Un governo Draghi dal gusto agrodolcissimo. Intervista a Luca Ricolfi

Professor Ricolfi, il neo premier Draghi in questi due giorni ha scoperto le carte e nel suo discorso ha tratteggiato il programma di governo. Qual è il suo sentimento prevalente dopo il passaggio a Senato e Camera? Nota qualche affinità con l’ultimo governo guidato da un tecnico ovvero quello di Mario Monti?
Il mio sentimento verso il nuovo governo? Agro-dolce, direi. Anzi, agro e dolcissimo. Dolcissimo perché, rispetto a quel che abbiamo avuto nell’ultimo anno e mezzo, il governo Draghi è un progresso enorme. Con il Conte bis abbiamo avuto il peggior governo dell’Italia repubblicana, un governo che ha sulla coscienza decine di migliaia di morti, e che non ha mai chiesto scusa per i propri errori. Un governo che, al solo scopo di tutelare gli equilibri fra Pd e Cinque Stelle, ha rimandato tutte le scelte cruciali e non è stato in grado di scrivere un Recovery Plan decente. Con Draghi, se Dio vuole, abbiamo invece tre garanzie fondamentali: l’Europa non ci boccerà il Recovery Plan; i mercati finanziari saranno meno aggressivi nel concederci credito; le scelte più demagogiche hanno buone probabilità di essere stoppate.

E il lato agro?
Il lato agro è la composizione del governo, più politico che tecnico, e la genericità/ovvietà degli impegni programmatici. Quando un presidente di consiglio si insedia, per capire le sue intenzioni, io non guardo mai alla lista dei problemi che intende risolvere, o alla giaculatoria dei temi su cui mostra sensibilità: le solite donne, i soliti giovani, il solito ambiente, la solita digitalizzazione, la solita cultura, la solita pubblica amministrazione da modernizzare, la solita giustizia da velocizzare, la solita crescita da rilanciare, la solita immigrazione da governare, i soliti investimenti nel Mezzogiorno, la solita mafia da sconfiggere, la solita evasione fiscale da combattere. Io guardo a una cosa soltanto: i mezzi con cui quei problemi si proverà a risolvere. E su questo la delusione è cocente: Draghi ha detto pochissimo, e le poche cose incisive che, sia pure cripticamente, ha osato dire – rimpatri dei non aventi diritto e tutela dei lavoratori, ma senza salvataggio dei posti di lavoro – di fatto è stato costretto a rimangiarsele nella replica al Senato.

Uno dei campi di battaglia su cui questo governo si gioca la reputazione è ovviamente quello della lotta al virus. La politica sanitaria si poggia su due pilastri: la campagna vaccinale e il contenimento del Covid. Esaminiamoli entrambi. Partiamo dai vaccini. Che discontinuità nota?
Di discontinuità ne vedo solo due, tutto sommato abbastanza marginali. Primo: Draghi ha mandato a monte la buffonata delle “primule” (padiglioni per le vaccinazioni), e chiesto l’aiuto del settore privato e dell’esercito. Secondo: Draghi ha promesso solennemente che il suo governo abbandonerà la folle politica delle restrizioni last minute, come nel disgraziato caso della stagione sciistica (ma anche delle vacanze natalizie).
Quanto ai vaccini, ormai è chiaro a tutti che l’obiettivo dichiarato dal ministro Speranza e dalla sottosegretaria Zampa (vaccinare il 70-80% degli italiani entro settembre) non sarà raggiunto, né poteva esserlo. Chiunque abbia in casa una calcolatrice avrebbe potuto capirlo da solo, ma è comunque un fatto positivo che si smetta di illudere gli italiani.

Basta l’addio alle primule e una logistica più razionale per raggiungere l’immunità di gregge entro l’autunno?
Tutti ce lo auguriamo, ma una valutazione realistica suggerisce una risposta netta: no, non basta. Per raggiungere quell’obiettivo, infatti, devono verificarsi contemporaneamente almeno 5 condizioni:

  1. arrivo di un numero di dosi sufficiente;
  2. capacità logistico-organizzativa del sistema sanitario nazionale di vaccinare almeno l’80% della popolazione (le varianti più trasmissibili elevano la soglia dell’immunità di gregge);
  3. soluzione del problema degli under-18 per cui non esiste ancora un vaccino sicuro ed efficace;
  4. riduzione del numero di no-vax e di ostili alla vaccinazione al di sotto del 20%;
  5. utilizzo di vaccini che non solo bloccano la malattia ma anche la trasmissione,

Le sembra probabile che queste 5 condizioni si realizzino tutte entro pochi mesi?

