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Perché agli italiani non è piaciuto l’esperimento Albania?

25 Ottobre 2024 - di Luca Ricolfi

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Nei giorni infuocati dei trasferimenti di migranti in Albania mi domandavo: ma come la pensano gli italiani? la maggioranza degli elettori sta con Giorgia Meloni, o condivide invece le severe critiche dell’opposizione? l’operazione Albania sta spostando consensi elettorali verso destra o verso sinistra?

Ora, grazie a un buon numero di sondaggi usciti negli ultimi giorni, possiamo azzardare qualche risposta. A prima vista, si direbbe proprio che gli italiani non abbiano gradito. Se, usando le domande dei vari questionari, dividiamo grossolanamente le risposte fra favorevoli e contrarie alla politica migratoria del governo, invariabilmente dobbiamo constatare che le critiche sono maggiori dei consensi. Secondo un sondaggio di Euromedia Research, le proporzioni fra sfavorevoli e favorevoli sono, a seconda del quesito, 54 a 37, oppure 53 a 28, oppure 49 a 34 (trascuro sempre gli indecisi). Secondo un sondaggio di YouTrend la proporzione è 55 a 45. Secondo un recentissimo sondaggio Swg la proporzione è 48 a 39. Insomma: secondo tutti i sondaggi, gli italiani bocciano l’operazione Albania.

Potremmo fermarci qui, se non fosse per due complicazioni. La prima è che, nello stesso momento in cui i sondaggi sull’opinione pubblica certificano che la gente non apprezza il modello Albania, i sondaggi elettorali non confermano il trend: il consenso ai partiti di centro-destra non cala, anzi ci sono segnali di un ulteriore rafforzamento, con Fratelli d’Italia ormai stabilmente prossimo al 30% dei consensi. Ma c’è anche una seconda complicazione: i sondaggi di questi giorni, a esaminarli attentamente, forniscono una serie di indizi che attenuano l’immagine di un’opinione pubblica risolutamente ostile all’esperimento albanese. Per leggerli, dobbiamo cambiare la domanda: anziché chiederci se gli italiani sono pro o contro quell’esperimento, dobbiamo chiederci quali sono le ragioni per cui sono contro. Ebbene, se spostiamo l’attenzione sulle ragioni, scopriamo diverse cose interessanti. Ad esempio, che sono relativamente pochi i cittadini che osteggiano l’esperimento albanese per ragioni di principio, umanitarie, o di diritto: nel sondaggio YouTrend, sono solo il 23% coloro che si dicono contrari perché l’accordo “viola i diritti umani”; nel sondaggio Swg i contrari in quanto l’accordo “viola il diritto internazionale” scendono addirittura al 15%, appena 1 italiano su 7.

E allora da dove viene la contrarietà?

Leggendo le risposte ai sondaggi, non è difficile capirlo. Una parte dei rispondenti si dice contrario non perché il modello sia iniquo, sbagliato, o disumano, ma semplicemente perché pensa che non funzionerà: questa quota, che potremmo definire di scettici, è pari al 30% nel campione di Euromedia, e al 33% nel campione Swg.

Ma il segmento più interessante è quello di coloro che giudicano negativamente l’esperimento albanese per i suoi costi. Nel campione YouTrend gli spaventati dai costi sono il 32%, nel campione Euromedia sono il 34%. In breve 1 cittadino su 3 disapprova l’accordo perché costerebbe troppo. Combinando le varie risposte, si può concludere che la maggior parte dei contrari lo sono non per ragioni di principio, ma per scetticismo sulla riuscita, o per via dei costi troppo elevati.

La sensazione che si buttassero via i soldi è stata sicuramente aiutata da due cifre ampiamente circolate sui media: l’operazione Albania sarebbe costata 1 miliardo di euro, che sarebbe potuto essere meglio impiegato rafforzando il disastrato comparto
sanitario; le trasferte dei 16 migranti sarebbero costate, da sole, 250 mila euro (15 mila euro a migrante), insomma una vera follia. Di qui la perplessità dei cittadini, l’indignazione delle opposizioni, le denunce per danno erariale, eccetera.

