Il termometro dell’epidemia (release 1.0)

La temperatura dell’epidemia è in salita per il quinto giorno consecutivo. Il termometro di oggi (ultimo dato disponibile, ore 18.00 del 23 febbraio) segna 86.3 gradi pseudo-Kelvin ed è in aumento di 2.3 gradi.

Questo peggioramento si deve ad un nuovo aumento dei nuovi contagi (nell’ultima settimana si sono registrati 84 mila nuovi casi rispetto ai 76 mila della settimana precedente) e ad una più moderata crescita degli ingressi ospedalieri. Aumentano lievemente anche i decessi.

La variazione settimanale della temperatura è positiva e pari a +6.2 gradi.

Va ricordato, come sempre, che l’andamento della temperatura non riflette quello dei contagi attuali, ma quello dei contagi avvenuti 2-3 settimane fa.

La temperatura dell’epidemia è stata calcolata considerando i soli casi identificati mediante test molecolare.

Per maggiori dettagli si rimanda alla Nota tecnica.




Il virus dell’autoritarismo

Nell’ultimo articolo avevo analizzato i diversi metodi di contrasto al virus adottati nel mondo, mostrando come ve ne sono almeno tre che si sono dimostrati efficaci (anche se in misura diversa) nei paesi avanzati dell’Estremo Oriente e dell’Oceania (che chiamerò “paesi del Pacifico”, dato che si trovano tutti nell’area del Pacifico Ocidentale) e, almeno nella prima fase, anche in molti paesi dell’Europa del Nord e dell’Est.

Incredibilmente, nessuno di tali metodi è stato però adottato dai paesi leader dell’Occidente. A un anno esatto di distanza dall’inizio ufficiale dell’epidemia in Europa, con la scoperta dei primi casi a Codogno il 20 febbraio 2020, è venuto il momento di chiedersi: perché?

Se fossi un complottista, la risposta sarebbe facile: infatti, anche se nessuno lo ammetterebbe mai, il virus fa comodo a un bel po’ di gente, a cominciare dalla Cina, che, essendo uscita dall’emergenza già da molti mesi, sta inondando i mercati con le sue merci in sostituzione di quelle che noi non riusciamo più a produrre. Addirittura, nel suo discorso di fine anno il presidente Xi Jinping è arrivato a definire il 2020 «un anno ottimo per il nostro paese» e per una volta non era la balla di un dittatore (quale lui è: cerchiamo di ricordarcelo), ma la pura e semplice verità. Ma il virus fa comodo anche ai governi e, più in generale, alle élites occidentali, che da tempo attraversano una grave crisi di credibilità, che grazie all’emergenza è stata, se non proprio superata, quantomeno temporaneamente accantonata.

Sarebbe quindi facile sostenere, come molti in effetti fanno, che la pandemia è frutto di un piano ordito dai dittatori di Pechino in combutta con le suddette élites occidentali. Questa teoria, però, come tutti i complottismi, si scontra con evidenze indiscutibili, prima fra tutte il fatto che è certo possibile mettere in moto intenzionalmente un processo del genere, ma nessuno sarebbe in grado di prevederne la successiva evoluzione. Inoltre, soltanto un pazzo metterebbe in circolazione un virus letale sul proprio territorio, tanto più senza disporre ancora di un antidoto: e i cinesi tutto sono tranne che pazzi. Quanto alle élites occidentali, è vero che questa vicenda le ha finora rafforzate, ma su tempi più lunghi il disastro economico che sta causando rischia di avere l’effetto opposto.

Inoltre, non solo non vi è nessuna evidenza che il virus sia stato lasciato entrare e dilagare intenzionalmente in Europa, ma, al contrario, ve ne sono molte che ciò sia dovuto ad altre cause, che sono già state ampiamente analizzate in altri articoli apparsi su questo sito, sia miei che di Ricolfi e di altri suoi collaboratori, che perciò mi limiterò a elencare, senza andare di nuovo a discuterle.

Anzitutto, incompetenza, ignoranza, limiti intellettuali e a volte perfino psicologici di molti leader ed esperti o presunti tali; poi, internazionalismo a parole, che ha portato al rifiuto ideologico di chiudere le frontiere (come invece facemmo ai tempi della Sars, avendo appena 4 contagi e zero morti) e provincialismo di fatto, che ha portato a concentrarsi solo su ciò che accade in Europa e Stati Uniti, senza guardare agli esempi virtuosi dei paesi del Pacifico; incomprensione della “matematica” delle epidemie, che ha portato ad adottare le misure preventive nella sequenza sbagliata (prima quelle blande, poi quelle dure, anziché viceversa); quindi vanità e presunzione, che hanno portato a credere al mito dell’inesistente “modello Italia”; e infine indisponibilità ad ammettere i propri errori, che hanno portato a ripeterli più volte.

Inoltre, ha pesato molto il caso, poiché sfortuna ha voluto che il primo paese europeo ad essere colpito dal virus sia stata l’Italia, che in quel momento era retta dal governo più inetto e incompetente di tutta la storia delle democrazie moderne, particolarmente (benché niente affatto esclusivamente) nella componente dei 5 Stelle, un partito che ha modellato il suo metodo su quello dei social media e il suo programma sulla pseudoscienza da blog (vedi il mio saggio Il partito di Internet, in Miti, simboli e potere, Albo Versorio, Milano 2018, pp. 333-344).

Non sapendo che pesci pigliare, ai nostri governanti non è parso vero che qualcun altro decidesse per loro, cosicché hanno seguito ciecamente tutte le disastrose indicazioni della OMS, che ha ricambiato la cortesia additandoci al mondo intero come il modello da seguire, anziché, come sarebbe stato suo dovere, quei paesi del Pacifico che fin dalla prima fase avevano fatto cento volte meglio di noi (dove “cento volte” non è un’espressione retorica, ma l’esatto ordine di grandezza del divario esistente tra noi e loro). E così Conte ha trascinato con sé nell’abisso non solo l’Italia, ma tutto l’Occidente.

Tutto ciò premesso per onestà intellettuale, va però detto che la stessa onestà intellettuale impone di riconoscere che, una volta fatta la frittata, molti si sono accorti che dopotutto non era così indigesta, almeno per loro. Fuor di metafora, le élites occidentali non hanno intenzionalmente causato la pandemia, ma l’hanno intenzionalmente sfruttata a scopi di potere, cosa di cui vi sono molte prove, tanto incontestabili quanto preoccupanti.

Anzitutto, infatti, è evidente che questa situazione ha aiutato moltissimo tali élites, largamente dominanti nei palazzi del potere, ma sempre più invise ai rispettivi popoli, a mettere in riga i partiti antisistema, accusando chiunque si azzardasse a criticare le scelte dei governi di essere un “negazionista”, certo facilitati – questo va riconosciuto – dal fatto che tali movimenti tendono effettivamente ad assumere posizioni di questo tipo.

Ciò si è visto con la massima chiarezza negli USA, dove senza tutte le idiozie che ha detto sul virus Trump avrebbe asfaltato Biden come un rullo compressore, tant’è vero che perfino così ha rischiato di vincere (perché negli Stati chiave la differenza è stata di poche migliaia di voti, anche se adesso preferiamo dimenticarlo). Ma la situazione è simile in tutta l’Europa occidentale e in particolare in Italia, dove in condizioni normali lo sgangherato governo giallorosso sarebbe caduto molto prima. Anche il sostegno incondizionato ricevuto dagli altri paesi, nonché gli ormai mitici 209 miliardi del Recovery Fund, sembrano essere stati concessi a Conte assai più in riconoscimento dei suoi “meriti” nel mettere all’angolo Salvini e Meloni a colpi di (illegali) DPCM che non di quelli (inesistenti) nel gestire l’epidemia.

Sia chiaro, però, che non sto dicendo che esista un’unica regia che spiega tutto ciò che sta accadendo, né a livello italiano né, tantomeno, europeo e mondiale: ho già detto che non credo al complottismo, né in generale né per quanto riguarda la genesi e la diffusione dell’epidemia e non ci credo neanche per quanto riguarda la sua strumentalizzazione a fini politici. Certo, complotti di portata limitata sono possibili e anche in questo caso alcuni ci sono sicuramente stati, ma a livello globale non funziona così. Come ha detto qualcuno che se ne intende, «non c’è uno che dà le carte, c’è un blocco culturale omogeneo che si muove all’unisono». Sono parole di Luca Palamara (Il Sistema, Rizzoli 2021, p. 221), quel gentiluomo che è stato a lungo il garante di quello che lui chiama “il Sistema” e che per decenni ha deciso e continua tuttora a decidere tutte le cariche importanti della magistratura italiana. Valgono anche nel nostro caso, soltanto un po’ più in grande.

Qui, infatti, il “blocco culturale omogeneo” comprende praticamente tutte le nostre classi dirigenti (politici, giornalisti, magistrati, intellettuali, docenti universitari e – ahimè – anche scienziati) che si riconoscono in quella che Ricolfi ha chiamato “ideologia europea” e che ha definito molto esattamente come «un modo di operare […] basato su almeno due caposaldi: I) la subalternità rispetto agli organismi sovranazionali […]; II) la sacralizzazione della globalizzazione, del commercio internazionale e della circolazione delle persone» (La notte delle ninfee. Come si malgoverna un’epidemia, La nave di Teseo 2021, pp. 22-23). Il primo di tali caposaldi, infatti, ha portato a ubbidire ciecamente alla OMS, mentre il secondo ha impedito la tempestiva chiusura delle frontiere.

È facile per chiunque vedere come tale ideologia ricomprenda ormai praticamente tutto l’arco costituzionale, dall’estrema sinistra fino alla destra moderata, lasciando all’opposizione solo la destra “populista”, o, più esattamente, quella che viene ritenuta tale per definizione, dato che questa è l’unica “casella” che viene lasciata (intenzionalmente) libera e in cui, di conseguenza, vengono, per l’appunto, “incasellati” tutti i movimenti eterodossi, a dispetto di qualsiasi differenza possa sussistere tra di essi.

In effetti, lo stesso termine “populista”, per come viene usato, ha ormai perso qualsiasi significato definito, per trasformarsi in una pura “etichetta” usata per demonizzare gli avversari, proprio come quella di “fascista” negli anni Settanta, tanto che potremmo addirittura formulare un terzo “caposaldo” dell’ideologia suddetta come segue: «III) Chiunque non accetti i primi due principi viene automaticamente catalogato come “populista” e, di conseguenza, considerato un “impresentabile” da emarginare al più presto dalla scena politica con qualsiasi mezzo possibile». E ciò vale non solo verso le singole persone, ma anche verso gruppi, partiti e addirittura interi Stati.

Il caso più impressionante è quello dell’Inghilterra, che, pur essendo uno dei paesi più potenti del mondo, nonché uno di quelli che più di tutti hanno contribuito a creare la suddetta “ideologia europea”, da quando l’ha radicalmente messa in discussione, non solo teoricamente, ma in pratica, con la Brexit, è improvvisamente passata tra i “cattivi” per definizione e da allora viene regolarmente denigrata da giornalisti e intellettuali (a cominciare dai suoi) a prescindere, con il più sovrano disprezzo per i fatti. Solo per fare un esempio, si è a lungo sostenuto che non essendo più in Europa avrebbe avuto problemi a trovare i vaccini, mentre la realtà è esattamente opposta: a faticare siamo noi, mentre l’Inghilterra (che ha sempre fatto molto meglio, anche prima che iniziassero i ritardi nelle forniture) ha già vaccinato oltre un quarto della sua popolazione, contro una media UE di circa il 6%, cioè quasi 5 volte inferiore (numeri vaccini italia-mondo). Eppure, avete mai sentito qualcuno ammetterlo, magari aggiungendo: “Scusate, avevo sbagliato?” No? Ecco, appunto…

Anzi, all’inizio, con un meschino trucchetto che la dice lunga sul suo infimo livello culturale e morale, il nostro governo non considerava nemmeno l’Inghilterra un paese europeo per poter sostenere che eravamo i secondi in Europa per numero di vaccinazioni, versione riveduta e corretta del mito del “modello Italia”, che per fortuna non ha fatto presa, dato che era altrettanto infondata della prima, basandosi sui numeri assoluti, che non significano nulla, anziché, come dovrebbe essere, sulla percentuale di popolazione vaccinata. Per la cronaca, l’Italia è attualmente al 42° posto nel mondo con il 5,7% di vaccinati, un po’ meno della media europea, il che – attenzione! – non significa che siamo al livello di tutti gli altri paesi europei, bensì che circa metà di essi (tra cui parecchi assai meno progrediti di noi) hanno fatto meglio e l’altra metà peggio, anche se le differenze, in entrambi i sensi, sono abbastanza piccole.