Per quanto riguarda invece la strategia di contenimento del Covid, e soprattutto delle sue varianti, nel discorso si trova poco o nulla. Come interpreta questo “buco”?
E’ questa la mia principale delusione, ed è la conferma che il governo Draghi è nato solo per gestire il Recovery Plan, non certo per fronteggiare  diversamente la pandemia. Draghi non solo non ha sostituito Speranza, ma nulla ha detto che faccia presagire un sostanziale cambio di linea. Io temo che la ragione sia abbastanza semplice: Draghi sa che, non avendo il governo precedente fatto quasi nulla di quel che avrebbe potuto evitare il lockdown, ora l’unica alternativa rimasta sarebbe un lockdown più severo; ma sa anche che, se lo attuasse, la Lega uscirebbe dal governo; quindi anche lui, come il suo predecessore, giochicchierà con il meccanismo dei semafori finché le terapie intensive piene convinceranno anche Salvini (spero ovviamente di sbagliarmi, e che Draghi cambi rotta subito).

Ci sarà un cambio di passo rispetto al governo Conte? O semplicemente si consolideranno il sistema dei colori e dei lockdown locali?
Penso che nelle prime settimane assisteremo a qualche modesto ritocco al sistema dei colori, mentre più avanti – se l’epidemia continuasse a risultare fuori controllo – potrebbe esserci un tardivo appello alla responsabilità individuale, magari accompagnato da qualche promessa di fare finalmente qualcosa sui versanti cruciali: trasporti, tamponi, tracciamento, sequenziamento, medicina territoriale, controllo delle frontiere.
Certo, il fatto di non aver sostituito Speranza fa supporre che, finché la realtà non lo costringerà a cambiare rotta, manterrà la direzione di marcia del governo precedente, con effetti drammatici sull’economia (il che, alla lunga, potrebbe rivelarsi il peccato originale del governo Draghi).

Sulla politica economica invece abbiamo qualche elemento in più. A partire dalla riscrittura del Recovery. Si sente più tranquillo rispetto al precedente governo?
Infinitamente più tranquillo. Penso che con Draghi non vedremo troppe misure di natura clientelare, ed eviteremo pure qualche “boiata pazzesca”, che con il governo precedente nessuno ci avrebbe risparmiato.

Invece sulla visione di Draghi sui sussidi a imprese e lavoratori e su come far ricrescere l’Italia che opinione ha?
Penso che Draghi creda nella “distruzione creatrice” alla Schumpeter, ma che dovrà pure lui concedere qualcosa all’assistenzialismo, andando in soccorso di imprese decotte e salvando posti di lavoro fittizi, magari mediante l’ingresso dello Stato (o meglio della Cassa depositi e Prestiti) nel capitale di alcune imprese.
Il problema è che Draghi non ci ha detto se, per far ripartire la crescita, punterà su politiche care alla destra (meno tasse sui produttori) o su politiche care alla sinistra (redistribuzione del reddito verso i ceti bassi).

Anche sulla politica migratoria mi sembra ci sia ancora un po’ di confusione. Secondo lei nel governo vincerà la spinta leghista o quella di sinistra?
Secondo me vincerà la spinta della sinistra, ma per una buona ragione: la sinistra una soluzione (paradossale) del problema migratorio ce l’ha, mentre la destra ha già dimostrato di non averla.

In che senso?
La soluzione della sinistra è demandare la soluzione all’Europa. In pratica: in attesa che l’Europa batta un colpo, ci teniamo tutti i migranti che sbarcano, e gli facciamo pure il test anti-Covid. Lamorgese è perfetta per questa politica.
La destra invece non ha una soluzione, anche se finge di averla. Tenere i migranti in mare 1-2 settimane e pietire micro-distribuzioni in Europa, senza essere in grado di rimpatriare i non aventi diritto alla protezione internazionale non è una soluzione. Riduce il flusso, ma non risolve il problema.
L’unica che una soluzione sembra averla è la Meloni. Ma la sua soluzione (il blocco navale) non è gradita all’Europa, e probabilmente viola il diritto internazionale, o perlomeno la interpretazione prevalente di esso.