Molto si potrebbe controbattere ad entrambe le cifre e le argomentazioni, in primis la totale assenza di qualsiasi tentativo di condurre una seria analisi costi-benefici del progetto Albania. Qui mi accontento di osservare che la stragrande maggioranza dei
cittadini (compresi alcuni giornalisti e commentatori) non ha la minima percezione degli ordini di grandezza in gioco, al punto che non è raro sentire anche illustri opinionisti confondere i milioni con i miliardi. A molti sembra sfuggire, ad esempio,
che una cifra che può apparire enorme in un contesto familiare (1 milione di euro), ha un peso completamente diverso in contabilità nazionale.

Nel nostro caso è spesso successo che i 650 milioni di euro in 5 anni (costo ufficiale dell’esperimento) venissero presentati come se l’ammontare fosse di 1 miliardo e in 1 solo anno, e come se quella cifra, percepita come enorme, potesse alterare significativamente il bilancio annuale della sanità (in realtà lo altererebbe dello 0.09%). Per capire quanto possa essere distorsivo e forviante ragionare sulle cifre dimenticando che stiamo parlando di voci di contabilità nazionale, vorrei fornire qualche termine di paragone fra voci di spesa riportando tutto a una dimensione familiare, ossia traducendo tutto in spesa per abitante.

Ebbene, negli ultimi anni le cifre medie sono approssimativamente queste. Il valore annuo della spesa sanitaria è di circa 2300 euro per abitante (compresi bambini e i neonati). Il costo annuo del superbonus è stato di circa 500 euro per abitante. La spesa totale per l’accoglienza è dell’ordine di 50 euro all’anno per ogni abitante.

E il costo – ingente, mostruoso, vergognoso – dell’esperimento Albania?

Tenetevi forte: 2.2 euro per abitante all’anno (il costo d 2 caffè). E il costo dell’intera operazione Albania, spalmato su 5 anni? ben 11 euro per abitante.

Di qui un dubbio: siamo sicuri che gli intervistati che si sono dichiarati contrari all’operazione Albania perché troppo dispendiosa avessero idea che il costo per abitante era di 2 euro l’anno? O sapessero di averne sborsati 500 (ossia 250 volte tanti) per permettere a 1 famiglia su 20 di ristrutturare case e ville?

Se la risposta fosse che non ne erano consapevoli (perché per tutti è molto difficile ragionare sulle grandezze di contabilità nazionale), ne scaturirebbe un’altra domanda: come ha potuto, l’esecutivo, non rendersi conto che – in casi come questo – le
intuizioni della gente sono fallaci, e quindi le istituzioni hanno il compito di informare correttamente sulle vere cifre in gioco?

[articolo uscito sul Messaggero il 24 ottobre 2024]

Perché le ragazze sono sempre più infelici? – Capitale erotico e social media

24 Febbraio 2024 - di Luca Ricolfi

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Di disagio giovanile si sta tornando a parlare da qualche tempo, perché i segnali sono tantissimi, sia prima, che durante, che dopo il covid: ansia, depressione, autolesionismo, disturbi alimentari, suicidi tentati e portati a termine. C’è un aspetto, però, che finora è rimasto un po’ in ombra: l’età e il genere delle vittime.

Se guardiamo ai dati internazionali, per lo più molto più ricchi, analitici e aggiornati di quelli italiani, quel che emerge con estrema nitidezza è che il disagio, pur colpendo la gioventù nel suo insieme, raggiunge il massimo di intensità nelle fasce di età più basse (dai 10 ai 19 anni), e in special modo fra le ragazze.

Sulle ragioni del disagio, da alcuni anni è in corso un dibattito molto acceso, specie negli Stati Uniti e nel Regno Unito. È un dibattito molto acceso, perché tocca questioni spinosissime, e ha il potenziale di colpire interessi enormi.

Nell’occhio del ciclone ci sono due scienziati sociali, Jonathan Haidt e Zach Rausch, che hanno fatto una scoperta strabiliante: tutti i principali indicatori di disagio svoltano all’inizio del decennio 2010-2020 e, qui sta il lato strabiliante della loro scoperta, lo fanno – simultaneamente – in tutti i paesi di lingua inglese e in tutti i paesi del Nord-Europa.

Come è possibile che i segni del disagio, e in particolare i suicidi, decollino tutti insieme, fra il 2010 e il 2012?

La risposta degli studiosi è che il 2010 è l’anno di nascita dell’i-phone4, e il 2012 è l’anno in cui Zuckeberg, inventore di Facebook, spende 1 miliardo di dollari per acquisire Instagram, che già allora aveva raggiunto un’enorme diffusione.

