Corea del Sud: il metodo del tracciamento elettronico

In questo articolo continuo l’analisi dei diversi metodi di prevenzione del Covid messi in atto dai paesi del Pacifico, che era iniziata con quello di Taiwan, basato principalmente sulla chiusura tempestiva delle frontiere.

Oggi prenderò in esame quello della Corea del Sud, basato principalmente sul tracciamento elettronico dei contagi. Tale metodo è anche l’unico di cui si sia talvolta parlato anche da noi, ma senza entrare quasi mai nei dettagli, come invece cercherò di fare qui.

La Corea del Sud è uno dei paesi che è riuscito a contenere maggiormente la diffusione del Coronavirus. Ad oggi, su 51,71 milioni di abitanti, sono 134.117 i casi accertati, mentre il numero di morti si attesta a 1.920 dall’inizio della pandemia, con un tasso di letalità rilevato (CFR: case fatality ratio) dell’1,4%, un numero decisamente basso rispetto a quello rilevato in Occidente. Ciò non significa che in Corea il virus sia meno letale che da noi, ma piuttosto che in quel paese i contagi che sfuggono al rilevamento sono davvero molto pochi: infatti, il tasso di letalità rilevato si avvicina molto a quello che, secondo le stime fatte dagli scienziati, dovrebbe essere il tasso reale (non superiore all’1%), il cosiddetto IFR, o infection fatality ratio.

Il primo focolaio del contagio si è sviluppato nella città di Daegu, situata a 240 km dalla capitale Seul, per poi propagarsi in tutto il paese. Ciononostante, il numero totale di contagi è rimasto sempre molto basso, grazie alla pronta azione del governo, con a capo il presidente Moon Jae-In, che si è messo subito all’opera per contenerlo evitando un blocco completo degli spostamenti, permettendo alle persone di continuare a recarsi regolarmente al lavoro e riducendo così al minimo le ripercussioni economiche.

Anzitutto, il governo ha deciso di veicolare in modo del tutto trasparente le informazioni riguardanti i pazienti infetti. Siti web, mappe interattive e applicazioni per i cellulari rendono disponibili in tempo reale tutti i dati riguardanti gli spostamenti che i cittadini infetti hanno compiuto prima di essere diagnosticati, il che permette di informare tramite sms tutti i cittadini interessati ogni volta che si verificano dei casi nella zona in cui vivono. Una lista dettagliata dei movimenti delle persone infette permette di risalire a ristoranti e negozi che hanno frequentato, i quali vengono poi disinfettati e chiusi temporaneamente. In questo modo le altre persone possono sapere se devono sottoporsi a quarantena preventiva e fare il test.

Il rapido accesso da parte del governo alle registrazioni delle telecamere di videosorveglianza e ai dati delle carte di credito e dei telefoni ha permesso di realizzare un sistema di controllo di questo tipo. Inoltre, è stata fondamentale per il contenimento dell’epidemia la creazione di un sistema di test veloci ed efficaci; in tutto il paese sono stati infatti dislocati ben 118 hub di analisi che sono in grado di comunicare gli esiti dei tamponi via sms entro 24 ore. Le autorità hanno anche messo in atto una massiccia campagna per favorire il distanziamento sociale, lasciando però gli esercizi aperti e permettendo ai cittadini di scegliere volontariamente se frequentarli o meno.

Il successo del protocollo adottato dalla Corea del Sud è certamente in gran parte dovuto alla precedente esperienza avuta con l’epidemia di Mers del 2015, che registrò 186 casi e 38 decessi. A epidemia terminata, la legislatura coreana definì infatti una strategia di tracciamento dei contatti che prevede l’individuazione delle persone infette e la relativa quarantena di tutti quelli che hanno interagito con loro. Gli emendamenti autorizzano perciò le autorità sanitarie all’utilizzo dei big data per ricostruire abitudini e spostamenti delle persone potenzialmente esposte al contagio.

I risultati ottenuti dimostrano inequivocabilmente che le misure introdotte, almeno finora, sono riuscite a tenere molto basso il numero dei casi. Ciononostante, il governo è sempre stato molto attento a intervenire in modo tanto rapido quanto deciso al minimo accenno della nascita di nuovi focolai, attuando delle restrizioni mirate nei quartieri interessati. Significativo è il caso avvenuto a maggio 2020, quando un ventinovenne è risultato positivo dopo aver frequentato diversi locali notturni di Seul nel quartiere di Itaewon. L’allarme è scattato quando da zero positivi al giorno in poco tempo si è passati a 30. Una volta individuato il diffusore iniziale, il governo sudcoreano è riuscito a contenere i contagi rintracciando un numero enorme di persone che avevano avuto contatti con i clienti dei locali e individuando circa la metà dei visitatori dell’intero quartiere: in tre settimane sono stati testati 46 mila contatti e rintracciate 160 persone infette.