In generale, quanto Draghi può restare ingabbiato dalle spinte contrapposte di partiti molto distanti fra loro? Stupito dalla composizione tecnico-politica dell’esecutivo, con 2/3 dei ministeri riservati ad esponenti politici?
Sì, sono rimasto un po’ stupito, perché mi aspettavo il contrario (2/3 di tecnici e 1/3 di politici), e soprattutto non mi aspettavo una suddivisione così politica dei posti disponibili: manuale Cencelli per i ministeri affidati ad esponenti dei partiti, donne del Pd completamente escluse. Molto significativo che Carlo Calenda, uno dei pochissimi politici con capacità gestionali (e uno dei più convinti sostenitori del governo Draghi), sia stato escluso dall’esecutivo.
L’impressione è che Draghi abbia già concesso molto ai partiti che lo sostengono, mentre non è chiaro se – quando sarà il momento delle scelte che contano – saprà far valere l’interesse nazionale oppure no. Io temo che ci riuscirà per pochi mesi, e che nel semestre bianco – quando i parlamentari non dovranno più temere lo scioglimento delle camere – diventerà ostaggio dei partiti. Ma mi auguro con tutto il cuore che questo non succeda.

Un ultimo passaggio sulla polemica sulla ridotta quota di donne nella squadra. Prima vera “stecca” di Draghi?
Più che stecca di Draghi, benvenuta rivelazione della vera natura del Pd: un partito che non perde occasione per agitare la questione femminile, i diritti delle donne, la parità di genere, e alla prima occasione di passare dalle parole ai fatti rivela la sua cultura quasi-islamica. Zingaretti che afferma che i ministri maschi del Pd li avrebbe scelti Draghi, è la migliore rappresentazione della natura di quel partito, o quantomeno della qualità del segretario che si è scelto.
Nel suo libro (La notte delle ninfee. Come si malgoverna un’epidemia) fa notare come i paesi guidati da donne (Norvegia, Finlandia, Islanda, Danimarca, Nuova Zelanda, Germania) siano stati più efficienti nel combattere la pandemia. Solo un caso o pensa ci sia un nesso causale?
Anche se nel libro lascio in forse la questione, tendo a pensare che un nesso ci sia. Tendenzialmente, le donne sono più concrete, meno narcisiste, meno inclini all’autoinganno (l’autoinganno ritarda le decisioni impopolari, con effetti catastrofici nel governo di un’epidemia). Ma non è solo questo. Probabilmente il fattore chiave, il fattore che spiega perché le donne governano meglio, è la discriminazione a danno delle donne.

Come sarebbe a dire? La discriminazione ha effetti virtuosi?
No, la discriminazione non è una buona cosa, ma produce un effetto statistico interessante. Se c’è discriminazione, ma non ce n’è abbastanza da impedire l’elezione di un premier donna, allora accade che – per farcela – una donna deve essere più brava, più in gamba, più preparata di quanto sia richiesto a un uomo. E se il paese in cui vive è abbastanza civile da concedersi di eleggere un premier donna, allora quel medesimo premier – tendenzialmente – sarà più in gamba. Perché per essere eletto avrà dovuto superare ostacoli più alti di quelli che, mediamente, deve superare un maschio. E’ questo che è successo nella galassia scandinava, e anche in Germania, con il lungo cancellierato di Angela Merkel.

E in Italia, come siamo messi?
Siamo messi male, perché quasi nessuno vuole davvero vedere e affrontare il problema. Che non è (solo) quello della discriminazione delle donne in generale, ma quello della sua matrice politica. Non so se l’ha notato anche lei, ma nel sistema dei partiti la presenza delle donne nei ruoli di comando è strettamente connessa all’asse sinistra-destra. E’ minima nella sinistra comunista e nei Cinque Stelle, è bassa nel Pd, cresce un po’ nel partito di Renzi, è alta nel centro-destra (soprattutto in Forza Italia), è massima in Fratelli d’Italia, il partito più a destra e l’unico – fra i partiti importanti – ad essere guidato da una donna. In nessun altro paese al mondo, che io sappia, la sinistra è così maschilista, e la destra così (a suo modo) femminista.

Intervista rilasciata all’Huffington Post il 19 febbraio 2020




Il termometro dell’epidemia (release 1.0)

La temperatura dell’epidemia è tornata a diminuire. Oggi (ultimo dato disponibile, ore 18.00 del 18 febbraio) il termometro segna 78.8 gradi pseudo-Kelvin ed è in diminuzione di 1.3 gradi.

Il miglioramento è dovuto al calo dei nuovi contagi (nell’ultima settimana si sono registrati 74 mila nuovi casi rispetto ai 78 mila della settimana precedente) e ad una diminuzione più lieve dei decessi (2.1 mila decessi settimanali rispetto ai 2.4 mila della settimana precedente). Continuano a rimasti stabili gli ingressi ospedalieri stimati.

La riduzione settimanale della temperatura è pari a -6.3 gradi.