Altrettanto facile è vedere come questa ideologia in realtà non coinvolge soltanto l’Europa, ma anche USA, Canda e buona parte dell’America Latina, per cui dovremmo forse chiamarla, più correttamente, “ideologia atlantica”, anche per marcare maggiormente la contrapposizione con i paesi del Pacifico, che non la condividono (per lo stesso motivo eviterei invece di parlare di “ideologia occidentale”, dato che Australia e Nuova Zelanda, che guidano il gruppo del Pacifico, culturalmente appartengono all’Occidente). In particolare, è evidente l’uso demonizzante che anche in America viene fatto del termine “populista” nei confronti di tutti coloro che rifiutano tale ideologia, come per esempio Trump negli USA o Bolsonaro in Brasile.

Attenzione: con questo non sto dicendo che i suddetti non si meritino tale qualifica, ma soltanto che essa non viene attribuita a loro o a chiunque altro perché se la merita, ma perché non accetta l’ideologia di cui sopra. Se invece uno la accetta, anche solo a parole, poi può permettersi di fare tutto quel che gli pare senza praticamente suscitare proteste, come per esempio il dittatore venezuelano Maduro o il suo predecessore Chavez, che hanno ridotto alla fame uno dei paesi potenzialmente più ricchi della Terra nella più totale indifferenza dei nostri leader politici e intellettuali. Nemmeno la dittatura cinese, nonostante le sue gravissime e ormai accertate colpe nella diffusione del virus (oltre che in molte altre cose), viene trattata – neanche lontanamente – con la stessa ostilità riservata ai “populisti” di cui sopra: basti pensare alle nostre piazze piene (giustamente) per le violenze della polizia americana contro i neri, ma desolatamente vuote di fronte alle violenze (ben peggiori) della polizia cinese contro i manifestanti di Hong Kong.

Si capisce quindi perché tale ideologia stia suscitando una crescente insofferenza in gran parte della popolazione occidentale. E si capisce anche perché la reazione contro di essa prenda spesso forme sguaiate, “impresentabili” o addirittura violente: poiché infatti la quasi totalità delle persone istruite è organica al sistema, i “ribelli” faticano terribilmente a trovare leader all’altezza, per cui molti, pur non essendo affatto degli estremisti, finiscono col votare “turandosi il naso” per personaggi che in condizioni normali non si sognerebbero mai di prendere in considerazione.

Mi sono reso conto di colpo di quanto fosse diventato profondo questo fenomeno nel 2016, quando per la prima volta nella mia vita ho sbagliato il pronostico su un’elezione politica, non prevedendo la vittoria di Donald Trump. Riflettendo sulle ragioni che mi avevano indotto in errore, mi sono reso conto che mi ero concentrato quasi esclusivamente sulla popolarità di Trump, che giudicavo (giustamente) sufficiente per competere, ma non per vincere, mentre avevo dato per scontato (erroneamente) che quella di Hillary fosse calata solo di poco rispetto ai tempi d’oro, senza rendermi conto di quanto invece fosse ormai odiata da gran parte della popolazione. Ma il fenomeno non è solo americano: tutti gli “impresentabili” del nostro tempo, da Bolsonaro a Orbán, da Salvini alla Le Pen, vincono in questo modo.

D’altra parte, neanche gli “impresentabili” sono sempre realmente tali, giacché vale anche per i leader ciò che vale per i loro seguaci: non tutti sono davvero estremisti, ma, di fronte a un sistema che non li considera avversari da battere, ma nemici da distruggere e li spinge comunque ai margini, spesso scelgono di apparire tali per ragioni elettorali, in modo da raccogliere i voti dei veri estremisti, secondo la logica del “tanto peggio, tanto meglio”. In realtà, però, molti di loro (benché non tutti: lo ripeto a scanso di equivoci) sarebbero ben felici di “civilizzarsi” e interloquire pacatamente con i rappresentanti dell’establishment, se tra di essi trovassero interlocutori disposti ad ascoltare le loro ragioni.

Ciò spiega, per esempio, come mai la Lega, il cui “zoccolo duro” è costituito essenzialmente da imprenditori del Nord che con l’Europa ci lavorano continuamente, pur non amando la sua ideologia, abbia subito accettato l’invito di Draghi, che per l’appunto è, o almeno potrebbe essere, uno di tali interlocutori più aperti. Tuttavia, la stragrande maggioranza dei nostri commentatori politici hanno prima respinto come “impossibile” tale eventualità e poi, quando i fatti hanno dimostrato il contrario, hanno cercato di presentarla o come un tentativo contro natura destinato a sicuro fallimento o come l’inizio di una sorta di cammino di “conversione” all’ideologia di cui sopra, benché sia piuttosto evidente che non è né l’una  né l’altra cosa.

E qui arriviamo al punto più preoccupante. Quella che Ricolfi ha chiamato “ideologia europea” e che io ho qui ribattezzato “ideologia atlantica” è in effetti solo un’applicazione particolare (benché ovviamente assai eclatante) di un’ideologia ancora più ampia: quella del “politically correct”. Ed è proprio da essa che nasce il virus dell’autoritarismo che si sta propagando insieme a quello del Covid.

L’aspetto più paradossale del politically correct è che, volendo abolire qualsiasi tipo di discriminazione, a prima vista sembra l’esatto opposto dell’autoritarismo, ma in realtà è l’esatto opposto della tolleranza. Quest’ultima, infatti, si esercita, per definizione, verso le idee che non si condividono: essa, perciò, presuppone il disaccordo e di conseguenza la critica, purché non si traduca in discriminazione.

Ma per il politically correct la critica – qualsiasi critica – va considerata di per sé stessa una discriminazione, perché può offendere la sensibilità di chi la riceve, il che in certa misura è anche vero. Il problema, però, è che vietare le critiche è un rimedio molto peggiore del male, giacché si traduce di fatto nel pretendere che le idee altrui non debbano solo essere tollerate, ma anche condivise, il che equivale a negare la libertà di opinione, anzi, addirittura la libertà di coscienza, dato che chi non ci sta non va semplicemente ridotto al silenzio, ma “rieducato” e, se si rifiuta, ostracizzato ed espulso dalla società civile.

Tale tendenza è presente nella nostra società da parecchio tempo, ma il virus le ha fornito su un piatto d’argento l’occasione perfetta per fare un ulteriore salto di qualità, perché ovviamente è molto più facile convincere la gente a emarginare qualcuno se si dice che non solo costui è brutto, sporco e cattivo, ma sta anche mettendo in pericolo la salute di tutti. Così è nato il “pandemically correct”, che non ha fatto altro che adattare alla situazione gli stessi meccanismi del politically correct “classico”: creazione di alcune “parole d’ordine” considerate “buone” per definizione; loro imposizione attraverso un’ossessiva campagna mediatica; demonizzazione di chi chiunque dissenta, considerato per definizione “negazionista” a prescindere dal merito delle sue affermazioni; conseguente deriva dei dissidenti moderati verso posizioni estremiste per mancanza di leader dissidenti moderati; e infine, a chiudere un circolo palesemente vizioso, ma a suo modo perversamente perfetto, uso strumentale di tale fenomeno per “dimostrare” la bontà delle parole d’ordine suddette indipendentemente dalla loro reale efficacia.

Una volta di più voglio ribadire che non sto dicendo che ciò sia frutto di un complotto planetario: anche qui non c’è nessun Grande Fratello che “dà le carte”, bensì, di nuovo, “un blocco culturale omogeneo che si muove all’unisono”. Tuttavia, è almeno possibile indicare quale parte del suddetto “blocco” è quella che ha maggiore influenza, creando e diffondendo le “parole d’ordine” a cui tutti si devono adeguare, che è poi la stessa che da tempo crea quelle del politically correct classico: si tratta essenzialmente delle grandi burocrazie nazionali e, soprattutto, internazionali, nonché dei grandi giornali e delle grandi televisioni e degli intellettuali organici a tale sistema, che sono in realtà una piccola minoranza, ma dettano legge a tutti.

Per questo a partire dal 2013 ho cominciato a parlare al proposito di “totalitarismo burocratico”, anche se in forma scritta credo che l’espressione compaia per la prima volta solo nella seconda edizione del mio libro La scienza e l’idea di ragione (Mimesis 2019). L’impressionante velocità con cui è stato creato e imposto a tutti il gergo del pandemically correct la dice lunga sul preoccupante grado di efficienza che tale meccanismo ha ormai raggiunto.

Quanto alla sua funzione “rieducativa” e quindi alla natura autoritaria (e tendenzialmente totalitaria) della mentalità da cui nasce, si potrebbero addurre centinaia di esempi, anche se per forza di cose qui ne potrò fare molti meno e saranno in gran parte italiani, ma ciò non significa che altrove le cose vadano diversamente. Comincerò da due dichiarazioni, particolarmente inquietanti e quindi particolarmente significative.

La prima è di Alberto Villani, presidente della Società Italiana di Pediatria nonché membro del Comitato Tecnico Scientifico, il quale a settembre, in occasione della riapertura delle scuole, aveva dichiarato al TG1 della sera che per i bambini portare la mascherina per 5 ore filate «non è un problema, soprattutto se hanno il buon esempio in casa», sottintendendo quindi, neanche tanto velatamente, che se per caso qualche bambino avesse protestato i colpevoli sarebbero stati i genitori, che evidentemente gli davano il cattivo esempio. Per la cronaca, si tratta dello stesso signore che il 5 gennaio, quando il disastro era ormai tale che nemmeno Conte osava più parlare di “modello Italia”, in un’intervista rilasciata a La Stampa ha dichiarato che la colpa dell’aumento dei contagi era dei cenoni di Capodanno e che «sinceramente non farei cambio con nessuno: con tutti i suoi limiti, la situazione italiana è migliore di quella americana e inglese», benché in quel momento l’Italia avesse 1263 morti per milione di abitanti, l’Inghilterra 1121 e gli USA 1098. Certo, se questi sono i consulenti del governo, allora si capiscono molte cose…

La seconda è di Donatella Di Cesare, docente di Filosofia Teoretica alla Sapienza di Roma, che, ancora su La Stampa del 21 dicembre scorso, dopo aver mosso molte giuste critiche all’operato del governo, invece di concluderne, come logica avrebbe voluto, che dunque quest’ultimo avrebbe dovuto adottare misure diverse e più efficaci, con un triplo salto mortale senza rete affermava recisamente, senza addurre nessuna prova a sostegno, che «una politica  seria dovrebbe assumersi l’onere della chiusura responsabile e affrontare il difficile compito di far comprendere ai cittadini che la vita di prima non tornerà». Forse la mia illustre collega avrebbe bisogno di una vacanza per schiarirsi le idee, magari a Taiwan, in Australia o in Nuova Zelanda, dove, oltre a sole e mare in quantità, troverebbe “la vita di prima” già tornata da un bel pezzo…

Tuttavia, l’aspetto che mostra con maggiore evidenza la suddetta tendenza autoritaria è il tentativo, più volte denunciato anche da Ricolfi, di incolpare i cittadini di quello che in realtà è un fallimento dei governi. Certo, anche questo per un verso fa parte della loro strategia di autogiustificazione, ma c’è in esso anche qualcosa di più perverso, che ha espresso in modo impareggiabile Massimo Cacciari, a cui lascio quindi la parola.

«A partire dallo sciagurato slogan del “distanziamento sociale”, invece che di “distanza di sicurezza” o formule analoghe, è purtroppo del tutto evidente il punto di vista culturale con cui il “messaggio” è stato concepito. Quello slogan poteva venire in mente soltanto a chi ritenga un pericolo la prossimità, un’assemblea o una manifestazione un irragionevole “assembramento”, il “lieto romore” che fanno i fanciulli gridando “su la piazzola in frotta… e qua e là saltando” un intollerabile baccano. […] Ogni energia è spesa a convincerci che è in fondo più comodo lavorare di fronte a un pc che convivere e cooperare “in presenza” con colleghi, amici e magari anche nemici, che quella bella leopardiana “movida” può essere sostituita da qualche chat, che la pizza è altrettanto buona seduti sul divano di fronte a mamma tv che con gli amici in pizzeria. Invece di suscitare l’ardente desiderio di fare tutto il necessario per uscire al più presto dalla miseria dell’attuale situazione, la propaganda “in rete” ci vuole convincere che la vita del pensionato è ottima e forse, anzi, ideale. […] Bisogna, credo, insorgere contro questa deprimente narrazione, sintomo di una generale senescenza delle nostre società» (Ora proviamo a essere eroi per un anno, su La Stampa del 2/1/2021, pp. 1-19).

