Attenti al sondaggio: incapacità o manipolazione?

Ancora una volta, come molto frequentemente mi è capitato nella mia ormai trentennale carriera di analista demoscopico, un sondaggio mal concepito e una altrettanto malandrina comunicazione di stampa fanno impallidire i pochi italiani che ancora ripongono qualche fiducia nel mondo demoscopico. Sia ben chiaro: non si tratta di non credere ai sondaggi, alla loro portata chiarificatrice del pensiero, delle opinioni, perfino degli strafalcioni in cui credono i cittadini interrogati. Questi ci raccontano pedissequamente lo stato dell’opinione pubblica, delle credenze dell’elettorato, le impressioni degli italiani.

Il vero nodo, il vero problema, nasce dal corto-circuito ormai inestricabile tra (molti) istituti di ricerca e (quasi tutte) le testate giornalistiche; un corto-circuito che permette di leggere e di veder commentate notizie che sembrano essere create appositamente per un preciso disegno politico. Scenetta che per certi versi rimangono memorabili.

Riassunto. Stamani, 30 giugno, salgo in auto, accendo la radio e mi capita di sentire la dichiarazione di Adolfo Urso (ministro delle imprese e del made in Italy) che, in pochi secondi, diviene nella mia testa il prototipo, il simbolo di come i comunicatori in generale e i politici in particolare “trattano” la materia demoscopica. Evidentemente in risposta a una domanda posta da Simone Spetia, di Radio24, prima che io accendessi la radio, Urso dichiara che anche gli italiani hanno gli stessi dubbi di Giorgia Meloni sul Mes, come testimoniano i risultati di un sondaggio odierno, il quale sottolinea come il 60% degli elettori si dichiara appunto “contrario” al Mes. Dunque, ribadisce Urso, gli italiani la pensano come il loro presidente. Ottimo!

Spetia interviene, dicendo che anch’egli ha letto un sondaggio pubblicato dalla Stampa sul Mes. Urso ribadisce che proprio a quello faceva riferimento. Allora Spetia gli ricorda che in realtà in quel sondaggio, al di là del titolo davvero improvvido, ai limiti della querela, vedremo tra breve perché, “Contrari al Mes 6 italiani su 10” (suppongo l’unica cosa letta da Urso, come capita ormai quasi sempre), si evince che effettivamente solo il 39% si dichiara favorevole al Mes, ma tra gli altri, il 27% è contrario e il 34% incapace di rispondere. Dunque, conclude Spetia, solo poco più di un quarto non gradisce il Mes, non il 60%.

Che fa Urso a questo punto? La cosa che fanno di norma tutti i politici quando emergono dati che non piacciono. Risponde così: “sì, ma che ci importa di un sondaggio, la politica non si fa con i dati dei sondaggi, ma con proposte serie che vanno anche, nel caso, contro le opinioni della maggioranza! E comunque i sondaggi ci dicono che questo governo piace agli italiani. Noi siamo compatti e coesi per sostenere il nostro paese contro tutti i disfattisti!” Spetia tenta timidamente di intervenire chiedendo infine se ai sondaggi si debba credere o meno, e quando, ma il ministro taglia corto, sottolineando i dati elettorali da un anno a questa parte, tutti favorevoli al centro-destra. Questo è quello che conta. Fine dalla trasmissione.

E questo è dunque il manuale da seguire: citare i sondaggi se sono favorevoli, deriderli se non lo sono, citare dati elettorali quando serve, ignorarli se sfavorevoli. Come è capitato a Fratelli d’Italia. Quando veleggiava tra il 4 e il 5%, lo scopo del partito era la coerenza alle proprie idee, non la ricerca tout court del consenso; quando invece si è vicini al 30%, perché – ci si chiede – viene data visibilità a partiti che non contano quasi nulla? Le logiche si ribaltano a piacimento.

Ma torniamo al sondaggio malandrino. Incuriosito, vado a verificare sul quotidiano torinese. E lì, effettivamente, capisco da cosa sia stato tratto in inganno lo stesso Urso. Campeggia il bel titolo più sopra ricordato. Un ulteriore simbolo di come NON deve essere divulgata un’indagine demoscopica, pieno di inesattezze, di carenza di notizie essenziali, di formulazione delle domande quanto meno discutibili, di commenti un po’ pretestuosi.

Andiamo con ordine. Intanto, il metodo utilizzato. Nelle stringate note, si legge, testualmente (e tralascio per carità il nome dell’Istituto): “Rilevazione scientifica-statistica basata su dichiarazioni anonime” (sic). Niente di più! Quanti casi? Quale metodo di rilevazione? E poi, cosa sarebbe una rilevazione scientifica-statistica? E meno male che viene ribadito come le dichiarazioni siano anonime, ci mancherebbe altro.

Veniamo alla formulazione delle domande. Quella sul Mes, recita così o, almeno, così viene riportata: ”È favorevole o contrario al Meccanismo Europeo di Stabilità (MES)?” Risposte: sì / no / non sa-non risponde. Suppongo una qualche semplificazione grafica, per problemi di spazio. Ma è lo spaccato delle risposte per elettorato che desta i maggiori sospetti del fatto che gli intervistati abbiano capito poco o nulla della domanda o, ancora di più, che non sappiano poi molto del Mes. Infatti, sono gli elettori di Forza Italia, accanto a Calenda e Renzi, quelli più favorevoli (vicino al 70%), mentre sono tiepidi quelli di Bonino e i più sfavorevoli sono quelli del Movimento 5 stelle.

Infine, tra altre perle di cui lascio l’approfondimento a chi vuole divertirsi un po’, riporto il commento dell’articolo ad un dato peraltro nemmeno pubblicato, che recita così: “occorre riconoscere che Giorgia Meloni rimane stabile al di sopra del 40% nel suo indice di fiducia, a conferma della sintonia con una buona parte del Paese”. Ora, da una coalizione che ha ricevuto oltre il 45% dei consensi, mi aspetterei che il suo apprezzamento riesca quanto meno a raggiungere quel traguardo elettorale, se non superarlo in un momento di chiara luna di miele e con una opposizione praticamente inesiste. Ma chi si accontenta gode…




Le differenze di genere: quattro miti da sfatare

Il tema delle differenze di genere è sempre attuale e sempre capace di accendere gli animi, soprattutto quando il discorso si concentra su questioni “calde” come quelle della parità e degli stereotipi. Da parecchi anni faccio ricerca in quest’ambito, a cavallo tra la psicologia e la biologia; capisco bene l’urgenza di queste questioni, oltre che l’importanza di un confronto aperto a tutti i livelli e di un pubblico informato e consapevole. Purtroppo, il dibattito attuale è troppo spesso basato su prese di posizione ideologiche, e rimane ancorato ad assunti e modelli teorici che sono rimasti sostanzialmente fermi agli anni ’70. Anche quando ci si appella a “quello che dice la scienza”, si tratta quasi sempre di informazioni distorte, selettive o poco aggiornate. Soprattutto dal punto di vista biologico (ma anche da quello dell’analisi statistica), la ricerca in questo campo ha fatto passi avanti che in molti casi hanno cambiato nettamente i termini della questione; ma la consapevolezza di questi cambiamenti è ancora poco diffusa, non solo nel grande pubblico ma anche tra intellettuali e scienziati.

In questo articolo vorrei offrire una breve sintesi dello stato della ricerca sulle differenze di genere, che possa servire da introduzione e punto di partenza per ulteriori approfondimenti. Lo faccio in modo dialettico, partendo da quattro grandi “miti” che fanno da sfondo al dibattito ma che raramente vengono messi in discussione. Eccoli:

  1. La psicologia moderna ha dimostrato che maschi e femmine sono estremamente simili quanto a personalità, interessi e abilità cognitive.
  2. Le differenze di genere sono, in massima parte, un prodotto della cultura e della socializzazione.
  3. Non ci sono differenze di genere rilevanti a livello cerebrale; le poche differenze che si trovano sono prodotte dalle diverse esperienze che maschi e femmine fanno nel corso dello sviluppo.
  4. Gli stereotipi di genere sono dannosi, sostanzialmente infondati, ed esagerano quelle che in realtà sono differenze minime o inesistenti.

Per non appesantire la lettura, i riferimenti bibliografici sono tutti alla fine dell’articolo, organizzati per argomento. Alcune sezioni del testo sono adattate da questo articolo. Prima di iniziare, due note terminologiche. La prima è che spesso uso “maschi” e “femmine” in senso generico per non essere costretto a continue specificazioni per età (bambini e bambine, ragazzi e ragazze, uomini e donne…). Mi rendo conto che alcuni trovano questi termini indelicati o perfino offensivi, ma rimango in netto disaccordo: non c’è niente di cui vergognarsi nel riconoscere che siamo creature biologiche, plasmate dall’evoluzione e dalle dinamiche della riproduzione (senza le quali non esisteremmo come esseri umani). Penso anche che distinguere in modo netto tra “sesso” (riferito alla biologia del corpo) e “genere” (riferito al comportamento e culturalmente determinato) non sia molto utile a fare chiarezza; è una distinzione che sembra chiara e intuitiva ma, esaminata da vicino, si rivela fumosa e incoerente (come ho discusso qui). Per questo motivo uso “sesso” e “genere” come sinonimi, in modo flessibile a seconda del contesto.

Mito #1: La psicologia moderna ha dimostrato che maschi e femmine sono estremamente simili quanto a personalità, interessi e abilità cognitive.

Questa idea molto diffusa (e spesso ripetuta, sia negli articoli divulgativi che nei libri di testo) si basa su quella che possiamo definire una “mezza verità” scientifica. Un modo semplice e intuitivo per quantificare la grandezza delle differenze di genere è considerare la sovrapposizione statistica tra le distribuzioni di maschi e femmine. Maggiori sono le differenze, minore è la sovrapposizione; viceversa, differenze piccole si traducono in alte percentuali di sovrapposizione (fino al 100% quando le distribuzioni sono identiche). Nel caso della personalità, se si considerano tratti come estroversione, coscienziosità o impulsività, le differenze di genere in ogni singolo tratto tendono ad essere piuttosto limitate, con sovrapposizioni superiori al 90%. Anche nei tratti che mostrano le differenze più spiccate (come amichevolezza e stabilità emotiva nel modello di personalità dei Big Five) la sovrapposizione rimane intorno all’80-85%. Risultati simili a questo si ritrovano in altri ambiti della psicologia. Da qui l’idea che, contrariamente agli stereotipi, maschi e femmine siano estremamente simili dal punto di vista psicologico. Ma questa generalizzazione diventa inesatta e fuorviante—e quindi un mito da sfatare—perché non tiene conto di quattro fenomeni cruciali.

Per prima cosa, esistono dimensioni psicologiche importanti in cui le differenze di genere sono molto più marcate. Un esempio è la preferenza per professioni e attività orientate alle cose o alle persone (people-things orientation), dove la sovrapposizione tra i sessi è solo del 50-60%. Mentre gli uomini tendono a preferire lavori centrati su oggetti inanimati o concetti astratti, le donne (in media) hanno una preferenza per lavori centrati sulle persone o con una forte componente relazionale. Differenze di dimensioni simili o maggiori emergono anche nell’ambito dell’attrazione (per esempio rispetto all’età ideale del proprio partner) e della sessualità (per esempio rispetto alla frequenza/intensità del desiderio, o nella preferenza per la “varietà” sessuale con diversi partner, al di fuori da un rapporto di coppia stabile). Nel dominio delle abilità cognitive, non ci sono differenze marcate tra la media dei maschi e quella delle femmine nel quoziente intellettivo (QI) o simili indici di intelligenza generale (anche se, come discuto più sotto, ci sono differenze rilevanti nella loro variabilità). Ma quando si vanno a identificare dimensioni cognitive più specifiche, controllando statisticamente per l’intelligenza generale, le differenze emergono chiaramente e la sovrapposizione tra i sessi si riduce al 60-80%. Soprattutto a partire dall’adolescenza, le femmine sono relativamente più brave nei compiti basati sul ragionamento verbale e in quelli che richiedono di dividere l’attenzione tra molti elementi diversi. I maschi invece hanno prestazioni più alte nei compiti che richiedono abilità visivo-spaziali, e sono avvantaggiati quando si tratta di prestare attenzione in modo focalizzato; la divergenza maggiore si trova nei compiti che richiedono di ragionare su meccanismi e sistemi fisici. Queste differenze di abilità si combinano con quelle nelle preferenze e influenzano in modo sostanziale le scelte accademiche e professionali. Ad esempio, gli studenti che possiedono abilità visivo-spaziali e quantitative relativamente più sviluppate di quelle verbali e sono più interessati alle cose rispetto alle persone scelgono più spesso di iscriversi a facoltà scientifico-matematiche (le cosiddette STEM). A causa della diversa distribuzione di questi tratti nei due sessi, tra gli studenti con questo tipo di profilo ci sono molti più ragazzi che ragazze.

Il secondo punto critico è che piccole differenze in diversi tratti presi singolarmente possono sommarsi, e diventare grandi quando gli stessi tratti vengono considerati nel loro insieme. Nel caso della personalità, la sovrapposizione tra maschi e femmine nei singoli tratti è in genere piuttosto alta; ma quando si consideranoprofili di personalità che mettono insieme i vari tratti (tenendo in considerazione le loro correlazioni reciproche), la sovrapposizione si riduce a meno del 50%. Applicando procedure statistiche per correggere l’errore di misura (che nei test psicologici è tutt’altro che trascurabile), si arriva a una sovrapposizione del 20-30%. Considerazioni analoghe si possono fare per le abilità cognitive, le preferenze per il partner, e le preferenze lavorative (nel caso di queste ultime, la sovrapposizione tra i sessi arriva intorno al 40% quando si considerano più variabili contemporaneamente).

Ma anche quando le differenze sono relativamente modeste, bisogna tenere conto che piccole differenze “medie” in un certo tratto possono trasformarsi in differenze notevoli agli estremi di quel tratto. Questo succede perché le differenze tendono ad amplificarsi via via che ci si muove verso gli estremi della distribuzione. Per esempio, il tratto dell’amichevolezza nei Big Five identifica persone che tendono ad essere cooperative, generose, empatiche, gentili, fiduciose e poco aggressive; al contrario, le persone con bassi livelli di questo tratto tendono ad essere ostili, aggressive, egoiste, abrasive, sospettose e poco empatiche. La sovrapposizione tra i sessi in questo tratto è intorno all’80%; la “donna media” è più amichevole dell’”uomo medio”, ma non di molto. Però, se andiamo a vedere chi sono le persone che si collocano a livelli estremamente alti di questo tratto (cioè all’estremo superiore della distribuzione), troviamo circa due-tre donne per ogni uomo; e se consideriamo i livelli estremamente bassi, troviamo circa quattro uomini per ogni donna. In altre parole, ci possono essere divergenze notevoli agli estremi della distribuzione anche se le medie dei due sessi non sono così diverse tra loro. Questo fenomeno si ritrova in moltissimi altri tratti. La differenza tra maschi e femmine nell’aggressività fisica è simile a quella nell’amichevolezza (sovrapposizione intorno al 75%); ma più del 90% degli omicidi (la forma più estrema di aggressività) vengono commessi da uomini. Sulla stessa falsariga, le differenze nel tratto della stabilità emotiva (che misura la tendenza a provare emozioni negative come paura, ansia e tristezza, e mostra una sovrapposizione intorno all’80%) si traducono in un rischio di sviluppare disturbi depressivi, d’ansia e da stress che è all’incirca doppio nelle donne rispetto agli uomini. Considerazioni analoghe valgono per le abilità cognitive, dove gli estremi (ad es., le persone con livelli eccezionali di abilità visivo-spaziali o matematiche) tendono a mostrare differenze di genere più marcate rispetto a quelle che si osservano nei dintorni della media. E se le differenze medie sono già sostanziali (come nel caso delle preferenze cose-persone), possono diventare davvero notevoli quando ci si muove verso gli estremi della distribuzione.

Per finire, in molti tratti psicologici (ma anche fisici, come ad esempio l’altezza o il volume del cervello) le differenze non riguardano solo la media ma anche il grado di variabilità all’interno dei due sessi. In generale, i maschi tendono ad essere più variabili tra loro delle femmine; questa differenza si manifesta soprattutto agli estremi della distribuzione dei tratti. Sottolineo subito che ci sono diverse eccezioni a questa “regola”; per citare due esempi già nominati sopra, le femmine (considerate a livello di gruppo) risultano più variabili dei maschi sia nel tratto della stabilità emotiva che nel desiderio sessuale. Nel dominio delle abilità cognitive, invece, la variabilità è sistematicamente più alta nei maschi. Questo fenomeno è molto importante da comprendere, perché può creare differenze agli estremi anche in assenza di differenze medie. Nel caso paradigmatico del QI, le differenze medie tra i sessi sono spesso considerate trascurabili (anche se alcuni studi recenti trovano una lieve differenza a favore dei maschi nell’intelligenza generale, a partire dall’adolescenza). Ma a causa della maggiore variabilità maschile, si trova una preponderanza di uomini sia ai livelli più alti che a quelli più bassi della distribuzione del QI (compreso il ritardo mentale). Questa osservazione ha suscitato controversie scientifiche per centocinquant’anni (fin da quando è stata descritta da Darwin in The Descent of Man), ma è stata confermata dagli studi più grandi e rappresentativi che abbiamo a disposizione.

Riconoscere che le differenze psicologiche tra i due sessi sono reali, tangibili, e a volte di notevole entità non vuol dire negare la variabilità individuale o voler schiacciare maschi e femmine su rappresentazioni e ruoli rigidamente “binari”. Anche nei tratti più fortemente differenziati esiste un certo grado di sovrapposizione; in ogni ambito psicologico (dalla personalità alla cognizione) ci sono uomini con profili tipicamente femminili e donne con profili tipicamente maschili, oltre che molte persone con profili “misti” che combinano aspetti caratteristici dei due sessi. Sullo sfondo delle differenze di genere c’è ampio spazio per eccezioni, gradazioni, e tutte le variazioni sul tema che ci rendono non solo maschi o femmine ma persone uniche quali siamo. Possiamo dare il giusto risalto alla variabilità individuale e all’unicità delle persone senza dover fingere che maschi e femmine siano completamente sovrapponibili e omologati dal punto di vista psicologico, o che le differenze di genere siano così trascurabili da non avere ricadute importanti a livello personale, sociale e lavorativo.

 

Mito #2: Le differenze di genere sono, in massima parte, un prodotto della cultura e della socializzazione.

Il modello a “tabula rasa” secondo cui le differenze di genere sono fondamentalmente arbitrarie e costruite dalla socializzazione ha iniziato a prendere piede in psicologia più di cent’anni fa; ha preso forza con il comportamentismo e si è cristallizzato negli anni ’70, all’apice dell’influenza delle teorie dell’apprendimento sociale. Nel tempo, quello che sembrava un approccio moderno e sofisticato si è trasformato in un dogma, sempre più impermeabile alle disconferme empiriche. Per dirlo in modo diretto: allo stato attuale delle nostre conoscenze non c’è alcun motivo solido per ritenere che le differenze di genere siano prodotte esclusivamente (o quasi) dall’apprendimento sociale. Al contrario, ci sono diversi motivi importanti per ritenere che i fattori biologici contribuiscano in modo sostanziale allo sviluppo psicologico di maschi e femmine. In un articolo così breve è impossibile rendere giustizia a un dibattito così complesso; dando per scontato che nelle società umane “natura” e “cultura” si intrecciano sempre in modo complesso e creativo, mi limito a descrivere le principali fonti di informazione che evidenziano i limiti della “tabula rasa” e indicano un ruolo importante per la nostra biologia.

Innanzitutto ci sono i modelli della biologia evoluzionistica, in particolare quelli che riguardano la selezione sessuale (cioè la selezione naturale che avviene attraverso la scelta del partner e l’accoppiamento). I modelli teorici, che in quest’ambito sono di solito espressi in forma matematica, permettono di spiegare le ragioni profonde di alcuni motivi ricorrenti: ad esempio il fatto che, nella maggior parte delle specie animali, i maschi tendono ad essere più aggressivi, competitivi e indiscriminati nella scelta del partner, mentre le femmine tendono ad avere criteri di scelta più stringenti e ad occuparsi di più (quando non in modo esclusivo) della cura dei piccoli. Gli stessi modelli permettono di capire quando e perché queste asimmetrie comportamentali possono attenuarsi—come accade spesso nelle specie in cui entrambi i genitori provvedono alla cura dei piccoli—ma anche di spiegare le eccezioni alla norma (come nei cavallucci marini, dove la gestazione delle uova è portata a termine dai maschi). Oltre alla teoria, in biologia si ricorre spesso al confronto tra specie diverse, più o meno strettamente imparentate e più o meno simili nelle loro caratteristiche ecologiche. Per esempio le differenze di genere negli esseri umani possono essere illuminate grazie al confronto con altri primati, ma anche con alcune specie di uccelli, che hanno sistemi di accoppiamento e riproduzione per molti versi più vicini a quelli della nostra specie. È importante sottolineare che gli studi comparativi possono dare informazioni preziose anche quando evidenziano differenze e unicità; lo scopo è descrivere i fattori che spiegano la variazione e le somiglianze tra specie diverse, non dimostrare che gli esseri umani “sono proprio come” gli scimpanzé, i bonobo o qualche altro animale.