Che cosa c’entra?

Lo spiega Jonathan Haidt. L’i-phone 4 è il primo smartphone che permette un comodo accesso a internet e quindi ai social, e nello stesso tempo monta una camera frontale, che permette i selfie, e più in generale la diffusione di foto e immagini. L’acquisizione di Instagram completa l’opera. D’ora in poi diventerà facilissimo costruire immagini di sé stessi, abbellirle con photoshop, includerle nel proprio profilo, farle circolare. E inondare il mondo di tweet, di like, di post, nonché far rimbalzare quelli altrui. Inizia l’età dell’oro dei social media. Ognuno può tentare di pubblicizzare il suo ego, ma nel fare questo si espone alle critiche altrui, ma soprattutto alla (naturale) frustrazione di sentirsi surclassato da innumerevoli altri ego, più attraenti, più popolari, più capaci di attirare like.

Secondo Jonathan Haidt è precisamente questo che fa decollare il disagio giovanile. Quella sui social è una competizione cui nessuno, una volta che vi approda, è in grado di sottrarsi, che lo voglia oppure no. Di qui insoddisfazione, malessere, disagio, invidia, frustrazione, che sarebbero alla radice dell’epidemia di cattiva salute mentale in corso in moltissimi paesi da quando l’i-phone ha sostituto i vecchi flip-phone, telefoni cellulari privi di accesso a internet. E soprattutto ha sostituito le uscite con il gruppo di amici, il gioco all’aperto, le esperienze nel mondo reale, tutte cose cruciali nella formazione di un adolescente.

Supponiamo che Haidt abbia sostanzialmente ragione (visti gli argomenti dei suoi critici, propendo a pensare che la sua spiegazione sia valida), resta il problema: come mai, in questo disastro, a rimetterci sono soprattutto le ragazze, specie se adolescenti? A prima vista sembra strano, visto che le ragazze – almeno sul piano cognitivo –  da almeno 30 anni hanno sorpassato i ragazzi.

Qui ci soccorre un’altra studiosa, la sociologia britannica Catherine Hakim, che giusto negli anni della svolta (2010-2012) ebbe a dare alle stampe un saggio e un libro fondamentali: Erotic Capital (2010), e Honey Money (sottotitolo: Perché essere attraenti è la chiave del successo). Lì si può trovare facilmente la chiave per capire il disagio esistenziale delle adolescenti dopo l’i-phone.

In estrema sintesi. Prima dell’i-phone 4, una adolescente poteva cercare di costruire la propria identità e il proprio successo valorizzando le qualità più diverse: la bellezza, certamente, ma anche l’intelligenza, la simpatia, la socievolezza, l’eccellenza in qualche materia, le doti sportive, l’abilità in qualche campo specifico. E, soprattutto, lo poteva fare in una cerchia ristretta, e almeno in parte selezionata. Dopo l’i-phone4 non è più così: giusto o sbagliato che sia, la competizione è soprattutto sulla bellezza e l’avvenenza, e avviene in mare aperto, perché tutti vedono il tuo profilo e tu puoi vedere il profilo di tutti.

Ma la bellezza (o “capitale erotico”, per stare alla terminologia della Hakim) è una delle risorse più iniquamente distribuite, e – ahimé – è difficilmente modificabile, se non con la costosa e pericolosa chirurgia estetica (forse non a caso esplosa nell’ultimo decennio). Di qui il dramma delle adolescenti, che sono costrette a correre una gara da cui solo una minoranza può ragionevolmente attendersi di uscire vincitrice.

Che fare? si potrebbe domandare un padre o una madre di una quindicenne. Niente, mi verrebbe da dire, la forza del “così fan tutte” è soverchiante e invincibile. Però una piccola cosa, forse, si potrebbe anche tentare: far balenare il pensiero che, accanto alla paura di essere tagliati fuori, esiste anche la felicità di mettersi al riparo dalla macchina infernale dei social, una scelta audace che da tempo si usa chiamare JOMO, Joy of missing out, la gioia di restarne fuori (ne ha indirettamente parlato la giovane scrittrice Francesca Manfredi nel suo romanzo Il periodo del silenzio, appena uscito). Una scelta controcorrente, che però si può compiere anche in modo equilibrato e saggio, riscoprendo i telefonini tradizionali, che costano pochissimo, ci risparmiano la competizione sui social e, forse non casualmente, stanno tornando di moda.