Va ricordato, come sempre, che l’andamento della temperatura non riflette quello dei contagi attuali, ma quello dei contagi avvenuti 2-3 settimane fa.

La temperatura dell’epidemia è stata calcolata considerando i soli casi identificati mediante test molecolare.

Per maggiori dettagli si rimanda alla Nota tecnica.




Fake news e distorsione delle percezioni

Le distorsioni della realtà dovute a percezioni parziali e deformate degli accadimenti e dei più rilevanti fenomeni non sono certo una novità, dall’avvento della società di massa. Già all’inizio del secolo scorso molti psicologi e sociologi si interrogavano sulla formazione delle opinioni, sottolineando come nel giudicare un fenomeno contasse a volte più l’opinione che si aveva della realtà che la realtà stessa. L’opinione, come argomentava un secolo fa il politologo Walter Lippmann, non è altro che il frutto della percezione della realtà filtrata da un ambiente cognitivo formato da stereotipi, da visioni semplificate e parziali della realtà. Con l’avvento dei social media, come noto, questo processo è divenuto talmente pervasivo che ha finito per influenzare in maniera decisiva la costruzione sia della personalità individuale che di quella collettiva.

E le fake news, sempre più presenti sul Web per screditare la parte avversa e rinforzare le proprie credenze, sono divenute nel tempo una sorta di informazione alternativa cui si ricorre aprioristicamente e acriticamente per convincersi di essere “nel giusto”, andando solo raramente a identificare la bontà e la correttezza delle fonti. Il motivo pare evidente: le notizie che confermano il proprio pregiudizio, vere o false che siano, vengono credute, condivise e propagate in rete, all’interno della “bolla” delle amicizie sui social; il contrario accade per quelle che smentiscono la propria opinione, che vengono considerate non veritiere, messe in discussione sebbene ci siano evidenti prove a loro sostegno. Non si mette in discussione la propria percezione dei fatti, ma i dati reali: è la percezione che vince sui fatti.

Una logica talmente evidente che anche la “scelta” di quale virologo fidarsi (e affidarsi) trae origine dalla propria percezione della pandemia: se non vogliamo più lockdown, scegliamo quello che afferma che il virus è ormai sotto controllo; se siamo dell’avviso che non sono prudenti le riaperture incontrollate, optiamo con chi ci dice che il peggio deve ancora venire.

A corollario, in una recente indagine Ipsos, è stato chiesto agli italiani se a loro parere i nostri concittadini siano in grado di distinguere le notizie false da quelle vere: secondo quasi il 65% degli intervistati “gli altri” non sono capaci di differenziarle correttamente. Ma alla domanda successiva: “Lei personalmente è in grado di farlo?”, in questo caso la stragrande maggioranza è convinto di riuscire ad identificare la presenza di una fake news, mentre soltanto il 30% dichiara la propria difficoltà a farlo.

E il tema delle falsità che circolano in Rete non è certo marginale, capace com’è di influenzare i cittadini in scelte a volte cruciali, come quella elettorale. Nel corso dell’ultima campagna presidenziale Usa, si è stimato che siano circolate sul Web circa otto milioni di notizie false, contro i sette milioni di notizie corrette e verificabili. Una sproporzione quasi agghiacciante, ma che non desta particolari reazioni nei gestori delle diverse piattaforme social.

Ma qual è il motivo per cui il dato percettivo, emozionale è così rilevante? Perché oggi, nella costruzione della propria personalità, la piramide di un tempo si è quasi capovolta. Fino a qualche decennio fa, le credenze individuali e collettive si basavano in primo luogo sui tratti valoriali che venivano introiettati attraverso la socializzazione primaria e secondaria, difficilmente modificabili; su questi si costruivano i solidi atteggiamenti di base nei confronti delle strutture sociali esistenti, da cui derivavano le più aleatorie opinioni, suscettibili di possibili cambiamenti più rapidi, a seconda dei diversi accadimenti, e infine le emozioni, reazioni a volte effimere di fronte a notizie o dichiarazioni di diversi attori sociali.

Oggi, come si diceva, questa sorta di piramide appare sempre più rovesciata: avendo perso rilevanza la struttura valoriale, l’ideologia di fondo, in una società sempre più atomizzata, sono le emozioni, le percezioni, quelle che presiedono alla costruzione della propria personalità; su queste nascono le opinioni prevalenti, gli atteggiamenti e infine i valori di riferimento. Ma se le emozioni si basano su fake news, su dati inattendibili, ne consegue che si sedimentano e divengono prevalenti opinioni e atteggiamenti totalmente scollegati dalla realtà vera, che però vengono alimentate nel tempo da ulteriori fake news; queste ultime non “possono” venir smentite, pena la perdita dei propri ancoraggi e la conseguente confusione della propria soggettività.