Un altro strumento chiave per separare parzialmente “natura” e “cultura” è la comparazione cross-culturale, sia nello spazio (tra diverse società nello stesso momento storico) che nel tempo (la stessa società in tempi ed epoche diverse). Un ruolo particolare è ricoperto dallo studio dei cacciatori-raccoglitori, che sono in larga parte isolati dall’influenza dei mass media e dei modelli culturali occidentali, oltre a vivere in condizioni molto più simili a quelle in cui la nostra specie si è evoluta per centinaia di migliaia di anni. Le notevoli differenze economiche, sociali e di stile di vita che esistono tra diversi Paesi e regioni del mondo possono essere usate in modo efficace per mettere alla prova ipotesi alternative sulle cause delle differenze di genere. Contrariamente a quello che ci si aspetterebbe sulla base dei modelli di socializzazione, le differenze nei tratti di personalità, nelle preferenze, nei valori, nelle abilità cognitive, e perfino in certi disturbi mentali (come la depressione) non diminuiscono nei Paesi con livelli più alti di parità di genere (che tendono anche ad essere più ricchi ed economicamente avanzati). Anzi, nella maggior parte dei casi i dati mostrano l’effetto opposto: al diminuire delle disparità di genere a livello socio-culturale, le differenze di personalità diventano più marcate, come se in presenza di una società più aperta e individualista (e probabilmente una maggiore libertà data al benessere economico) le persone tendessero a esprimere in modo più netto le loro predisposizioni biologiche. Questo è un dato estremamente robusto che mette in crisi il modello “puro” della socializzazione.

Cambiando livello di analisi, è importante considerare gli studi in cui i tratti psicologici vengono correlati a variazioni negli ormoni sessuali, soprattutto estrogeni e androgeni. Naturalmente le correlazioni, prese da sole, non permettono di fare affermazioni certe rispetto alle cause del comportamento. Però i dati correlazionali diventano molto più forti quando l’esposizione agli ormoni avviene all’inizio dello sviluppo, o addirittura prima della nascita durante la gestazione. Con le dovute cautele, i dati raccolti negli esseri umani possono essere confrontati e integrati con quelli degli studi animali, dove invece è possibile applicare controlli sperimentali e manipolare direttamente i meccanismi ormonali. I ricercatori sfruttano anche quelli che possono essere considerati “esperimenti naturali”: patologie o condizioni di sviluppo atipiche in cui vengono modificati i normali processi di differenziazione sessuale, come nel caso dell’iperplasia surrenale congenita (congenital adrenal hyperplasia o CAH). L’iperplasia surrenale causa un’iper-produzione di androgeni nelle femmine, ed è particolarmente importante perché le pazienti che ne sono affette vengono esposte ad un profilo ormonale “mascolinizzato” prima della nascita, ma una volta nate (e sottoposte a trattamenti per ridurre i livelli di androgeni) vengono socializzate come le altre bambine. Si tratta di una patologia piuttosto rara, ma i dati che fornisce sono estremamente preziosi per isolare in modo preciso gli effetti degli ormoni sessuali nello sviluppo. Gli studi che hanno seguito nel corso degli anni dei campioni con questa patologia hanno rivelato effetti significativi degli androgeni prenatali su una gamma notevole di tratti psicologici. Rispetto alla media, le bambine affette da CAH tendono ad essere fisicamente un po’ più aggressive, meno interessate ai neonati, e a preferire compagni di gioco maschi. Più tardi sviluppano abilità visivo-spaziali più spiccate, tendono ad essere fortemente interessate ad attività e professioni orientate alle cose, e hanno una maggiore probabilità di essere sessualmente attratte da altre ragazze.

Altre fonti di evidenza sono più indirette, ma sempre utili per circoscrivere il ruolo dell’apprendimento ed evitare di attribuire automaticamente certe osservazioni all’influenza dell’ambiente. Per esempio, le correlazioni tra genitori e figli nell’aderenza a comportamenti e stereotipi di genere sono piuttosto modeste; e almeno nei Paesi occidentali, gli studi che hanno indagato le differenze nel modo in cui i genitori trattano bambini e bambine hanno rilevato pochissime differenze significative. Il ruolo dei genitori è stato ridimensionato anche dalla genetica del comportamento, che ha mostrato chiaramente come il comportamento genitoriale sia fortemente influenzato dalla personalità e dalle caratteristiche individuali dei figli, che a loro volta sono parzialmente determinate a livello genetico.

Per tornare all’esempio delle preferenze cose-persone, questi interessi emergono molto presto nello sviluppo (secondo alcuni dati, forse addirittura alla nascita), e sono influenzati sia da fattori genetici che dall’esposizione agli androgeni durante le prime fasi della vita. La socializzazione di genere sembra avere un ruolo limitato: come in molti altri casi, lo scarto tra maschi e femmine sulla dimensione cose-persone è più forte nei Paesi con maggiore parità di genere; inoltre, l’andamento generale delle differenze è rimasto praticamente invariato per più di cinquant’anni, nonostante i cambiamenti massicci che sono avvenuti nel mondo del lavoro e dell’educazione. L’origine evoluzionistica di queste predisposizioni si trova, molto probabilmente, nella divisione del lavoro in base al sesso che ha caratterizzato la nostra storia per centinaia di migliaia (se non milioni) di anni. Nessuno dubita che, nel passato degli esseri umani, alcuni compiti (come la caccia e la produzione di utensili) siano stati appannaggio maschile, mentre altri (come la cura dei piccoli) siano stati delle occupazioni prevalentemente femminili. Dal punto di vista evoluzionistico, è molto difficile pensare che aver ricoperto ruoli specializzati per decine o centinaia di migliaia di generazioni non abbia plasmato in qualche misura anche i nostri interessi e i nostri profili cognitivi.

Leggendo quello che ho scritto finora, a qualcuno potrebbe sembrare che io voglia sostenere il primato assoluto della biologia e l’irrilevanza dell’apprendimento. Niente di più sbagliato: una volta assodato che i fattori biologici sono importanti, inizia la parte più affascinante del lavoro, cioè capire esattamente come questi fattori si esprimono e interagiscono con le caratteristiche dell’ambiente. I dati che ho riassunto fin qui non dipingono un quadro in bianco e nero, ma un mondo ricco di sfumature e potenzialità. Un esempio istruttivo viene dal dibattito sulle abilità visivo-spaziali, vista la loro rilevanza per le carriere nell’ambito delle discipline STEM. I dati raccolti su bambini e adulti indicano chiaramente che queste abilità mostrano un certo livello di plasticità e possono essere migliorate con l’esercizio, almeno nel breve periodo. Inoltre, lo scarto tra maschi e femmine non è costante ma aumenta progressivamente durante lo sviluppo. Questi risultati sono compatibili con il dispiegarsi di effetti genetici e ormonali attraverso le varie tappe di sviluppo, ma anche con l’instaurarsi di cicli di feedback positivo che amplificano e consolidano le differenze iniziali. Alcuni ricercatori li hanno usati per sostenere che le differenze di genere nelle abilità visivo-spaziali sono prodotte interamente dalla socializzazione; si tratta di un’argomentazione debolissima, perché la plasticità delle abilità cognitive non contraddice le spiegazioni evoluzionistiche. Per analogia, anche i muscoli sono plastici, e la massa muscolare si può aumentare con l’esercizio; questo non toglie che le differenze nella costituzione corporea (e quindi nella forza fisica) di uomini e donne abbiano una chiara base biologica.

 

Mito #3: Non ci sono differenze di genere rilevanti a livello cerebrale; le poche differenze che si trovano sono prodotte dalle diverse esperienze che maschi e femmine fanno nel corso dello sviluppo.

Il terzo mito che passo in rassegna riprende gli elementi dei primi due, ma li declina nell’ambito delle neuroscienze. Fino ad ora, il dibattito si è concentrato soprattutto sugli aspetti anatomici del cervello in relazione al genere. Da questo punto di vista, la principale differenza sta nel volume cerebrale, che è maggiore del 10-15% negli uomini rispetto alle donne (uno scarto piuttosto ampio dal punto di vista statistico, che corrisponde a una sovrapposizione del 30-50%). Questa differenza è spiegata solo in parte dal fatto che gli uomini in media hanno un corpo più grande, e al momento non è chiaro cosa possa significare dal punto di vista funzionale. Per esempio, a livello individuale il volume del cervello è correlato positivamente al QI; ma le differenze medie nell’intelligenza di maschi e femmine sembrano troppo piccole per giustificare uno scarto così ampio (anche se il dibattito a riguardo rimane ancora aperto). Poi ci sono molte altre differenze, sia nelle dimensioni delle varie regioni cerebrali che nelle connessioni tra diverse regioni. Grazie a queste differenze, è possibile sviluppare algoritmi che, partire dall’anatomia di un cervello, riescono a “indovinare” correttamente il sesso della persona in più del 90% dei casi. Ma una porzione importante di queste differenze è una conseguenza (diretta o indiretta) del maggior volume del cervello dei maschi; quando lo scarto nel volume totale viene corretta con metodi statistici, le differenze diventano nettamente più piccole e l’accuratezza nella classificazione scende al 60-70%.

Che conclusioni si possono trarre da questi dati? Non molte, per la verità. Alcuni ricercatori hanno messo in evidenza le piccole dimensioni delle differenze (una volta corrette per il volume totale) e i risultati contrastanti degli studi in questo campo; su questa base hanno sostenuto che le differenze di genere nella struttura e funzione cerebrale sono sostanzialmente trascurabili. Ma proprio perché le differenze sono statisticamente deboli mentre le misurazioni sono imprecise e piene di difficoltà tecniche, è probabile che anche gli studi più grandi eseguiti finora siano in realtà troppo piccoli per dare risultati affidabili. Proprio adesso stanno iniziando a uscire i primi studi con decine di migliaia di soggetti, e i risultati sono molto più precisi e robusti di quanto si sia visto finora. Il problema più profondo è che, visto che sappiamo molto poco di come la struttura fisica del cervello influisca sul funzionamento cognitivo, risulta molto difficile decidere se differenze che ci sembrano “piccole” possano invece avere effetti rilevanti sul comportamento. Gli studi che hanno provato a correlare configurazioni cerebrali più “mascoline” o “femminili” con aspetti mascolini-femminili della personalità e del comportamento hanno trovato effetti a volte significativi, ma sempre piuttosto deboli. (Anche in questo caso, si tratta di studi condotti su campioni relativamente piccoli, e i risultati devono essere considerati provvisori).

Ancora più importante è il fatto che, se non si correggono statisticamente le misure per eliminare le differenze di genere nel volume cerebrale totale, i cervelli di uomini e donne risultano piuttosto diversi in tutta una serie di caratteristiche anatomiche. Rimuovere queste differenze equivale ad assumere che non abbiano nessuna importanza dal punto di vista funzionale, ma non abbiamo idea se sia davvero così. Le poche indicazioni di cui disponiamo sembrano puntare nella direzione opposta: gli studi sulle associazioni fra tratti di personalità, comportamenti e anatomia cerebrale hanno trovato le correlazioni più forti proprio con il volume totale del cervello e altre misure globali. Anche queste associazioni però tendono ad essere piuttosto piccole in senso assoluto, in linea con l’idea che la personalità sia determinata soprattutto da meccanismi neurochimici (neurotrasmettitori, ormoni, ecc.) piuttosto che da differenze anatomiche. È molto probabile che il funzionamento cerebrale sia più differenziato dal punto di vista neurochimico di quanto non lo sia dal punto di vista puramente anatomico. La ricerca sull’espressione genetica ha individuato migliaia di geni che si esprimono in modo differenziato nel cervello di maschi e femmine, raggiungendo il massimo della divergenza durante la pubertà. In breve, le nostre conoscenze sulle differenze di genere nella struttura e nel funzionamento del cervello hanno appena iniziato a scalfire la superficie del problema.

Quando le differenze di genere a livello cerebrale non vengono minimizzate, si tende a spiegarle (spesso in modo sbrigativo) facendo riferimento al concetto di plasticità cerebrale: se il cervello è malleabile e si modifica in risposta all’ambiente, le differenze tra maschi e femmine non fanno che riflettere le loro diverse esperienze nel corso dello sviluppo. Sicuramente la plasticità è una caratteristica basilare del cervello, dal momento che rende possibili l’apprendimento e la memoria. Però è anche importante non interpretare questo concetto in modo troppo “libero”, soprattutto dal momento che la nostra comprensione dei processi di plasticità è ancora più frammentaria e incompleta di quella sulla neurochimica o sulle differenze anatomiche. Per il momento, la ricerca genetica ha mostrato chiaramente che le caratteristiche anatomiche e funzionali del cervello a livello macroscopico—come il volume, lo spessore e le connessioni tra diverse aree, ma anche i profili di attività a riposo o durante compiti cognitivi—sono influenzate in modo sostanziale dalle differenze genetiche tra le persone. Non solo: gli effetti genetici sono spesso più forti di quelli ambientali, ed è possibile predire somiglianze e differenze nelle caratteristiche cerebrali a partire da somiglianze e differenze nel corredo genetico delle persone. In assenza di prove schiaccianti, questi dati dovrebbero suggerire un certo scetticismo rispetto all’idea che le differenze cerebrali tra maschi e femmine possano essere spiegate facilmente (e interamente) come prodotti dell’esperienza e dell’apprendimento.

Mito #4: Gli stereotipi di genere sono dannosi, sostanzialmente infondati, ed esagerano quelle che in realtà sono differenze minime o inesistenti.

Come ho cercato di mettere in risalto fin qui, le differenze psicologiche tra maschi e femmine sono tutt’altro che minime, e sono profondamente radicate nella nostra biologia piuttosto che un prodotto esclusivo dell’apprendimento e dei condizionamenti sociali. Oltre a dare per scontata l’idea (non più sostenibile) che le “vere” differenze di genere siano trascurabili, il discorso mainstream sugli stereotipi di genere confonde tra loro tre questioni distinte che dovrebbero essere affrontate separatamente: quella della rigidità delle aspettative e opinioni comuni, quella della loro accuratezza, e quella dei loro effetti.

Non c’è alcun dubbio che le persone (così come le società) possano formarsi idee troppo rigide e schematiche sulle differenze tra maschi e femmine, senza tenere in dovuta considerazione la variabilità individuale e la flessibilità del comportamento umano. Ma anche nei casi in cui gli stereotipi sono eccessivamente rigidi, possono essere basati sull’osservazione di fenomeni reali e quindi essere almeno in parte veritieri. La tendenza più discutibile in questo campo è quella di giudicare qualsiasi affermazione sulle differenze di genere—per quanto realistica e sfumata—come uno “stereotipo” da smontare, frutto di ignoranza e pregiudizi. In realtà, la ricerca sugli stereotipi di genere ha mostrato molto chiaramente che, in media, le aspettative delle persone tendono ad essere sorprendentemente accurate e aderenti alla realtà; quando si osservano deviazioni dai dati empirici, gli errori vanno più spesso nella direzione di sottovalutare le differenze piuttosto che di esagerarle. (In più, contrariamente a quanto spesso si crede, la maggior parte delle persone è piuttosto brava a rivedere o mettere da parte le sue aspettative quando riceve informazioni sulle caratteristiche di una specifica persona).

Nel campo della personalità, i tratti in cui si trovano le maggiori differenze di genere comprendono stabilità emotiva, ansia, amichevolezza, calore interpersonale, dominanza/assertività e sensibilità (sia in senso empatico che in senso artistico/estetico). Il fatto che queste differenze corrispondano a degli stereotipi comuni non le rende meno reali; e soprattutto non dimostra in alcun modo che siano gli stereotipi a causare le differenze, piuttosto che il contrario. Per fare un esempio banale, sicuramente esiste uno “stereotipo” sul fatto che gli uomini abbiano la voce più profonda delle donne, ma sarebbe assurdo argomentare che questo stereotipo sia la causa dell’abbassamento della voce nei ragazzi quando arrivano alla pubertà. Vista da vicino, l’idea che la scienza abbia “sfatato gli stereotipi di genere” si rivela essa stessa un mito da sfatare.

L’aspetto più complesso e delicato da affrontare riguarda gli effetti degli stereotipi. Con poche eccezioni, la ricerca psicologica e sociologica su questo tema si basa sull’assunto che gli stereotipi siano a priori infondati e dannosi. Sicuramente, gli stereotipi di genere—soprattutto se esagerati o troppo rigidi—possano creare ingiustizie e disagi, soprattutto nelle persone con personalità o interessi “atipici” rispetto agli altri membri del proprio sesso. Il problema è che l’attenzione a senso unico verso gli effetti potenzialmente negativi degli stereotipi finisce per oscurare i loro aspetti positivi. Negare o minimizzare quelle che sono differenze reali tra i sessi può avere conseguenze altrettanto deleterie, sia a livello sociale (per esempio con l’adozione di politiche fallimentari o controproducenti) che a livello personale (per esempio rendendo più difficile la comunicazione tra uomini e donne; incoraggiando la lettura distorta di differenze negli interessi e nelle abilità come “discriminazioni”; o privando gli psicologi di strumenti utili per la comprensione e il trattamento della sofferenza mentale). Un approccio bilanciato a questo tema dovrebbe riconoscere entrambi i lati della medaglia, ed essere aperto all’eventualità che avere degli “stereotipi” flessibili ma allo stesso tempo realistici possa aiutare a vivere il rapporto con il maschile e il femminile in modo più sereno e consapevole.

Questa non è solo una speculazione: diversi studi hanno rilevato che le persone con una visione stereotipata ma generalmente positiva delle differenze tra maschi e femmine (soprattutto in modi che enfatizzano la complementarietà tra i sessi) tendono anche ad avere maggiori livelli di benessere, maggiore autostima, e relazioni di coppia più soddisfacenti. Anche se non dimostrano una relazione causale, questi dati sono in linea con l’idea che una “modica quantità” di stereotipi di genere possa contribuire al benessere psicologico e relazionale, sia negli uomini che nelle donne. Purtroppo, l’approccio ideologico che domina quest’ambito di ricerca fa sì che i risultati vengano riletti in chiave sempre negativa: così, gli stereotipi positivi (indipendentemente dalla loro fondatezza) vengono etichettati come “sessismo benevolo”, e le associazioni con benessere e autostima vengono spiegate come “effetti palliativi” o forme rassicuranti ma subdole di “negazione della discriminazione”. L’ipotesi che alcuni stereotipi possano essere un segno di realismo e maturità non viene nemmeno presa in considerazione.

Tra i vari modi in cui la psicologia tende a enfatizzare gli aspetti deleteri degli stereotipi, l’esempio più eclatante è sicuramente la teoria della “minaccia dello stereotipo” (stereotype threat). L’idea di base è che “attivare” la rappresentazione di uno stereotipo di genere (per esempio leggendo un brano sul fatto che i maschi sono più bravi in matematica) sia sufficiente per suscitare ansia e tensione nei membri del gruppo sfavorito (in questo caso le femmine), e quindi interferire con la loro prestazione cognitiva. Secondo questa teoria, alcune disparità persistenti tra maschi e femmine (in particolare nelle abilità matematiche) non sono che il frutto di una profezia che si auto-avvera, per cui l’esistenza di uno stereotipo negativo produce effetti che finiscono per confermare lo stereotipo. Questo filone di ricerca è nato negli anni ‘90 e ha ricevuto un’enorme pubblicità, perché sembrava dimostrare in modo inequivocabile il potere degli stereotipi di plasmare cognizione e comportamento. Quello che ancora pochi sanno è che i risultati iniziali non sono stati replicati negli studi più grandi e meglio controllati, e che una volta corretti i dati per la tendenza a pubblicare più facilmente i risultati positivi (publication bias), l’effetto si riduce di molto o addirittura scompare. Anche se in futuro la ricerca dimostrasse in modo indiscutibile che la “minaccia dello stereotipo” può ridurre lievemente le prestazioni cognitive, un effetto di quella dimensione non sarebbe lontanamente sufficiente per spiegare le differenze che si osservano nel mondo reale. Ma la teoria (ormai quasi del tutto falsificata) ha già influenzato pesantemente la conversazione pubblica, ed è stata usata per giustificare interventi anche piuttosto invasivi nel campo dell’educazione, della selezione del personale, e così via.

Per concludere, voglio sottolineare ancora una volta che l’antidoto ad una visione manichea e dogmatica delle differenze di genere non deve tradursi in una semplificazione di segno opposto, per cui tutti gli stereotipi sono sacrosanti e i due sessi diventano categorie monolitiche, composte da individui tutti uguali che devono imparare a “stare al loro posto”. Sfatare i miti che oscurano la visuale è un passo necessario, ma rimane solo il primo passo. Come sempre, la vera soluzione passa per uno sforzo di riflessione e di sintesi; una sintesi capace di integrare anche i limiti e gli aspetti meno gratificanti della nostra natura, riconoscere che i fenomeni psicologici hanno quasi sempre sia costi che benefici, e resistere alla tentazione di voler giudicare e cambiare la realtà prima di averla compresa.

Marco Del Giudice è professore associato di psicologia all’University of New Mexico (USA). Ha pubblicato oltre 100 articoli, capitoli e monografie su temi di ricerca che spaziano dalla neurofisiologia dello stress alla plasticità nello sviluppo, fino all’evoluzione della personalità e alle basi biologiche dei disturbi mentali. È riconosciuto a livello internazionale per i suoi contributi teorici e metodologici allo studio delle differenze di genere. Il suo sito web è marcodg.net.