Mi permetto solo di aggiungere a tale esattissima descrizione che non è solo contro la senescenza che dobbiamo insorgere, perché essa va qui insieme a qualcosa di ancor peggiore. Infatti, la colpevolizzazione moralistica dei semplici piaceri della vita è da sempre tipica di tutti i regimi autoritari, perché solo chi non è contento della propria vita è disposto a venderla al potere di turno: come ha scritto una volta Clive Staples Lewis, «ho conosciuto un essere umano che ha trovato la difesa contro forti tentazioni di ambizione sociale in un gusto ancor più forte per la trippa e le cipolle» (Le lettere di Berlicche, Mondadori, Milano 1998, p. 56).

Ora, questo qualsiasi dittatore o aspirante tale lo sa istintivamente in cuor suo, giacché egli per primo è così: un frustrato che cerca di compensare la sua incapacità di dominare la propria vita pretendendo di dominare quella degli altri, in particolare di quelli che la vita, a differenza di lui, se la sanno godere. Il grande psicanalista Giacomo Contri ha chiamato tale atteggiamento “odio logico” e l’ha riassunto nella formula “Ti uccido, dunque sono”, che non cambia molto se modificata in “Ti imprigiono, dunque sono”, equivalente “colto” del celeberrimo «State a casa o chiudo l’Italia!» pronunciato con tono da bullo di periferia dal premier-per-caso Giuseppe Conte all’inizio della crisi.

Da un lato, perciò, la pura e semplice esistenza di tali piaceri e di chi non vi vuole rinunciare è intollerabile per il dittatore di turno, giacché gli ricorda continuamente il suo fallimento esistenziale; dall’altro, a dispetto della loro apparente frivolezza, essi rappresentano per loro natura un punto di irriducibile resistenza contro qualsiasi potere, come aveva perfettamente chiaro George Orwell, colui che più di chiunque altro ne ha capito l’intima essenza. Non è un caso che anche Gesù Cristo ne avesse la massima considerazione e che per questo venisse giudicato dai moralisti di allora «un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori» (Lc 7, 33): insomma, un tipo poco serio e probabilmente anche poco responsabile, esattamente come i fautori dell’odierno pandemically correct giudicano chiunque non si dimostri entusiasta di ubbidire ai loro dogmi.

Naturalmente, già conosco l’obiezione standard a queste considerazioni, perché è anch’essa una delle suddette parole d’ordine, che ci viene ossessivamente ripetuta: “I sacrifici sono duri, ma necessari”. Peccato solo che si tratti di una balla cosmica, perché questi sacrifici sono solo duri, ma per niente necessari, non essendo serviti praticamente a nulla, se è vero, come è vero, che siamo messi peggio perfino dei paesi del Terzo Mondo.

Anzi, proprio l’insistenza su questo aspetto è stata ed è tuttora la principale causa non del contenimento, bensì della diffusione del virus, perché è ciò che ha finora impedito di capire la sostanziale differenza tra il vero lockdown, duro, breve ed efficace, in cui si chiude davvero tutto, come in Cina, in Australia e in Nuova Zelanda (ma anche, almeno nella prima fase, in Grecia e un po’ in tutta l’Europa dell’Est e del Nord), e lo pseudo-lockdown all’italiana, meno duro, ma in compenso molto più lungo e molto meno efficace.

Da noi, infatti (e per “noi” intendo non solo l’Italia, ma tutti i paesi in cui dominano l’ideologia atlantica e il pandemically correct, quindi tutta l’Europa occidentale e le Americhe), quando si parla di chiudere “tutto” in realtà si sottintende sempre “tutto ciò che può causare assembramenti”: quindi negozi, locali pubblici, attività sportive (vedi, proprio in questi giorni, l’allucinante vicenda degli impianti sciistici) e perfino le elezioni, ma non fabbriche e uffici.

Eppure, non solo il buon senso, ma anche tutti gli studi scientifici, a cominciare da quello sui primi dati cinesi pubblicato il 26 febbraio 2020 (l’unica cosa buona fatta dalla OMS in questa sciagurata vicenda, i cui principali risultati restano validi ancor oggi), indicano che la probabilità di contagio è massima tra persone adulte che stanno a lungo in ambienti chiusi, mentre quella minima è all’aperto tra giovani. È quindi evidente che l’accanimento contro i mitici “assembramenti” e, in particolare, contro la ancor più mitica “movida” ha una motivazione essenzialmente ideologica. E, come ogni ideologia, ha prodotto risultati catastrofici per i popoli, ma che per certi versi fanno invece comodo a chi sta al potere.

Una volta di più, non sto dicendo che ci sia un piano a tavolino per prolungare artificiosamente la pandemia: la realtà è sempre molto più complessa del semplicismo complottista. E tuttavia è innegabile che proprio questo, oggettivamente, sia stato l’effetto prodotto dalle misure adottate dai nostri governi allo scopo di contenerla, così come è innegabile che a ciò abbia contribuito, insieme a tutte le altre cause prima ricordate, anche la tendenza autoritaria che punta alla rieducazione dei popoli europei attraverso l’uso terroristico del pandemically correct.

Altrettanto innegabile è che ci siano già stati vari tentativi di insinuare, con le scuse più varie, che forse anche dopo esserci liberati del virus dovremmo mantenere almeno alcune delle misure attuate durante lo stato di emergenza. Alcuni, come per esempio i produttori di sistemi informatici, lo fanno per evidenti interessi economici (tra parentesi, dovremmo sempre ricordarci che gli esperti di sistemi informatici sono sempre anche produttori o quantomeno progettisti degli stessi e quindi il loro parere non è mai esattamente disinteressato), ma in altri casi la motivazione è chiaramente ideologica, anche se “travestita” da tecnica.

Tale atteggiamento ideologico diventa ancor più evidente (e più preoccupante) se consideriamo i mass media, dove la volontà, largamente maggioritaria, di sostenere a tutti i costi i governi, fregandosene altamente di quanti morti stanno causando con i loro errori pur di sbarrare la strada ai “populisti”, è non solo palese, ma spesso anche esplicitamente dichiarata: basti dire che perfino Massimo Cacciari, che, come abbiamo appena visto, è uno dei pochi critici davvero intelligenti di Conte, ha sempre sostenuto che il suo governo “non aveva alternative”, benché ciò fosse palesemente falso, come i fatti hanno appena dimostrato.

Più in generale, la “sorpresa” da tutti dichiarata per la “geniale mossa” di Mattarella di dare l’incarico a Draghi (che invece era del tutto ovvia e scontata, essendo fin dall’inizio della crisi l’unica soluzione praticabile) in parte sarà anche stata dovuta a pura ottusità, ma in parte ben più grande è stata un palese quanto maldestro tentativo di nascondere il fatto che le “analisi” che indicavano come unica soluzione possibile il Conte-Ter altro non erano che pressioni mascherate da previsioni.

Ma c’è di più e di peggio. Infatti, almeno alcuni tentativi di strumentalizzare intenzionalmente l’informazione si sono certamente verificati. Lasciando stare, per il momento, tutto il tema della manipolazione del linguaggio, che è così ampio e importante che gli dedicherò un articolo a parte, gli episodi di disinformazione sono stati talmente gravi e ripetuti che possono essere definiti adeguatamente soltanto con la parola “censura”. Anche qui posso fare solo alcuni esempi, ma confido che basteranno.

Anzitutto, spero che tutti abbiano notato come tra le interviste fatte per strada alla gente dai vari TG non se n’è mai vista neanche una in cui l’intervistato criticasse l’efficacia delle misure governative dal punto di vista strettamente sanitario, il che è chiaramente impossibile e si spiega soltanto col fatto che in onda vengono mandate solo quelle in cui l’intervistato raccomanda di ubbidire alle regole (in certi casi con toni così auto-flagellatori che viene perfino il dubbio che la cosa sia stata concordata prima). Qualche eccezione viene fatta solo per i negazionisti veri e propri, in modo da dare la falsa impressione che tutti quelli che criticano le regole siano, appunto, negazionisti.

Un altro aspetto gravissimo è l’intollerabile doppiopesismo con cui vengono abitualmente giudicate le azioni dei “correct” e degli “incorrect”. Ho detto prima che Trump si è giocato la rielezione con le idiozie che ha detto sul virus, anche se poi le sue azioni sono state assai meno scriteriate delle sue affermazioni. Tuttavia, se queste ultime sono state (giustamente) bollate come “irresponsabili” e a volte perfino “criminali”, che dire del “buon” Biden e del “grande” Anthony Fauci, che hanno sempre dichiarato di volersi ispirare al “modello Italia”, nonostante che l’Italia abbia sempre avuto molti più morti per abitante degli USA? Usando lo stesso metro, anche queste affermazioni dovrebbero essere considerate irresponsabili e criminali esattamente come quelle di Trump, anzi, ancora di più, perché se fossero state messe in pratica avrebbero causato la morte di ancora più persone. Eppure, avete mai sentito qualcuno dirlo? No? Ecco, appunto…

Comunque, la cosa in assoluto più scandalosa è il totale silenzio sulle esperienze dei paesi del Pacifico, che in alcune occasioni ha toccato vette tali che più che di censura si dovrebbe parlare di riscrittura della realtà, sullo stile di 1984 di Orwell.

Fig. 1. Per la OMS Taiwan non esiste, in quanto è considerata parte integrante della Cina.

Un primo esempio, che ha dell’incredibile, è quello di Taiwan, che nella mappa del contagio del sito ufficiale della OMS nemmeno compare, essendo considerata parte integrante della Cina. E Taiwan non è un paese qualunque, dato che è quello che se l’è cavata meglio di tutti al mondo; appena 0,34 morti per milione di abitanti, che significa che noi ne dovremmo avere appena 20! Che nessuno abbia mai denunciato questo scandalo, nemmeno i media di opposizione, che pure avrebbero tutto l’interesse a farlo, può significare una sola, incredibile cosa: che nessun giornalista è mai andato a vedere i dati ufficiali della OMS, limitandosi a commentarne le affermazioni, che spesso sono in completo contrasto con quanto emerge dai suoi stessi dati, del che però nessuno si accorgerà mai, se nessuno li va mai a guardare. Ciò rappresenta un radicale tradimento della missione del giornalista, che è quella di informare (che significa innanzitutto informarsi) e non di dividere il mondo in buoni e cattivi in base a categorie ideologiche costruite a tavolino.

Fig. 2. Capodanno senza mascherine a Auckland. Secondo la RAI erano tutti in casa a guardarlo alla TV.

Non meno assurdo è il trattamento riservato ad Australia e Nuova Zelanda. Per esempio, in occasione del Capodanno tutti i TG della RAI del 31 dicembre e del 1° gennaio (li ho controllati e registrati uno per uno, quindi nessuno si azzardi a negare) hanno accuratamente evitato di mostrare, come invece è sempre accaduto in passato, le folle che festeggiavano in strada, senza distanziamenti e senza mascherine, a Auckland, Sydney e Melbourne (nonché a Taiwan, Singapore, Bangkok e in molti altri paesi in cui il contagio è azzerato da mesi), arrivando addirittura in alcuni casi a sostenere esplicitamente che anche lì la gente avrebbe visto i fuochi d’artificio soltanto da casa.

In un caso si è arrivati ad affermare che solo in Cina la gente era scesa in piazza, peraltro sempre con le mascherine, il che costituisce un’ulteriore menzogna, perché, come si vedeva anche nel servizio da Wuhan, solo alcuni la portavano, il che significa che era una scelta personale, perché se fosse stata obbligatoria ovviamente l’avrebbero avuta tutti.

Fig. 3. I tifosi si “assembrano” festosamente senza mascherine intorno a Luna Rossa nel golfo di Hauraki. La RAI, però, ha parlato solo del mini-lockdown di 3 giorni dovuto ad appena 3 contagi ad Auckland.

La stessa cosa si è ripetuta, ma in forma, se possibile, ancor più vergognosa, con la Coppa America in Nuova Zelanda e gli Open di Australia di tennis, dove i TG e la Domenica Sportiva hanno raccontato con dovizia di particolari le imprese di Luna Rossa e dei grandi tennisti, ma non hanno mai mostrato né menzionato il pubblico che assisteva senza limitazioni e senza mascherine. Durante le telecronache, invece, per forza di cose non hanno potuto evitarlo, ma l’unico commento che ho sentito, all’inizio delle regate nel golfo di Hauraki, è stato: “Beati loro!”, come se la libertà dal virus gli fosse piovuta dal cielo per grazia divina (sulle telecronache del tennis non ho informazioni perché per scelta non guardo le Pay TV, ma, visto l’andazzo generale, non mi aspetto nulla di diverso, anche se naturalmente sarei ben felice di essere smentito).