Patriarcato? – Alle radici dei femminicidi

22 Novembre 2023 - di Luca Ricolfi

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Intervento del Prof. Ricolfi a Quarta Repubblica (Min. 29)

Esaurite le lacrime e le indignazioni, chiuso il ciclo degli innumerevoli esercizi retorici che hanno provato a dire il nostro sgomento, sarà il caso – prima o poi – di riflettere anche sui dati che descrivono la violenza sulle donne. Non ce ne sono abbastanza per formulare una diagnosi inattaccabile, ma quei pochi che ci sono bastano a sollevare interrogativi importanti.

Il dato più importante, ben noto agli studiosi da quasi un decennio, è il cosiddetto “paradosso nordico”: come mai i tassi di violenza sulle donne più alti si riscontrano nei paesi considerati più civili, o addirittura in quelli più avanzati in materia di parità di genere?

Non tutti lo sanno, ma nei civilissimi paesi scandinavi, in Germania, in Francia, nel Regno Unito, le donne rischiano la vita più che in Italia. In Europa solo Irlanda e Lussemburgo hanno tassi di uccisione delle donne minori che in Italia. E se allarghiamo lo sguardo alle società avanzate non europee, solo in Giappone le cose vanno meglio che in Italia: paesi come Stati Uniti, Canada, Australia, Nuova Zelanda, Israele, Corea del Sud hanno tutti tassi di uccisione maggiori di quelli italiani.

Come mai?

Qualcuno ipotizza che alla base possa esservi un maggiore consumo di alcol. Altri che il problema possa essere la presenza di immigrati, o di stranieri di fede islamica. Ma i dati non sembrano facilmente conciliabili con queste ipotesi. Se vogliamo capire, dobbiamo cercare altrove.

Questo altrove potrebbe essere la sopravvivenza del patriarcato, come si sente affermare ogni volta che una donna viene uccisa da un partner possessivo. Certo. Ma sfortunatamente, anche questa ipotesi è difficilmente conciliabile con i dati. Qualcuno può plausibilmente sostenere che i paesi scandinavi siano società patriarcali? O che lo sia il Regno Unito? O il civilissimo e ultra-avanzato Canada?

Del resto è il caso stesso dell’Italia a mettere in dubbio la teoria del patriarcato. Diversi dati, dagli stupri ai femminicidi, suggeriscono che la violenza sulle donne sia maggiore nel Centro-nord che nel Sud. Se ne deve dedurre che il patriarcato è in via di estinzione nelle regioni del Mezzogiorno, mentre prospera in quelle centro-settentrionali?

Quando si è affezionati a una teoria, si trova sempre un modo di salvarla, anche contro le evidenze empiriche. Il caso della teoria del patriarcato non sfugge alla regola. Quando si è scoperto che gli stupri dilagavano in Svezia, qualcuno ha provato a spiegare le cose così: proprio il fatto di avere reso il paese molto più civile con riforme dall’alto precoci ha provocato la reazione degli uomini, che non erano pronti ad accettare tanta libertà per le donne. Di qui una sorta di contraccolpo (backlash): la violenza sulle donne sarebbe una sorta di reazione del maschio, spiazzato dalla libertà e intraprendenza femminile dopo le riforme illuminate degli anni ’70 e ’80.

Se si accetta questa lettura, si dovrebbe anche ipotizzare una straordinaria lentezza del maschio del Nord: possibile che cinquant’anni non gli siano bastati per assorbire lo shock della liberazione della donna? Mah…

Eppure esiste anche una spiegazione più semplice, per quanto più difficile da accettare. Una delle radici della violenza sulle donne nelle realtà più avanzate potrebbe essere proprio il loro essere avanzate. Quando si parla del grado di civiltà raggiunto da un sistema sociale, infatti, troppo sovente si dimentica che l’aspetto centrale delle società avanzate è la cultura dei diritti. E la cultura dei diritti è una cosa meravigliosa, ma ha anche effetti collaterali perversi. Ad esempio: l’educazione è permissiva, i genitori iper-proteggono i figli, gli insegnanti si colpevolizzano per gli insuccessi dei ragazzi. Sicché una parte di questi ultimi si convince di avere un fascio di diritti fondamentali, o quasi naturali: successo formativo, abitazione, consumi, status, divertimento, sesso. Naturalmente, succedeva anche prima che si desiderassero tutte queste cose. Ma non erano considerate diritti, bensì conquistepossibili, spesso costose in termini di sforzi, e sempre esposte al rischio di fallimento.