 

Bibliografia

Libri, articoli e video di interesse generale

Archer, J. (2019). The reality and evolutionary significance of human psychological sex differences. Biological Reviews, 94(4), 1381-1415. Link

Del Giudice, M. (2022). Measuring sex differences and similarities. In D. P. VanderLaan & W. I. Wong (Eds.), Gender and sexuality development: Contemporary theory and research. Springer. Link

Del Giudice, M. (in press). Ideological bias in the psychology of sex and gender. In C. L. Frisby, W. T. O’Donohue, R. E. Redding, & S. O. Lilienfeld (Eds)., Political bias in psychology: Nature, scope, and solutions. Springer. Link

Geary, D. C. (2021). Male, female: The evolution of human sex differences (3rd ed.). American Psychological Association. Link

Lippa, R. A. (2005). Gender, nature, and nurture. Routledge. Link

Low, B. S. (2015). Why sex matters (revised ed.). Princeton University Press. Link

Stewart-Williams, S. (2018). La scimmia che ha capito l’universo: Come la mente e la cultura si evolvono. Espress Edizioni. Link

Geary, D. C. (2022). The Ideological Refusal to Acknowledge Evolved Sex Differences. Quillette. Link

Video intervista (Marco Del Giudice, con Giulio Anichini): Le differenze di genere: cosa sappiamo e cosa no. Link (YouTube)

Video intervista (Marco Del Giudice, con il Pub del Lunedì Sera, ): La scienza delle differenze di genere: Sessista o femminista? Link (YouTube)

Video intervista (Marco Del Giudice, con Ricardo Lopes): The evolutionary psychology of gender differences. Link (Youtube): Part 1, Part 2

Video intervista (David Geary, con Ricardo Lopes): Male, Female: The Evolution of Human Sex Differences. Link (Youtube): Part 1, Part 2

Differenze di genere: personalità

Del Giudice, M. (2015) Gender differences in personality and social behavior. In J. D. Wright (Ed.), International encyclopedia of the social and behavioral sciences (2nd ed.) (pp. 750-756). Elsevier. Link

Del Giudice, M. (2023). The S-index: Summarizing patterns of sex differences at the distribution extremes. Personality and Individual Differences, 205, 112088. Link

Del Giudice, M., Booth, T., & Irwing, P. (2012). The distance between Mars and Venus: Measuring global sex differences in personality. PLoS ONE, 7, e29265. Link

Eagly, A. H., & Revelle, W. (2022). Understanding the Magnitude of Psychological Differences Between Women and Men Requires Seeing the Forest and the Trees. Perspectives on Psychological Science. Link

Kaiser, T., Del Giudice, M., & Booth, T. (2020). Global sex differences in personality: Replication with an open online dataset. Journal of Personality, 88, 415-429. Link

Kajonius, P., & Mac Giolla, E. (2017). Personality traits across countries: Support for similarities rather than differences. PloS one, 12(6), e0179646. Link

Kaufman, S. B. (2019): Taking Sex Differences in Personality Seriously. Scientific American Blog. Link

Lippa, R. A. (2010). Gender differences in personality and interests: When, where, and why? Social and Personality Psychology Compass, 4, 1098-1110. Link

Mac Giolla, E., & Kajonius, P. J. (2019). Sex differences in personality are larger in gender equal countries: Replicating and extending a surprising finding. International Journal of Psychology, 54(6), 705-711. Link

Schmitt, D.P., Long, A., McPhearson. A., O’Brien, K., Remmert, B., & Shah, S. (2017). Personality and gender differences in global perspective. International Journal of Psychology, 52, 45-56. Link

Sulle differenze di genere nel rischio per depressione, disturbi d’ansia, ecc.:

Del Giudice, M. (2018). Evolutionary psychopathology: A unified approach. Oxford University Press. Link

Hartung, C. M., & Lefler, E. K. (2019). Sex and gender in psychopathology: DSM–5 and beyond. Psychological bulletin, 145(4), 390. Link

Differenze di genere: interessi e preferenze

Falk, A., & Hermle, J. (2018). Relationship of gender differences in preferences to economic development and gender equality. Science, 362(6412), eaas9899. Link

Li, D., Wang, Y., & Li, L. (2023). Educational choice has greater effects on sex ratios of college STEM majors than has the greater male variance in general intelligence (g). Intelligence, 96, 101719. Link

Lippa, R. A. (2010). Gender differences in personality and interests: When, where, and why? Social and Personality Psychology Compass, 4, 1098-1110. Link

Lippa, R. A. (2010). Sex differences in personality traits and gender-related occupational preferences across 53 nations: Testing evolutionary and social-environmental theories. Archives of sexual behavior, 39(3), 619-636. Link

Lippa, R. A., Preston, K., & Penner, J. (2014). Women’s representation in 60 occupations from 1972 to 2010: More women in high-status jobs, few women in things-oriented jobs. PloS one, 9(5), e95960. Link

Morris, M. L. (2016). Vocational interests in the United States: Sex, age, ethnicity, and year effects. Journal of Counseling Psychology, 63(5), 604. Link

Stoet, G., & Geary, D. C. (2022). Sex differences in adolescents’ occupational aspirations: Variations across time and place. Plos one, 17(1), e0261438. Link

Su, R., Rounds, J., & Armstrong, P. I. (2009). Men and things, women and people: a meta-analysis of sex differences in interests. Psychological bulletin, 135(6), 859. Link

Una rassegna molto utile degli studi sulle differenze di genere nella variabilità:

https://heterodoxacademy.org/blog/the-greater-male-variability-hypothesis

Video intervista (Richard Lippa, con Ricardo Lopes): Sex Differences in Cognition and Interests. Link (Youtube)

Differenze di genere: scelta del partner e sessualità

Conroy-Beam, D., Buss, D. M., Pham, M. N., & Shackelford, T. K. (2015). How sexually dimorphic are human mate preferences? Personality and Social Psychology Bulletin, 41(8), 1082-1093. Link

Kenrick, D. T., & Keefe, R. C. (1992). Age preferences in mates reflect sex differences in human reproductive strategies. Behavioral and Brain Sciences, 15(1), 75-91. Link

Lippa, R. A. (2009). Sex differences in sex drive, sociosexuality, and height across 53 nations: Testing evolutionary and social structural theories. Archives of sexual behavior, 38, 631-651. Link

McBurney, D. H., Zapp, D. J., & Streeter, S. A. (2005). Preferred number of sexual partners: Tails of distributions and tales of mating systems. Evolution and Human Behavior, 26(3), 271-278. Link

Schmitt, D. P. (2003). Universal sex differences in the desire for sexual variety: tests from 52 nations, 6 continents, and 13 islands. Journal of personality and social psychology, 85(1), 85. Link

Schmitt, D. P. (2005). Sociosexuality from Argentina to Zimbabwe: A 48-nation study of sex, culture, and strategies of human mating. Behavioral and Brain sciences, 28(2), 247-275. Link

Shackelford, T. K., Schmitt, D. P., & Buss, D. M. (2005). Universal dimensions of human mate preferences. Personality and individual differences, 39(2), 447-458. Link

Walter, K. V., Conroy-Beam, D., Buss, D. M., Asao, K., Sorokowska, A., Sorokowski, P., … & Zupančič, M. (2020). Sex differences in mate preferences across 45 countries: A large-scale replication. Psychological Science, 31(4), 408-423. Link

Zhang, L., Lee, A. J., DeBruine, L. M., & Jones, B. C. (2019). Are sex differences in preferences for physical attractiveness and good earning capacity in potential mates smaller in countries with greater gender equality? Evolutionary Psychology, 17(2), 1474704919852921. Link

Differenze di genere: abilità cognitive

Arden, R., & Plomin, R. (2006). Sex differences in variance of intelligence across childhood. Personality and Individual Differences, 41(1), 39-48. Link

Arribas-Aguila, D., Abad, F. J., & Colom, R. (2019). Testing the developmental theory of sex differences in intelligence using latent modeling: Evidence from the TEA Ability Battery (BAT-7). Personality and Individual Differences, 138, 212-218. Link

Baye, A., & Monseur, C. (2016). Gender differences in variability and extreme scores in an international context. Large-scale Assessments in Education, 4(1), 1-16. Link

Feingold, A. (1992). Sex differences in variability in intellectual abilities: A new look at an old controversy. Review of educational research, 62(1), 61-84. Link

Giofrè, D., Allen, K., Toffalini, E., & Caviola, S. (2022). The Impasse on Gender Differences in Intelligence: a Meta-Analysis on WISC Batteries. Educational Psychology Review, 1-26. Link

Johnson, W., & Bouchard Jr, T. J. (2007). Sex differences in mental abilities: g masks the dimensions on which they lie. Intelligence, 35(1), 23-39. Link

Johnson, W., Carothers, A., & Deary, I. J. (2008). Sex differences in variability in general intelligence: A new look at the old question. Perspectives on psychological science, 3(6), 518-531. Link

Lakin, J. M. (2013). Sex differences in reasoning abilities: surprising evidence that male–female ratios in the tails of the quantitative reasoning distribution have increased. Intelligence, 41(4), 263-274. Link

Lemos, G. C., Abad, F. J., Almeida, L. S., & Colom, R. (2013). Sex differences on g and non-g intellectual performance reveal potential sources of STEM discrepancies. Intelligence, 41(1), 11-18. Link

Li, D., Wang, Y., & Li, L. (2023). Educational choice has greater effects on sex ratios of college STEM majors than has the greater male variance in general intelligence (g). Intelligence, 96, 101719. Link

Reilly, D., Neumann, D. L., & Andrews, G. (2015). Sex differences in mathematics and science achievement: A meta-analysis of National Assessment of Educational Progress assessments. Journal of Educational Psychology, 107(3), 645. Link

Reilly, D., Neumann, D. L., & Andrews, G. (2019). Gender differences in reading and writing achievement: Evidence from the National Assessment of Educational Progress (NAEP). American Psychologist, 74(4), 445. Link

Stoet, G., & Geary, D. C. (2020). Sex-specific academic ability and attitude patterns in students across developed countries. Intelligence, 81, 101453. Link

Wai, J., Hodges, J., & Makel, M. C. (2018). Sex differences in ability tilt in the right tail of cognitive abilities: A 35-year examination. Intelligence, 67, 76-83. Link

Wai, J., Putallaz, M., & Makel, M. C. (2012). Studying intellectual outliers: Are there sex differences, and are the smart getting smarter? Current Directions in Psychological Science, 21(6), 382-390. Link

Warne, R. T. (2020). In the know: Debunking 35 myths about human intelligence. Cambridge University Press. Link

Video intervista (Richard Lippa, con Ricardo Lopes): Sex Differences in Cognition and Interests. Link (Youtube)

Video intervista (Diane Halpern, con Ricardo Lopes): Sex Differences in Cognitive Abilities, Critical Thinking, and Creativity. Link (Youtube)

Sulle origini delle differenze di genere nelle abilità spaziali:

Cashdan, E., & Gaulin, S. J. (2016). Why go there? Evolution of mobility and spatial cognition in women and men. Human Nature, 27(1), 1-15. Link

Eliot, L., Ahmed, A., Khan, H., & Patel, J. (2021). Dump the “dimorphism”: Comprehensive synthesis of human brain studies reveals few male-female differences beyond size. Neuroscience & Biobehavioral Reviews. Link

Lauer, J. E., Yhang, E., & Lourenco, S. F. (2019). The development of gender differences in spatial reasoning: A meta-analytic review. Psychological Bulletin, 145(6), 537. Link

Uttal, D. H., Meadow, N. G., Tipton, E., Hand, L. L., Alden, A. R., Warren, C., & Newcombe, N. S. (2013). The malleability of spatial skills: a meta-analysis of training studies. Psychological bulletin, 139(2), 352. Link

Wong, W. I., & Yeung, S. P. (2019). Early gender differences in spatial and social skills and their relations to play and parental socialization in children from Hong Kong. Archives of Sexual Behavior, 48(5), 1589-1602. Link

Wood, B. M., Harris, J. A., Raichlen, D. A., Pontzer, H., Sayre, K., Sancilio, A., … & Jones, J. H. (2021). Gendered movement ecology and landscape use in Hadza hunter-gatherers. Nature human behaviour, 5(4), 436-446. Link

Il ruolo dei fattori biologici

Sulla selezione sessuale:

 Clutton-Brock, T. (2007). Sexual selection in males and females. Science, 318(5858), 1882-1885. Link

Geary, D. C. (2021). Male, female: The evolution of human sex differences (3rd ed.). American Psychological Association. Link

Hosken, D. J., & House, C. M. (2011). Sexual selection. Current Biology, 21(2), R62-R65. Link

Janicke, T., Häderer, I. K., Lajeunesse, M. J., & Anthes, N. (2016). Darwinian sex roles confirmed across the animal kingdom. Science advances, 2(2), e1500983. Link

Low, B. S. (2015). Why sex matters (revised ed.). Princeton University Press. Link

Puts, D. A. (2010). Beauty and the beast: Mechanisms of sexual selection in humans. Evolution and human behavior, 31(3), 157-175. Link

Puts, D. (2016). Human sexual selection. Current opinion in psychology, 7, 28-32. Link

Sul ruolo di genetica e ormoni nello sviluppo:

Berenbaum, S. A., & Beltz, A. M. (2021). Evidence and Implications From a Natural Experiment of Prenatal Androgen Effects on Gendered Behavior. Current Directions in Psychological Science, 30(3), 202-210. Link

Loehlin, J. C., Jönsson, E. G., Gustavsson, J. P., Stallings, M. C., Gillespie, N. A., Wright, M. J., & Martin, N. G. (2005). Psychological Masculinity‐Femininity via the Gender Diagnosticity Approach: Heritability and Consistency Across Ages and Populations. Journal of Personality, 73(5), 1295-1320. Link

Manning, J. T., Trivers, R., & Fink, B. (2017). Is digit ratio (2D: 4D) related to masculinity and femininity? Evidence from the BBC internet study. Evolutionary Psychological Science, 3(4), 316-324. Link

Pasterski, V., & Bibonas, D. (2022). Biological Approaches to Studying Gender Development. In D. P. VanderLaan & W. I. Wong (Eds.), Gender and sexuality development: Contemporary theory and research. Springer. Link

Pasterski, V., Geffner, M. E., Brain, C., Hindmarsh, P., Brook, C., & Hines, M. (2011). Prenatal hormones and childhood sex segregation: playmate and play style preferences in girls with congenital adrenal hyperplasia. Hormones and Behavior, 59(4), 549-555. Link

Sulle influenze reciproche tra genitori e bambini:

Ayoub, M., Briley, D. A., Grotzinger, A., Patterson, M. W., Engelhardt, L. E., Tackett, J. L., … & Tucker-Drob, E. M. (2019). Genetic and environmental associations between child personality and parenting. Social psychological and personality science, 10(6), 711-721. Link

Endendijk, J. J., Groeneveld, M. G., Bakermans-Kranenburg, M. J., & Mesman, J. (2016). Gender-differentiated parenting revisited: Meta-analysis reveals very few differences in parental control of boys and girls. PLoS One, 11(7), e0159193. Link

Tenenbaum, H. R., & Leaper, C. (2002). Are parents’ gender schemas related to their children’s gender-related cognitions? A meta-analysis. Developmental Psychology, 38(4), 615–630. Link

Altri esempi di ricerca cross-culturale:

Apicella, C. L., Crittenden, A. N., & Tobolsky, V. A. (2017). Hunter-gatherer males are more risk-seeking than females, even in late childhood. Evolution and Human Behavior, 38(5), 592-603. Link

Greenberg, D. M., Warrier, V., Abu-Akel, A., Allison, C., Gajos, K. Z., Reinecke, K., … & Baron-Cohen, S. (2023). Sex and age differences in “theory of mind” across 57 countries using the English version of the “Reading the Mind in the Eyes” Test. Proceedings of the National Academy of Sciences, 120(1), e2022385119. Link

Nivette, A., Sutherland, A., Eisner, M., & Murray, J. (2019). Sex differences in adolescent physical aggression: Evidence from sixty‐three low‐and middle‐income countries. Aggressive behavior, 45(1), 82-92. Link

Schmitt, D. P. (2015). The evolution of culturally-variable sex differences: Men and women are not always different, but when they are… it appears not to result from patriarchy or sex role socialization. In The evolution of sexuality (pp. 221-256). Springer. Link

Schwartz, S. H., & Rubel-Lifschitz, T. (2009). Cross-national variation in the size of sex differences in values: Effects of gender equality. Journal of Personality and Social psychology, 97(1), 171-187. Link

La questione della variabilità

Archer, J., & Mehdikhani, M. (2003). Variability among males in sexually selected attributes. Review of General Psychology, 7(3), 219-236. Link

Arden, R., & Plomin, R. (2006). Sex differences in variance of intelligence across childhood. Personality and Individual Differences, 41(1), 39-48. Link

DeCasien, A. R., Sherwood, C. C., Schapiro, S. J., & Higham, J. P. (2020). Greater variability in chimpanzee (Pan troglodytes) brain structure among males. Proceedings of the Royal Society B, 287(1925), 20192858. Link

Del Giudice, M. (in press). Measuring sex differences and similarities. In D. P. VanderLaan & W. I. Wong (Eds.), Gender and sexuality development: Contemporary theory and research. Springer. Link

Feingold, A. (1992). Sex differences in variability in intellectual abilities: A new look at an old controversy. Review of educational research, 62(1), 61-84. Link

Johnson, W., Carothers, A., & Deary, I. J. (2008). Sex differences in variability in general intelligence: A new look at the old question. Perspectives on psychological science, 3(6), 518-531. Link

Karwowski, M., Jankowska, D. M., Gralewski, J., Gajda, A., Wiśniewska, E., & Lebuda, I. (2016). Greater male variability in creativity: a latent variables approach. Thinking Skills and Creativity, 22, 159-166. Link

Lehre, A. C., Lehre, K. P., Laake, P., & Danbolt, N. C. (2009). Greater intrasex phenotype variability in males than in females is a fundamental aspect of the gender differences in humans. Developmental Psychobiology, 51(2), 198-206. Link

Thöni, C., & Volk, S. (2021). Converging evidence for greater male variability in time, risk, and social preferences. Proceedings of the National Academy of Sciences, 118(23). Link

Wierenga, L. M., Doucet, G. E., Dima, D., Agartz, I., Aghajani, M., Akudjedu, T. N., … & Wittfeld, K. (2020). Greater male than female variability in regional brain structure across the lifespan. Human brain mapping. Link

Wyman, M. J., & Rowe, L. (2014). Male bias in distributions of additive genetic, residual, and phenotypic variances of shared traits. The American Naturalist, 184(3), 326-337. Link

Un dibattito recente sulle differenze di variabilità tra maschi e femmine negli animali, e le loro implicazioni per la psicologia umana:

Harrison, L. M., Noble, D. W., & Jennions, M. D. (2022). A meta‐analysis of sex differences in animal personality: No evidence for the greater male variability hypothesis. Biological Reviews, 97(2), 679-707. Link

Del Giudice, M., & Gangestad, S. W. (2023). No evidence against the greater male variability hypothesis: A commentary on Harrison et al.’s meta-analysis of animal personality. Evolutionary Psychological Science. Link

Differenze cerebrali

Ritchie, S. J., Cox, S. R., Shen, X., Lombardo, M. V., Reus, L. M., Alloza, C., … & Deary, I. J. (2018). Sex differences in the adult human brain: evidence from 5216 UK biobank participants. Cerebral cortex, 28(8), 2959-2975. Link

Williams, C. M., Peyre, H., Toro, R., & Ramus, F. (2021). Neuroanatomical norms in the UK Biobank: The impact of allometric scaling, sex, and age. Human Brain Mapping, 42(14), 4623-4642. Link

Anderson, N. E., Harenski, K. A., Harenski, C. L., Koenigs, M. R., Decety, J., Calhoun, V. D., & Kiehl, K. A. (2019). Machine learning of brain gray matter differentiates sex in a large forensic sample. Human brain mapping, 40(5), 1496-1506. Link

Luo, Z., Hou, C., Wang, L., & Hu, D. (2019). Gender identification of human cortical 3-D morphology using hierarchical sparsity. Frontiers in human neuroscience, 13, 29. Link

Sanchis-Segura, C., Ibañez-Gual, M. V., Aguirre, N., Cruz-Gómez, Á. J., & Forn, C. (2020). Effects of different intracranial volume correction methods on univariate sex differences in grey matter volume and multivariate sex prediction. Scientific Reports, 10(1), 1-15. Link

Shi, L., Zhang, Z., & Su, B. (2016). Sex biased gene expression profiling of human brains at major developmental stages. Scientific reports, 6(1), 21181. Link

Tunç, B., Solmaz, B., Parker, D., Satterthwaite, T. D., Elliott, M. A., Calkins, M. E., … & Verma, R. (2016). Establishing a link between sex-related differences in the structural connectome and behaviour. Philosophical Transactions of the Royal Society B: Biological Sciences, 371(1688), 20150111. Link

Wheelock, M. D., Hect, J. L., Hernandez-Andrade, E., Hassan, S. S., Romero, R., Eggebrecht, A. T., & Thomason, M. E. (2019). Sex differences in functional connectivity during fetal brain development. Developmental cognitive neuroscience, 36, 100632. Link

Xin, J., Zhang, Y., Tang, Y., & Yang, Y. (2019). Brain differences between men and women: evidence from deep learning. Frontiers in neuroscience, 13, 185. Link

Sulla correlazione tra volume cerebrale e intelligenza:

Deary, I. J., Cox, S. R., & Hill, W. D. (2021). Genetic variation, brain, and intelligence differences. Molecular Psychiatry, 1-19. Link

Pietschnig, J., Penke, L., Wicherts, J. M., Zeiler, M., & Voracek, M. (2015). Meta-analysis of associations between human brain volume and intelligence differences: How strong are they and what do they mean? Neuroscience & Biobehavioral Reviews, 57, 411-432. Link

Sulle associazioni tra anatomia cerebrale, personalità e differenze di genere:

Hyatt, C. S., Listyg, B. S., Owens, M. M., Carter, N. T., Carter, D. R., Lynam, D. R., … & Miller, J. D. (2022). Structural brain differences do not mediate the relations between sex and personality or psychopathology. Journal of Personality, 90(6), 902-915. Link

Hyatt, C. S., Sharpe, B. M., Owens, M. M., Listyg, B. S., Carter, N. T., Lynam, D. R., & Miller, J. D. (2021). Searching High and Low for Meaningful and Replicable Morphometric Correlates of Personality. Journal of Personality and Social Psychology. Link