Una volta costruita una echo chamber di riferimento, le false notizie vengono accettate supinamente per consolidare quella appartenenza, almeno fino al momento in cui nuove emozioni creeranno una nuova piramide. Se le opinioni sono volatili, tra i comuni cittadini così come tra gli stessi politici, non così la percezione di sé, che subisce una sorta di auto-inganno per conservare una ipotetica coerenza della propria personalità.

In un interessante esperimento effettuato qualche anno fa, si chiedeva agli intervistati la propria opinione su un tema che sarebbe stato discusso in un talk show televisivo. Una volta terminata la trasmissione, si riponeva agli stessi intervistati l’identica domanda, per verificare se la discussione televisiva avesse fatto mutare la loro opinione. A volte si registrava un cambiamento del 30-40% rispetto alla prima intervista ma, invitati a dichiarare se avessero cambiato opinione, soltanto il 3-4% affermava di averlo fatto.

La estrema volatilità elettorale, i repentini mutamenti nella fiducia per i diversi leader, il rapido cambiamento delle opinioni sui temi sociali e politici sono la evidente conseguenza della fragilità delle personalità individuali e collettive.

Le percezioni diffuse dunque sono le leve che permettono alle fake news di venir accettate come vere. Percezioni della realtà che, come si diceva, sono spesso scollegate dalla realtà stessa ma, nondimeno, tratteggiano una sorta di mondo parallelo su cui costruire le proprie opinioni, atteggiamenti e valori. E conseguenti comportamenti.

Qualche anno fa è stata effettuata da Ipsos un’indagine in contemporanea in 14 paesi, chiedendo a campioni rappresentativi delle rispettive popolazioni una serie di domande sulla situazione del proprio paese in merito a diversi temi. Infine, è stata calcolato un “indice di ignoranza”, derivato dalla distanza tra i dati reali e i dati percepiti dagli intervistati. L’Italia è risultata in prima posizione assoluta, seguita da Stati Uniti, Corea del sud e Polonia, mentre nelle ultime posizioni (cioè i cittadini più informati) si situavano Svezia, Germania, Giappone e Spagna.

Nella tabella seguente sono presentati i dati riguardanti il nostro paese, per i principali temi affrontati, che ci dipingono una cittadinanza con percezioni della realtà gravemente distorte, conseguenza evidente del combinato di fake news, credenze falsate e storytelling del mondo politico.




Il termometro dell’epidemia (release 1.0)

Oggi (ultimo dato disponibile, ore 18.00 del 17 febbraio) la temperatura dell’epidemia è rimasta invariata a 80.1 gradi pseudo-Kelvin.

La stazionarietà della temperatura dipende da due dinamiche opposte: la diminuzione dei nuovi contagi è stata controbilanciata da un leggero aumento dei decessi. Sono rimasti sostanzialmente stabili gli ingressi ospedalieri stimati.

La riduzione settimanale della temperatura è pari a -4.4 gradi.

Va ricordato, come sempre, che l’andamento della temperatura non riflette quello dei contagi attuali, ma quello dei contagi avvenuti 2-3 settimane fa.

La temperatura dell’epidemia è stata calcolata considerando i soli casi identificati mediante test molecolare.

Per maggiori dettagli si rimanda alla Nota tecnica.




Il termometro dell’epidemia (release 1.0)

Anche oggi (ultimo dato disponibile, ore 18.00 del 16 febbraio) la temperatura dell’epidemia è diminuita di poco più di un grado, passando da 81.3 a 80.1 gradi pseudo-Kelvin (-1.2).

Come ieri, questa diminuzione si deve al miglioramento di tutte e tre le componenti che concorrono al calcolo dell’indice. Calano i nuovi contagi (nell’ultima settimana si sono registrati 76 mila nuovi casi rispetto ai 77 mila della settimana precedente), i decessi (2.1 mila decessi settimanali rispetto ai 2.6 mila della settimana precedente) e gli ingressi ospedalieri stimati.

La riduzione settimanale della temperatura è pari a -6.1 gradi.

Va ricordato, come sempre, che l’andamento della temperatura non riflette quello dei contagi attuali, ma quello dei contagi avvenuti 2-3 settimane fa.

La temperatura dell’epidemia è stata calcolata considerando i soli casi identificati mediante test molecolare.

Per maggiori dettagli si rimanda alla Nota tecnica.