In compenso, TG e DS si sono invece subito affrettati ad annunciare il rinvio delle regate di martedì 16 e mercoledì 17 febbraio per un mini-lockdown di appena 3 giorni deciso dalla premier Jacinda Ardern per 3 soli contagi (peraltro probabilmente “importati”) scoperti ad Auckland. Anzi, il TG3 delle 14 di domenica 14 febbraio è arrivato al punto di mettere fra i suoi titoli di apertura che “in Nuova Zelanda il virus torna a fare paura”, naturalmente guardandosi bene dal dire che si trattava, appunto, di soli 3 casi, che fino a quel momento il pubblico aveva assistito alle regate in totale libertà e che il lockdown era stato deciso non perché la situazione fosse preoccupante, ma perché proprio nell’intervenire con la massima decisione al minimo segno di contagio, prima che la situazione diventi preoccupante, consiste la “dottrina Jacinda” che ha permesso ai neozelandesi di vivere una vita praticamente normale da maggio in qua, come ho spiegato nel mio articolo del 12/01/2021.

Fig. 4. Pubblico senza mascherine agli Australian Open di tennis. Anche qui, la RAI ha parlato solo del mini-lockdown di 5 giorni dovuto ad alcuni contagi “di importazione” nell’hotel dell’aeroporto di Adelaide.

Esattamente lo stesso è successo con gli Australian Open, dove la RAI non ha mai mostrato né commentato le immagini del folto pubblico che ha assistito alle prime giornate, ma ha invece subito annunciato il mini-lockdown di 5 giorni deciso per alcuni casi scoperti ad Adelaide, peraltro anch’essi chiaramente di importazione, essendosi verificati all’Holiday Inn, l’hotel dell’aeroporto. Anche qui, nessun cenno al fatto che sia prima che dopo si è giocato con il pubblico, dato che dal 16 ottobre a oggi in Australia ci sono stati appena 5 morti su 25 milioni di abitanti, né che questo risultato strabiliante (l’Italia da allora a oggi di morti ne ha avuti 58.000) è stato ottenuto grazie alla “conversione” dell’Australia alla suddetta “dottrina Jacinda” (vedi sempre mio articolo del 12/01/2021), né infine che il senso di questi mini-lockdown è consentire il tracciamento di tutti i possibili contagi già avvenuti senza che nel frattempo se ne verifichino altri, per poi tornare rapidamente a quella normalità che noi ci sogniamo ormai da un anno, mentre i neozelandesi ne godono già da 8 mesi e gli australiani da 4.

È chiaro che una distorsione così sistematica e “mirata” della realtà non può essere attribuita soltanto all’ignoranza e all’incompetenza (che pure la loro parte la giocano), ma implica necessariamente una strategia pianificata a tavolino, che nel caso della TV di Stato non può che provenire direttamente dal governo, mentre negli altri casi è con ogni probabilità frutto di un misto di pressioni governative e di altre interne allo stesso sistema mediatico.

Di alcuni casi ho anche testimonianze certe, ma purtroppo non posso citarle, perché conoscere i fatti e poterli provare in tribunale sono due cose separate e distinte. Io stesso mi sono visto rifiutare due articoli da due diversi quotidiani (di cui, per le stesse ragioni di cui sopra, non farò il nome) perché i giornalisti a cui li avevo proposti, pur condividendoli, mi hanno detto che la direzione non li avrebbe mai accettati, in un caso per paura di ritorsioni da parte del governo e nell’altro per non metterlo in difficoltà.

La cosa più paradossale, comunque, è che questa strategia sta ottenendo l’effetto esattamente opposto a quello che si propone, facendo crescere, anziché diminuire, il numero dei negazionisti, esattamente come il tentativo di imporre i dogmi della “ideologia europea” ha fatto crescere, anziché diminuire, il numero degli antieuropeisti.

Anche il motivo è lo stesso: se infatti chi capisce confusamente che c’è qualcosa che non va nella visione ortodossa proposta dall’establishment non trova qualcuno che sia capace di spiegargli in modo chiaro e convincente che cosa esattamente non va, finirà per andar dietro a chiunque capiti, anche se ha le idee confuse come e perfino più delle sue, purché si opponga a politiche che ormai vengono ritenute inaccettabili, non tanto perché richiedono sacrifici, ma – giova ripeterlo – perché richiedono sacrifici inutili o, nel migliore dei casi, assolutamente sproporzionati ai magrissimi risultati ottenuti.

Ora, sul breve termine questo metodo ha sicuramente pagato, rafforzando il suddetto establishment, perché è più facile battere un avversario rozzo e “impresentabile” che uno preparato e intelligente, ma sul lungo periodo radicalizzare i conflitti sociali può solo avere effetti catastrofici per tutti (tra parentesi: è mai possibile che nessun fautore del politically correct si renda conto di quanto sia controproducente cercare continuamente l’appoggio dei personaggi dello spettacolo, che sono visti – più a ragione che a torto, per la verità – come dei ricchi ignoranti e presuntuosi che vivono in un modo che non ha nulla a che fare con quello della gente comune e ciononostante pretendono di farle la morale?).

I primi effetti negativi rischiamo di vederli già nei prossimi mesi, perché sta montando una diffusa opposizione che potrebbe ulteriormente rallentare il già troppo lento piano vaccinale, che a questo punto è l’unica via di salvezza che ci resta prima del baratro. Ho molti amici che, pur non essendo assolutamente contrari ai vaccini in generale, non si fidano di questi vaccini perché non si fidano di questi governi e di questi esperti. E la cosa più drammatica è che hanno ragione.

Questo è un punto molto delicato, a cui bisognerà una volta o l’altra dedicare una riflessione a parte, perché se è vero che molti scienziati hanno cercato di suggerire strategie più intelligenti ai governi (peraltro senza essere mai ascoltati), è altrettanto vero che pochissimi hanno contestato alla radice le loro politiche: nonostante l’evidenza del loro totale fallimento, quasi tutti si sono infatti limitati a proporre correzioni di aspetti particolari e soprattutto maggiore efficienza, all’interno di un quadro che fondamentalmente continuava a basarsi sugli stessi erronei presupposti.

In particolare, stupisce il comportamento dei medici: una loro sollevazione collettiva, con richiesta di un drastico cambiamento di rotta, in questa situazione non potrebbe essere facilmente ignorata, eppure non l’hanno mai neanche tentata, nonostante rischino la pelle in prima persona, tanto che ne sono già morti oltre trecento. La mia impressione, ascoltando non solo i discorsi in televisione, ma anche quelli dei molti medici che conosco (alcuni li ho pure in famiglia), è che pensino davvero che non ci siano errori concettuali di fondo, ma solo di gestione, il che è davvero incomprensibile, perché, diversamente dai non addetti ai lavori, la loro interpretazione dei dati non dovrebbe essere influenzata dalla propaganda dei media e, come abbiamo visto, quello che emerge dai dati è un quadro completamente diverso rispetto a quello delineato dall’ideologia del pandemically correct.

La sostanziale accettazione di quest’ultimo presuppone quindi un processo di autoinganno almeno in parte volontario: è quello che Václav Havel, il più lucido e profetico dei dissidenti dell’Est, nel suo capolavoro Il potere dei senza potere chiama “autototalitarismo sociale” e che ricorda molto il meccanismo descritto pochi giorni fa su questo stesso sito dal politologo Paolo Natale. Ma, come ho detto, ne parleremo un’altra volta.

Ciò che invece adesso dobbiamo sottolineare è quanto sia pericoloso l’atteggiamento delle nostre attuali classi dirigenti, la cui stragrande maggioranza reagisce all’avanzata dei negazionisti esattamente come a quella dei populisti (peraltro ormai visti sostanzialmente come la stessa cosa): demonizzandoli ancor più e insistendo a volerli “rieducare” anziché provare ad ascoltarli, senza fare di tutta l’erba un fascio e distinguendo, tra le diverse posizioni, quelle assolutamente infondate da quelle che invece nascono da preoccupazioni assolutamente legittime e giustificate.

Questo si è visto in modo emblematico in America, dove la prima “geniale” mossa della strategia di Biden per “riconciliare il paese” è stata sostenere a spada tratta l’impeachment per Trump, tra l’altro contrario alla logica prima ancora che alla Costituzione, dato che l’impeachment non è un processo penale, bensì la «messa in stato d’accusa di persona che detiene un’alta carica pubblica, ritenuta colpevole di azioni illecite nell’esercizio delle proprie funzioni, allo scopo di provocarne la destituzione» (Dizionario online di Oxford Languages) e quindi per definizione non si applica a chi sia già stato rimosso dalla sua carica, “per la contradizion che nol consente”, qualsiasi cosa pensino e votino gli illustri membri del Congresso. È vero che tecnicamente la motivazione dell’accusa era la sua presunta responsabilità nell’assalto al Campidoglio, ma è evidente a chiunque che si trattava in realtà di un attacco a tutta la sua politica e innanzitutto alla gestione dell’epidemia.

Ora, se voi foste dei sostenitori di Trump, magari anche moderati e critici verso l’atteggiamento che ha tenuto nella fase finale del suo mandato, come vi sentireste ora: più o meno inclini a riconciliarvi con Biden? La risposta è ovvia quanto la domanda, e di conseguenza il fatto che praticamente nessuno se la sia posta dimostra una volta di più come “riconciliarsi con l’avversario” nel linguaggio del politically correct significhi in realtà “rieducarlo”.

Del tutto analoga è la situazione nostrana, emblematicamente rappresentata dalla celeberrima espressione “sciamani d’Italia” che Massimo Giannini, direttore di La Stampa nonché ex vicedirettore di Repubblica nonché autoproclamato esperto del virus per il solo fatto di esserselo beccato (ed esserne fortunatamente guarito), ha «usato per definire le reazioni di Matteo Salvini e Giorgia Meloni al quasi golpe di Washington» (Gli sciamani e la mia risposta alla Meloni, editoriale di La Stampa dell’11 gennaio 2021, p. 1).

A parte che parlare al proposito di “quasi golpe” significa o essere fuori dal mondo o essere in malafede, anche qui la motivazione tecnicamente si riferisce all’assalto al Campidoglio, ma è evidente a chiunque che si tratta in realtà di un attacco a tutta la loro politica, a cominciare dalla scelta del vocabolo, che allude sì alla loro presunta vicinanza all’incredibile personaggio che ha guidato il suddetto assalto (il che dimostra quanto si fosse lontani anni luce da un vero golpe), ma anche – e certo non casualmente – a un loro presunto atteggiamento antiscientifico, che in parte, come ho già detto, in quei partiti esiste davvero, ma non giustifica quello che è a tutti gli effetti un mero insulto (pesante) e non una critica razionale. Anche il tono generale non era quello di chi critica un avversario, ma di chi lancia una scomunica, tant’è vero che le loro rispettive parti politiche nello stesso articolo sono definite «parte del problema» in quanto «ambigue, […] reticenti, […] anomale, […] populiste, […] radicali, […] illiberali, […] a-repubblicane» e perciò «inadatte a governare un Paese» (ibidem, p. 9). E non si tratta certo di un caso isolato, anche se è quello che ha fatto più notizia.

Del resto, il fatto stesso che due dei tre più grandi quotidiani italiani abbiano potuto scambiarsi come se niente fosse direttore e vicedirettore, nonostante un orientamento politico e culturale in teoria piuttosto diverso, la dice lunga su quanto l’omogeneità culturale prodotta dalla condivisione dei dogmi della “ideologia atlantica” nonché del politically e del pandemically correct sia ormai di gran lunga più profonda e più forte di qualsiasi altra differenza, nonché su come tale “blocco culturale” si muova ormai davvero “all’unisono”, formalmente rispettando le regole democratiche, ma nella sostanza comportandosi in modo sempre più intollerante.

Il dramma è che pochissimi dei nostri leader sembrano aver capito la necessità di cambiare rotta (speriamo, per il bene di tutti, che uno di essi sia Draghi, anche se per quanto riguarda la gestione dell’epidemia in senso stretto non c’è da farsi troppe illusioni, come dimostra la conferma alla Sanità del ministro Speranza, uno dei principali colpevoli del disastro italiano).

