Anche se abbiamo 450 morti al giorno, anche se nessun paese occidentale ha un tasso di mortalità alto come il nostro, anche se la curva epidemica migliora solo nella mente di qualche autorevole esperto governativo, il sentimento prevalente fra gli italiani non sembra né la pietà per i morti, né la preoccupazione per il futuro, bensì l’esasperazione per il presente. Uno stato d’animo che apre un ampio varco al messaggio centrale della politica: resistete ancora un po’, siamo all’ultimo miglio, la campagna vaccinale vi permetterà presto di tornare alla agognata “normalità”.
Ma presto quanto?
Qui le posizioni si dividono. Draghi non si sbilancia, e in sostanza dice: riapriremo appena i dati lo consentiranno. Ma si guarda bene dal precisare qual è la soglia sotto la quale i dati saranno giudicati rassicuranti: “solo” 50 morti al giorno? o ci basterà scendere sotto i 150, che dopotutto sono un terzo dei 450 attuali? O il criterio sono i posti in terapia intensiva, per cui riapriamo appena ci sono abbastanza posti per accogliere nuovi malati, e inevitabilmente contare nuovi morti?
Il partito delle riaperture, che dà voce alle proteste di esercenti e partite Iva, ha le idee più chiare: riaprire subito, o appena ci sono segni – non importa quanto flebili – di arretramento dell’epidemia.
Questa seconda posizione è spesso accompagnata da un argomento al tempo stesso demenziale e interessante: riapriamo perché chiudere non è servito a nulla, o meglio è servito solo a ridurre alla fame gli esercenti.
L’argomento è demenziale perché in realtà sappiamo perfettamente che cosa succede se si riapre. Il governo, infatti, ha già fatto un esperimento sulla Sardegna, e ha potuto constatare che, se a un territorio con il contagio in ritirata si concedono le libertà di una “zona bianca” (quasi tutto aperto), nel giro di poche settimane quel medesimo territorio si ritrova in “zona rossa”. E’ questo che vogliono i fautori delle riaperture “appena la situazione migliora”?
Ma l’argomento dei paladini delle riaperture non è solo demenziale, è anche interessante. Perché attira l’attenzione su un punto cruciale, e cioè che 6 mesi di sacrifici (da metà ottobre ad oggi), in fin dei conti non sono serviti a nulla. Non ci hanno evitato il picco di fine novembre, con 3800 ricoverati in terapia intensiva, e non ci hanno risparmiato, a quattro mesi di distanza, il picco attuale, con il medesimo numero di ricoverati in terapia intensiva. Dunque, su questo, il partito delle riaperture ha ragioni da vendere: bisognerà pure, a un certo punto, prendere atto che le misure messe in campo non hanno funzionato, e che la pretesa delle autorità scientifico-sanitarie di farci ballare ancora per mesi e mesi la danza dei 4 colori è forse un po’ eccessiva. Su questo l’inquietudine del partito delle riaperture è perfettamente giustificata.
E allora veniamo al punto: perché le misure non hanno funzionato? Perché i morti anziché diminuire stanno crescendo?
Le ragioni, a mio parere, sono essenzialmente tre. La prima è che la campagna di vaccinazione, essendo stata condotta in modo scriteriato, ha dato un contributo molto modesto al contenimento della mortalità. Fa una certa impressione, leggendo le cifre ufficiali del Governo, scoprire che ancor oggi, a 100 giorni dall’inizio della campagna vaccinale, meno del 40% degli over-80 (e meno del 3% della fascia 70-79) sia completamente vaccinato. O scoprire che, a fronte di circa 800 mila medici e infermieri, 3.1 milioni di dosi siano state riservate al “personale socio-sanitario”. Per non parlare degli 1.1 milioni di dosi andate al personale scolastico (con le scuole quasi sempre chiuse), o del milione di vaccinazioni di cui non è possibile individuare la ratio, e che vengono più o meno semplicisticamente ascritte ai “furbetti del vaccino” (come se ad ogni furbetto non corrispondesse un’autorità pubblica che gli consente di comportarsi in quel modo). E’ difficile elaborare stime precise, ma sembra inevitabile concludere che se fin dall’inizio, oltre medici e infermieri, si fossero vaccinati la maggior parte degli over-80, oggi avremmo almeno 200 morti al giorno in meno.