In breve, e detto brutalmente: nelle società “arretrate” i giovani sanno (e accettano) di poter fallire, in quelle avanzate non sono preparati all’eventualità. E il momento più critico è proprio quello della ricerca del partner sentimentale, perché quella è la prima sfida in cui i genitori – per quanto ricchi, potenti, dotati di conoscenze – non possono intervenire, né supplire alle inadeguatezze di un figlio. Per diversi ragazzi, quello di essere rifiutati dalla donna che desiderano può essere il primo vero trauma della loro vita, proprio perché è il primo scacco in cui la rete di protezione familiare è fuori gioco.

Da questo punto di vista, non stupisce che negli Stati Uniti – dove l’iper-protezione dei giovani da parte di genitori, insegnanti, istituzioni culturali ha assunto tratti grotteschi e dimensioni patologiche – per una donna il rischio di essere uccisa sia 7 volte quello dell’Italia.

Così come non stupisce l’inquietante sincronismo con cui, negli ultimissimi anni, sono aumentati sia il numero di donne uccise (quasi + 20% fra l’era pre-Covid e oggi) sia il numero di denunce e arresti di minorenni per omicidi, violenze sessuali, lesioni, percosse, danneggiamenti, risse, rapine in strada, minacce, solo per citare alcuni esempi da un recente rapporto della Polizia criminale.

La mia è solo un’ipotesi, naturalmente, ma non mi sento di escludere che, sotto questi repentini cambiamenti, non vi sia solo un deficit di consapevolezza dei diritti e del valore delle donne (un guaio cui la scuola può tentare di porre rimedio), ma una degenerazione della cultura dei diritti, che ha reso tanti maschi del tutto incapaci di fare i conti con il rischio di fallire.

La fallacia oscurantista: dove sbagliano i nemici del merito – In esclusiva un estratto dal nuovo libro di Luca Ricolfi

11 Settembre 2023 - di fondazioneHume

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Qualcuno potrebbe pensare che l’ostilità che il dibattito pubblico riserva al merito sia soprattutto il risultato di credenze errate o indimostrate. Molti non sanno quanto sia debole la corrispondenza fra classe di origine e risultati scolastici. O quanto numerosi siano i ragazzi poveri che vanno bene a scuola e i ragazzi ricchi che vanno male.  O quanta importanza abbia l’impegno negli studi.

Più in generale, molti adottano una visione alquanto determinista della vita sociale, che sottovaluta i gradi di libertà dell’individuo, e amplifica i condizionamenti dell’origine sociale, del corredo genetico, delle circostanze della vita.

Ma è solo questo?

No, se vogliamo capire fino in fondo perché a tanti l’idea di premiare i capaci e meritevoli non piace, o addirittura suscita un moto di ribellione, dobbiamo cercare di entrare nella testa dei detrattori del merito. Dobbiamo provare a ricostruirne la logica. Perché una logica esiste. È una logica sbagliata, ma è comunque una forma di ragionamento.

Possiamo riassumerlo così:

1 – i capaci e meritevoli, proprio perché sono tali, hanno meno bisogno di aiuto;

2 – chi ha veramente bisogno di aiuto sono i ragazzi in difficoltà, ossia i non capaci e meritevoli;

3 – se aiutiamo i primi, senza aver prima aiutato i secondi, amplifichiamo le diseguaglianze.

4 – quindi lo svolgimento dei programmi scolastici va tarato sui ragazzi in difficoltà.

Di qui due idee, entrambe risalenti a don Milani. Prima idea: la classe deve stare ferma “finché Gianni non ha capito”. Seconda idea: occuparsi dei capaci e meritevoli significa fare della scuola “un ospedale che cura i sani e respinge i malati”.

Non fa una grinza, apparentemente. Ma è radicalmente sbagliato, oltreché alquanto oscurantista. Ragionare così significa non aver compreso come funziona la macchina della disuguaglianza.

Qual è la fallacia logica?