Eppure, un esempio, per giunta non teorico, ma concretissimo, che “un altro modo è possibile” ci sarebbe ed è rappresentato ancora una volta dalla Nuova Zelanda, dove negazionisti e populisti (che prima c’erano anche lì) sono praticamente spariti, non per magia, ma grazie al comportamento radicalmente diverso tenuto dalla giovanissima Jacinda Ardern, eletta premier per la prima volta nel 2017 ad appena 37 anni.

Anzitutto, infatti, lei si è sempre assunta la responsabilità delle proprie azioni in base ai risultati che hanno determinato, anziché giustificarle in base ai principi che le hanno ispirate, come usa da noi. Basti dire che quando due turiste inglesi trovate positive all’aeroporto per una svista erano state lasciate andare anziché metterle in quarantena la signora Jacinda andò subito in televisione e disse che si trattava di «un fallimento inaccettabile del sistema», cioè innanzitutto suo.

Eppure, si trattava di appena due casi che le erano sfuggiti dopo che aveva già azzerato il contagio, con appena 25 morti su 5 milioni di abitanti! Nessuno si sarebbe certamente sognato di biasimarla, se non si fosse scusata. E invece no! Chiedendo ai suoi concittadini di accettare il lockdown totale lei aveva promesso in cambio la totale eradicazione del virus, quindi anche due soli casi erano inaccettabili. L’abisso che passa tra il suo atteggiamento e quello di Conte, nonché di tutti gli altri leader “atlantici” si riflette con esattezza matematica nell’abisso tra i suoi risultati e i loro.

Ma non basta. Infatti, dopo essere stata rieletta trionfalmente il 17 ottobre scorso con la maggioranza assoluta (come era logico, visti i risultati ottenuti) che ha fatto Jacinda? È andata in televisione a bacchettare i suoi avversari e a vantarsi di quanto era stata brava? Manco per sogno! La sua prima dichiarazione è stata: «Viviamo in un mondo sempre più polarizzato, un luogo dove sempre più persone hanno perso la capacità di mettersi nei panni degli altri. Spero che in queste elezioni la Nuova Zelanda abbia dimostrato di non essere così. Ma una nazione che sa ascoltare, discutere. Siamo troppo piccoli per perdere di vista la prospettiva degli altri. Le elezioni non sempre uniscono le persone. Ma non significa che debbano dividerle».

Dopodiché, anche se avrebbe potuto governare tranquillamente da sola, si è immediatamente messa al lavoro per creare un governo di coalizione sostenuto dalla più ampia maggioranza possibile, tra cui tantissime donne (senza bisogno alcuno di “quote rosa”) e, cosa ancor più rivoluzionaria, tantissimi parlamentari di etnia maori, affidando non qualche sottosegretariato, ma nientemeno che il Ministero degli Esteri a Nanaia Mahuta, imparentata con la famiglia reale dei Maori.

Questa è riconciliazione. Questa è inclusione. Questa è educazione (e non “rieducazione”) del popolo. Questa è, in una parola, politica, nel senso migliore del termine.

Perché non proviamo a fare lo stesso anche noi?

 




Il termometro dell’epidemia (release 1.0)

Anche oggi (ultimo dato disponibile, ore 18.00 del 22 febbraio), la temperatura dell’epidemia è salita di 1.6 gradi, passando da 82.4 a 84.0 gradi pseudo-Kelvin.

L’aumento è essenzialmente dovuto al cattivo andamento dei nuovi contagi (nell’ultima settimana si sono registrati 81 mila nuovi casi rispetto ai 76 mila della settimana precedente) ed è in parte legato alla crescita degli ingressi ospedalieri. Continuano a rimanere stabili i decessi.

La variazione settimanale della temperatura è positiva ed è pari a +2.8 gradi.

Va ricordato, come sempre, che l’andamento della temperatura non riflette quello dei contagi attuali, ma quello dei contagi avvenuti 2-3 settimane fa.

La temperatura dell’epidemia è stata calcolata considerando i soli casi identificati mediante test molecolare.

Per maggiori dettagli si rimanda alla Nota tecnica.




Vitamina D e minore mortalità per COVID-19: le evidenze e il suo uso per prevenzione e cura

Sulla base di sempre più numerose evidenze epidemiologiche riportate nella letteratura medico-scientifica, appare ogni giorno più chiaro come il raggiungimento – tramite esposizione al sole o semplice integrazione quotidiana – di adeguati livelli di vitamina D nel sangue sia necessario non soltanto per prevenire le numerose patologie croniche che possono ridurre l’aspettativa di vita nelle persone anziane e creare “comorbidità” che aggravano il COVID-19, ma anche per determinare direttamente una maggiore resistenza al COVID-19 e, di conseguenza, un netto calo non del numero di infezioni (con cui non è stata trovata alcuna correlazione), bensì della mortalità e dei ricoveri in terapia intensiva. Ciò non stupisce, sia alla luce del ruolo protettivo della vitamina D in numerose altre patologie virali grazie alla sua attività immunomodulante e antivirale, sia del fatto che, in Italia, nel 2020 il numero di ricoverati in terapia intensiva in rapporto ai casi attivi sia crollato proprio nei mesi estivi, quando maggiore è l’irradiazione solare ultravioletta, responsabile della produzione naturale della vitamina D. L’Italia, fra l’altro, è – come ben noto ai medici di base – uno dei Paesi europei (insieme a Spagna e Grecia) con maggiore carenza di vitamina D nella popolazione. Pertanto, il compenso a scopo preventivo della carenza di vitamina D, in associazione alle ben note misure di ordine generale, potrebbe senza dubbio contribuire a superare questa difficile emergenza (non è un caso che l’Inghilterra stia già distribuendo la vitamina D agli anziani), insieme all’auspicabile impiego terapeutico in ambito ospedaliero in aggiunta alle cure attuali, come già avvenuto con successo in studi condotti in altri Paesi. Il costo irrisorio della vitamina D, il suo elevatissimo profilo di sicurezza  e la sua indipendenza (a differenza dei vaccini) dalle diverse varianti del SARS-CoV-2, rendono dunque l’affiancare alla campagna vaccinale (1) la prevenzione con la vitamina D e (2) l’informazione al pubblico sull’argomento una strategia win-win, attuabile in pochi giorni anziché i molti mesi della vaccinazione di massa, e nella quale non si ha nulla da perdere ma potenzialmente molto da guadagnare. Infine, fa riflettere che oltre 150 fra docenti universitari e medici ospedalieri italiani di alto livello abbiano firmato un appello in tal senso promosso a inizio dicembre dall’Accademia di Medicina di Torino, ma inascoltato dalle Istituzioni preposte alla gestione della pandemia.

L’azione di protezione della vitamina D contro le più varie infezioni virali

La vitamina D è un ormone che modula la risposta immunitaria, ad effetto antinfiammatorio e antimicrobico. Esistono due principali forme di vitamina D: la vitamina “D2” (ergocalciferolo) e la vitamina “D3” (colecalciferolo). La vitamina D2 è assunta tramite una dieta a base di vegetali (ad es. funghi irradiati con raggi UV-B). Il colecalciferolo naturale (vitamina D3), invece, si ottiene in piccola quantità dal cibo animale, ma è principalmente sintetizzato nella pelle dopo l’esposizione alla luce solare. In pratica, la radiazione ultravioletta fornisce circa l’80% della vitamina D naturale, il resto lo dà la dieta.

La produzione di vitamina D / D3 è influenzata principalmente dalla intensità dei raggi ultravioletti solari di tipo UV-B (280-315 nm), dalla durata dell’esposizione al sole, dalla pigmentazione della pelle e dalla superficie della pelle disponibile per l’esposizione. L’esposizione di 10-15 min al sole di tutto il corpo, a mezzogiorno in piena estate, in un individuo di carnagione chiara può produrre un aumento dei livelli di vitamina D nel sangue equivalente a quello indotto da una dose orale fino a 625 microgrammi (pari a 250.000 UI), ben maggiore dei circa 70-125 microgrammi al giorno (28.000-50.000 UI) equivalenti al livello sintetizzato alla fine della stagione estiva dalla pelle normale, non chiara, di un lavoratore esposto cronicamente al sole [26, 28]. Viceversa, l’indossare vestiti con le maniche o lo stare quasi sempre all’ombra riduce il livello di vitamina D nel sangue. E anche in un lockdown è lecito attendersi che i livelli di vitamina D negli individui coinvolti siano destinati rapidamente a calare.

Variazione stagionale dei livelli di concentrazione della vitamina D nel sangue, rilevata su un gruppo di 7.437 britannici dell’età di 45 anni. Si noti come tali livelli siano massimi nel mese di settembre e minimi nel mese di febbraio, un andamento stagionale temporalmente piuttosto simile a quello che incontreremo più avanti per i raggi ultravioletti solari (fonte: Hopkin et al. 2020 [1])

È stato da tempo dimostrato, nella letteratura medica, che la vitamina D potenzia l’attività antimicrobica contro diversi agenti patogeni, inclusi i virus respiratori. Infatti, sia le osservazioni in vitro che le prove con l’assunzione di vitamina D come integratore hanno ampiamente dimostrato il carattere protettivo della vitamina D contro vari virus respiratori (tra cui virus sinciziale, influenza) e altri virus non respiratori (come il virus dell’immunodeficienza umana virus, il virus dell’epatite C e il virus della dengue) [2].

Già quasi dieci anni fa, Beard et al. (2011) [3] hanno concluso che studi epidemiologici interventistici e osservazionali forniscono la prova che la carenza di vitamina D nel sangue può conferire un aumento del rischio di influenza e di infezioni acute delle vie respiratorie [4]. Inoltre, uno studio controllato randomizzato aveva dimostrato che l’integrazione di vitamina D per i pazienti ad alto rischio di infezione delle vie respiratorie riduce i sintomi e la necessità di terapia antibiotica [5]. E una recente meta-analisi basata su otto studi osservazionali ha riportato che i soggetti con una carenza (<20 ng/ml) di vitamina D nel sangue avevano un rischio aumentato del 64% di polmonite acquisita in comunità [6].

Una recente meta-analisi di Martineau et al. (2017) [7] mostra che l’assunzione regolare di vitamina D3 per via orale (a dosi fino a 2.000 UI / giorno) è al tempo stesso sicura e protettiva contro le infezioni acute delle vie respiratorie, specialmente nei soggetti con carenza di vitamina D [8]. Anche una recente meta-analisi di diversi studi, svolta da Nurshad Ali [6], ha dimostrato il ruolo della vitamina D nel ridurre il rischio di infezioni virali acute del tratto respiratorio e della polmonite, attraverso (1) l’inibizione diretta della replicazione virale o (2) tramite azione antinfiammatoria o (3) immunomodulazione.

L’ipotesi di un ruolo protettivo della vitamina D anche nei confronti del COVID-19

Alcuni ricercatori hanno dunque ipotizzato che l’insufficienza di vitamina D possa compromettere la funzione immunitaria respiratoria, aumentando il rischio di gravità e mortalità anche nel caso del COVID-19 [6]. Il COVID-19, infatti, è una malattia che può essere suddivisa, sostanzialmente, in tre fasi: (1) una fase asintomatica; (2) una fase sintomatica non grave con il coinvolgimento del tratto delle vie respiratorie superiori; (3) una fase di grave malattia potenzialmente letale, caratterizzata da carenza di ossigeno nel polmone e progressione alla “sindrome da distress respiratorio acuto” (ARDS) [9].

I recenti dati clinici suggeriscono che questi sintomi gravi siano dovuti all’attivazione della risposta immunitaria che porta alla tempesta di citochine, responsabile dello sviluppo dell’ARDS. La tempesta di citochine è solitamente una risposta infiammatoria incontrollata culminante con la secrezione di citochine proinfiammatorie e chemochine, che porta a distress respiratorio acuto, insufficienza multiorgano e, infine, morte. Le citochine proinfiammatorie che sono responsabili della tempesta di citochine sono state trovate a un livello più in alto nei pazienti COVID-19 che richiedono il ricovero in terapia intensiva [9].

La vitamina D è ben nota inibire la risposta immunitaria infiammatoria patologica; di conseguenza, essa potrebbe ridurre al minimo il verificarsi della tempesta di citochine [9]. Attraverso le sue interazioni con una moltitudine di cellule, la vitamina D può avere, in realtà, diversi modi per ridurre il rischio di infezioni acute del tratto respiratorio e di COVID-19, nonché il danno a più organi da esso indotto: riduzione della sopravvivenza e replicazione dei virus, riduzione del rischio di produzione di citochine infiammatorie, etc. [10]. Pertanto, la vitamina D potrebbe avere effetti protettivi e terapeutici contro il COVID-19.

