La battaglia sui dati

Siamo rimasti tutti un po’ stupiti delle scelte del Governo in materia di “zonizzazione” dell’Italia. Campania zona gialla, dopo che da settimane il governatore De Luca dipinge un quadro tragico, peraltro supportato dai dati. Calabria zona rossa, dopo mesi in cui la maggior parte degli indicatori di diffusione del contagio la promuovono come una delle regioni meno critiche.

Come è possibile?

Per avere una risposta rigorosa, bisognerebbe che le autorità sanitarie, dopo aver reso pubblici i dati regionali sui 21 indicatori del monitoraggio, rendessero espliciti i dettagli matematico-statistici dell’algoritmo che decide se una regione va classificata come rossa, arancio, gialla (o verde, ma attualmente nessuna regione è verde). E forse occorrerebbe anche sapere come le autorità centrali gestiscono gli incredibili scivoloni e le inaccettabili sciatterie della trasmissione dei dati dalla periferia al centro, che purtroppo perdurano dall’inizio della pandemia.

E’ una matassa molto ingarbugliata, e tutt’altro che facile da dipanare. Se l’algoritmo è esplicito e trasparente, aumenta – da parte delle Regioni – la tentazione di rallentare o accelerare la trasmissione dei dati (finora avvenuta in modi arbitrari e non uniformi, con incredibili dimenticanze, riconteggi, correzioni), con l’obiettivo di modificare il colore di una regione. Così come aumenta – da parte del governo centrale – la tentazione di nascondere i nuovi dati nei momenti critici (è di poche ore fa la notizia che le informazioni cruciali abitualmente rilasciate il venerdì sono in ritardo, e non verranno rese note nei tempi previsti).

Per ora, quel che si capisce è che la classificazione di una regione dipende fondamentalmente da due ordini di valutazioni, che possono anche essere completamente discordanti. Il primo, ovvio, ordine di valutazioni è quanto galoppa l’epidemia, ma sarebbe meglio precisare: quanto galoppava 2 o 3 settimane fa, visto che gli indicatori di diffusione del contagio registrano con notevole ritardo quel che accade. Il secondo ordine di motivi è il grado di saturazione dei posti in ospedale, che dipende da una molteplicità di fattori diversi. Fra essi non solo la diffusione del contagio ma anche l’età media dei contagiati (più sono anziani, più premono sugli ospedali) e il numero di posti letto effettivamente disponibili, che a sua volta dipende in modo cruciale dal modo in cui Stato e Regioni hanno saputo prepararsi alla seconda ondata. Sembra essere questo, la carenza di posti letto e la cattiva organizzazione, il motivo cruciale che ha condannato la Calabria a un lockdown severo, nonostante indici di diffusione del contagio fra i più bassi del Paese.

Di chi è la responsabilità?

Difficile dirlo dall’esterno, ma quale che sia la quota di responsabilità della Regione e quella del Governo centrale (a occhio, preponderante: da anni la sanità in Calabria è gestita da un Commissario governativo), il punto chiave è che stiamo assistendo a una distruzione del tessuto produttivo della regione (cioè essenzialmente del settore privato), per disfunzioni e inerzie del settore pubblico. I cittadini della Calabria, in altre parole, possono muoversi e lavorare molto meno di quelli di altre regioni non perché il virus circola di più, o perché più di altri hanno disatteso le regole, ma semplicemente perché i poteri pubblici non hanno fatto il loro dovere.

Ma torniamo al problema dei dati. E’ dall’inizio dell’epidemia che gli studiosi chiedono di avere accesso ai dati fondamentali, per poter capire quel che succede e così contribuire a combatterla. E, anche recentemente, la medesima richiesta di poter accedere a un database pubblico con tutte le informazioni rilevanti è stata ripetuta da Giorgio Parisi, presidente dell’Accademia dei Lincei, dai professori di Lettera 150, dagli studiosi della Fondazione Hume.

Invano. A tutt’oggi un tale database non esiste, e nemmeno le richieste più minimali sono state esaudite, talora con l’inconsistente scusa della protezione della privacy. Ancora oggi, non sappiamo – ad esempio – quanti sono gli ingressi quotidiani in ospedale, né sappiamo in quali comuni si manifestano i nuovi casi e i nuovi decessi.

Più che mai vale il detto “sapere è potere”, che però oggi non significa che chi sa può, bensì che il sapere è in mano al potere: chi detiene il potere monopolizza il sapere, impedendo l’accesso ai dati a chiunque stia fuori del Palazzo. Che i cittadini non protestino, né si sentano defraudati di un loro diritto, mi dispiace ma non mi stupisce troppo: siamo un popolo rassegnato all’arroganza della burocrazia, e tutto sommato poco incline ad occuparsi della cosa pubblica. Quel che invece mi sorprende è il sostanziale disinteresse dei partiti dell’opposizione, che non hanno alcun accesso ai dati rilevanti.