La seconda ragione è che il lockdown attuato in Italia, specie a gennaio-febbraio, è stato molto più blando di quello adottato nei paesi che stanno uscendo dall’epidemia. Basta scaricare i dati di Google sul grado di confinamento a casa dei cittadini dei vari paesi, per accorgersi che i paesi che hanno abbattuto drasticamente il numero dei morti hanno tutti praticato un lockdown molto più severo del nostro. E non sto parlando di paesi molto avanti con le vaccinazioni (come Regno Unito e Israele), ma di paesi che, come Irlanda, Portogallo, Sud Africa, Svizzera hanno vaccinato come noi o meno di noi. Questo dato dà torto agli aperturisti, e fornisce invece un supporto alla linea – lockdown breve e durissimo – da tempo sostenuta da Walter Ricciardi, il consulente inascoltato (e ora a quanto pare pure silenziato) del ministro della salute Roberto Speranza.
Ma c’è un terzo motivo per cui le cose non vanno bene. E questo dà invece ragione ai critici della giostra dei 4 colori. Sono ormai in molti, fra gli studiosi indipendenti (ma non nel Comitato tecnico-scientifico), a sostenere che le indicazioni fornite fin qui dalle autorità sanitarie sono basate su evidenze scientifiche dubbie o datate, e talora sono addirittura in contrasto con quel che ormai si sa sui meccanismi di trasmissione del virus.
Che cosa si sa?
Si sanno parecchie cose che prima non si sapevano, o si sapevano ma non venivano credute dall’OMS e dalle autorità sanitarie (per una breve storia di queste cose sapute ma non credute, vedi gli articoli del prof. Giorgio Buonanno sul sito della Fondazione Hume). La prima è che, all’aria aperta, la trasmissione del virus è estremamente difficile, molto più difficile di quanto si è a lungo ritenuto. La seconda, speculare alla precedente, è che la trasmissione al chiuso è piuttosto agevole, molto più di quanto si supponesse. La ragione, ridotta all’osso, è che la trasmissione del virus non avviene solo con le goccioline più grandi (droplets), che tendono a cadere a terra, ma anche con quelle più piccole (aerosol), che invece – negli ambienti al chiuso – possono restare in sospensione e diffondersi in modo analogo al fumo, mentre all’aperto vengono rapidamente disperse.
Semplificando e forzando un po’ a scopo comunicativo, si potrebbe riassumere così: le mascherine chirurgiche (che non filtrano l’aerosol) all’aperto non sono necessarie e al chiuso non sono sufficienti.
In pratica. Se sei all’aperto, il rischio che corri non portando la mascherina o usando solo la chirurgica esiste, ma è minimo. Se invece sei al chiuso (in un negozio, a scuola, in un ufficio, su un treno), è essenziale indossare le mascherine più filtranti (ffp2 e simili), e/o garantire la qualità dell’aria (mediante filtri HEPA, o mediante ventilazione meccanica controllata).
Se questa ricostruzione, basata essenzialmente su studi degli ingegneri, ha fondamento, allora siamo decisamente fuori strada. Ci accaniamo contro assembramenti, pic-nic, movida, vita di spiaggia, tutte attività che avvengono all’aperto, e non facciamo nulla per mettere in sicurezza gli ambienti al chiuso, o quasi al chiuso: uffici, negozi, ristoranti, scuole, università, teatri, musei, aule parlamentari, ma anche bus, tram, metropolitane, treni.
E’ la linea Sgarbi, che da mesi si batte contro la mascherina all’aperto e per dotare gli ambienti chiusi di sanificatori?
Un po’ sì. O perlomeno non è né la linea degli aperturisti selvaggi (apriamo tutto, e buonanotte), né quella delle vestali del lockdown, che non vedono altra strada che quella di rinchiuderci tutti.
In conclusione: è vero che, poiché quasi nulla si è fatto di quel che andava fatto, nel brevissimo periodo ci restano solo mascherine ffp2 e lockdown. Ma forse è anche vero che, a fronte di una campagna vaccinale mal impostata, e ora messa a repentaglio dalla mancanza di dosi, ci vuole un “piano B”. Più che dividerci fra fautori delle riaperture e difensori delle chiusure, dovremmo cominciare a pensare a un nuovo e diverso mix fra le misure da adottare: sanificatori in tutti gli ambienti chiusi; distanziamento, ricambio d’aria e controlli rigorosi sui mezzi pubblici; più libertà per le attività che si svolgono all’aperto; lockdown, brevi e durissimi, solo intorno ai focolai (non più a livello regionale o provinciale, ma a livello comunale, se non di quartiere).
Perché la realtà, è doloroso doverlo registrare, è che non siamo ancora all’ultimo miglio. E il rischio, tanto più concreto se arriveranno poche dosi di vaccino, è che la macchina infernale delle regioni a colori ci accompagni per tutta l’estate.
Pubblicato su Il Messaggero del 12 aprile 2021