L’effetto protettivo della vitamina D contro il COVID-19 sarebbe correlato, secondo l’opinione diffusa fra i ricercatori, soprattutto alla soppressione della risposta delle citochine e alla riduzione della gravità / rischio di sindrome da distress respiratorio acuto (ARDS), verosimilmente secondo lo schema un po’ più tecnico illustrato in figura, relativo a persone con comorbidità. Qui le linee solide indicano stimolazione / induzione, mentre quelle tratteggiate indicano inibizione / blocco. (fonte: Ferder et al., 2020 [23])

Un apporto inadeguato di vitamina D, inoltre, ha una varietà di effetti scheletrici e non scheletrici. Esistono ampie prove che varie malattie non trasmissibili (ipertensione, diabete, sindrome metabolica) siano associate a bassi livelli di vitamina D nel sangue. Queste comorbidità, insieme con la carenza di vitamina D spesso concomitante, aumentano il rischio di eventi COVID-19 gravi [11]. Dunque, una deficienza di vitamina D ha sicuramente un effetto indiretto sulla mortalità del COVID-19 (favorendo le comorbidità), ma – come fra poco vedremo – sembra avere anche un effetto più diretto.

Pertanto, si dovrebbe prestare molta più attenzione all’importanza dei livelli della vitamina D per lo sviluppo e il decorso della malattia da COVID-19. In particolare, nei metodi utilizzati in Europa per controllare la pandemia (lockdown), la sintesi naturale della vitamina D della pelle viene ridotta, in quanto le persone hanno poche opportunità di essere esposte al sole. La breve emivita della vitamina D rende quindi una crescente carenza di questa vitamina più probabile in caso di lockdown [11], con tutte le conseguenze del caso, che risulteranno più chiare nel seguito di questo articolo.

Il legame fra i livelli di vitamina D e due variabili stagionali: irraggiamento UV e inquinamento

La carenza di vitamina D è un problema diffuso, ben documentato nella letteratura accademica, nella popolazione adulta in generale. Tale insufficienza sembra essere associata anche a un aumentato rischio di malattie croniche e del cancro [10], sebbene un rapporto causa-effetto non sia mai stato dimostrato. Pertanto, pur non esistendo un consenso uguale per tutti i Paesi sui livelli ideali di integrazione di vitamina D, le linee guida per l’Italia raccomandano un’assunzione giornaliera compresa fra 1.000 e 2.000 UI di vitamina D, in funzione dell’età e dell’esposizione solare [12]. L’oncologa Debora Rasio raccomanda, anche come possibile ausilio per la prevenzione del cancro, un’integrazione giornaliera di 2.000 UI [13].

Le infezioni delle vie respiratorie sono più frequenti nei mesi invernali (e soprattutto alle latitudini settentrionali) piuttosto che in estate. Questo vale anche per la malattia infettiva COVID-19, che si è diffusa velocemente in tutto il mondo, divenendo una pandemia, nei mesi invernali. Una caratteristica comune dei mesi invernali e degli abitanti di tutti i Paesi a nord del 42-esimo parallelo è una carenza di vitamina D che si verifica frequentemente durante questo periodo. Ciò solleva la questione se un apporto inadeguato di vitamina D abbia un’influenza sulla diffusione e sulla gravitàdella malattia COVID-19 [20].

In effetti, De Natale et al. [14], analizzando il periodo che va 1° marzo-1° ottobre 2020, hanno osservato per l’Italia: (a) per quanto riguarda la diffusione, una anticorrelazione fra il numero di infezioni giornaliere da COVID-19 e l’intensità della radiazione ultravioletta (indice UV) al suolo; (b) per quanto riguarda la gravità, una progressiva decrescita, con un minimo ad agosto, sia del rapporto “Ricoverati in Terapia Intensiva/Casi Attivi” sia di quello “Numero di Morti/Casi Attivi”, usati dagli Autori come indicatori della gravità della malattia. Mentre il calo della diffusione può essere spiegato dal lockdown attuato, quello della gravità può essere ben spiegato con la crescente radiazione UV, e la conseguente maggiore produzione di vitamina D, spiegazione suggerita anche da uno studio ecologico sui fattori ambientali di Isaia et al. [32].

L’effetto di mitigazione dell’epidemia di COVID-19 da parte dei raggi UV-B sembrerebbe trasparire anche analizzando solo l’andamento del numero delle infezioni, sebbene la relazione osservata fra le due variabili possa essere dovuta – in misura difficile da stimare –  anche a fattori estranei (come ad esempio gli effetti del lockdown), per cui non può di per sé evidenziare un nesso causale. Si noti, comunque, la netta anticorrelazione fra il numero di infezioni giornaliere e l’intensità della radiazione solare ultravioletta (registrata da due stazioni meteo, una a Roma e una ad Aosta), che raggiunge un massimo nei mesi estivi, ed è stata elevata da marzo a ottobre 2020. (fonte: De Natale et al., 2020 [14])

Anche l’inquinamento atmosferico gioca un ruolo nell’abbassare i livelli di vitamina D nel sangue, poiché riduce l’esposizione alla luce solare. Ad esempio, il livello di polveri sottili (PM2.5) e di biossido di azoto (utilizzato come tracciante dell’inquinamento atmosferico nelle rilevazioni via satellite) sono elevati nei mesi che vanno da ottobre a marzo, in particolare nella Pianura Padana, che d’inverno risulta essere una delle tre zone più inquinate del mondo, insieme all’area intorno a Pechino ed a quella intorno a New York. Inoltre, anche la nebbia tipica della Val Padana riduce i raggi UV-B, e quindi i livelli di vitamina D.

Come osservato da Hamad et al. [9], i Paesi africani hanno il privilegio del sole nella maggior parte delle stagioni dell’anno, e ciò aiuta a sintetizzare la vitamina D3, il che potrebbe spiegare il basso numero di casi di COVID-19 rispetto a quelli dei paesi europei: fino alla data del 22 agosto 2020, la regione europea ha riferito 3.633.633 casi confermati e 208.959 morti (rapporto 17:1), mentre in Africa i casi confermati sono stati 1.246.185 ed i morti 29.586 (rapporto 42:1). Sebbene i lockdown siano stati implementati sia dai paesi europei che africani, in questi ultimi il rapporto morti/positivi è 2,5 volte più basso.

Il fatto che l’’infezione da COVID-19 sia più diffusa in Europa rispetto all’Africa, molto probabilmente, può  essere attribuito in gran parte alla differenza di immunità, osservano ancora gli autori del citato articolo: gli studi condotti in Africa, in generale, hanno mostrato livelli adeguati o addirittura un’elevata concentrazione media di vitamina D nel sangue, mentre in Europa essa è risultata non ottimale, soprattutto nell’Europa meridionale (Spagna e Italia). E ricordiamo il ruolo della vitamina D nel sopprimere la risposta immunitaria e nel diminuire la tempesta di citochine che rende i casi di COVID-19 gravi e spesso letali [9].

L’assenza di correlazione fra livello di vitamina D e numero di casi di COVID-19

Come evidenziato da Nurshad Ali [6] nel suo già citato articolo di rassegna, è stata osservata una significativa correlazione negativa (p = 0,033) tra i livelli medi di vitamina D ed il numero di casi di COVID-19 per milione di abitanti nei paesi europei [6]. Tuttavia, un altro studio scientifico ha rilevato che, dopo il controllo dei fattori di confondimento, i pazienti con un livello basso di vitamina D nel sangue (<30 ng/mL) hanno una probabilità leggermente maggiore (OR = 1,45, p = <0,001) di essere infettati da COVID-19 rispetto ai pazienti con livello di vitamina D maggiore o uguale a 30 ng/mL [5].

In conclusione, nonostante livelli più elevati di vitamina D siano associati a difese immunitarie migliori e ad una prognosi favorevole in altre infezioni virali, al momento non ci sono prove sufficienti sull’associazione tra i livelli di vitamina D e il numero di casi di COVID-19. Pertanto, sono necessari studi di controllo randomizzati e studi di coorte per verificare ulteriormente questa specifica ipotesi [6], dato che, fino ad ora, nessuna relazione causale è stata testata e, d’altra parte, normalmente sangue e livelli di vitamina D non sono stati valutati nei pazienti infetti di SARS-CoV-2.

Anche secondo una rassegna sistematica e una meta-analisi effettuata da Pereira et al. [15], la carenza di vitamina D non è risultata essere associata a una maggiore probabilità di infezione da COVID-19, tuttavia l’analisi ha evidenziato che i casi gravi di COVID-19 presentano una carenza di vitamina D maggiore rispetto ai casi lievi; inoltre, un’insufficienza di concentrazione di vitamina D ha comportato un aumento dell’ospedalizzazione e della mortalità da COVID-19. Infine, gli Autori hanno osservato un’associazione positiva tra la carenza di vitamina D e la gravità della malattia.

In questo senso, essi hanno osservato che i pazienti con casi gravi di COVID-19, caratterizzati da difficoltà nelle vie respiratorie, saturazione di ossigeno a riposo <93%, o con complicanze della malattia – come la necessità di ventilazione meccanica, shock settico o insufficienza di organi non respiratori – sono anche coloro che tendono a presentare livelli di vitamina D nel sangue inadeguati. Una possibile spiegazione è che la concentrazione di vitamina D sia inversamente associata alle citochine pro-infiammatorie. Uno studio retrospettivo nel sud dell’Asia rafforza questa ipotesi, in quanto mostra livelli di vitamina D significativamente più bassi secondo la gravità della malattia [15].

Apparentemente, dunque, la vitamina D è correlata al controllo della progressione del COVID-19 nel paziente (i famosi tre stadi di cui abbiamo parlato all’inizio) e con l’evoluzione della mortalità a causa dell’infezione. Tuttavia, dovrebbero essere collegati alla carenza di vitamina D anche altri fattori osservati, come la precedente esistenza di comorbidità in questi pazienti e, soprattutto, la loro età, poiché i livelli ridotti di vitamina D nel sangue sono più prevalenti nella parte anziana della popolazione [15]. Il risultato netto è che vi è un effetto della carenza di vitamina D sulla mortalità per COVID-19.

Il ruolo dei vari fattori coinvolti nella mortalità per COVID-19. Si noti come la carenza di vitamina D giochi un ruolo assolutamente centrale e fondamentale nel determinare un’elevata mortalità per COVID-19. Pertanto, è anche il principale fattore su cui agire. (fonte: elaborazione dell’Autore – Uso libero con licenza CC)

Gli evidenti effetti della carenza di vitamina D sulla mortalità da COVID-19

Un postulato importante sulla possibile associazione fra deficit di vitamina D e la malattia COVID-19 è l’elevata mortalità registrata tra la popolazione di anziani, che in virtù di vari fattori (mobilità generalmente più ridotta rispetto alla popolazione attiva, minore frequenza di uscita, etc.) hanno maggiori probabilità di avere livelli più bassi di vitamina D nel sangue. Ad esempio, Ilie et al. (2020) hanno riferito che la popolazione anziana nei paesi con livelli più elevati di mortalità per COVID-19 – come Italia e Spagna – presenta dei livelli medi di vitamina D nel sangue significativamente inferiori [5].

E in effetti, come mostrato dalla rassegna sistematica di Samad et al. [5], “i pazienti con insufficienza di vitamina D (<25 ng/mL) sono risultati avere ben 5,84 volte più probabilità di morire di COVID-19 rispetto alle persone con livelli sufficienti di vitamina D. Anche un altro studio ha scoperto che una carenza di vitamina D è associata a un rischio di morte più elevato: le persone con carenza di vitamina D (<12 ng/mL) avevano una probabilità 2,2 volte maggiore di sviluppare COVID-19 grave dopo l’aggiustamento per età, sesso, obesità, malattie cardiache e malattie renali rispetto alla persone con vitamina D sufficiente” [5].

Interpretazione dei vari livelli di vitamina D nel sangue. (fonte: Italiano et al., 2018)

I risultati degli studi inclusi nella citata meta-analisi di Samad et al. [5] suggeriscono che “la vitamina D può servire come effetto attenuante per la gravità e la mortalità dell’infezione da COVID-19”. Gli Autori della stessa raccomandano, perciò, “la necessità di incoraggiare persone a mangiare cibi ricchi di vitamina D come pesce, carne rossa, fegato e tuorli d’uovo, ed allo stesso tempo di fornire integratori di vitamina D per le persone con COVID-19 al fine di aumentare la risposta del loro sistema immunitario, e quindi riducendo il rischio o la gravità dei disturbi immunomediati respiratori acuti e infiammatori”.