E spiego il perché della mia sorpresa. Se io fossi il capo di un partito di opposizione, e volessi prendere posizione su un provvedimento (ad esempio: chiudiamo la provincia di La Spezia) non a capocchia ma valutando costi e benefici, avrei bisogno di molti più dati rispetto ai pochissimi che sono pubblici. Vorrei sapere, ad esempio, se i positivi sono concentrati in pochi comuni, o sono diffusi in molte aree. Vorrei conoscere il numero effettivo di posti in terapia intensiva, e il grado di saturazione dei reparti. Vorrei anche avere notizie sull’età dei positivi e dei ricoverati, per capire che cosa sta succedendo sul territorio. Vorrei una mappa dei casi diagnosticati nelle scuole della provincia. E così via. Perché senza queste ed altre informazioni ogni opposizione è condannata a diventare sterile, arbitraria, o semplicemente ideologica.

E’ possibile che un’opposizione del genere faccia bene a chi governa, perché gli fornisce una sorta di polizza di assicurazione contro qualsiasi cambiamento. Dubito però che faccia bene a noi, che degli atti di governo subiamo le conseguenze, nel bene e nel male.

Pubblicato su Il Messaggero del 7 novembre 2020




Il termometro dell’epidemia (release 1.0)

Oggi (ultimo dato disponibile, ore 18.00 del 6 novembre) la temperatura dell’epidemia è pari a 182.9 gradi pseudo-Kelvin ed è in aumento di 6.9 gradi.

Il peggioramento (anche oggi) è dovuto soprattutto alla crescita dei nuovi contagi (+215 mila nell’ultima settimana; il tasso di positività è pari al 16.1%, in aumento rispetto a ieri). Il termometro risente però anche dell’aumento dei decessi (+2.317 nell’ultima settimana). Per la prima volta dopo circa un mese, gli ingressi ospedalieri stimati risultano sostanzialmente stabili.

L’aumento settimanale della temperatura è pari a +48.8 gradi.

Va ricordato, come sempre, che l’andamento della temperatura non riflette quello dei contagi attuali, ma quello dei contagi avvenuti 2-3 settimane fa.

Per maggiori dettagli si rimanda alla Nota tecnica.




Usa, “atomi sociali” in libera uscita

Da tempo ormai le stelle degli Stati Uniti sono diventate sempre più opache e lontane: la terra promessa della democrazia liberale è solcata da lacerazioni di ogni tipo – ingovernabilità dei degradati quartieri afro-americani, violenze della polizia, contestazione della Civic culture che aveva fatto grande il Nuovo Mondo, abbattimento dei suoi simboli antichi, declino delle classi medie, allargamento della forbice tra gli have e gli have not, catastrofi ecologiche fuori controllo – tali che inducono a parlare di crisi epocale del mondo anglosassone, se non di tramonto di quell’Occidente che oltre Atlantico celebrava i suoi trionfi.

Agli States è rimasta la potenza industriale e quella finanziaria, una pesante armatura, dentro la quale, come nel Cavaliere inesistente di Italo Calvino, c’è il vuoto. In questo Sunset Boulevard vien voglia di rileggere quanto avevano scritto sul nuovo continente i grandi viaggiatori e sociologi dell’Ottocento e del Novecento, da Alexis de Tocqueville a James Bryce, da Michel Chevalier a Gunnar Myrdal ovvero gli scrittori politici che avevano più contribuito a consolidare nell’immaginario collettivo una certa idea dell’America.

Un importante momento di questa fabbrica del mito americano può essere costituito dalla Society in America di Harriet Martineau (1837) di cui la storica delle dottrine politiche e appassionata studiosa della “questione femminile”, Ginevra Conti Odorisio, ha curato un’edizione ridotta per la collana da lei diretta, Donne e politica, pubblicata dall’editore Aracne. La Martineau, infatti, si presta ad essere un significativo case study per comprendere che cosa del mondo americano affascinò gli europei colti e “progressisti”(in senso lato) e che cosa sfuggì ad essi e di cui oggi ci rendiamo drammaticamente conto.

La poligrafa scrittrice inglese – è sterminato l’elenco delle sue opere, dall’economia politica ai romanzi letterari – ha un duplice merito: il primo, scientifico, di aver svolto un’inchiesta a tappeto sulla società e sui costumi americani, consultando gente di ogni ceto sociale, razza, regione, religione, sì da venir considerata a mio avviso con qualche esagerazione – anche da studiosi come Robert Nisbet e Seymour M. Lipset, la fondatrice della sociologia; il secondo, etico-politico, di aver denunciato sia la soggezione delle donne americane, prive del diritto di voto, sia la vergogna della schiavitù. In anni in cui la questione razziale non aveva ancora toccato il punto più drammatico, la Martineau spiegò agli europei «cosa significasse la segregazione negli atti più elementari della vita quotidiana, come mangiare, pregare lavorare. Esclusa dall’istruzione, dalle cariche pubbliche, dalle professioni e dalle associazioni scientifiche e letterarie, la gente di colore vive in un clima umiliante, ammessa soltanto ai lavori più duri e ingrati». E ancora con parole roventi: «Nella fisionomia di ogni animale vi è vita e una certa forma di intelligenza anche in quella della stupida pecora; mentre non vi è nulla di così spento e vago come nello sguardo dello schiavo.|…| Visitammo il quartiere dei negri e dovunque mi recassi in questa piantagione provai un profondo disgusto. Era una via di mezzo tra un covo di scimmie e un’abitazione di esseri umani». Tralascio citazioni di pagine sulla questione femminile e mi limito a ricordare che il principio fatto valere della Martineau – e al centro del femminismo liberale dell’800 e del 900 – che “nessuno è tenuto a obbedire a leggi alle quali non ha dato il suo consenso”, fa della lettura di Società in America un testo che avrebbe potuto essere scritto cento e più anni dopo.