Phillips, O. R., Onopa, A. K., Hsu, V., Ollila, H. M., Hillary, R. P., Hallmayer, J., … & Singh, M. K. (2019). Beyond a binary classification of sex: An examination of brain sex differentiation, psychopathology, and genotype. Journal of the American Academy of Child & Adolescent Psychiatry, 58(8), 787-798. Link

van Eijk, L., Zhu, D., Couvy-Duchesne, B., Strike, L. T., Lee, A. J., Hansell, N. K., … & Zietsch, B. P. (2021). Are sex differences in human brain structure associated with sex differences in behavior? Psychological science, 32(8), 1183-1197. Link

Sulle influenze genetiche nell’anatomia e nel funzionamento cerebrale:

Adhikari, B. M., Jahanshad, N., Shukla, D., Glahn, D. C., Blangero, J., Fox, P. T., … & Kochunov, P. (2018). Comparison of heritability estimates on resting state fMRI connectivity phenotypes using the ENIGMA analysis pipeline. Human brain mapping, 39(12), 4893-4902. Link

Deary, I. J., Cox, S. R., & Hill, W. D. (2021). Genetic variation, brain, and intelligence differences. Molecular Psychiatry, 1-19. Link

Jansen, A. G., Mous, S. E., White, T., Posthuma, D., & Polderman, T. J. (2015). What twin studies tell us about the heritability of brain development, morphology, and function: a review. Neuropsychology review, 25(1), 27-46. Link

Le Guen, Y., Amalric, M., Pinel, P., Pallier, C., & Frouin, V. (2018). Shared genetic aetiology between cognitive performance and brain activations in language and math tasks. Scientific reports, 8(1), 1-11. Link

Un articolo recente di Lise Eliot e colleghi sulla natura (secondo loro trascurabile) delle differenze cerebrali, e alcune risposte critiche molto interessanti:

Eliot, L., Ahmed, A., Khan, H., & Patel, J. (2021). Dump the “dimorphism”: Comprehensive synthesis of human brain studies reveals few male-female differences beyond size. Neuroscience & Biobehavioral Reviews. Link

DeCasien, A. R., Guma, E., Liu, S., & Raznahan, A. (2022). Sex differences in the human brain: a roadmap for more careful analysis and interpretation of a biological reality. Biology of Sex Differences, 13(1), 43. Link

Goldman, D. (2021). On Dump the “dimorphism”: Comprehensive synthesis of human brain studies reveals few male-female differences beyond size. Link

Hirnstein, M., & Hausmann, M. (2021). Sex/gender differences in the brain are not trivial-a commentary on Eliot et al. (2021). Neuroscience and Biobehavioral Reviews, 130, 408-409. Link

Williams, C. M., Peyre, H., Toro, R., & Ramus, F. (2021). Sex differences in the brain are not reduced to differences in body size. Neuroscience & Biobehavioral Reviews. Link

Stereotipi di genere

Sull’accuratezza degli stereotipi:

Jussim, L. (2012). Social perception and social reality: Why accuracy dominates bias and self-fulfilling prophecy. Oxford University Press. Link

Jussim, L., Crawford, J. T., & Rubinstein, R. S. (2015). Stereotype (in) accuracy in perceptions of groups and individuals. Current Directions in Psychological Science, 24(6), 490-497. Link

Löckenhoff, C. E., Chan, W., McCrae, R. R., De Fruyt, F., Jussim, L., De Bolle, M., … & Terracciano, A. (2014). Gender stereotypes of personality: Universal and accurate? Journal of Cross-Cultural Psychology, 45(5), 675-694. Link

Sull’associazione tra stereotipi di genere e benessere psicologico:

Connelly, K., & Heesacker, M. (2012). Why is benevolent sexism appealing? Associations with system justification and life satisfaction. Psychology of Women Quarterly, 36(4), 432-443. Link

Lachance-Grzela, M., Liu, B., Charbonneau, A., & Bouchard, G. (2021). Ambivalent sexism and relationship adjustment among young adult couples: An actor-partner interdependence model. Journal of Social and Personal Relationships, 38(7), 2121-2140. Link

Napier, J. L., Suppes, A., & Bettinsoli, M. L. (2020). Denial of gender discrimination is associated with better subjective well‐being among women: A system justification account. European Journal of Social Psychology, 50(6), 1191-1209. Link

Napier, J. L., Thorisdottir, H., & Jost, J. T. (2010). The joy of sexism? A multinational investigation of hostile and benevolent justifications for gender inequality and their relations to subjective well-being. Sex roles, 62, 405-419. Link

Oswald, D. L., Baalbaki, M., & Kirkman, M. (2019). Experiences with benevolent sexism: Scale development and associations with women’s well-being. Sex Roles, 80, 362-380. Link

Rollero, C., Czepczor-Bernat, K., Fedi, A., Boza, M., Brytek-Matera, A., Lemoine, J. E., … & Gattino, S. (2022). Life satisfaction in Europe and Iran: the role of self-esteem, gender identification and ambivalent sexism.Current Psychology, 1-14. Link

Sulla teoria della “minaccia dello stereotipo”:

Finnigan, K. M., & Corker, K. S. (2016). Do performance avoidance goals moderate the effect of different types of stereotype threat on women’s math performance? Journal of Research in Personality, 63, 36-43. Link

Flore, P. C., & Wicherts, J. M. (2015). Does stereotype threat influence performance of girls in stereotyped domains? A meta-analysis. Journal of school psychology, 53(1), 25-44. Link

Flore, P. C., Mulder, J., & Wicherts, J. M. (2019). The influence of gender stereotype threat on mathematics test scores of Dutch high school students: a registered report. Comprehensive Results in Social Psychology, 3(2), 140-174. Link

Ganley, C. M., Mingle, L. A., Ryan, A. M., Ryan, K., Vasilyeva, M., & Perry, M. (2013). An examination of stereotype threat effects on girls’ mathematics performance. Developmental psychology, 49(10), 1886. Link

Shewach, O. R., Sackett, P. R., & Quint, S. (2019). Stereotype threat effects in settings with features likely versus unlikely in operational test settings: A meta-analysis. Journal of Applied Psychology, 104(12), 1514. Link

Warne, R. T. (2022). No Strong Evidence of Stereotype Threat in Females: A Reassessment of the Picho-Kiroga et al. (2021) Meta-Analysis. Journal of Advanced Academics, 33(2), 171-186. Link

Wax, A. L. (2009). Stereotype threat: A case of overclaim syndrome? In C. H. Sommers (Ed.), The science of women and science. AEI Press. Link

Implicazioni per la parità/disparità di genere in campo accademico e lavorativo

Ceci, S. J., Ginther, D. K., Kahn, S., & Williams, W. M. (2014). Women in academic science: A changing landscape. Psychological science in the public interest, 15(3), 75-141. Link

Ceci, S. J., Kahn, S., & Williams, W. M. (2021). Stewart-Williams and Halsey argue persuasively that gender bias is just one of many causes of women’s underrepresentation in science. European Journal of Personality, 35(1), 40-44. Link

Dekhtyar, S., Weber, D., Helgertz, J., & Herlitz, A. (2018). Sex differences in academic strengths contribute to gender segregation in education and occupation: A longitudinal examination of 167,776 individuals. Intelligence, 67, 84-92. Link

Halpern, D. F., Benbow, C. P., Geary, D. C., Gur, R. C., Hyde, J. S., & Gernsbacher, M. A. (2007). The science of sex differences in science and mathematics. Psychological science in the public interest, 8(1), 1-51. Link

Li, D., Wang, Y., & Li, L. (2023). Educational choice has greater effects on sex ratios of college STEM majors than has the greater male variance in general intelligence (g). Intelligence, 96, 101719. Link

Stewart-Williams, S., & Halsey, L. G. (2021). Men, women and STEM: Why the differences and what should be done? European Journal of Personality, 35(1), 3-39. Link

Stoet, G., & Geary, D. C. (2018). The gender-equality paradox in science, technology, engineering, and mathematics education. Psychological science, 29(4), 581-593. Link

Stoet, G., & Geary, D. C. (2020). Sex-specific academic ability and attitude patterns in students across developed countries. Intelligence, 81, 101453. Link

Su, R. & Rounds, J. (2015). All STEM fields are not created equal: People and things interests explains gender disparities across fields. Frontiers in Psychology, 6: 189. Link

Wang, M. T., Eccles, J. S., & Kenny, S. (2013). Not lack of ability but more choice: Individual and gender differences in choice of careers in science, technology, engineering, and mathematics. Psychological science, 24(5), 770-775. Link




Aiuta il progetto ARTICOLO 34 – MERITO E PARI OPPORTUNITA’

L’articolo 34 della Costituzione recita:

La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso.

Purtroppo, il sistema di sussidi che enti pubblici e privati erogano agli studenti è ancora ben lungi dal garantire il rispetto dell’articolo 34.

Le borse destinate ai “capaci e meritevoli” ma “privi di mezzi” sono ancora troppo poche (specie nella scuola secondaria superiore), di importo insufficiente, e non sempre in grado di individuare i più capaci e meritevoli.

La Fondazione David Hume sta elaborando un progetto per far sì che, nel giro di alcuni anni, il dettato costituzionale venga pienamente rispettato attraverso un sistema di borse di studio ampio, generoso, e in grado di assicurare anche ai meno abbienti il proseguimento degli studi fino ai gradi più alti.

La promozione del merito, a partire dalla scuola, è uno degli strumenti fondamentali per contrastare le diseguaglianze e favorire le pari opportunità. Ma è anche una via per alzare il livello medio di preparazione degli studenti, con benefici in tutti i campi, dalla cultura alla sanità, dall’economia alla qualità della vita democratica.

Il nostro progetto prevede innanzitutto l’istituzione di un FONDO NAZIONALE DEL MERITO, che permetta ad ogni singola scuola di:

  • Premiare, con un riconoscimento simbolico e una piccola somma in denaro (per esempio 100 euro), le allieve e gli allievi che hanno ottenuto i risultati migliori, indipendentemente dalla condizione economico-sociale della famiglia: le ragazze e i ragazzi che ottengono buoni risultati vanno tutti riconosciuti e valorizzati, perché – con il loro impegno e il loro talento – contribuiscono al benessere e al buon funzionamento dell’intera comunità;
  • Dotare di una significativa borsa di studio (per esempio 12 mila euro l’anno) le premiate e i premiati che provengono da famiglie svantaggiate, e rischiano quindi di interrompere prematuramente gli studi, o intraprendere percorsi inferiori alle loro possibilità, dover lavorare per mantenersi agli studi, con grave perdita per loro stessi e per la collettività.

Il FONDO NAZIONALE DEL MERITO, provvisto di una dotazione iniziale dello Stato centrale, dovrebbe essere aperto ai contributi degli altri enti pubblici e dei privati, in particolare famiglie, imprese, fondazioni bancarie, istituzioni e organizzazioni del terzo settore.

L’ipotesi da cui muoviamo è di iniziare dai ragazzi di 3a media e, ogni anno, estendere il sistema ad una o più leve successive, anche in funzione dell’apporto dei soggetti che vorranno contribuire al “Fondo nazionale del merito”. Più generosi saranno i contributi al Fondo, più rapidamente sarà raggiunto l’obiettivo di assicurare un adeguato sostegno a tutti i “capaci e meritevoli”, come avevano previsto i Padri Costituenti.




Come le idee di Sinistra sono migrate a Destra – Pietro Senaldi (Direttore di Libero) intervista Luca Ricolfi

Il suo ultimo lavoro si intitola “La mutazione” e allude al passaggio a destra di alcuni valori cardine della sinistra. Ma prima dei partiti, non è cambiata la società italiana, e in che modo?

Sì, dei cambiamenti del sistema-Italia ci sono stati, ma il più importante a me pare l’aumento del grado complessivo di incertezza, del senso generale di vulnerabilità, provocato da un complesso di fattori: a partire dal 2011, l’esplosione del problema migratorio in seguito alla morte di Geddafi; nel 2007-2013 la instabilità finanziaria; dopo la crisi finanziaria, l’irruzione sulla scena mondiale dei cosiddetti perdenti della globalizzazione. La destra ha colto il cambiamento, cercando di dare risposte più o meno efficaci all’incertezza, la sinistra non ha minimamente capito che la globalizzazione, l’Europa, le istituzioni internazionali stavano diventando invise ai cittadini in difficoltà.

La sinistra è diventata un cartello di gestione del potere e questo l’ha allontanata dall’ascolto delle esigenze della popolazione: è stato un processo inconsapevole o nel tempo è diventata una strategia per conservare il potere, abbassando il livello di istruzione e quindi di consapevolezza generale per creare una massa manovrabile con qualche slogan politicamente corretto e quindi virtualmente incontestabile?

Direi che è stato un processo inconsapevole, guidato dalla naturale attrazione per il potere. Escluderei che dirigenti strutturalmente incapaci di accorgersi dei più elementari e vistosi cambiamenti della realtà possano aver consapevolmente perseguito forme di istupidimento delle masse.

Perché il merito fa così paura a sinistra, se è il solo modo di riattivare l’ascensore sociale e perché la sinistra non concepisce più la cultura come mezzo di elevazione sociale, concetto peraltro gramsciano?

Perché, grosso modo dal 1962 (anno della riforma della scuola media), e con particolare energia dal 1968, i dirigenti della sinistra si sono convinti che la partita della competizione sociale si giocasse tutta all’interno della scuola, e che la posta in gioco fossero i titoli di studio conseguiti. Di qui l’idea – imbarazzante per la sua stoltezza – che abbassando livello degli studi e asticella della promozione si sarebbe prodotta più eguaglianza.

Merito, sovranità alimentare, made in Italy, natalità: perché la sinistra ha criticato e scatenato battaglie ideologiche contro la promozione di queste parole? Sono concetti di destra, di sinistra o semplicemente di buon senso?

A me sembrano concetti di buon senso, che sono diventati improvvisamente radioattivi quando la destra li ha fatti propri. Nei loro confronti la sinistra reagisce pavlovianamente, come il toro davanti al drappo rosso.

Perché la libertà di pensiero è difesa dalla destra e non dalla sinistra, che pare ontologicamente allergica ad accogliere punti di vista differenti e votata a squalificare e degradare chi non si sottomette ai suoi diktat culturali e dal sapore propagandista?

La destra si è trovata, quasi per caso, a difendere la libertà di pensiero semplicemente perché la sinistra, con l’adesione acritica al politicamente corretto, ha progressivamente assunto tratti sempre più intolleranti. Un’intolleranza che, a sua volta, deriva dalla convinzione di incarnare la civiltà contro la barbarie, la ragione contro l’oscurantismo dei conservatori.

Il reddito di cittadinanza è diventata la linea del Piave della sinistra, solo che è una bandiera grillina. E’ il simbolo dell’abdicazione del Pd in favore di M5S del ruolo di difensore dei poveri?

Sì, ma non è l’unica abdicazione a favore dei Cinque Stelle. Oltre alla difesa dei poveri, i Cinque Stelle stanno sottraendo alla sinistra ufficiale la bandiera della pace, l’ecologia, l’arcipelago dei bonus più o meno assistenziali.

Qual è la dottrina delle tre società, che lei ha elaborato?

La dottrina distingue fra tre segmenti sociali, distinti in base al rapporto con il mercato del lavoro. La prima società, o società delle garanzie, è costituita dai lavoratori dipendenti stabili delle imprese medie e grandi, per lo più tutelati dalle organizzazioni sindacali. La seconda società, o società del rischio, è costituita dai lavoratori più esposti alle turbolenze del mercato: partite Iva, piccoli imprenditori, dipendenti regolari delle piccole imprese, lavoratori a tempo determinato delle imprese medie e grandi. La terza società, o società degli esclusi, è costituita da tre gruppi principali, accomunati dalla loro marginalità: lavoratori in nero (compresi vari tipi di quasi-schiavi, che ho descritto ne La società signorile di massa), disoccupati veri e propri (alla ricerca di un lavoro), lavoratori potenziali scoraggiati (disponibili a a lavorare, ma non in cerca di lavoro).

E’ incredibile, ma ai tre tipi di società corrispondono nitidamente tre opzioni politiche: i garantiti guardano a sinistra, i membri della società del rischio a destra, gli esclusi al movimento Cinque Stelle.

Chi sono oggi i deboli che la sinistra non difende più, cosa vogliono e cosa si aspettano dalla politica?

I dati mostrano senza ombra di dubbio che i deboli sono sovrarappresentati nella società del rischio (che guarda a destra) e nella società degli esclusi (che guarda ai Cinque Stelle).

I progressisti si sono persi inseguendo il mito del progresso, e scambiandolo erroneamente con la globalizzazione, così come cent’anni fa la destra si perse dietro il mito dell’uomo forte?

Sì e no, per come la vedo io c’è una differenza: il mito del progresso è una forza verso qualcosa, tipo una società prospera e liberata, mentre il mito dell’uomo forte, almeno in Italia, si formò anche, se non soprattutto, come reazione ai processi di disgregazione del sistema sociale in atto dopo la fine della prima guerra mondiale.

Perché i ricchi e chi ha posizioni di rendita vota a sinistra?

Per due ragioni distinte. L’interesse, dal momento che la sinistra ha abbandonato la lotta di classe e si è fatta establishment, attentissima alle esigenze dei ceti alti. E l’autogratificazione, perché un ricco che vota a sinistra, difende i migranti, è sensibile alle istanze LGBT+, tende a sentirsi moralmente superiore, e al tempo stesso “lava” (a costo zero) la colpa di essere ricco.

Lei ha partecipato al convegno di Milano organizzato nella scorsa primavera dall’allora leader di Fdi. Qual è il modello sociale proposto dalla Meloni?

Per quel che riesco a capire è parecchio diverso da quello di Salvini e Berlusconi. Fratelli d’Italia non è un partito liberista, semmai è una evoluzione della destra sociale, con robuste tentazioni stataliste e welfariste. Sul piano giudiziario, poi, Fratelli d’Italia è meno garantista di Forza Italia, come del resto è emerso chiaramente con il decreto anti-rave. E poi c’è l’aspetto più interessante: la battaglia per il merito a scuola l’ha lanciata Fratelli d’Italia, mentre gli alleati sembrano avere una visione più aziendale del ruolo della scuola.

Se perfino la Meloni promuove concetti di sinistra, significa che la destra in Italia non esiste più, o che è rappresentata da Salvini e Berlusconi o da Calenda? Insomma, da zero a quattro, quante destre ci sono in Italia?

Direi quattro, cioè quelle che ha indicato lei, ma potrebbero ridursi presto a due soltanto: la destra sociale di Meloni, e la destra liberal-liberista di Salvini e Berlusconi, o dei leader che prenderanno il loro posto. Calenda e Renzi non li vedo benissimo, a meno che riescano a convincere il Pd ad assorbirli e a macronizzarsi.

E sempre da zero a quattro, considerate le mutazioni di Fdi, quante sinistre ci sono in Italia?

Apparentemente sei, ma in realtà solo due: la sinistra qualunquista dei Cinque Stelle, con cespugli annessi (Fratoianni e Bonelli) e la sinistra senza volto del Pd (anche lei con cespugli annessi: +Europa, qualche pezzo di “terzo polo”). La grande incognita è quale volto assumerà il Pd dopo il congresso, sempre che la lunga attesa non l’abbia nel frattempo fatto sparire.

C’è un idem sentire dell’elettore di destra, per esempio rappresentato dai valori dell’ordine, della sicurezza, della detassazione?

Forse un idem sentire c’è, ma credo che il cocktail sia più complesso e sfuggente. Fra gli ingredienti che lo definiscono includerei il pragmatismo, l’ostilità verso le discussioni astratte, l’insofferenza per le ossessioni del politicamente coretto, l’anti-intellettualismo, la diffidenza verso il progresso, l’ostilità alle procedure e alla burocazia. Insomma, una sorta di neo-tradizionalismo, che poggia sulla netta sensazione che la freccia del tempo non punti sempre nella direzione giusta.

Il concetti di difesa della nazione e dei suoi interessi e di patriottismo reggono in un Paese di anarchici qual è l’Italia?

Forse sì, perché il patriottismo oggi richiesto è veramente minimale, e un problema di difesa dell’interesse nazionale esiste effettivamente.

La sfida della Meloni in Europa ha possibilità di successo e in che modo differisce da quelle di Berlusconi e di Salvini, che si scontrarono con la Ue, che ne determinò l’inizio dei rispettivi tramonti?

Sono i tempi, più che i leader, ad essere cambiati. L’Europa ha dato così cattiva prova di sé nella gestione della crisi energetica, che l’idea di una ortodossia europea da onorare e rispettare ha perso gran parte dell’antica autorevolezza. Credo che, se ci sarà un tramonto della stella di Giorgia Meloni, sarà il risultato di vicende domestiche. Tipo estenuanti trattative e bracci di ferro con Salvini e Berlusconi sulla politica economica, errori nei tempi e nei modi di varare le misure più identitarie.

A quali misure pensa, in particolare?

Essenzialmente tre: diritti civili, specie in materia di aborto; gestione dei migranti; merito e riforma della scuola.

Che giudizio dà della prima missione della Meloni in Europa?

Immagino si sia trattato, più che altro, una utile e doverosa visita di cortesia. E’ a partire dalla seconda che, forse, potremo farci un’idea.

Quali possono essere gli argomenti divisivi all’interno di questo governo e secondo lei durerà?

Credo che gli argomenti divisivi saranno quelli economici: entità dello scostamento di bilancio, tempi di realizzazione del programma fiscale, superamento della legge Fornero, ponte sullo stretto di Messina.

Quanto alla durata, non ne ho la minima idea. Però non mi stupirei che, a un certo punto, Meloni si convinca di poter andare al voto e vincere da sola.

Lei ha affermato che questo governo rappresenta una svolta storica non perché Meloni è una donna ma perché è una persona eccezionale, diversa da tutti gli altri politici.  In che senso?