La fallacia di base è di trattare quel che accade nel piccolo cosmo della classe come se fosse una versione in scala ridotta di quel che succede, o meglio di quel che succederà, nel più vasto mondo della società. Certo, fermare la classe in attesa di Gianni, a prima vista parrebbe ridurre la distanza fra Pierino e Gianni. Ma che succederà poi?

Poi succedono fondamentalmente due cose, una fra i ragazzi capaci e meritevoli, l’altra fra quelli che non vanno bene negli studi. Due gruppi che, è bene ricordarlo, non sono costituiti in blocco l’uno da ricchi e l’altro da poveri, ma contengono entrambi, sia pure in proporzioni diverse, ragazzi di estrazione sociale bassa e alta.

Ebbene, nel gruppo dei capaci e meritevoli, succede che il mancato sostegno economico a quanti sono “privi di mezzi” (ossia la mancata attuazione dell’articolo 34) fa un enorme favore ai cosiddetti pierini. Buona parte dei bravi a scuola poveri, infatti, rinuncerà ai percorsi di studio più prestigiosi (licei) e più lunghi (università e dottorato), permettendo ai pierini, che hanno mezzi economici e conoscenze familiari, di fare la loro corsa indisturbati, senza la fastidiosa concorrenza dei capaci e meritevoli provenienti dai ceti medio-bassi. La classe dirigente continuerà a formarsi attingendo quasi esclusivamente dai ceti privilegiati, in aperto contrasto con i sogni egualitari dei Padri costituenti.

E nel gruppo dei non capaci e meritevoli, che succederà?

Anche qui, come sappiamo, ci sono sia ragazzi dei ceti bassi (circa 2 su 3), sia ragazzi dei ceti alti (circa 1 su 3). Ebbene, il fatto che la classe sia stata ferma, e abbia imparato meno del dovuto, produrrà effetti di segno opposto ai due estremi della scala sociale. I figli dei ceti medio-alti andranno avanti a dispetto di tutto, perché il deficit di preparazione verrà compensato dalle risorse familiari: reddito, ricchezza, ripetizioni private, possibilità di prolungare indefinitamente gli anni di studio; e poi, sul mercato del lavoro, la preziosa risorsa delle conoscenze familiari. Mentre i figli dei ceti medio-bassi, le cui uniche risorse sono la conoscenza e la preparazione, pagheranno carissime le lacune e i deficit accumulati nei primi cicli di studio. Se, dopo l’obbligo, realisticamente intraprendono un percorso di studio breve, finiranno per doversi accontentare di occupazioni modeste, precarie o mal pagate. Se ne intraprendono uno lungo e/o impegnativo, correranno il rischio di interrompere prematuramente gli studi per mancanza di basi adeguate. Perché la scuola senza qualità, rinunciando a tenere alto per tutti il livello degli studi, ha tolto loro l’unica arma con cui avrebbero potuto misurarsi alla pari con i figli dei ceti medio-alti.

Ironia della sorte, è quel che capitò a suo tempo a diversi allievi di don Milani. Non tutti lo sanno o amano ricordarlo, ma Lettera a una professoressa venne scritto per vendetta, per punire una insegnante che, a causa della loro impreparazione, aveva respinto alcuni allievi di don Milani.

Come si vede, in entrambi i gruppi, quello dei bravi e quello dei non bravi, la linea di ragionamento anti-merito può avere effetti egualitari all’interno del micro-cosmo della classe – perché nessuno è bocciato e i bravi sono abbandonati a loro stessi – ma ne ha di drammaticamente disegualitari nel vasto mondo della vita adulta.

Pensare che quel che accadrà nella vita sia una sorta di proiezione o estrapolazione di quel che accade all’interno della classe è la fallacia logica fondamentale della guerra contro il merito. Una fallacia che, inevitabilmente, conduce a esiti oscurantisti.

Oscurantista è non riconoscere il merito dei bravi a scuola, e rinunciare a sostenerli negli studi quando sono “privi di mezzi”. Ma oscurantista è anche pensare che, per quelli che bravi a scuola non sono, la via maestra non sia quella di seguirli, aiutarli, supportarli fino a fargli raggiungere un livello di preparazione adeguato, ma sia quella di abbassare gli standard. Queste due rinunce, a sostenere economicamente i più bravi, e a elevare culturalmente i meno bravi, sono gli ingranaggi fondamentali della macchina della disuguaglianza.