Smarandashe et al. [17] in un articolo di rassegna hanno mostrato che, considerando le latitudini, è stata trovata anche a livello globale – cioè in tutto il mondo, non solo localmente – una piccola correlazione inversa tra il livello della vitamina D nel sangue e il tasso di mortalità. Tuttavia, sebbene a causa di molteplici limitazioni questo studio non consenta di quantificare un valore della vitamina D “raccomandabile” con piena fiducia, permette almeno di capire quale potrebbe essere l’importanza della vitamina D nella prevenzione e nel trattamento del COVID-19, e che sarebbe prudente investire in questa direzione attraverso ampi studi clinici randomizzati [17].

Pugach et al. [18] hanno indagato, in particolare, la situazione in 10 Paesi d’Europa, trovando una forte correlazione (con r = 0,76, p = 0,01) tra il tasso di mortalità per milione da COVID-19 e la prevalenza di una grave carenza di vitamina D. La correlazione è rimasta significativa, anche dopo l’adeguamento all’età struttura della popolazione. Inoltre, nel tempo, la correlazione si è rafforzata e il coefficiente r è aumentato in maniera asintotica (v. figura). Gli Autori suggeriscono che ciò dovrebbe spingere a un possibile trattamento e prevenzione del COVID-19 tramite integrazione di vitamina D.

Grafico in alto: La prevalenza di grave carenza di vitamina D vs. le morti di COVID-19 per milione in 10 diversi Paesi europei. Grafico in basso: L’andamento nel corso del tempo della correlazione fra morti per COVID-19 e carenza di vitamina D. Si noti comunque che, in entrambi i casi, il legame fra le due variabili – sebbene interessante e suggestivo – potrebbe essere dovuto almeno in parte ad altri fattori estranei, perciò di per sé non è sufficiente a provare un nesso causale. (fonte: Pugach et al., 2020 [18])

L’abbattimento della mortalità con l’integrazione ad alte dosi di vitamina D3

Un altro modo di notare il legame fra vitamina D e mortalità è nella profilassi con integrazione. In una rassegna sistematica e meta-analisi effettuata da Nikniaz et al. [19], l’analisi aggregata di quattro studi ha mostrato una diminuzione solida e statisticamente significativa del tasso di mortalità tra i pazienti con integrazione di vitamina D. Inoltre, ha rivelato che l’integrazione di vitamina D può migliorare in modo significativo: (1) la sopravvivenza dei pazienti, (2) ridurre le complicanze cliniche, (3) diminuire il tasso di ricovero in terapia intensiva e (4) abbassare i livelli sierici dei marker infiammatori.

In pratica, l’integrazione di vitamina D sembra diminuire il tasso di mortalità, la gravità della malattia ed i livelli di marcatori infiammatori tra i pazienti infetti da COVID-19, portando a una prognosi migliore e ad un aumento del tasso di sopravvivenza. Sebbene i risultati siano completamente a favore della vitamina D, riducendo essa il tasso di mortalità, non si può ancora trarre una conclusione definitiva a causa della mancanza di studi ad hoc: servono ulteriori studi per determinare il dosaggio ottimale dell’integrazione di vitamina D nella profilassi e per indagare ulteriormente i potenziali effetti terapeutici [19].

Ma qualche primo dato importante è arrivato a novembre scorso. In uno studio osservazionale incrociato condotto da Ling et al. [20], a 151 pazienti è stata somministrata una terapia booster, ovvero ad alte dosi di vitamina D3 (approssimativamente di 280.000 UI per un periodo di tempo fino 7 settimane). Questa, indipendentemente dai livelli basali di vitamina D nel sangue inizialmente presenti, è risultata essere associata a un rischio di mortalità notevolmente ridotto (del 62-87%) nei pazienti acuti ricoverati con COVID-19. Inoltre, più recentemente, Nogues et al. [33] in Spagna hanno trovato, somministrando la vitamina D3 ai pazienti di COVID-19 ammessi in ospedale, risultati molto simili: una riduzione dell’80% dei ricoveri in terapia intensiva e un calo del 60% nella mortalità. La vitamina era somministrata come segue: prima dose di 2 capsule (266 microgrammi / capsula, pari a 100.000 UI / capsula) al basale (giorno 0), una seconda dose di 1 capsula al giorno 3 e dosi successive di 1 capsula ai giorni 7, 15 e 30.

Pertanto, il trattamento con vitamina D3 sembra essere fortemente protettivo contro la mortalità per COVID-19 e mostra come l’integrazione di vitamina D3 sia necessaria per mantenere la salute immunitaria e rappresenti una potenziale opzione terapeutica per il COVID-19 [20]. L’impiego della vitamina D3 come potenziale opzione nella terapia per il COVID-19 risulta, evidentemente, una prospettiva attraente, data l’ampia disponibilità e il basso costo, nonché l’elevato profilo di sicurezza, in combinazione con un monitoraggio regolare dei livelli nel sangue.

Gli studi clinici su piccola scala stanno già iniziando a popolare la letteratura peer-reviewed. In uno studio pilota su 76 pazienti ricoverati con COVID-19 in un centro spagnolo, Entrenas Castillo et al. [21] hanno scoperto che un numero ben il 99,7% inferiore di pazienti trattati con vitamina D3 sono stati ricoverati in terapia intensiva rispetto ai controlli [20]. I pazienti trattati ricevevano per via orale 532 microgrammi (210.000 UI) il giorno del ricovero, e 266 microgrammi nei giorni 3 e 7, e poi settimanalmente fino alla dimissione o al ricovero in terapia intensiva.

Inoltre, Rastogi et al. [22] hanno recentemente completato in India un studio randomizzato controllato con placebo sulla terapia con vitamina D3 ad alte dosi (60.000 UI per 7 giorni) in 40 pazienti positivi al SARS-CoV-2 che erano asintomatici o solo lievemente sintomatici. Nei pazienti del gruppo di trattamento, alla fine del periodo di studio di 14 giorni è stata raggiunta una percentuale maggiore di negatività al SARS-CoV-2 ed i livelli di fibrinogeno (utilizzati come un biomarcatore della risposta infiammatoria) sono risultati significativamente più bassi rispetto al gruppo di controllo [20].

Perché le prove raccolte sono già convincenti e quanta vitamina D si può prendere

Come illustrato da Mercola et al. [10], “quattordici studi osservazionali provano che le concentrazioni di vitamina D nel sangue sono inversamente correlate con l’incidenza o la gravità del COVID-19. Le prove raccolte fino ad oggi soddisfano generalmente i famosi “criteri di Hill” per la causalità in un sistema biologico, vale a dire: forza dell’associazione, coerenza, temporalità, gradiente biologico, plausibilità (ad es. meccanismi) e coerenza. Dunque, la relazione causa-effetto poggia su solide basi”.

Anche se la conoscenza del ruolo della vitamina D è ancora scarsa, i dati raggruppati supportano il suo ruolo di strategia adiuvante volto a fornire una protezione rapida ed efficace contro il rischio di effetti gravi legati all’infezione da SARS-CoV-2. In questo scenario, sono stati provati diversi approcci, come dosi giornaliere di vitamina D per poco tempo o l’uso di una dose di carico iniziale seguita da alte dosi di vitamina D (booster) per un breve periodo. In ogni caso, e in tempi di pandemia, ciò consente di raggiungere concentrazioni plasmatiche all’interno di intervalli appropriati di 30-50 ng/mL o superiori [23].

Più specificamente, strategie come quella suggerita da Grant et al. [25] propongono una dose di 10.000 UI / giorno per un mese per raggiungere rapidamente l’obiettivo di 40-60 ng/mL di vitamina D, seguita da 5.000 UI / giorno per alcune altre settimane. Il livello proposto di alte dosi di vitamina D è sorprendente, trascurando i suoi possibili effetti tossici; tuttavia, a questo riguardo, alcuni studi dimostrano che una dose di 10.000 UI al giorno per 4-6 mesi non ha nessun effetto negativo: ad esempio, Amir et al. [24] non hanno verificato effetti tossici in donne canadesi con cancro al seno e metastasi ossee [23].

Come osservano Grant et al. [25], “un altro gruppo ha lavorato con 10.000 UI / giorno per 6 mesi senza causare ipercalcemia e ottenendo livelli di vitamina D dell’ordine di 79 ng/mL. la scommessa è stata più alta in altri studi con proposte per una dose iniziale di 100.000 UI per raggiungere subito concentrazioni nel sangue superiori a 20 ng/mL, o di 300.000 UI per livelli superiori a 30 ng/mL, e anche di una dose iniziale di 500.000 UI per adulti sani. In un altro studio clinico, una dose mensile di 100.000 UI non ha aumentato né il tasso di incidenza di eventi di calcoli renali né il tasso di incidenza dell’ipercalcemia”.

In un consensus pubblicato di recente, è stato suggerito che le dosi che vanno da 4.000 UI a 10.000 UI sono sicure ed efficaci per ottenere il vantaggio degli effetti della vitamina D [23]. Tuttavia, ulteriori studi sono necessari per confermare quale sia la migliore soglia di protezione contro il COVID-19 o per il trattamento di pazienti con infezione recente. Sulla base di scarse informazioni, confrontando una dose singola elevata rispetto alle dosi giornaliere di vitamina D, alcuni autori hanno notato che i dati mostrano risultati migliori con dosi giornaliere di vitamina D, che dunque sembrano essere preferibili [23].

La prevenzione del COVID-19 con la vitamina D ha già senso, per la cura ci serve il dosaggio  

L’assunzione preventiva giornaliera di vitamina D dovrebbe migliorare molto la salute dei pazienti in modo che possano essere in una forma migliore per affrontare il COVID-19, qualora venga contratto il relativo coronavirus, e aumentare le loro difese contro questa infezione. Inoltre, dovrebbe essere tenuto presente che il lockdown (come pure la quarantena), come strategia di protezione per il popolazione contro l’infezione, complica i meccanismi immunitari di difesa a causa di un calo significativo dei livelli sierici di vitamina D conseguenti alla ridotta esposizione al sole, specie nei mesi invernali.

Pertanto, un aumento della concentrazione di vitamina D nel sangue potrebbe ridurre drasticamente i sintomi più gravi della malattia, e ancora di più diminuire il numero di morti. L’aumento dei livelli di vitamina D può essere ottenuto o (1) per via naturale aumentando l’esposizione alla luce solare (i classici 20 minuti al giorno con almeno braccia e gambe totalmente scoperti) o (2), in maniera più controllata e quasi esclusiva nei mesi invernali, tramite integrazione con vitamina D3, preferibilmente con assunzione quotidiana (a scopo preventivo) di una dose simile a quella suggerita dall’oncologa Debora Rasio (2.000 UI).

In Italia, il Ministero della Salute dovrebbe quindi senz’altro valutare di consigliare – attraverso una campagna di sensibilizzazione trasmessa sulle principali emittenti nazionali – una maggiore esposizione al sole delle persone [31] e un’integrazione di vitamina D almeno pari [30] alle linee guida nazionali preesistenti. Idealmente, il livello di integrazione dovrebbe tener conto anche dell’età (gli anziani e i soggetti fragili necessitano in generale di un’integrazione ben maggiore), del periodo dell’anno (l’irraggiamento solare a dicembre-gennaio è meno della metà rispetto a quello a luglio, e con la scarsa esposizione fa sì che i livelli di vitamina D d’inverno siano circa 10 volte inferiori che d’estate), dei livelli di inquinamento atmosferico (elevato fra ottobre e marzo), dell’esposizione al sole e di dove essa avviene (gli edifici e le vetrate attenuano le lunghezze d’onda biologicamente significative, cioè le UV-B).

Se per la prevenzione delle carenze di vitamina D il da fare è già chiaro, per la cura del COVID-19 una volta che si avvertano sintomi c’è ancora da approfondire. Sebbene gli studi al momento disponibili suggeriscano che la vitamina D3 in alte dosi possa essere usata anche a scopo terapeutico, in quanto a tale assunzione sembra essere associata una assai rilevante diminuzione del rischio di morte, è necessario svolgere ulteriori studi per determinare quale livello di alto dosaggio sia adeguato. Studi sulla popolazione effettuati in tal senso potrebbero quindi spianare la strada, a breve, ad applicazioni cliniche su larga scala.