Nel senso che ha due caratteristiche che mancano agli altri leader, di destra e di sinistra: primo, crede fortemente nelle sue idee; secondo, è disposta a rischiare per non tradirle.

Resta da vedere se saprà essere all’altezza anche come premier, il silenzio sulle bollette e il pasticciatissimo decreto anti-rave non fanno ben sperare.

La crisi della sinistra non è dovuta all’incapacità di produrre leader? Il centrodestra ne ha tre, che pur con tutti i difetti, lo sono. La sinistra ha prodotto solo Renzi, che non è di sinistra: come mai, carenza di qualità o questioni ambientali e culturali che impediscono la nascita di un leader?

Domanda difficile. Forse il problema è l’eccesso di colonnelli. Sembra che nel Pd viga una sorta di principio di limitazione del potere, per cui si cerca di evitare che qualcuno ne assuma troppo. Se qualcuno ci prova, come ha fatto Renzi, il corpaccione del partito reagisce espellendo l’intruso. E’ come se il Pd fosse governato da un consesso di oligarchi, che temono l’emergere di un monarca.

Le prime mosse del governo Meloni – dal tetto al contante all’anticipazione di un mese del rientro al lavoro dei medici no vax fino al decreto anti-rave party – sono state molto contestate perché ritenute provocatorie o di marginale importanza: condivide la critica, perché Meloni ha deciso di partire da lì e quanto piacciono o non piacciono queste iniziative agli elettori?

Condivido la critica. Si poteva partire in modo più prudente, senza attirarsi le critiche tutt’altro che immotivate dei media ostili. Però non penso che le critiche dell’establishment politico-cultural-mediatico possano cambiare il giudizio (positivo) degli elettori di destra, poco inclini ad attardarsi sulle sottigliezze.

La destra produce il primo premier italiano, le donne del Pd protestano contro il loro partito sostenendo di essere discriminate dai colleghi capi maschi. Tra i valori trasmigrati da sinistra a destra c’è anche la promozione della donna, oppure questo è sempre stato un valore trasversale, se non addirittura di destra, visto che in tutto il mondo le donne capo arrivano da destra?

Non credo che la promozione della donna sia una nuova bandiera della destra, semplicemente non è mai stata una pratica di sinistra. Quel che colpisce, a sinistra, è la dissociazione fra la teoria e la pratica. I miei compagni sessantottini trasformavano le donne in “angeli del ciclostile”, i loro discendenti  maschi – da Renzi a Letta – praticano la cooptazione. D’altro canto, vien da dire: ma che dovrebbero fare, se le donne di sinistra sono acquiescenti? Dopotutto la Meloni il suo posto se lo è conquistato combattendo, non certo per gentile concessione dei maschi di destra.

Da innamorato deluso della sinistra e da eminente sociologo e politologo, che via si sente di indicare al Pd, che tra cinque mesi celebrerà un congresso fondamentale per le proprie sorti?

Io penso che fra cinque mesi, quando si degneranno di tenere un congresso, i buoi saranno già scappati nella stalla dei cinque Stelle. A quel punto al Pd resteranno solo due strade: o calendo-renzizzarsi, con grande smacco; o diventare esplicitamente quel che già è: un partito radicale di massa, che si occupa solo di diritti civili e immigrazione, ed è sinceramente convinto di rappresentare “la parte migliore del Paese”.

Perché l’argomento dell’antifascismo e della difesa strenua della Costituzione, cavalcato dalla sinistra, non ha fatto breccia nell’elettorato e perché la sinistra continua a cavalcarlo, se è sterile?

La sinistra cavalca l’anti-fascismo semplicemente perché i suoi dirigenti, rifiutando per decenni il dialogo con la parte avversa, hanno perso ogni capacità di comprendere i vissuti profondi della società italiana. Quanto agli elettori, secondo me l’argomento anti-fascista non funziona per due ragioni distinte. La prima è che la gente non ha perso del tutto il senso dell’umorismo, e trova ridicolo evocare il pericolo fascista.

Ma c’è forse anche una seconda ragione, più profonda. Contrariamente a quel che paiono pensare gli scrittori di libri antifascisti sul fascismo, l’ambivalenza degli italiani verso il fascismo non dipende da una segreta simpatia per il Ventennio, o da una incompiuta maturazione democratica, ma da una sorta di imbarazzo per la nostra storia. Quella pagina della storia d’Italia non è onorevole, e non bastano le gesta dei partigiani ad assolvere la maggioranza, che prima seguì il Duce, e solo alla fine passò dalla parte giusta. E’ possibile che una parte degli italiani, più o meno confusamente, quell’imbarazzo lo senta ancora.




Perché per quest’autunno-inverno si prospetta un “lockdown energetico” ed i rischi per l’Italia

 “Nei momenti di pericolo, non esiste peccato più grave dell’inerzia”.

Dan Brown

L’invasione russa dell’Ucraina ha sconvolto i mercati energetici globali, generando il più grande aumento dei prezzi del petrolio dagli anni ’70. Parallelamente, i prezzi del carbone e del gas hanno tutti raggiunto i massimi storici in termini nominali. In termini reali, tuttavia, solo i prezzi europei del gas naturale hanno raggiunto i massimi storici e rimangono notevolmente al di sopra del picco precedente del 2008. Le conseguenze di tutto ciò per la crescita mondiale saranno significative: è probabile che l’aumento dei prezzi dell’energia, da solo, riduca la produzione globale di quasi l’1% entro la fine del 2023, come suggerisce una recente analisi della Banca Mondiale [1]. Ma per l’Europa – e in particolare per l’Italia – l’impennata dei prezzi del gas e dell’energia elettrica, e quindi delle relative bollette, verosimilmente imporrà la necessità di una sorta di “lockdown energetico” nel prossimo autunno-inverno. Le conseguenze di questo nuovo lockdown sono difficili da stimare, ma poiché l’aumento dei prezzi dell’energia ha un impatto sproporzionato sulle attività imprenditoriali più energivore e sulle famiglie con i redditi più bassi, qualora si superassero determinate soglie critiche si potrebbe lacerare in modo irreparabile il tessuto economico e sociale, innescando una spirale di effetti a catena difficile da arginare e con effetti potenzialmente sistemici. In questo articolo cercherò di illustrare tali rischi alla luce dei nuovi dati oggi disponibili, evidenziando in particolare alcune questioni chiave largamente sottovalutate dal Governo italiano.

I motivi geopolitici della recente impennata dei prezzi dell’energia in Europa

Già prima dell’inizio della guerra, i prezzi del petrolio greggio sono aumentati notevolmente a causa della ripresa economica dalla crisi del Covid, mentre l’offerta non era tornata del tutto al livello pre-crisi. La guerra ha rafforzato questo movimento al rialzo dei prezzi, poiché l’offerta russa è diminuita prima a causa delle difficoltà di trasporto e di pagamento in relazione alle sanzioni, poi per la parziale “chiusura dei rubinetti” da parte di Gazprom, che è controllata dalla Federazione Russa.

Prima della guerra, il prezzo all’esportazione della Russia seguiva da vicino il prezzo del mercato globale per il petrolio Brent, indice di alta sostituibilità di questa materia prima [8]. Dato che la Russia è solo uno dei molti fornitori di petrolio dell’Unione Europea (l’incidenza delle importazioni dalla Russia era del 12,5% per l’Italia, del 22,8% per la UE [34]), il petrolio mancante per le importazioni dell’UE dalla Russia venute meno può essere sostituito da importazioni fatte da altrove; mentre, per la Russia, le mancate esportazioni di petrolio verso l’Occidente possono essere in parte compensate dagli acquisti di India e Cina.

A differenza del petrolio, il mercato del gas è regionale. Esistono, a grandi linee, tre grandi mercati del gas a livello globale: Europa, Nord America e Asia. I prezzi su questi mercati normalmente sono correlati, poiché il gas naturale liquefatto (GNL) può essere spedito a ognuno di essi, tuttavia possono differire fra loro in modo significativo. A partire dal 2021, l’elevata domanda in Asia ha portato a una crescita importante della divergenza tra il prezzo del gas nordamericano (più basso) ed i prezzi in Asia ed Europa (più alti).

Il caso del gas si differenzia da quello del petrolio perché le importazioni europee vengono consegnate principalmente tramite gasdotti: a causa dei vincoli di trasporto, il mercato del gas non è globale (cioè con prezzi allineati fra loro a livello mondiale), ed i prezzi dei 3 mercati regionali non sono unificati, come si può vedere molto bene dalla figura seguente. In essa risulta evidente come l’impennata dei prezzi del gas sia un problema prettamente europeo, non riguarda aree lontane come USA, Giappone, etc.

Il prezzo del gas naturale (espresso in dollari USA) in diverse zone del mondo. Si noti come solo in Europa si sia avuta un’abnorme impennata del prezzo. 20 mmbtu sono equivalenti a circa 6 MWh. (fonte: World Bank and IEA) 

I prezzi del gas sono fortemente aumentati in Europa già a partire dal 2021, poiché il forte aumento della domanda legato alla ripresa economica ha incontrato un’offerta meno dinamica da parte di Paesi Bassi e Russia, con quest’ultima che a seguito delle note vicende belliche ha gradualmente smesso di servire i mercati a breve termine (onorando per un certo tempo solo i suoi contratti a lungo termine già firmati, per poi ridurre ulteriormente i flussi di gas con motivazioni di comodo). E, come succede in questi casi, il prezzo della materia prima che scarseggia si è letteralmente impennato.

Nel 2020 la Russia ha prodotto il 22% del gas mondiale, mentre l’Europa ha consumato il 13% del gas naturale prodotto nel mondo (dati Enerdata). Poiché la Russia rappresenta circa il 40% del gas consumato in Europa (e per l’Italia il 43%), la totale scomparsa di questa fornitura rappresenterebbe uno shock del 13% x 40% = 5% a livello mondiale ma molto di più a livello regionale, poiché la fornitura alternativa è limitata dalla capacità di trasporto e di rigassificazione del Gas Naturale Liquefatto importato (GNL), che oggi rappresenta soltanto il 20% della fornitura europea di gas (secondo i dati forniti da Bruegel).

Sostituire interamente le importazioni russe di gas con GNL significherebbe triplicare le forniture europee di GNL, cosa che nel breve termine non è né tecnicamente possibile (per l’offerta limitata sul mercato mondiale, e per la bassa capacità di rigassificazione aggiuntiva in Europa) né economicamente fattibile (l’Europa è in concorrenza con l’Asia sul mercato del GNL e il reindirizzamento dei flussi verso l’Europa è costoso) [7]. L’AIE prevede quindi la sostituzione con GNL solo del 13% del gas russo mancante.

Per questo, a partire dal 2021, il prezzo del gas è aumentato molto di più del prezzo del petrolio per i Paesi europei: circa +60% a marzo 2022 rispetto a febbraio; e di ben 5 volte ad aprile 2022 rispetto ad aprile 2021. Ed è per tale ragione che, specie in caso di rilevante o totale interruzione delle forniture di gas russo, gli esperti prevedono per quest’autunno-inverno un prezzo estremamente alto della materia prima (e delle relative bollette), o addirittura un razionamento quantitativo di gas e luce sul suolo europeo.

D’altra parte, l’Unione Europea non può, nel corso di quest’anno e del prossimo, sostituire del tutto le importazioni di gas naturale russo [23]. Quindi, nel breve periodo la domanda di gas dell’UE è relativamente anelastica.  In regime di monopolio, un’elasticità così bassa porterebbe la Russia a fissare un prezzo molto alto, anche in assenza di guerra. Il motivo per cui la Russia non l’ha fatto in passato è che l’elasticità sul lungo periodo è sicuramente assicurata, e quindi deve affrontare un compromesso intertemporale: un prezzo molto alto aumenta i ricavi nel breve termine, ma li diminuisce nel lungo termine.

La guerra, tuttavia, ha due effetti evidenti e importanti su questo tipo di calcolo. Il primo è un’esigenza ancora maggiore di maggiori entrate oggi, portando ad un aumento del prezzo. La seconda è che la permanenza futura o l’inasprimento delle sanzioni, nonché la chiara decisione dell’Unione Europea di svezzarsi dalle importazioni di gas russo, riducono gli effetti di un aumento del prezzo sui ricavi futuri, portando ancora una volta la Russia ad aumentare il prezzo mentre la domanda è ancora lì.

In breve, ignorando le sanzioni, la Russia potrebbe voler aumentare le entrate delle esportazioni di energia. Ma mentre per il petrolio ciò implicherebbe un aumento del volume delle esportazioni (dato il prezzo mondiale), per il gas comporterebbe un aumento dei prezzi (e quindi volumi di esportazione in diminuzione) [8]. I veri contratti di gas a lungo termine normalmente precludono tale comportamento, in quanto specificano l’indicizzazione dei prezzi sul petrolio o sulla borsa del gas olandese (TTF). Ma la Russia ha una certa flessibilità per spostare parte della sua offerta dalle consegne nell’ambito di contratti esistenti a vendite sul mercato non regolamentato. In altre parole, i contratti possono essere rivisti o interrotti.

Per cercare di rimpiazzare una parte del gas russo, il Governo italiano si è mosso rapidamente, attraverso gli accordi con Algeria, Angola e Congo, ma il grosso delle forniture aggiuntive non arriverà fino al 2023. L’import di gas annuale dalla Russia verso l’UE prima della guerra era di circa 155 miliardi di metri cubi. È possibile rimpiazzarne poco meno della metà attraverso maggiori forniture da Stati Uniti, Norvegia, Africa. L’Italia può inoltre contare sulla riattivazione di alcune centrali a carbone. Di conseguenza, quest’inverno il deficit di gas per il nostro paese dovrebbe arrivare, al più, al 13-18% del fabbisogno pre-crisi.

Altri shock per l’Europa collegati alla situazione attuale

Oltre al greggio e al gas naturale, la Russia esporta carbone (che viene trasportato via nave, il che lo rende altamente sostituibile con altri fornitori) e prodotti petroliferi raffinati (in particolare il gasolio), dai quali l’Europa occidentale è particolarmente dipendente poiché le capacità di raffinazione sono specifiche e difficili da sostituire a breve termine. La Russia esporta anche metalli rari (nichel, palladio, di cui è il primo produttore mondiale) per i quali la sostituzione è invece delicata, e altri prodotti (fertilizzanti, grano, legno, etc.) che vengono scambiati su un mercato mondiale.

Oltre a questi shock dell’offerta e dei relativi prezzi, gli europei devono aggiungere la perdita di mercati in Russia a causa delle restrizioni alle esportazioni, che a maggio è arrivata a raggiungere circa il 60% dei volumi esportati in quel paese nel 2021, ovvero circa lo 0,4% del PIL europeo. Inoltre, secondo l’interessante analisi di Blanchard & Pisani-Ferry [8], relativa alle implicazioni della guerra Russia-Ucraina per la politica economica dell’Unione Europea, il ritiro delle grandi aziende europee dal territorio russo rappresenterebbe da solo una perdita di circa l’1 per cento del PIL per l’economia europea.

Infine, l’invasione dell’Ucraina potrebbe innescare comportamenti precauzionali da parte di famiglie e imprese in Europa, portandole a rivedere al ribasso i propri investimenti, a risparmiare di più ed a indirizzare i propri risparmi verso asset a basso rischio. Potrebbe anche aumentare l’incertezza sui mercati finanziari, nonché accrescere ulteriormente il deprezzamento dell’euro (che nei confronti del dollaro USA è stato di quasi il 20% nell’ultimo anno), il che potrebbe sostenere le esportazioni extra-UE nel breve termine, aumentando però al contempo le pressioni inflazionistiche.

In realtà, gli shock dei prezzi dell’energia influenzano l’attività economica e l’inflazione attraverso una varietà di canali, con effetti diretti e indiretti sulle economie importatrici ed esportatrici di energia. Gli effetti indiretti possono verificarsi attraverso il commercio e altri mercati delle materie prime, attraverso le risposte di politica monetaria e fiscale e attraverso l’incertezza degli investimenti. Attraverso questi canali, i prezzi dell’energia possono anche avere ripercussioni immediate sui saldi fiscali ed esterni [1].

In Italia, l’aumento dei prezzi dell’energia e dei beni ha spinto l’inflazione fino al +8,4% di agosto, ed essa è per quasi l’80% dovuta proprio all’impennata dei prezzi delle materie prime energetiche. Tali valori sono ben al di sopra dell’obiettivo del 2% che la Banca Centrale Europea si era a suo tempo posta. È probabile che i prezzi aumentino più velocemente del reddito per molte persone. Ciò significa che il costo della vita per un gran numero di italiani sta pesando fortemente sul budget personale e familiare.

L’inflazione in Italia, arrivata in poco tempo a livelli record che non si raggiungevano da 37 anni. (fonte: La Verità)

I prezzi più elevati per i beni che acquistiamo dall’estero sono uno dei motivi principali di ciò. Poiché le restrizioni Covid si sono allentate in molti paesi, le persone hanno iniziato a comprare più cose, avendo accumulato livelli record di risparmi nel corso della pandemia. Ciò ha generato un’impennata della domanda globale di beni di consumo durevoli e non durevoli, portando a carenze sul mercato di alcuni semilavorati e prodotti finali, a “colli di bottiglia” senza precedenti nella produzione e nel commercio, e di conseguenza a prezzi più elevati, in particolare per le merci importate dall’estero.

Anche l’aumento dei prezzi dell’energia ha svolto un ruolo importante. I forti aumenti dei prezzi del petrolio e del gas hanno spinto verso l’alto i prezzi della benzina e le bollette dell’energia, e questi aumenti sono iniziati ben prima dello scoppio della guerra fra Russia e Ucraina. Poiché i prezzi dell’energia verosimilmente continueranno a crescere sul breve termine (e potenzialmente anche sul medio termine, specie se i paesi dell’UE non adottassero misure adeguate o il conflitto nel frattempo si estendesse ad altri paesi), ci si aspetta che l’inflazione salga ulteriormente quest’anno e che l’economia rallenti.

Infine, l’invasione russa dell’Ucraina ha portato ad aumenti assai più accelerati e più consistenti del prezzo di cose come energia e cibo. Come se non bastasse, sia la guerra che i lockdown per Covid in Cina stanno rendendo più difficile importare cose, oltre ad allungare i tempi di consegna. È probabile che ciò faccia in futuro aumentare ulteriormente i prezzi di alcuni beni. Come risultato di questi fattori, prevediamo un aumento dell’inflazione, che potrebbe far addirittura rimpiangere i valori attuali.

A questo quadro, va aggiunto lo “shock” legato al fenomeno dell’immigrazione irregolare, che, dal punto di vista dell’impatto negativo sul tessuto sociale dovuto alla male gestio dello stesso, riguarda principalmente l’Italia, e che è tale soprattutto per i numeri assoluti e senza precedenti che si vanno raggiungendo. Gli immigrati clandestini rappresentano ormai una vera e propria “quinta colonna” in Italia, per questo in qualsiasi paese occidentale serio (Australia, Giappone, Stati Uniti, etc.) tale problema viene considerato una questione di sicurezza nazionale ed è affrontato con metodi assai decisi e risolutivi.

Nei primi 8 mesi di quest’anno, secondo i dati del Viminale [20], sono sbarcati in Italia circa 57.000 migranti (principalmente di nazionalità egiziana, bengalese, tunisina, afghana e siriana), cioè ben tre volte quanti ne erano sbarcati – nello stesso periodo – due anni prima, cioè nel 2020; e potrebbero sfiorare i 100.000 entro la fine dell’anno, da confrontarsi con gli appena 11.500 del 2018 [21]. Inoltre, secondo i dati Istat relativi al 2021, gli stranieri che in Italia vivono in povertà assoluta sono oltre 1.600.000, con un’incidenza pari al 32,4%, oltre quattro volte superiore a quella degli italiani in stato di povertà assoluta (7,2%).

L’impatto dello shock energetico sull’economia di un Paese: i modelli

Una volta definiti gli shock, occorre guardare alle loro conseguenze. Ci limitiamo qui al versante energetico, cominciando dalle conseguenze dell’aumento del prezzo del petrolio sulle famiglie e sulle aziende e passando poi ad analizzare quelle dell’aumento dei prezzi del gas naturale. Ricordo che i prodotti petroliferi possono essere trovati in qualsiasi cosa: dai dispositivi di protezione individuale, plastica, prodotti chimici e fertilizzanti fino all’aspirina, vestiti, carburante per il trasporto e persino pannelli solari.

Per un paese importatore netto, un aumento del prezzo del petrolio porta a un trasferimento di reddito al resto del mondo, e quindi all’impoverimento delle famiglie, in quanto i derivati del petrolio che pesano molto sul budget familiare sono i carburanti per i veicoli e il gasolio da riscaldamento (per chi ha il riscaldamento centralizzato). Se i salari non si adeguano immediatamente all’aumento dei prezzi, il potere d’acquisto e quindi il consumo diminuiranno nel breve termine.

Le aziende, dal canto loro, non possono trasferire immediatamente sui loro prezzi di vendita i maggiori prezzi del petrolio (che incidono sui prezzi dei carburanti, su quelli del trasporto e quindi sui costi di approvvigionamento delle materie prime e di distribuzione dei prodotti finiti o semi-lavorati). Quindi i loro margini si riducono, a scapito degli investimenti. D’altra parte, quando le aziende aumentano i prezzi, preservano i loro margini ma perdono quote di mercato.

Le 5 componenti di prezzo di un prodotto. Gli aumenti di prezzo in atto stanno agendo su ben 3 di essi, riducendo di conseguenza in misura notevole il margine di guadagno per l’imprenditore. (fonte: illustrazione dell’Autore, licenza Creative Commons)

Inoltre, il calo dei redditi in altri paesi europei importatori di petrolio riduce meccanicamente la domanda estera e quindi le esportazioni del nostro Paese verso di essi. Tuttavia, l’aumento dei prezzi del petrolio, a differenza di quello del gas, è uno shock globale. Poiché tutte le aziende devono far fronte a costi più elevati, gli effetti sulla competitività delle nostre aziende sono relativamente limitati.

