cases clusters count (2 or more cases within the same class). The impact of CMV was evaluated both in a rough way, i.e. by comparing the values ​​of the two indicators on homogeneous class groups in terms of air changes per hour, and with regression techniques, keeping under control the number of pupils per class and the type of school.

Among the many estimates of the CMV effectiveness obtained, the most conservative were usually selected.

  1. Main result

The risk of transmission can be estimated by calculating, for each class, the ratio between the number of cases related to infections occurring within the class and the number of exposed, ie pupils per class.

By setting the indicator value for classes without CMV to 100, you can determine the relative risk of infection for classrooms equipped with CMV. This ratio is equal to 37.2%, which means that the presence of CMV reduces the risk of transmission by a factor close to 3 (average indicator).

The maximum capacity of the devices installed varies considerably from school to school, in a range that goes from 100 to 1000 cubic meters-hour. If we distinguish the classes on the capacity of the installed systems, we discover that the relative risk can drop to a value more or less between 5 and 6 if the flow rate exceeds 750 cubic meters per hour, which is equivalent – approximately – to 5 changes per hour. .

All this can be summarized by calculating how the risk reduction factor increases as the quality of CMV increases, measured by the number of air changes.

As indicated in table 1, the transmission indicator varies based on the presence of schools with CMV / without CMV or with a different flow rate of cubic meters / hour. A change in efficacy is observed from: 40% correlated to a turnover / hour of 0.67-3.33, to a 66.8% efficacy correlated with 3.33 – 4.67 replacement / hour at 82.5 % efficacy with 4.67-6.66 replacement / hour.

It’s clear that the CMV, especially if adequately sized (6 or more air changes-hour), has the ability to reduce the Sars-CoV-2 infection risk by over 80%. Using it in schools, we could switch from an incidence rate of 250 per 100,000 (risk threshold identified by the Ministry) to a rate of 50 per 100,000.

Surprisingly, the risk reduction factor (between 5 and 6), inferred from this field research, corresponds perfectly to that obtained from the studies of engineers and air quality experts, based on controlled experiments (see Mikszewski, A., Stabile, L., Buonanno, G., Morawska, L., Increased close proximity airborne transmission of the SARS-CoV-2 Delta variant, “Science of the Total Environment”, 816, 2022).

 

  1. Data information

The final data set is a file with 10465 records (equal to the number of classes), each described by 21 variables (plus the class and school identification fields).

The fundamental variables that describe each class are the following:

– province

– plexus

– school order

– section

– year

– number of pupils in the class

– number of positive students in 12 different periods

– presence / absence of the CMV

– CMV plant brand

– CMV system model

The 12 periods correspond to the weeks, except for the initial one, which runs from 13 September to 10 October, and the final one, which runs from 7 to 31 January.

The classes considered are all those without CMV (10125), plus all those with CMV since 13 September (316 out of 340): in all 10441 classes.

Finally, here is some brief information on the classes considered.

For this first phase of the study, the percentage of classes taken into consideration is equal to 3% of the total.

 

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