Vorrei invece richiamare l’attenzione sul coté illuministico dell’opera, ovvero sull’idea che i principi egualitari su cui si fondava la Dichiarazione di indipendenza – e che facevano sì che in ogni agglomerato urbano si trovasse «un cittadino indipendente» e «nelle campagne un proprietario terriero» – sarebbero stati il lievito spirituale di una civiltà superiore più libera, più generosa, più colta di quelle europee. E in ogni caso avrebbero portato a un melting pot disgregatore dell’idea di Nazione.

Per l’America, «la varietà dei suoi abitanti costituisce un’inesauribile risorsa. Per una Nazione può essere motivo d’orgoglio discendere da un unico ceppo, ma in definitiva è molto meglio che diverse Nazioni abbiano concorso alla sua formazione. Ne risulta un miscuglio di qualità fisiche e intellettuali, l’assimilazione di pregiudizi nazionali, l’incremento delle risorse mentali che finiscono per elevare il carattere della Nazione».

Erano entusiasmi ingenui di una fervente “radical” vittoriana, giacché come ha dimostrato Samuel P. Huntington in un grande libro, La nuova America ( 2005): «E’ difficile che la gente trovi nei principi politici – libertà, uguaglianza, democrazia, rispetto dei diritti civili, non-discriminazione, rispetto della legge – il profondo contenuto emozionale e il profondo significato che vengono assicurati dai vincoli sociali e familiari, dai legami di sangue e dal senso di appartenenza, dalla cultura e dalla nazionalità». Molti americani fino alla Seconda guerra mondiale e ancora diversi anni dopo, erano arrivati «a convincersi che il loro Paese poteva essere multinazionale, multietnico e privo di un’essenza culturale specifica, pur rimanendo una Nazione coerente, la cui identità veniva definita unicamente dal credo. Ma è proprio così? Una Nazione può essere definita solo da un’ideologia politica?». L’abbattimento delle statue dei Founding Fathers, esaltati nella Società in America, sono una risposta eloquente. Molti studiosi della Martineau – penso soprattutto a Michael Hill – vorrebbero che venisse riconosciuta la sua superiorità scientifica (!) rispetto a Tocqueville, condizionato – nei suoi appunti di viaggio e poi nella Democrazia in America – dal suo essere un bianco, maschio, aristocratico, portato a selezionare i fatti e a ritenere solo le opinioni da lui condivise.

Sennonché il nobile normanno per tutta la sua vita fu assillato da un problema cruciale: in una società di eguali – e gli Stati Uniti ne costituivano il modello politico per antonomasia – che cosa tiene insieme gli “atomi sociali” liberi ormai da ogni obbligo e da ogni autorità spirituale e temporale del passato?

Pubblicato su Il Dubbio del 31 ottobre 2020




Il termometro dell’epidemia (release 1.0)

Oggi (ultimo dato disponibile, ore 18.00 del 5 novembre) la temperatura dell’epidemia è salita di quasi 8 gradi, passando da 168.1 a 176.0 gradi pseudo-Kelvin.

La crescita dei nuovi contagi (+208 mila nell’ultima settimana; il tasso di positività è pari al 15.7%, in aumento rispetto a ieri) continua ad essere il fattore principale alla base del peggioramento. Pesa in misura significativa anche l’aumento degli ingressi ospedalieri stimati e dei decessi (+2.070 decessi negli ultimi sette giorni rispetto ai 1.154 della settimana precedente).

L’aumento settimanale della temperatura è pari a +51.5 gradi.

Va ricordato, come sempre, che l’andamento della temperatura non riflette quello dei contagi attuali, ma quello dei contagi avvenuti 2-3 settimane fa.

Per maggiori dettagli si rimanda alla Nota tecnica.




Il termometro dell’epidemia (release 1.0)

Oggi (ultimo dato disponibile, ore 18.00 del 4 novembre) la temperatura dell’epidemia è pari a 168.1 gradi pseudo-Kelvin, in aumento di 5.3 gradi.

Anche oggi, la crescita dei nuovi contagi (+200 mila nell’ultima settimana; il tasso di positività è pari al 14.4%, in diminuzione rispetto a ieri) è il fattore principale alla base del peggioramento. Il termometro risente anche del cattivo andamento dei decessi e, in misura più lieve, dell’aumento degli ingressi ospedalieri stimati.

L’aumento settimanale della temperatura è pari a +52.4 gradi.

Va ricordato, come sempre, che l’andamento della temperatura non riflette quello dei contagi attuali, ma quello dei contagi avvenuti 2-3 settimane fa.

Per maggiori dettagli si rimanda alla Nota tecnica.