Veniamo ora invece all’impatto dei prezzi del gas naturale. Nei modelli macroeconometrici standard, il gas non è identificato come tale e si presume che il suo prezzo segua quello del petrolio [7]. A fortiori, un’interruzione della fornitura di gas è difficile da simulare. In questi modelli, la produzione di beni e servizi dipende dal lavoro, dal capitale e da una cosiddetta “Produttività Totale dei Fattori” (PTF) esogena, definibile come la parte residua di output eccedente gli input di lavoro e capitale.

Un’interruzione nella fornitura di gas importato potrebbe essere vista come una diminuzione esogena della PTF. Tuttavia, in questi modelli keynesiani, la PTF è rilevante solo a lungo termine. Nel breve periodo, il PIL è determinato dalla domanda, sebbene i prezzi rispondano agli shock dell’offerta. Pertanto, un modello macroeconometrico standard non è in grado di tenere adeguatamente conto dell’interruzione delle catene del valore (non c’è solo il problema gas: si pensi ad es. alla scarsità di microchip, etc.).

Pertanto, si deve invece utilizzare un modello di equilibrio generale che descriva come lo shock colpisce non solo le industrie che utilizzano direttamente la materia prima che viene meno – in questo caso il gas – ma anche le industrie a valle (chimica, vetro, etc.); e come il relativo impatto sulla filiera può essere attutito dalle sostituzioni e dall’uso delle importazioni a tutti i livelli delle catene del valore. A seconda delle assunzioni del modello, si può arrivare così a stimare un determinato calo del PIL.

Tuttavia, in un’economia rigida, il riequilibrio dei mercati dopo un forte shock implica altrettanto forti variazioni dei prezzi relativi, e quindi un costo economico significativo quando alcuni prezzi si adeguano solo con ritardo. Ad esempio, le aziende del settore del vetro e ceramica, ma anche le fonderie, le cartiere, alcune aziende del settore chimico e alimentare – o comunque molte delle aziende energivore – non riescono a trasferire i costi più elevati sui propri clienti e alcune interrompono la produzione, il che si ripercuote, a cascata, su altre aziende energivore e non che utilizzavano i loro prodotti.

Perciò, è necessaria una combinazione di approcci diversi per arrivare a una stima realistica degli effetti della crisi energetica. Si possono poi aggiungere altri elementi: calo delle esportazioni verso la Russia, deprezzamento di alcuni beni, comportamenti precauzionali, politiche pubbliche, ecc. Data la complessità di queste stime, dubito che l’Europa abbia deciso di rinunciare al gas e al petrolio russo dopo aver fatto – come invece avrebbe dovuto – opportune analisi del rapporto rischi-benefici.

Blanchard & Pisani-Ferry [8] hanno stimato il drenaggio dei redditi europei dovuto a un aumento del 25% del prezzo del petrolio e del gas importato a circa 1 punto di PIL. L’aumento anno su anno del prezzo del gas è stato però assai più alto: circa 5 volte, pari al 500%, per cui l’impatto sul PIL si preannuncia assai elevato. Questa cifra costituisce una forma di costo economico sottovalutato della guerra per gli europei, un costo che potrebbe aumentare a causa di: ulteriori interruzioni dell’offerta, ricadute internazionali sfavorevoli, chiusure di imprese chiave o di intere filiere e/o “fallimenti” di massa delle famiglie più povere.

L’aumento impressionante del prezzo del gas in Italia negli ultimi mesi, all’interno di un arco di quasi 3 anni a cui il grafico si riferisce. In figura sono riportati i prezzi medi mensili dell’indice della Borsa italiana del gas, ovvero del PSV (che sta per “Punto di Scambio Virtuale”). Il prezzo del gas è aumentato di quasi 10 volte rispetto ai livelli pre-crisi. (fonte: elaborazione dell’Autore su dati del Gestore dei Mercati Energetici)

L’impatto teorico del caro-energia sui consumi e sul potere d’acquisto

La politica può – e deve – affrontare lo squilibrio tra domanda e offerta di gas e di petrolio. I responsabili politici devono dare priorità alle politiche che incoraggino una maggiore efficienza energetica e accelerino la transizione verso fonti energetiche a basse emissioni di carbonio, come il fotovoltaico e l’eolico (in particolare quello off-shore) [1]. Il conseguente miglioramento dell’equilibrio tra domanda e offerta di energia può aiutare a ridurre il rischio di stagflazione e superare i venti contrari alla crescita.

Poiché la domanda di energia è – come si dice in gergo – “anelastica” nel breve periodo, i forti aumenti di prezzo dell’energia implicano un calo significativo del potere d’acquisto delle famiglie, che dovrà essere assorbito attraverso: (i) un consumo ridotto di beni e servizi non energetici, (ii) una riduzione del risparmio o (iii) un aumento di reddito [9].Sul breve termine, per attutire gli effetti negativi delle famiglie, il sostegno temporaneo mirato ai gruppi vulnerabili può quindi avere la priorità rispetto ai sussidi energetici che potrebbero ritardare la transizione verso un’economia a zero emissioni di carbonio.

Ma in realtà la partita è assai più grossa. La crisi energetica, come scritto dal Financial Times, è una delle principali cause che hanno portato gli hedge fund a realizzare la più grande scommessa contro il debito italiano dal 2008. Secondo Gianclaudio Torlizzi, fondatore della società di consulenza finanziaria T-Commodity, “il prossimo governo, pur rimanendo all’interno della cornice delle regole europee, dovrà agire per ottenere le necessarie compensazioni per far fronte agli inevitabili razionamenti energetici. I prezzi dei beni energetici sono infatti destinati a rimanere estremi per molto tempo” [10].

In effetti, le variazioni del prezzo del petrolio e del gas possono riflettere sia gli shock dell’offerta di materia prima che quelli della domanda globale. L’aumento dei prezzi dell’energia non sempre porta a una contrazione dei consumi: infatti, possono anche essere una conseguenza di un aumento dei consumi a livello globale. Tuttavia, l’aumento dei prezzi del petrolio e del gas trasferisce ricchezza dai paesi importatori di tali materie prime ai paesi esportatori e quell’effetto ricchezza, a sua volta, ha un impatto negativo sul consumo nei paesi importatori come il nostro, attraverso effetti moltiplicatori.

Secondo un’analisi pubblicata dalla Banca Centrale Europea (a cui hanno contribuito due italiani), “l’impatto economico di una variazione del prezzo del petrolio causata da uno shock imprevisto della domanda globale aggregata è molto diverso da quello di un aumento del prezzo del petrolio causato da una carenza imprevista nella produzione di petrolio. Pertanto, è importante comprendere fino a che punto gli aumenti del prezzo del petrolio sono guidati da diversi tipi di shock prima di formulare risposte politiche” [9].

Quando, ad esempio, i prezzi del petrolio salgono a causa di un aumento della domanda aggregata, aumentano anche i salari e la politica monetaria dovrà diventare più restrittiva. Al contrario, se i prezzi del petrolio aumentano a causa di interruzioni nell’offerta di petrolio e non ci sono effetti di secondo impatto sui salari, la politica monetaria non ha bisogno di inasprirsi per stabilizzare l’inflazione. Tuttavia, è difficile pensare che un’inflazione galoppante non contribuisca a creare un mix socialmente esplosivo.

Infatti, come osservano gli autori dello studio in questione, “poiché spendono una percentuale relativamente elevata del loro reddito per l’energia, le famiglie povere sono particolarmente colpite in termini di inflazione quando i prezzi dell’energia aumentano. In caso di un forte shock dei prezzi dell’energia, l’impatto negativo su alcune famiglie potrebbe essere così ampio da superare facilmente qualsiasi impatto positivo visto attraverso i canali macroeconomici (ad es. l’occupazione)”.

Inoltre, va sottolineato che secondo la teoria economica i prezzi dell’energia più elevati incidono sui consumi privati ​​attraverso canali sia diretti che indiretti. Un aumento dei prezzi dell’energia incide direttamente sul potere d’acquisto delle famiglie attraverso l’aumento dei prezzi dei prodotti energetici (elettricità, gas, benzina, olio combustibile, ecc.). Nell’area dell’euro, circa il 30% di tutto il consumo di energia assume la forma del consumo finale da parte dei consumatori. Il resto riguarda invece l’energia utilizzata nella produzione di beni e servizi non energetici (cioè i “consumi intermedi”).

Al tempo stesso, un aumento dei prezzi dell’energia comporta un aumento dei costi di produzione dei settori non energetici e, nella misura in cui i produttori di beni e servizi non energetici adeguano i loro prezzi finali, un’ulteriore riduzione diretta del potere d’acquisto delle famiglie (l’effetto è dunque, in questo caso, indiretto). Infatti, se tali costi non possono essere trasferiti sui prezzi finali dei beni in questione, ci sarà inevitabilmente un impatto sul potere d’acquisto delle famiglie, poiché i produttori nei settori interessati taglieranno i salari o avranno minori profitti da distribuire.

Non è facile contrastare l’aumento dell’inflazione, che è determinato da molti fattori diversi: dall’aumento dei costi energetici derivanti dagli sviluppi geopolitici, dagli effetti temporanei delle formazioni dei prezzi non supportate dai fondamentali economici, dai forti shock negativi dell’offerta causati dall’aumento dei prezzi globali dell’energia (che incidono sui prezzi alla produzione e sul trasporto di materie prime e prodotti finiti), ma anche dei generi alimentari e delle materie prime agricole e non, dalle continue interruzioni nelle catene di approvvigionamento, etc.

Di fronte a questi problemi e rischi crescenti, secondo gli economisti la politica fiscale di un paese deve essere flessibile e pronta a fornire maggiore sostegno alle famiglie vulnerabili via via che la situazione peggiora. In un grave scenario al ribasso con carenza di gas e costi in aumento per i consumatori di gas, potrebbe essere necessario posticipare il ritorno alla regola europea del freno all’indebitamento affinché i governi nazionali possano assumere ulteriori prestiti per sostenere l’economia [12].

L’impatto reale su famiglie ed imprese e sul tessuto economico

I modelli macroeconometrici, per quanto sofisticati possano essere, non sono in grado di simulare in modo realistico una situazione così complessa come quella fin qui illustrata, in cui per l’Italia si sommano una serie di shock, non ultimo quello da cui siamo appena usciti, legato ai lockdown prima fisici e poi “virtuali” imposti nell’emergenza pandemica, che rappresentano peraltro solo due dei 10 grandi fattori che hanno impoverito imprese e famiglie durante la pandemia (si veda la mia analisi [3]).

Sebbene l’aumento dell’inflazione – e quindi del costo della vita – impatti apparentemente sull’intera popolazione, l’aumento dei prezzi dell’energia, in realtà, ha un impatto sproporzionato sulle attività imprenditoriali più energivore e sulle famiglie con i redditi più bassi. In altre parole, la spesa per gas ed elettricità in proporzione al reddito disponibile è più alta per le famiglie più povere, e rappresenta un fattore crescente nella compressione dei bilanci delle famiglie, e non solo di quelle italiane [2].

Nell’UE, i prezzi dell’energia per le abitazioni colpiscono il 20% più povero delle famiglie più di quanto non colpiscano le famiglie a reddito più elevato. Per quanto riguarda i costi di trasporto, invece, il loro aumento colpisce più le famiglie ad alto reddito che le famiglie a basso reddito in diversi paesi. In effetti, in un terzo dei paesi europei, le famiglie a reddito più elevato spendono quote maggiori del proprio reddito per la guida della propria auto rispetto alle famiglie a reddito più basso, il che riflette generalmente il possesso di un’auto che è meno comune e si concentra tra le famiglie a reddito più alto in questi paesi [13].

Il grafico mostra il rapporto tra il reddito speso per il trasporto dal 20% delle famiglie di reddito più alto e il 20% delle famiglie con il reddito più basso. 100 indica che entrambi i gruppi spendono parti uguali dei loro budget. Ad esempio, in Bulgaria, la quota di reddito dedicata ai costi di trasporto dal 20% delle famiglie più ricche è del 280% la quota del 20% delle famiglie con i redditi più bassi. Fonte: Indagine sul bilancio delle famiglie (2015) [13].

Nel nostro Paese, però, l’impatto dell’aumento dei costi di energia elettrica, gas e carburanti è stato molto più alto che in altri Paesi europei per una serie di ragioni: (1) non abbiamo l’energia nucleare e l’eolico off-shore nel mix delle fonti energetiche; (2) eravamo già prima della pandemia uno dei Paesi dell’UE che paga di più l’elettricità e il gas (si veda la mia analisi sul tema [4]); (3) le misure di mitigazione prese dal Governo negli scorsi mesi sono state largamente insufficienti e, in parte, mal concepite.

Non deve quindi stupire il fatto che la cronaca ci racconti una realtà del tutto diversa da quella fredda, edulcorata e spesso fatta di semplici “medie” dei modelli macroeconometrici. Non c’è giorno che a un gran numero di aziende italiane arrivino bollette “monstre” che le costringono – nel migliore dei casi – a fare a meno di qualche dipendente e, nel peggiore, a chiudere i battenti temporaneamente (come ad es. nel caso di alcuni hotel o di attività più energivore) oppure per sempre. Ripeto, per sempre.

Non è facile quantificare, al momento, l’impatto del caro-bollette sulle aziende in termine di “sofferenze” e di cessate attività. Tuttavia, quest’estate gli aumenti raggiunti dagli importi delle bollette luce e gas sono stati così elevati (da 3 a 5 volte più alti, se non addirittura di più, rispetto ai livelli dell’anno precedente) che non solo i settori industriali più energivori, ma anche la filiera della ristorazione, il settore alberghiero, gli allevamenti di bestiame e perfino la vendita al dettaglio ne sono stati fortemente colpiti.

Secondo un’analisi effettuata ad agosto da Confcommercio-Imprese, già solo per l’impennata dei prezzi delle materie prime energetiche e per l’inflazione, “di qui ai primi mesi del 2023 in Italia potrebbero “saltare” ben 120.000 aziende del terziario di mercato e 370.000 posti di lavoro” [6]. Complessivamente, la spesa in energia per i comparti del terziario nel 2022 ammonterà a 33 miliardi di euro, il triplo rispetto al 2021 (11 miliardi) e più del doppio rispetto al 2019 (14,9 miliardi).

Tra i settori più esposti, il commercio al dettaglio – in particolare la media e grande distribuzione alimentare, che a luglio ha visto quintuplicare le bollette di luce e gas – la ristorazione e gli alberghi, i trasporti (che oltre al caro carburanti, si trovano ora a dover fermare i mezzi a gas metano per i rincari della materia prima); ma sono colpiti anche i liberi professionisti, le agenzie di viaggio, le attività artistiche e sportive, i servizi di supporto alle imprese e il comparto dell’abbigliamento. E le aziende manifatturiere non possono far lievitare i prezzi dei loro prodotti per non perdere competitività rispetto a quelle estere.

“Intere filiere produttive, fra cui quella del legno-arredo, saranno costrette a fermare la produzione, a mettere i lavoratori in cassa integrazione ed a perdere competitività sui mercati. In pratica, già ad ottobre ci sarà il ‘black out’ della nostra filiera” [16]. È questo il grido d’allarme lanciato da Claudio Feltrin, presidente di FederlegnoArredo, che rappresenta una delle filiere più importanti del made in Italy nel mondo. Non è difficile prevedere, quindi che nei prossimi mesi la richiesta di cassa integrazione avrà un “boom”.

Ciò succederà perché – i politici sembrano ignorare questo aspetto – lo stop delle aziende energivore si ripercuoterà a cascata sull’intera filiera. E un discorso del tutto analogo si potrebbe fare per le filiere della chimica, dell’alimentare e di tanti altri settori merceologici. Quindi, se si fermano le aziende energivore, che sono il “canarino del minatore”, non si ferma solo la percentuale di aziende interessate direttamente dal caro-bolletta, ma anche l’indotto, per cui vi è una sorta di inquietante “effetto moltiplicatore”. E questo effetto sembra essere del tutto ignorato anche dagli studi degli organismi statali preposti!

Come raccontato a fine agosto da Piero Scandellari, presidente del Centergross di Bologna (la più grande area commerciale B2B europea della Moda Pronta italiana e dell’ingrosso), “abbiamo al nostro interno 680 aziende e già il 15 per cento di queste ci ha chiesto di staccare loro il gas. Sicuramente, molte devono ancora riaprire e siamo già a queste percentuali destinate a crescere. Ci aspettiamo sicuramente un intervento del Governo, ma è certo che il gas non ci sarà per tutti”.

Questi numeri rappresentano, però, solo la classica “punta dell’iceberg”, se si considera il fatto che per il prossimo autunno-inverno si presenta sempre più concretamente la necessità di un “lockdown energetico”, del quale peraltro poco trapela dal Governo, per quanto riguarda i dettagli operativi per famiglie e aziende, con una mancanza di programmazione, di comunicazione e, in generale, con una mala gestio che ricorda maledettamente quella della pandemia, già portata alla luce dal prof. Ricolfi nel suo saggio La notte delle ninfee e dal sottoscritto nelle analisi pubblicate dalla Fondazione Hume.

Inoltre, a causa degli insoluti di molte aziende, sempre più gli stessi fornitori di luce e gas o si rifiutano tout court di contrattualizzarle – nel qual caso finiscono alimentate, con sovraprezzi notevoli, dal cosiddetto “fornitore di ultima istanza” – oppure richiedono al cliente una fideiussione a garanzia, come racconta il già citato Scandellari: “l’ENI ci ha chiesto una fideiussione sulla metà di quelli che sono i nostri consumi medi annui, cioè 2,5 miliardi di metri cubi. E la vogliono nel giro di una settimana!” [5].

L’impennata dei prezzi del gas colpisce soprattutto chi compra a spot, “ma sono saltate anche fonderie che avevano contratti fissi, per il fallimento di fornitori”, spiega Dario Zanardi di Assofond [24]. In questa tempesta, il rischio di fermo produttivo è reale: “Dipende da tre variabili: non ci fermiamo se la domanda tiene, se i clienti accetteranno gli aumenti e se non saranno imposti razionamenti. Siamo in balia degli eventi e rischiamo molto, proviamo una grande frustrazione, in nostro potere non c’è nulla”. Insomma, è sempre più chiaro che il tessuto economico italiano questa volta rischia davvero di saltare.

Il “lockdown energetico” atteso per aziende, famiglie e Comuni

I siti di stoccaggio del gas quasi pieni consentono un qualche margine di sicurezza per i mesi invernali ma non sono risolutivi. Il Governo Draghi sta perciò preparando un piano su tre livelli di emergenza a seconda dell’aggravarsi della situazione [10] e, come altri paesi europei, si prepara al razionamento dell’energia, che verrebbe attuato sotto forma di una sorta di “lockdown energetico”, volto (si spera) a scongiurare l’incubo di blackout prolungati, che provocherebbero danni economici e sociali ancor maggiori.

Tra le misure del piano già scattate, c’è la riduzione della temperatura negli uffici pubblici, che non potrà essere superiore ai 19°C in inverno e inferiore ai 27°C in estate, cui si aggiungerà il taglio di un’ora nella durata di esercizio degli impianti ma, in caso di peggioramento della situazione, i tagli dovrebbero essere più drastici. Tuttavia, il contributo effettivo di tali misure è del tutto marginale, poiché è ben noto (fonte DOE [15]) che a una riduzione di 1°C sul termostato corrisponde un risparmio di appena l’1%!

Il piano potrebbe poi introdurre una riduzione di 2°C della temperatura nelle case limitando l’orario di accensione del riscaldamento in inverno (una misura nella pratica assai difficile da far rispettare, se non nei condomini dotati di riscaldamento centralizzato) e chiedendo ai Comuni di ridurre l’illuminazione pubblica nelle strade e sui monumenti fino al 40% dei consumi totali (anche in questo caso il contributo effettivo di questa misura è relativamente ridotto, e limitato praticamente ai soli orari notturni).

Al tempo stesso, gli uffici pubblici potrebbero chiudere in anticipo e anche ai negozi potrebbe essere chiesto di chiudere entro le 19 mentre i locali non dovrebbero rimanere aperti oltre le 23. In questo caso, quindi, si tratterebbe di un vero e proprio “lockdown” che non avrebbe nulla da invidiare a quello messo in atto durante la pandemia e che economicamente tanto male ha fatto a tutte le attività imprenditoriali. Reiterarlo, quindi, rende più facile immaginare il possibile disastro che si va prospettando. E tutto ciò potrebbe essere perfino insufficiente, in caso di chiusura totale del flusso di gas russo.

I rischi maggiori, tuttavia, riguarderebbero le industrie energivore, con la possibilità di subire un’interruzione della fornitura per un periodo limitato di tempo. Infatti l’Italia – come del resto altri paesi europei e non – ha da tempo implementato dei sistemi di incentivazione per aziende con grandissimi consumi, che accettano l’attivazione di un sistema transitorio di “interrompibilità energia elettrica” e “interrompibilità gas”. A fronte dell’eventualità di un’interruzione dell’approvvigionamento di energia elettrica e gas, l’azienda riceve dal Ministero un rimborso proporzionale al consumo.

L’esistenza di un piano siffatto, però, non vuol dire che le aziende e le famiglie, il prossimo autunno-inverno, siano al sicuro da guai ancora peggiori. Infatti, oltre al previsto ulteriore raddoppio degli importi delle bollette e al razionamento dell’energia, vi è comunque il rischio di possibili blackout elettrici improvvisi o imprevisti. Questo perché le reti di distribuzione sono complesse e non facili da gestire, sia per quanto riguarda l’interrompibilità (del gas) sia per quanto riguarda il distacco e il ripristino (dell’elettricità), in caso di squilibrio fra la potenza elettrica richiesta e quella disponibile in un dato momento.