[estratto dal libro La rivoluzione del merito, Rizzoli 2023]

Strage di Bologna – Il silenzio degli innocentisti

10 Agosto 2023 - di Luca Ricolfi

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Nel 43-esimo anniversario della strage di Bologna, suscitano qualche sorpresa due fatti nuovi. Il primo è la dissonanza fra le dichiarazioni dei principali esponenti della maggioranza. Mentre il premier Meloni e il ministro Piantedosi hanno evitato accuratamente di usare l’espressione “matrice neo-fascista”, il presidente del Senato La Russa e il ministro Nordio vi hanno fatto ricorso, sia pure delimitandone la portata in quanto “accertata in sede giudiziaria”.

In realtà, a leggere le dichiarazioni integrali, le differenze non sono poi così clamorose. Tutti, in un modo o nell’altro, hanno auspicato un pieno accertamento della verità, che si auspica possa emergere grazie alla completa desecretazione degli atti coperti dal segreto di Stato, e (utopisticamente?) grazie al lavoro di una ennesima istituenda commissione di inchiesta parlamentare. È come dire: ok, la verità giudiziaria è quella che è, ma è tutta la verità?

In realtà anche la verità giudiziaria, quale emerge dall’ultima sentenza dell’ennesimo processo (concluso l’aprile scorso), è più sfumata di quel che è apparsa a molti: gli esecutori sarebbero neo-fascisti assoldati per compiere la strage, ma i mandanti sarebbero apparati dello Stato deviati e la massoneria (Licio Gelli e la loggia P2). Dunque, a essere precisi, la matrice della strage è quantomeno composita e, se si deve usare una espressione sintetica e più aderente alla sentenza, forse sarebbe più esatto parlare di “strage di Stato”.

Ma c’è anche un altro fatto nuovo nelle discussioni di questi giorni: il quasi completo venir meno, nei principali media, di ogni dubbio sulla effettiva colpevolezza dei due principali imputati per l’esecuzione materiale dell’attentato, ovvero Francesca Mambro e Giusva Fioravanti. È la prima volta che succede. Eppure in passato i dubbi si sono sprecati, fin dai tempi dello storico appello E se fossero innocenti? firmato nel 1994 da decine di personalità illustri, per lo più collocate a sinistra: ad esempio Luigi Manconi, Sandro Curzi, Oliviero Toscani, Liliana Cavani, Franca Chiaromonte. Per non parlare delle perplessità di Marco Pannella e di tanti esponenti radicali.

Oggi, di quella galassia di persone assalite dal dubbio ho trovato traccia soltanto in Piero Sansonetti (direttore dell’Unità, a quanto pare in conflitto con la sua redazione) e in Mattia Feltri, autore di un (piuttosto) criptico intervento in cui rimpiange la stagione in cui destra e sinistra si parlavano, e prende le distanze dall’invito di Elly Schlein a evitare ogni “tentativo di riscrivere la storia”. A quel che ne so, nessuno di coloro che in passato avevano sollevato dubbi ha ritenuto di intervenire, o di spiegare che aveva cambiato idea e perché.

Perché questa unanimità? Perché questo silenzio? Perché questo muro inespugnabile che viene opposto a chiunque inviti ad andare fino in fondo nella ricerca della verità? Perché la richiesta di togliere il segreto di Stato da tanti documenti non suscita il più largo consenso?

L’unica risposta che riesco a darmi è che il governo è cambiato, e la priorità è diventata mettere in difficoltà l’esecutivo, considerato espressione della medesima cultura politica neo-fascista che sarebbe all’origine della strage di Bologna. Come ai tempi dello stalinismo e della “doppia verità”, la verità che si cerca di affermare non è quella storica, ancora in parte sconosciuta, ma quella utile alla causa, conosciutissima e perfettamente chiara: affinché i conti politici tornino, la strage deve essere di matrice neo-fascista. Ogni dubbio va rimosso. Ogni voce che, anche timidamente, provi a fare qualche domanda va zittita.

Capisco perfettamente che, per i parenti delle vittime, dopo decenni di dolore e di attesa, dopo un calvario di processi e sentenze contraddittorie, una qualche verità sia meglio di una verità forse più vera, ma spostata in un futuro incerto. Ma per tutti gli altri? Per gli studiosi, i giornalisti, i cittadini che vogliono sapere? Possibile che l’etichetta “matrice neo-fascista” plachi ogni desiderio di verità?

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