Ad ogni modo, “Hathcock et al. (2007) [26] affermano che il corpo può gestire senza problemi dosaggi di integrazione orale di vitamina D3 fino a 10.000 UI (ovvero 25 microgrammi) al giorno per diversi mesi, che pertanto rappresenta un sicuro “livello massimo tollerabile” basato su evidenze scientifiche, mentre soglie più basse e restrittive non sono basate su evidenze. Recentemente, dunque, un dosaggio fino a 10.000 UI è considerato di base, come quello fisiologico che si produce naturalmente attraverso l’esposizione al sole del corpo (con busto, braccia e gambe scoperte e senza crema solare) per 10-15 minuti, dalle 10:00 alle 16:00” [4]. Di conseguenza, i medici di base possono già usare o raccomandare alte dosi di integratori di vitamina D per trattare il COVID-19 alla luce della loro sicurezza e dell’ampia finestra terapeutica.

Perché si tratta di una misura auspicabile parallelamente alla vaccinazione

Le restanti alternative per contrastare la malattia COVID-19 e la relativa pandemie sono attualmente basate su: (1) l’impiego di un ampio spettro di farmaci (in particolare, antivirali e antinfiammatori, ma anche anticorpi monoclonali) che potrebbero attenuare gli effetti dell’infezione e della progressione della malattia; (2) l’isolamento sociale delle popolazioni a rischio per evitare la propagazione; (3) la vaccinazione di massa, che però con la maggior parte dei vaccini previsti ha un’efficacia limitata, lasciando quindi un larga fetta della popolazione priva dell’immunità sperata (anche di quella “di gregge”).

Tuttavia, date le pesantissime conseguenze economiche dell’isolamento sociale, la vulnerabilità della campagna vaccinale a eventuali varianti vaccino-resistenti che ne vanificherebbero gli effetti, e l’elevato costo e l’incertezza per il trattamento specifico con i farmaci (il remdevisir, ad esempio, è un antivirale molto costoso che si è rivelato alla fine un “flop”, nonostante la forte campagna di “promozione” messa in atto dal produttore americano, mentre le terapie monoclonali sono estremamente costose per il Sistema Sanitario Nazionale), è fondamentale sviluppare – e affiancare alla strategia vaccinale – delle strategie terapeutiche rapide e convenienti per proteggere la popolazione vulnerabile.

In questo momento l’età avanzata, la presenza di malattie preesistenti (comorbidità) e la carenza di vitamina D sono tre caratteristiche che risultano essere associate a una elevata mortalità per COVID-19. Di queste tre, solo la carenza di vitamina D è modificabile. Pertanto, intervenire in tal senso è fondamentale, tanto più che si tratta di una sostanza dall’elevato profilo di sicurezza e dal costo praticamente nullo: un’integrazione di 2.000 UI a giorno costa a una persona circa 2 euro al mese, per cui il costo è totalmente sostenibile dai cittadini e risulta essere del tutto irrisorio rispetto alle possibili alternative.

Due tabelle che dovrebbero far molto riflettere sia i decisori politici sia quelli sanitari, che – evidentemente – non attuando una strategia “win-win” come quella proposta, e di fatto sostenuta da ben 155 medici italiani di alto livello accademico tramite un appello promosso dall’Accademia di Medicina di Torino (vedi il documento [30] citato in bibliografia), se ne assumono in pieno la responsabilità. (fonte: elaborazione dell’Autore – Uso libero con licenza CC)

In pratica, poiché la vitamina D è venduta in Italia (senza necessità di alcuna ricetta medica) in capsule da 1.000 o 2.000 IU, ed è universalmente accettato che dosi fino a 4.000 UI al giorno sono sicure, “una raccomandazione di (minimo) 1.000 UI per giorno (25 microgrammi al giorno) per tutti gli adulti sarebbe sicura e dovrebbe essere promossa con urgenza” [27]. I casi di tossicità da vitamina D sono rari, e si riferiscono sempre a dosi estremamente elevate assunte per un periodo di tempo prolungato. In letteratura, i dati che mostrano la sicurezza per la salute di un’integrazione di vitamina D a 50 microgrammi (2000 UI) al giorno (o anche più) abbondano [28].

Ciò è assai importante soprattutto nel Nord Italia e nella Pianura Padana, dove l’inquinamento – nei mesi che vanno da ottobre a marzo compresi – contribuisce ulteriormente ad abbassare i livelli di vitamina D, già bassi naturalmente per la ridotta irradiazione solare invernale di raggi UV-B. E la riduzione delle carenze di vitamina D tramite integrazione orale con la D3 è tanto più importante nei soggetti over 70 (che nel nostro Paese rappresentano circa l’85% di quelli che muoiono per COVID-19), nei diabetici, negli obesi e nelle persone fragili o in cui la carenza di vitamina D è più prevalente. Tant’è che, in Inghilterra, il Governo ha già avviato la distribuzione di vitamina D agli anziani. Ma in Italia non si può pensare di puntare a tale obiettivo se, come purtroppo è finora accaduto, la popolazione non viene neppure informata sul tema!

Anzi, il Ministero della Salute si spinge addirittura oltre, facendo di fatto – a mio modesto parere – una disinformazione sull’argomento, come si può leggere (al 14/2/21) sul portale istituzionale sotto la voce “Fake News” [29]: “Non ci sono attualmente evidenze scientifiche che la vitamina D giochi un ruolo nella protezione dall’infezione da nuovo coronavirus. La Circolare del 30 novembre 2020 del ministero della Salute “Gestione domiciliare dei pazienti con infezione da SARS-CoV-2” sottolinea che “non esistono, ad oggi, evidenze solide e incontrovertibili (ovvero derivanti da studi clinici controllati) di efficacia di supplementi vitaminici e integratori alimentari (ad esempio vitamine, inclusa vitamina D, lattoferrina, quercitina), il cui utilizzo per questa indicazione non è, quindi, raccomandato”. Ogni commento è superfluo (per tacere del fatto che la vitamina D si chiama così, ma non è una vitamina bensì un ormone!).

Un esempio di comunicazione istituzionale molto discutibile (per usare un gentile eufemismo). Certamente la vitamina D non impedisce affatto l’infezione, come abbiamo visto nel presente articolo, ma altrettanto certamente risulta essere tutt’altro che inutile a scopo preventivo, come ampiamente documentato dalla bibliografia oggi disponibile, per cui – non ponendo oltretutto rischi ma solo benefici, per cui non c’è niente da perdere ma potenzialmente tanto da guadagnare – oggi non appare più sostenibile il NON raccomandarne l’uso, soprattutto alla popolazione (anziana e non) che ne è carente!

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Desidero ringraziare il prof. Giancarlo Isaia (endocrinologo e internista, docente di Geriatria e Malattie metaboliche dell’osso all’Università di Torino) per la revisione critica del manoscritto, nonché per aver portato il tema qui trattato all’attenzione del Ministero della Salute, del CTS, dell’ISS e dell’AIFA. Naturalmente, la responsabilità di eventuali errori o inesattezze residui è esclusivamente dell’Autore. Vorrei esprimere la mia gratitudine anche al mio amico C. Puosi, medico con 2 specializzazioni e oltre 25 anni di esperienza, per le utili discussioni sull’argomento avute in questi mesi di pandemia. Infine, vorrei dedicare questo articolo alla memoria del recentemente scomparso Pietro Greco, decano dei giornalisti scientifici italiani, che è stato mio maestro e tutor al Master in Comunicazione della Scienza, quasi 25 anni fa.

Riferimenti bibliografici

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[22] Rastogi A. et al., “Short term, high-dose vitamin D supplementation for COVID-19 disease: A randomised, placebo-controlled, study (SHADE study)”, Postgrad. Med. J., 2020.

[23] Ferder L. et al., “Vitamin D supplementation as a rational pharmacological approach in the COVID-19 pandemic”, AJP Lung Cellular and Molecular Physiology, Dicembre 2020.

[24] Amir E. et al., “A phase 2 trial exploring the effects of high-dose (10,000 IU/day) vitamin D(3) in breast cancer patients with bone metastases”, Cancer, 2010.

[25] Grant W.B. et al., “Evidence that Vitamin D Supplementation Could Reduce Risk of Influenza and COVID-19 Infections and Deaths”, Nutrients, 2 aprile 2020.

[26] Hathcock J.N. et al., “Risk assessment for vitamin D”, American Journal of Clinical Nutrition, 2007.

[27] Hopkin J., “Preventing vitamin D deficiency during the COVID-19 pandemic: UK definitions of vitamin D sufficiency and recommended supplement dose are set too low”, Clinical Medicine, 21 gennaio 2021.

[28] McCartney D. et al., “Optimisation of Vitamin D Status for Enhanced Immuno-protection Against Covid-19”, Irish Medical Journal, Aprile 2020.

[29] Ministero della Salute, “La vitamina D protegge dall’infezione da coronavirus?”, in Fake News.

[30] Isaia G., D’Avolio A., e (al 14/2/21) altri 153 medici italiani, promosso dall’Accademia di Medicina di Torino, “Vitamina D nella prevenzione e nel trattamento del COVID-19: nuove evidenze”, versione del 3/12/20,

[31] Isaia G., Medico E., “Associations between hypovitaminosis D and COVID-19: a narrative review”, Aging Clin. Exp. Res., Settembre 2020.

[32] Isaia G., Diémoz H., Maluta F. et al., “Does solar ultraviolet radiation play a role in COVID-19 infection and deaths? An environmental ecological study in Italy”, Science of the Total Environment, 25 febbraio 2021.

[33] Nogues X. et al., “Calcifediol treatment and COVID-19-related outcomes”, Preprint with The Lancet.




Draghi manterrà la promessa di rendere accessibili i dati sull’epidemia?

Pubblichiamo di seguito il comunicato ANSA in cui si dà notizia della richiesta di accesso ai dati sull’epidemia, avanzata dal prof. Giuseppe Valditara a nome dell’associazione Lettera 150.

(ANSA) – ROMA, 22 FEB – Tornano a chiedere la trasparenza sui dati relativi alla pandemia di Covid-19 in Italia, gli oltre 300 docenti che fanno capo a Lettera 150, il think tank nato durante il primo lockdown per proporre soluzioni efficaci contro l’epidemia e per la ricostruzione del Paese. Lo fanno in un appello al presidente del Consiglio, Mario Draghi.

Risale all’11 gennaio scorso la prima richiesta di trasparenza sui dati relativi ai 21 indicatori sulla base dei quali ministero della Salute e Istituto Superiore di Sanità (Iss) analizzano la situazione del Paese e sulla base dei quali vengono assegnati alle regioni i diversi colori che corrispondono alle misure restrittive. “Abbiamo presentato al ministero un’istanza di accesso agli atti, ma non abbiamo avuto risposta”, dice all’ANSA il giurista Giuseppe Valditara, fondatore di Lettera 150.

L’istanza chiedeva di rendere accessibili gli indicatori di processo sulla capacità di monitoraggio (come il numero di casi sintomatici notificati per mese in cui è indicata la data di inizio dei sintomi e la storia del ricovero), quelli relativi alla capacità di accertamento diagnostico e alla gestione dei contatti (come l’intervallo di tempo dall’inizio dei sintomi e la diagnosi) e quelli relativi a stabilità di trasmissione e tenuta dei servizi sanitari (come il numero dei nuovi focolai e dei nuovi casi non associati a catene di trasmissione note).

“Quindi abbiamo presentato un ricorso al Tar del Lazio per chiedere che disponga l’ordine di esibire i dati. Lanciamo ora un appello al presidente Draghi, nel quale nutriamo fiducia.

Abbiamo apprezzato – prosegue Valditara – il passaggio dell’intervento alla Camera nel quale il presidente del Consiglio ha sottolineato che la trasparenza è un elemento fondamentale delle istituzioni e dei governi e che il governo deve mettere a disposizione della comunità tutti i dati”.

A Draghi Lettera 150 chiede adesso “di passare dalle parole ai fatti”. Secondo Valditara “il governo ha un’ottima occasione per dimostrare la trasparenza che Draghi ha definito fondamentale, mettendo a disposizione della comunità scientifica tutti i dati che supportano i 21 indicatori utilizzati dal ministero della Salute”.

Valditara osserva che la richiesta di trasparenza è stata avanzata anche da altre voci autorevoli della comunità scientifica italiana, come l’Accademia dei Lincei, e la stessa Lettera 150, con la Fondazione Hume, aveva promosso una petizione che ha raccolto 40.000 firme, “ma senza ricevere alcuna risposta dal precedente governo”.

Al presidente Draghi si chiede ora di andare incontro alla richiesta di trasparenza, anche “per non vedere un governo che venga costretto ad esibire i dati richiesti da un provvedimento del Tar. Accesso ai dati e trasparenza – conclude Valditara – sono fondamentali perché l’opinione pubblica sia informata correttamente e la comunità scientifica abbia tutti gli elementi per studiare il fenomeno e suggerire le soluzioni migliori”.

 

(ANSA, 22-FEB-21)