Di recente, la premier francese Elisabeth Borne, intervistata dal canale tv TMC, ha avvertito che, se l’inverno sarà molto freddo, sarà necessario staccare la corrente a rotazione – per periodi di “non più di due ore” – alle abitazioni [19]. E, se ciò è quanto succederebbe in un Paese dotato di decine di centrali nucleari (dalle quali dipende per la produzione di circa il 67% della propria elettricità, mentre dal gas dipende appena per il 7%, da confrontarsi con il circa 40% dell’Italia), non è difficile immaginare per il nostro Paese uno scenario di blackout programmati del tutto simile o potenzialmente ben peggiore.

L’aumento impressionante del prezzo dell’elettricità in Italia negli ultimi mesi, all’interno di un arco di 3 anni (in alto) e degli ultimi 12 anni (in basso), a cui i due grafici si riferiscono. In figura sono riportati i prezzi medi mensili dell’indice Ipex della Borsa elettrica italiana Si noti come anche in questo caso, come per il gas, l’aumento sia stato di quasi 10 volte rispetto ai livelli pre-crisi. (fonte: elaborazione dell’Autore su dati del Gestore dei Mercati Energetici)

In Kosovo, uno dei paesi più poveri d’Europa, i blackout programmati sono già una realtà: la corrente si interrompe per 120 minuti (ovvero 2 ore) ogni 6 ore, risparmiando solo infrastrutture critiche come ospedali e alcune industrie [22]. Ciò potrebbe rivelarsi un preludio di quanto accadrà in seguito per le zone più ricche d’Europa. “Mantenere le luci accese quest’inverno sarà molto più impegnativo di quanto i governi europei ammettano”, ha dichiarato di recente un esperto. Chi è coinvolto nel settore sa che purtroppo ormai “è questione di quando, e non se, si verificherà un’escalation della crisi”.

“Il gestore della rete finlandese, in un raro esempio del tipo di trasparenza di cui c’è assolutamente bisogno, già ad agosto ha detto ai cittadini di prepararsi alle carenze quest’inverno. I governi europei hanno il dovere di chiarire con i loro elettori l’entità della crisi in arrivo. Ridurre al minimo la portata del problema o, peggio, fingere che non ci sia un problema, non manterrà la corrente in funzione questo inverno”, osserva Javier Blas, che scrive di energia e materie prime per Bloomberg.

Tuttavia, non è detto che in Italia si arrivi al razionamento ed ai blackout programmati. Questa potrebbe sembrare una buona notizia, ma non lo è, perché probabilmente significherebbe che siamo finiti nello scenario peggiore: quello per cui un grande numero di aziende, oltre a quelle più energivore, sono costrette a chiudere i battenti per sempre o, quanto meno, a fermare la produzione per alcuni mesi, con tutto quello che ciò comporta. Insomma, paradossalmente, il conseguente calo dei consumi di gas e di elettricità, insieme a quello delle famiglie costrette a consumare meno, potrebbe forse evitarci il lockdown. Non è fantasia: già a luglio, in Italia i consumi elettrici industriali sono crollati del 12% [42].

Nelle proiezioni macroeconomiche per l’economia italiana fornite a giugno dalla Banca d’Italia [14], le conseguenze per le attività economiche, nello scenario della sospensione della fornitura del gas dalla Russia a partire dai mesi estivi, sono esaminate nello “scenario avverso”. Poiché per l’Italia tale sospensione sarebbe solo parzialmente compensata ricorrendo ad altre fonti, nel documento si assumono inoltre le seguenti ipotesi: un impatto diretto di tale interruzione, in particolare sulle attività manifatturiere più energivore; un significativo aumento dei prezzi delle materie prime energetiche.

Ebbene, in queste ipotesi, per il PIL la Banca d’Italia prevede una crescita media praticamente nulla nel 2022, ed in calo di oltre 1 punto percentuale nel 2023. E probabilmente – come vedremo fra poco – queste stime sono perfino ottimistiche, poiché verosimilmente non tengono conto di tutta una serie di fattori, alcuni dei quali accennati nel presente articolo. È chiaro che più si riuscirà a limitare l’impiego di gas e più si riuscirà a contenere anche l’ascesa dei prezzi, ma nel frattempo le aziende rischiano di andare gambe all’aria una dopo l’altra, come in un domino; per cui, altro che -1% di PIL!

Infine – per completare il quadro – il presidente dell’ Anci (Associazione nazionale Comuni italiani), Decaro, e quello dell’Upi (Unione province italiane), De Pascale, hanno affermato in una dichiarazione congiunta che “è indispensabile che fra i provvedimenti urgenti del Governo sia compresa una misura di sostegno per i Comuni e le Province, in assenza della quale i bilanci degli enti locali sono destinati a saltare. È necessario uno stanziamento straordinario di almeno altri 350 milioni di euro per compensare l’impennata delle nostre spese energetiche, altrimenti i sindaci saranno costretti a tagli dolorosi dei servizi pubblici” [18].

I rischi socio-economici legati al possibile superamento di “soglie critiche”

La fornitura dell’energia nei 27 paesi dell’Unione Europea (escluso il Regno Unito) dipende essenzialmente da petrolio (33%, praticamente tutto importato), gas (24%, principalmente importato) e carbone (12%, principalmente importato) [8]. Altre fonti includono le rinnovabili (domestico), nucleare (essenzialmente domestico, poiché il combustibile stesso è una piccola parte del costo totale) ed elettricità importata. La Russia è per l’UE un importante fornitore di tutti e tre: petrolio, gas e carbone.

La discussione precedente ha chiarito che, a seconda di molti fattori – sia quelli che influenzano le decisioni russe sia quelli che influenzano la scelta e l’intensità delle sanzioni – vi è una sostanziale incertezza sulla futura evoluzione dei prezzi del gas, del petrolio e, di conseguenza, dei carburanti nell’Unione Europea. Il nostro Paese, però, anche a causa delle pessima gestione della pandemia da parte degli ultimi due Governi (di cui ho analizzato l’impatto sulle imprese in un mio precedente articolo [3]) non può permettersi ulteriori shock economici per aziende e famiglie, perché le prime rischierebbero l’estinzione.

Anzi, ora si rischia sul serio un’“estinzione di massa” come quelle verificatesi in passato sulla Terra, portando alla scomparsa di una frazione rilevante delle specie animali. Ma, nel caso dell’Italia, il danno non si fermerebbe alle estinzioni in sé di imprese e attività commerciali (ed alla perdita di occupazione associata), bensì si accompagnerebbe a maggiori rischi sistemici e ad una maggiore povertà. Infatti, i sussidi del Governo Conte alle imprese hanno comportato un enorme aumento del debito pubblico e, al tempo stesso, i prestiti garantiti dallo Stato hanno prodotto un forte aumento del debito privato.

Attualmente, come osservato da Antonio Patuelli, presidente dell’Associazione bancaria italiana [10], “è in corso un gravissimo terremoto finanziario, perché il prezzo del gas sta continuamente moltiplicandosi, il che rischia presto di creare una grave esplosione dei costi per le imprese, con il conseguente rischio di una spirale di crisi aziendali, quindi finanziarie e occupazionali”. Né più né meno di quanto avevo prospettato già nell’aprile 2021, a un livello di dettaglio molto più spinto, in un altro mio articolo sul “boom dei prezzi” e sulla “tempesta perfetta” per l’Italia [11], al quale rimando dunque il lettore interessato.

Oggi il rischio di fallimenti a catena di imprese e di istituti bancari è tutt’altro che irrealistico, e un ulteriore shockbancario e creditizio sarebbe per l’Italia insostenibile. Il successivo downgrade del rating dei Titoli di Stato italiani potrebbe completare l’opera, poiché sarebbe di fatto come il crollo di una diga. Del resto, già a ottobre 2020, il Governatore della Banca d’Italia Visco metteva in guardia gli Istituti di credito dalla nuova ondata di credi deteriorati [41]. Ed a novembre 2020 la BCE dichiarava: “Probabili fallimenti bancari dopo la pandemia”. Ora, con la crisi energetica, il rischio è rinnovato, ma è anche moltiplicato di entità.

Confronto tra (1) la rapida successione di fasi che ha portato nel 2007-08 dalla crisi dei mutui subprime alla Grande Recessione e (2) la possibile crisi catastrofica che potrebbe essere innescata da un grande numero di fallimenti fra imprese e soggetti economici privati sommato al downgrade del rating dei Titoli di stato italiani. In questo scenario, si rischierebbe il default di banche sistemiche e il “contagio” (principalmente via derivati) ad altri Paesi, per cui si potrebbe precipitare rapidamente in una situazione da incubo, potendosi attivare la “bomba nucleare” dei derivati a cui farebbero da “detonatore” i precedenti default bancari. (fonte: illustrazione dell’Autore, licenza Creative Commons)

Se il Governo non interviene, le aziende o scaricano i costi sui clienti o sospendono l’attività. Perciò Confcommercio ha chiesto al Governo di potenziare immediatamente il credito d’imposta anche per le imprese non energivore e non gasivore [25]. Un credito d’imposta del 15% per l’energia elettrica non è assolutamente adeguato agli extra-costi che le imprese stanno sostenendo ora. Occorre portarlo al 50%, ma presto, altrimenti si rischia d’innescare anche una spirale inflazionistica destinata a gelare i consumi. Il Governo, però, partorisce solo “pannicelli caldi”, e intanto qualcuno guadagna alle spalle di altri.

Infine, sebbene tutti gli italiani stiano sperimentando un aumento del costo della vita, l’energia rappresenta una quota maggiore dei budget di alcune famiglie rispetto ad altre, quindi lo shock energetico rischia di amplificare le disuguaglianze esistenti. Se a ciò si aggiunge l’aumento della criminalità e del degrado portato dalla mala gestio dell’immigrazione clandestina, è facile capire come il tessuto sociale italiano si avvicini sempre più pericolosamente verso livelli di lacerazione, o “punti di rottura”. E purtroppo nessuno sa dove si collochino esattamente le soglie critiche nei sistemi sociali ed economici.

Peraltro, pochi italiani sanno – perché nessuno glielo dice – che chi è in regola con le bollette elettriche deve oggi pure coprire alcuni buchi lasciati dai morosi: si tratta del cosiddetto “Cmor” o “corrispettivo morosità”. È questo, in sintesi, il contenuto di una delibera, la 50/2018, emanata dall’Autorità di regolazione per energia, reti e ambiente (Arera), che il 1° febbraio 2018 ha emanato un provvedimento che assegna ai consumatori – e non ai fornitori dell’energia – l’onere di rifondere i debiti per gli oneri generali di sistema accumulati dai morosi verso le aziende fornitrici a partire dal 1° gennaio 2016.

Gli oneri di sistema, dunque, devono sempre essere pagati dai fornitori di energia elettrica all’Authority che li ha decisi, anche sulle bollette non pagate per morosità o per altri motivi. Per ora, l’ Authority ha deciso di accollare a tutti i consumatori solo una parte degli oneri non pagati, pari a 200 milioni. E quindi, su bollette elettriche già cariche di oneri, da qualche anno si è aggiunto un nuovo prelievo a carico di chi paga regolarmente. Certo, in questi mesi gli oneri di sistema sono stati tagliati dalle bollette elettriche di famiglie e aziende con i decreti del Governo, ma questa misura è solo temporanea.

Già nel 2018, si stimava attorno al miliardo di euro l’insoluto totale delle bollette elettriche non pagate dai morosi [33]. Prima di allora, diverse aziende elettriche erano entrate in crisi, e qualcuna aveva addirittura dovuto chiudere i battenti, per questo il Governo intervenne introducendo il Cmor. D’altra parte, poiché la coperta evidentemente è corta, qualcuno dovrà pur pagare i crescenti insoluti dei clienti: se non i consumatori, le aziende fornitrici di elettricità (sempre più a rischio fallimento, come dimostravano già i numerosi default dello scorso anno in Cina, in Gran Bretagna e in altri paesi) o il Governo.

I leader europei dovrebbero dunque prendere atto del fatto che applicare sanzioni contro la Russia sul gas e sul petrolio è stata una scelta “improvvida”, per usare un gentilissimo eufemismo. L’Europa occidentale ha deciso di suicidarsi, in un senso che appare sempre meno metaforico e sempre più letterale. I nostri politici devono scegliere: o due anni di recessioni e probabili default a catena (forse pure di paesi) o addio sanzioni. E intanto l’Ungheria, membro dell’UE, si accorda con Gazprom [29] per avere 5,8 milioni di metri cubi al giorno in più (poco meno di un terzo di quanti ne riceveva l’Italia a fine agosto!).

Cosa potrebbe succedere e perché vedo il futuro dell’Italia assai “nero”

Credo che a questo punto risulti piuttosto evidente al lettore che, qualora si superassero determinate soglie critiche per il perseverare di scelte improvvide, e nell’incapacità di rimediare in tempi brevi agli errori fatti in precedenza, si potrebbe lacerare in modo irreparabile il tessuto economico e sociale del nostro Paese, innescando una spirale di effetti a catena difficile da arginare e con effetti potenzialmente sistemici. Peccato, però, che l’Italia sia too big to fail, non sia la piccola Grecia condannata da Draghi & Co.!

Le avvisaglie di ciò che nel giro di un anno potrebbe succedere nel nostro Paese in questa situazione sempre più potenzialmente esplosiva all’estero ci sono già. E non mi riferisco al movimento contro il caro-vita Don’t pay UK, nato nel Regno Unito e che spinge affinché le famiglie si rifiutino di pagare le bollette a partire da ottobre [27]. Infatti, il mancato pagamento comporterebbe seri rischi, tra cui l’accumulo di debiti e l’impatto sui punteggi di credito dei clienti; pertanto, un’iniziativa del genere “funzionerebbe” solo se vi aderisse un numero di persone elevato, ben più dei circa 100.000 del Regno Unito.

Lo spread BTP-Bund è in forte risalita, dopo un breve periodo di stabilizzazione su bassi livelli. Che valori raggiungerebbe se si verificassero gli scenari più pessimistici a seguito della crisi energetica o se le famiglie italiane smettessero in massa di pagare le bollette luce e gas per i costi insostenibili? Infine, è da considerarsi un caso che lo spread abbia toccato il minimo degli ultimi 5 anni con il Governo Conte e abbia iniziato un’inversione di tendenza (cioè una salita) da quel minimo proprio in coincidenza con l’insediamento del Governo Draghi?

Penso, piuttosto, alle dimostrazioni di massa e rivolte che ci sono in diversi paesi sudamericani, in Egitto e perfino in Olanda, nel silenzio dei giornali italiani. Ma, come spiegano Becchi & Zibordi [28], “l’esempio più eclatante dell’effetto distruttivo sulle vite umane delle politiche delle élite occidentali lo si è visto nello Sri Lanka, che oggi è nel caos. La ragione dichiarata è che la nazione è in bancarotta, soffrendo la peggiore crisi finanziaria degli ultimi decenni e milioni di persone stanno lottando per trovare cibo, medicine e carburante. La carenza di energia e l’inflazione sono stati i principali fattori alla base della crisi”.

Come raccontano gli autori del pezzo, “i manifestanti hanno fatto irruzione nelle residenze ufficiali del Primo Ministro e del Presidente, che per paura sono fuggiti”. I leader politici del Paese avevano seguito alla lettera le direttive delle élite “verdi” occidentali che chiedevano agricoltura biologica sostenibile, seguendo criteri ambientali, sociali e di governance rivolti a ridurre la CO2 (di cui sono pieni anche i piani dell’UE). Inoltre, là il lockdown dovuto al Covid-19 è stato imposto in modo drastico (vi ricorda qualcosa?), sempre perché i leader del Paese erano allineati con le direttive dell’OMS e degli Stati Uniti.

In pratica, nell’aprile 2021 in Sri Lanka sono stati vietati i fertilizzanti sintetici, usati dal 90% degli agricoltori locali, e così successivamente l’85% di questi ha subito perdite di raccolto, con un crollo nella produzione di riso e un aumento dei prezzi del 50% in sei mesi. Il prezzo di carote e pomodori è aumentato di cinque volte. Alla fine dello scorso agosto, il presidente Rajapaksa aveva dichiarato lo stato di emergenza e, dopo di allora, il caos e la violenza sono aumentati fino a quando i leader sono tutti dovuti scappare e nelle loro ville campeggiano ora i manifestanti. La miccia di tutto? Una scelta politica improvvida.

Come, del resto, improvvide sono le sanzioni attuate nei confronti della Russia dai paesi europei, che non hanno valutato il rapporto rischi-benefici delle singole misure che stavano andando ad applicare, esattamente come – non molti mesi prima – non avevano neppure lontanamente valutato il rapporto rischi-benefici (che oggi sappiamo essere certamente sfavorevole per le persone non anziane e prive di co-morbidità) dei vaccini anti-Covid, di fatto imposti ai cittadini europei ed in particolare a quelli italiani. Insomma, di questa Europa c’è davvero da avere paura quando si tratta di questioni vitali.

Peraltro, la Russia ha guadagnato moltissimo dalle sanzioni dell’UE sul gas e sul petrolio, dato che queste hanno fatto impennare i relativi prezzi di mercato, e di certo gli acquirenti asiatici che possano sostituire in buona parte quelli europei non mancano. Quindi, anche da un punto di vista strettamente logico, perseverare con queste sanzioni dimostra la totale mancanza di buon senso di chi prende queste decisioni. Del resto, la mancanza di buon senso – e un notevole livello di ignoranza – si nota anche nel dibattito della politica su questi temi, il che non fa certo ben sperare nella soluzione dei problemi impellenti.

L’Italia si distingue sempre nel panorama europeo. Ho ancora nella mente un articolo [30] in cui i ristoratori di Lucca esprimono la loro rabbia per il caro-bollette, ma non per l’aumento in sé – o meglio non solo per quello – ma soprattutto per il fatto che, a causa di vincoli della Soprintendenza, viene loro impedito di installare i pannelli fotovoltaici che permetterebbero di salvare le loro attività. Ma è veramente incredibile vedere come in tutti questi mesi il Governo e il Ministro competente in materia non abbiano trovato il modo di rimuovere tali ostacoli, favorendo concretamente la transizione alle rinnovabili.

Ancora una volta, in effetti, si è vista la cecità del Governo nell’affrontare un maxi-problema, già vista con la pandemia. Esattamente come in quel caso si è scelta una gestione una gestione “centralizzata” e in sostanza monotematica – somministrazione di vaccini ignorando praticamente del tutto l’esistenza di farmaci efficaci in fase di prevenzione e di cura, snobbando così le cure domiciliari – oggi con il caro-bollette Governo e Ministero non fanno informazione sulle possibili soluzioni di risparmio energetico, né spingono la popolazione ad adottarle, pensando che siano sufficienti le soluzioni “calate dall’alto”.

Già nel caso del Covid abbiamo visto che puntare solo sulle soluzioni calate dall’alto – vaccini e anticorpi monoclonali, questi ultimi soltanto per Massimo Galli ed i pochi fortunati che hanno potuto usufruirne – non solo non ha evitato un gran numero di morti per Covid e per effetti avversi, ma addirittura si è rivelato un boomerang, se si considera che gli effetti avversi dei vaccini potrebbero essere anche largamente sottostimati perché a lungo termine, se non addirittura trans-generazionali. Con l’energia si sta ripetendo pari pari lo stesso errore, invece di coinvolgere la popolazione per un’azione anche dal basso.

Eppure, basta leggere il mio precedente articolo sul tema [31] per avere già alcuni esempi delle tante cose che le persone potrebbero fare per risparmiare notevolmente sulla spesa energetica (ad es. su quella per il riscaldamento invernale, che ne costituisce la voce principale). Ma se le persone non le si informa, come potranno mai contribuire alla rapida soluzione del problema energetico, che non lascerà a famiglie e ad aziende il tempo per attendere molte delle soluzioni “calate dall’alto”? In tale mancanza di informazione, purtroppo, anche i media hanno un ruolo, poiché sono quasi del tutto latitanti.

I meccanismi di formazione dei prezzi e le soluzioni adottate in altri Paesi

La struttura del mercato del gas può oggi essere vista come costituita da una Russia monopolista di fronte a un gran numero di acquirenti dell’UE che possono acquistare gas da altre fonti, ma solo a un costo in forte aumento. Come detto, anche in assenza di sanzioni, la Russia potrebbe voler aumentare il suo prezzo e ridurre l’offerta. Ciò, però, non spiega perché gli italiani paghino ora delle bollette gas e luce salatissime, quando il gas venduto loro – o usato per produrre elettricità – è stato in buona parte acquistato dai big player con contratti a medio o lungo termine, cioè a prezzi ben più bassi di quelli attuali.

Il gas è utilizzato fondamentalmente nella generazione di elettricità (per circa 1/3), per industria e servizi (circa 1/3) e per famiglie (un po’ meno di 1/3). È molto sostituibile in alcuni dei suoi usi (l’elettricità generata dal gas può essere sostituita da elettricità generata da altre fonti), ma assai meno per alcuni altri (un sistema di riscaldamento a gas non può bruciare petrolio o carbone). In media, Il gas russo rappresenta l’8,4% della fornitura di energia primaria nell’UE, ma ci sono ampie variazioni tra gli Stati: il Portogallo non importa gas dalla Russia, mentre l’Italia nel 2021 ne importava circa il 40% del suo fabbisogno.

Rispetto alla media della UE, il mix energetico italiano nel periodo pre-crisi si contraddistingueva per una quota maggiore di energia prodotta con il gas naturale e un peso minore di quella prodotta con il carbone e altri combustibili fossili solidi, oltre che per l’assenza di energia nucleare. Con particolare riferimento alla generazione elettrica, dal gas naturale si ottiene fino al 50% dell’elettricità prodotta nel Paese, contro il 20% circa dell’UE [35]. Pertanto, il nostro Paese dipende fortemente dal prezzo del gas, ed è interessante capire il meccanismo attraverso il quale esso si ripercuote sulle maxi-bollette di gas e luce.

A Rotterdam, esiste un mercato (il TTF) in cui viene trattata solo una piccola percentuale del gas consumato in Europa: quello che arriva per nave liquefatto (ad es. dagli USA) e che in buona parte non è soggetto a contratti a lungo termine [17]. Questo è un mercato cosiddetto “spot”, cioè dove compri e vendi ogni giorno. È solo il prezzo al TTF che nell’ultimo anno è esploso, ma esso rappresenta una piccola parte del gas totale che ci arriva ed è consumato. Tuttavia, anche tutto il resto del gas (e di conseguenza) l’elettricità venduti all’ingrosso sono esplosi di prezzo seguendo il piccolo mercato olandese. Perché?

Semplice, poiché è in atto una speculazione bella e buona (specie da parte di grossisti e big player), come messo in evidenza sia dal sottoscritto in una lunga e dettagliata analisi [26, 31], sia da Becchi & Zibordi [17], i quali osservano come “il prezzo dell’80 o 90% del gas che ci arriva via gasdotto non sia in realtà variato” (in quanto acquistato anni prima con contratti a medio o lungo termine). Ma è difficile – oltre che del tutto insufficiente per mettere un freno a questo andazzo – ottenere un tetto europeo al prezzo del gas come ha chiesto l’Italia. Le resistenze della Germania e dell’Olanda, infatti, non sembrano superabili.

Nel caso dell’elettricità, a questo effetto speculativo si somma poi il meccanismo di formazione del prezzo sulla Borsa elettrica, che è il cosiddetto criterio del prezzo marginale [4]: le offerte di energia elettrica vengono accettate in ordine di prezzo crescente, fino a quando la loro somma in termini di kWh arriva a soddisfare la domanda, dopodiché il prezzo del kWh dell’ultimo offerente accettato (quindi quello più alto) viene attribuito a tutte le offerte. Questo meccanismo andava bene trent’anni fa, quando le rinnovabili avevano una quota marginale, ma certamente non più oggi; oltretutto, anche i costi di produzione delle centrali idro-elettriche sono ora molto più bassi di quello del gas.

Il perverso criterio del prezzo marginale nella formazione del prezzo giornaliero alla Borsa elettrica, che fa piacere soprattutto ai produttori di elettricità che posseggono grandi impianti a fonti rinnovabili ma molto meno al consumatore finale. (fonte: G.B. Zorzoli / Quale Energia [43])

L’Unione Europea – seppure con grande e colpevole ritardo – sta perciò lavorando al “disaccoppiamento” dei prezzi dell’energia elettrica da quelli del gas, come da tempo richiesto da Spagna, Portogallo (che usano pochissimo gas e molte rinnovabili per produrre energia elettrica), Francia (che usa soprattutto il nucleare), e ora anche dalla Germania [40]. Così si impedirebbe alla Russia di dettare all’Europa i prezzi dell’elettricità con l’interruzione parziale o totale delle forniture di gas, sebbene non ci si potesse certo ingenuamente aspettare che Putin reagisse in modo diverso alle durissime sanzioni inflitte al proprio Paese.

Oltretutto, per le aziende esiste un tema di competitività sia rispetto alle imprese europee che extra-europee, che godono di prezzi energetici inferiori ai nostri. Alcuni Paesi hanno introdotto importanti agevolazioni che noi invece non abbiamo. Ad es. la Bormioli ha uno stabilimento in Spagna che, grazie al tetto al prezzo del gas introdotto dal Governo spagnolo, si rifornisce a prezzi molto più bassi di quelli italiani [32]. L’unica soluzione di rapida attuazione sarebbe quella di introdurre un tetto al prezzo del gas. In assenza di interventi, sia a livello europeo che nazionale, avremo un autunno di forti tensioni sociali.

Sia la Spagna che il Portogallo traggono oggi i frutti di un tetto massimo del costo del gas che è stato di recente introdotto in entrambi i paesi [39]. Il prezzo massimo è stato concordato dalla Commissione Europea (ottenendo nel contempo l’Autorizzazione a disconnettere temporaneamente la Penisola iberica dal mercato elettrico dell’UE) e il prezzo del gas utilizzato per la produzione di energia elettrica è stato fissato a 40 euro per MWh. Tenendo conto degli aumenti in corso, che probabilmente saranno necessari, si prevede che il limite di prezzo raggiungerà una media di 50 € nei prossimi 10 mesi. Il governo spagnolo si è assicurato un accordo sul fatto che rimarrà in vigore fino al 31 maggio 2023.

Spagna e Portogallo occupano una posizione unica all’interno dell’UE, perché non dipendono dalle forniture russe per il loro gas naturale come altre nazioni. La loro posizione geografica significa che importano la maggior parte delle loro forniture di gas dall’Algeria e da altri paesi. Altri vantaggi unici di Spagna e Portogallo sono che la Spagna è il paese con la più grande capacità di stoccaggio e rigassificazione del gas in Europa (ha ben 6 rigassificatori) e che il Portogallo è un leader nel settore delle energie rinnovabili nel mercato europeo. Producono una notevole quantità di energia solare, idraulica ed eolica.

Entrambe le nazioni hanno forniture energetiche incredibilmente autosufficienti. A causa della loro posizione vantaggiosa, si sono definiti un’“isola dell’energia”. Sia il primo ministro spagnolo Pedro Sánchez che il suo omologo portoghese António Costa hanno utilizzato proprio questo termine. I due paesi rappresentano dunque un esempio virtuoso da seguire (la Spagna, fra l’altro, lo è stato anche nella gestione della pandemia, dove ha avuto molti meno morti e contraccolpi economici non introducendo alcun Green Pass). Dunque, questi due paesi oggi risentono ben poco della crisi energetica.

Anche la Francia si è mossa con intelligenza per risolvere il problema. Ha chiesto alla principale società elettrica di limitare l’aumento dei prezzi al 4% per il 2022 e fino a soddisfare la domanda a quel prezzo, chiedendo così all’azienda di assorbire una buona parte del costo, determinando una forte diminuzione anticipata dei flussi di cassa e una grande diminuzione del valore di mercato [8]. Ciò comporta un’inefficienza, in quanto il prezzo è inferiore al costo marginale, ma consente un aumento ampio del surplus del consumatore, a costo di una maggiore diminuzione del surplus del produttore.

L’Italia, invece, ha scelto strade inadeguate sia rispetto al tipo sia alla portata del problema. Infatti, ha puntato, da una parte, su una sorta di “sussidi” (peraltro non automatici) per le fasce più povere – ma i sussidi non diminuiscono la domanda di energia, contribuendo così a mantenere alti i prezzi dell’energia [8] – e, dall’altra, sulla tassazione del 25% degli “extraprofitti” delle società del settore energetico, rivelatasi un vero e proprio “flop”, con solo 1 miliardo incassato a fronte dei circa 5 previsti. Peraltro, un’aliquota del 25% è ridicolmente bassa. E meno male che quello di Draghi era il Governo dei “migliori”!

Qualche suggerimento non richiesto ai nostri futuri governanti

I rischi per il nostro Paese credo che siano stati ben illustrati in questo mio articolo, e dipenderanno dalle soluzioni attuate o meno nel frattempo. Nel breve periodo, come sottolineato dalla Relazione annuale della Banca d’Italia [34], “la possibilità di ricorrere a fornitori alternativi è limitata ai paesi già collegati attraverso gasdotto (Algeria, Azerbaigian, Libia, Norvegia e Paesi Bassi) e alle importazioni via nave di gas naturale liquefatto, tenendo conto della capacità di rigassificazione degli impianti esistenti. Nel medio periodo, un contributo essenziale potrà derivare da maggiori investimenti in fonti rinnovabili”.

In realtà, gli investimenti e gli investitori nelle rinnovabili in Italia ci sarebbero, ma sono bloccati a livello autorizzativo. La soluzione per aumentare l’indipendenza energetica e ridurre la bolletta elettrica è l’installazione di 60 GW di nuovi impianti da fonti rinnovabili nei prossimi tre anni, come spiegato [36] dal presidente di Elettricità Futura, Agostino Re Rebaudengo, il quale chiede al Governo di “autorizzare 60 GW di nuovi impianti da rinnovabili, pari a solo un terzo delle domande di allaccio già presentate a Terna. Essi faranno risparmiare 15 miliardi di Smc di gas ogni anno, ovvero il 20% del gas importato!”.

Questi 60 GW di nuove installazioni – che, darebbero un contributo oltre 7 volte superiore rispetto a quanto il Governo stima di ottenere con l’aumento dell’estrazione di gas nazionale – potrebbero provenire per 12 GW da eolico, idroelettrico e bioenergie e per 48 GW dal fotovoltaico. Se poi per ipotesi i 48 GW di fotovoltaico fossero tutti realizzati su superficie agricola, si utilizzerebbe appena lo 0,3% della superficie totale, oppure l’1,3% della superficie agricola già oggi abbandonata. Peraltro, gli impianti agrovoltaici previsti non sottrarrebbero neanche un metro quadrato di terreno!

Ciò in attesa degli accumuli elettrici (2025) e dell’eolico off-shore per aumentare la stabilità della rete. I costi di produzione di energia attraverso le rinnovabili, fra l’altro, sono calati moltissimo nell’ultimo decennio [37]: “Tra il 2010 e il 2021 i costi di produzione dell’elettricità degli impianti fotovoltaici si sono ridotti dell’88 %, mentre nello stesso periodo i costi di produzione degli impianti eolici si sono ridotti del 68%. Dati gli elevati costi di produzione dell’energia legati all’aumento del prezzo del gas, in Europa nel 2022 la produzione di energia da fonti rinnovabili è stata nettamente meno costosa”.

Già oggi le aziende che hanno investito per aumentare l’autosufficienza energetica, puntando sull’autoproduzione di energia attraverso il solare, “stanno godendo di un guadagno di competitività clamoroso verso i concorrenti”. Chi menziona il nucleare di nuova generazione come soluzione del problema energetico probabilmente non sa che una centrale nucleare impiega in media circa 14 anni e mezzo per essere costruita [38], dalla fase di progettazione fino alla messa in funzione. Pertanto, occorre puntare forte sulle rinnovabili, rimuovendo soprattutto i vincoli burocratici e amministrativi.

Da gennaio a giugno, invece, in Italia – come spiega un esperto [42] – “sono stati autorizzati grandi impianti per appena 2 GW, mentre avrebbero dovuto essere come minimo 10 volte tanto. Nel nostro Paese c’è ancora un grave problema di iter amministrativo e autorizzazioni. Questo stallo dipende prevalentemente dall’incapacità dello Stato di conciliare lo sviluppo delle rinnovabili con le strutture amministrative regionali e con il Ministero dei beni culturali. La procedura ‘VIA’ nazionale è di fatto bloccata, e le Regioni approvano a macchia di leopardo in maniera umorale. Gli unici impianti eolici di grande taglia sono stati autorizzati direttamente per firma del presidente del Consiglio. Vogliamo affrontare la crisi cosi?”.

Non c’è più spazio per il gas nel nostro sistema energetico verso la neutralità climatica: il gas continuerà a ricoprire un ruolo di accompagnamento della transizione energetica ma dovrà ridursi del 30% entro il 2030, in tutte le tipologie di consumo (per il riscaldamento, per i processi industriali, etc.) ma soprattutto nella generazione elettrica, perché è lì che disponiamo già in abbondanza di una alternativa sicura, efficace ed economica: le fonti rinnovabili, appunto, cui si aggiungeranno in futuro le rinnovabili basate sulle LENR (Low Energy Nuclear Reaction), che sembrano uscite da un libro di fantascienza ma sono reali.

Inoltre, non è pensabile di risolvere il problema energetico italiano agendo su solo uno o due fattori. Come illustrai a suo tempo in un mio lungo articolo [4], esistono ben 10 fattori che già prima della pandemia rendevano le bollette delle aziende e delle famiglie italiane fra le più care dell’Unione Europea. Frutto in molti casi di “favori” alle lobby di turno, negli anni sono state introdotte anche delle riforme che hanno disincentivato il passaggio alle fonti rinnovabili degli utenti. Quindi, se si vuole realmente prendere di petto la questione, occorre studiarsi per bene quelle 10 cause e intervenire sul maggior numero possibile.

Come osservato da Matteo Leonardi, co-fondatore e direttore esecutivo di ECCO, il think tank indipendente per il clima, il Governo Draghi ha tolto gli oneri di sistema dalle bollette elettriche “indipendentemente dai livelli di consumo e anche per le seconde case. Le misure per le famiglie sono quindi generiche e non selettive, mentre quelle per le imprese non sono sufficienti né pensate per soluzioni strutturali, di efficienza e produzione rinnovabile, anche impiegando le risorse del PNRR. Inoltre, il disaccoppiamento del prezzo del gas da quello dell’elettricità ha senso, ma solo se viene fatto non come misura di emergenza ma nell’ottica di una riformulazione complessiva del disegno del mercato elettrico” [42].

Si noti che il lockdown energetico (o “lockdown produttivo”) non si avrebbe solo in caso di futuri blackout programmati, ma si ha già ora per quelle attività produttive i cui costi dell’energia sono tali che esse sono costrette a fermarsi per non lavorare in perdita. Purtroppo, mi è capitato in più occasioni di rendermi conto che il dibattito pubblico su questi argomenti è viziato da una conoscenza della materia generalmente molto scarsa, il che rende difficile ai decisori politici di intervenire in maniera corretta, come abbiamo visto negli scorsi mesi con le misure adottate dal Governo, che non stanno evitando la morìa di imprese.

In più, abbiamo una carta stampata omologata (con poche lodevoli eccezioni), social network con la censura sempre pronta se non sei allineato, politiche sempre più coercitive e restrittive delle libertà, povertà in costante aumento, immigrazione incontrollata che aumenta la criminalità, il degrado delle città ed alimenta lo scontro sociale. Da arma di “distrazione di massa”, le fake news e le veline di regime veicolate dai media mainstream rischiano ora di diventare un’arma di “distruzione di massa” per il nostro Paese. Il tempo stringe, urge un’inversione di rotta, o arriverà presto la fine che tutti temiamo.

Mario Menichella (fisico e divulgatore scientifico) – m.menichella@gmail.com

Riferimenti bibliografici

[1]  Guenette G.D. & Khadan J., “The energy shock could sap global growth for years”, Blog della World Bank, worldbank.org, 22 giugno 2022.

[2]  Office for National Statistics of the United Kingdom, “Energy prices and their effect on households”, ons.gov.uk, 1° febbraio 2022.

[3]  Menichella M., “Gli effetti della pandemia economica in Italia: perché la ‘variante imprese’ rischia di dilagare”, Fondazione David Hume, 10 febbraio 2022.

[4]  Menichella M., “Le 10 cause del caro-bolletta energetica italiano: anatomia di un disastro”, Fondazione David Hume, 10 gennaio 2022.

[5]  Raschi M., “Moltissime aziende ci hanno già chiesto di staccare il gas”, Il Resto del Carlino, 28 agosto 2022.

[6]  Redazione, “Confcommercio: a rischio 120mila imprese e 370mila posti”, askanews.it, 25 agosto 2022.

[7]  Benassy-Quere A., “Energy crisis: Europe by candlelight?”, tresor.economie.gouv.fr, 27 maggio 2022.

[8]  Blanchard O. & Pisani-Ferry J., “Fiscal support and monetary vigilance: Economic policy implications of the Russia-Ukraine war for the European Union”, piie.com, aprile 2022.

[9]  Battistini N. et al., “Energy prices and private consumption: what are the channels?”, European Central Bank, ecb.europa.eu, marzo 2022.

[10]  Giubilei F., “Il prezzo del gas va alle stelle. Verso un inverno con razionamento”, il giornale.it, 26 agosto 2022.

[11]  Menichella M., “Il ‘boom’ dei prezzi e l’impatto del lockdown: l’Italia rischia ora la ‘tempesta perfetta’”, Fondazione David Hume, 21 aprile 2021.

[12]  Germany Country Team dell’IMF, “Germany Faces Weaker Growth Amid Energy Concerns”, International Monetary Fund, imf.org, 21 luglio 2022.

[13]  Blake H. & Bulman T., “Surging energy prices are hitting everyone, but which households are more exposed?”, Ecoscope, oecdecoscope.blog, 10 maggio 2022.

[14]  Eurosystem Staff Economic Projections, “Macroeconomic Projections for the Italian Economy”, Banca d’Italia, 10 giugno 2022.

[15]  Crank J., “How Much Can You Save By Adjusting Your Thermostat?”, Direct Energy Blog, 10 aprile 2018.

[16]  Redazione, Feltrin “Senza misure contro caro-bollette, a ottobre black out filiera legno-arredo”, Italpress, 31 agosto 2022.

[17]  Becchi P. & Zibordi G., “Cosa c’è (davvero) dietro gli aumenti dell’elettricità”, nicolaporro.it, 26 luglio 2022.

[18]  Redazione ANSA, “Energia: Anci e Upi, altri 350 milioni o tagli ai servizi”, ansa.it, 31 agosto 2022.

[19]  Redazione, “Gazprom ferma il Nord Stream 1. Eni: ‘Consegne di gas ridotte’. La premier francese: ‘In inverno potremmo dover staccare la luce alle case’”, ilfattoquotidiano.it, 31 agosto 2022.

[20]  Dipartimento per le Libertà civili e l’Immigrazione, “Sbarchi e accoglienza dei migranti: tutti i dati – Cruscotto statistico del 1° settembre 2022”, interno.gov.it, 1° settembre 2022.

[21]  Cadeddu G., “Migranti, gli sbarchi in Italia dal 1997 al 2022: i dati del Viminale”, tg24sky.it, 12 maggio 2022.

[22]  Fotia F., “Escalation della crisi energetica, dai blackout in Kosovo all’allerta della Finlandia”, meteoweb.eu, 27 agosto 2022.

[23]  International Energy Agency, “How Europe can cut natural gas imports from Russia significantly within a year”, iea.org, 3 marzo 2022.

[24]  Giannoni A., “Industrie a rischio stop: ‘Energia, costi impazziti’”, il giornale.it, 1° settembre 2022.

[25]  Redazione, “Emergenza energia, ‘Occorre agire subito’”, confcommercio.it, 26 agosto 2022.

[26]  Menichella M., “Le speculazioni sul gas che stanno creando il caro-bollette. E le Authority stanno a guardare…”, Fondazione David Hume, 4 marzo 2022.

[27]  Allocca A., “’Non pagate più le bollette di gas ed elettricità’: in UK nasce il movimento contro il caro vita, londraitalia.com, 10 agosto 2022.

[28]  Becchi P. & Zibordi G., “Energia, inflazione, follie green: cosa imparare dalle rivolte in Sri Lanka”, nicolaporro.it, 11 luglio 2022.

[29]  Redazione ANSA, “Ungheria firma contratto con Gazprom, +5,8 mln metri cubi”, ansa.it, 31 agosto 2022.

[30]  “Caro bollette, la rabbia dei ristoratori di Lucca: ‘No ai pannelli solari perché l’area è protetta’”, tgcom24.mediaset.it, 30 agosto 2022.

[31]  Menichella M., “Le possibili soluzioni del problema del caro-bollette per evitare il ‘lockdown energetico’”, Fondazione David Hume, 9 maggio 2022.

[32]  Redazione, “Caro energia, il distretto del vetro e delle piastrelle verso il fermo: ‘Forni spenti in attesa che il governo intervenga. Da settembre i dipendenti saranno in cassa’”, ilfattoquotidiano.it, 31 agosto 2022.

[33]  Giliberto J., “Le bollette elettriche non pagate saranno (in parte) a carico degli altri utenti”, ilsole24ore.com, 14 febbraio 2018.

[34]  Redazione, “Gas russo, Bankitalia fa il punto: ‘Fino a oggi il 43% del gas in Italia importato da Mosca’”, globalist.it, 31 maggio 2022.

[35]  I4C – Italy for Climate, “L’Italia produce il 50% dell’elettricità da gas, la più alta in UE”, italyforclimate.org, 10 giugno 2022.

[36]  “Re Rebaudengo (Elettricità Futura) sul caro bollette: ‘Il Governo autorizzi 60 GW di nuovi impianti da FER entro giugno 2022’”, Solare B2B, 28 febbraio 2022.

[37]  “Caro energia, Ref ricerche: ‘Per l’area euro costo di almeno 500 miliardi. I settori energivori ridurranno la produzione a favore dei concorrenti extra Ue’”, ilfattoquotidiano.it, 29 agosto 2022.

[38]  Jacobson M.Z., “Le 7 ragioni per cui l’energia nucleare non è la risposta per risolvere il cambiamento climatico”, greenreport.it, 3 gennaio 2022.

[39]  Redazione, “Spanish Energy Price Cap Introduced Across Spain”, rightcasa.com, 15 luglio 2022.

[40]  De Re G.M., “Bruxelles. La Ue ora si prepara a ‘sganciare’ i prezzi dell’energia da quelli del gas”, avvenire.it, 30 agosto 2022.

[41]  Scorzoni M.T., “Visco: “Covid, shock senza precedenti: farà qualche vittima tra le banche”, First online, 22 ottobre 2020.

[42]  Redazione, “Caro energia, Leonardi (Ecco): ‘Per affrontarlo indispensabile ridurre i consumi. I rigassificatori? Scommessa con rischi a carico dei cittadini’”, ilfattoquotidiano, 3 settembre 2022.

[43]  Zorzoli G.B., “La formazione del prezzo dell’elettricità e le rinnovabili”, qualenergia.it, 18 febbraio 2021.