Questo è stato possibile anche perché i clienti dei locali di Seul sono obbligati a lasciare i propri riferimenti prima di accedere a ristoranti e bar. Quando le autorità hanno identificato l’area interessata dal focolaio hanno predisposto la chiusura immediata di tutti i bar e le discoteche della città, mentre il governo ha inviato un sms a tutti i cittadini, chiedendo a chiunque si fosse trovato in quella zona in un determinata finestra temporale di sottoporsi al tampone anche in assenza di sintomi.

La polizia ha lavorato in sinergia con le società di telecomunicazioni al fine di utilizzare i dati dei cellulari e individuare chi si trovava nel quartiere quel fine settimana. Localizzazioni GPS, registrazioni di carte di credito e videosorveglianza sono state fondamentali per eseguire il tracciamento. Infine, una volta raccolte tutte le informazioni, il governo le ha pubblicate in forma anonima su un sito apposito dove tutti possono verificare se sono stati a rischio contagio.

Una speciale app di tracciamento chiamata Corona 100m provvede inoltre ad inviare alle persone degli avvisi di emergenza quando raggiungono i 100 metri di distanza da un luogo visitato di recente da una persona affetta da coronavirus. Il sistema consiglia agli utenti dei percorsi alternativi sicuri per recarsi e tornare dal lavoro in modo da non effettuare lo stesso tragitto fatto in precedenza dai soggetti infetti. In questo modo quella che poteva essere la seconda ondata è stata bloccata nel giro di poche settimane.

Il contact tracing digitale è stato nevralgico per combattere il virus, in quanto presenta numerosi vantaggi, come ad esempio l’impiego degli operatori sanitari solo laddove sono strettamente necessari e l’uso mirato dei tamponi (non per nulla, la Corea del Sud è tra i paesi che ne hanno fatti di meno al mondo: vedi Paolo Musso), con conseguente abbattimento dei costi nonostante un tracciamento molto più puntuale.

In molti altri paesi questo tipo di raccolta dati è sembrata una violazione della privacy, ma in Sud Corea ha ricevuto grandi consensi. Secondo un sondaggio condotto dalla Graduate School of Public Health della Seul National University, il 78% dei 1.000 intervistati è risultato favorevole all’allentamento della tutela dei propri diritti al fine di contenere il coronavirus. Cionondimeno, è innegabile che la violazione della privacy risulta sempre più invasiva e, nonostante l’anonimato, in pratica non è difficile riconoscere i positivi segnalati. Per esempio, nel caso di Itaewon il giovane che aveva dato origine al contagio era stato subito identificato dai social network.

Alla base di queste scelte vi è un approccio utilitaristico volto a giustificare le limitazioni alle libertà personali in virtù di esigenze superiori come la salvaguardia della salute pubblica, tant’è vero che il monitoraggio pubblico nelle civiltà orientali è una costante indipendentemente dalla fase emergenziale e dal sistema di contact tracing. Lo screening dei contatti è stato già utilizzato in passato con malattie infettive come il morbillo o l’HIV, divenendo uno strumento fondamentale di prevenzione e controllo.

Ciò è reso possibile da un contesto socioculturale totalmente differente da quello europeo, in cui l’importanza della difesa della sfera privata è poco percepita dalla popolazione. Le realtà orientali tendono a privilegiare misure coercitive e restrittive di controllo basate su sistemi informatici e applicazioni che possono prescindere dall’avere il consenso della popolazione. Di fatto, sia in Corea del Sud che in Cina gli strumenti tecnologici sono stati utilizzati in modo massiccio e invasivo, con la conseguente diminuzione della sfera di riservatezza dei singoli, nonostante la prima sia una democrazia e la seconda una dittatura, il che è indicativo di una mentalità di base comune, che precede e travalica le differenze politiche.

Ad ogni modo è opportuno ricordare che la Corte Costituzionale sudcoreana in base al cosiddetto Fingerprint Case ha riconosciuto a gennaio 2020 ai data privacy rights lo status di diritti di rango costituzionale ai sensi degli articoli 10 e 17 della Costituzione, equiparando le impronte digitali a informazioni strettamente personali il cui utilizzo rappresenta una restrizione del right to information self determination. Finora, però, ciò non sembra avere influito in alcun modo sulla gestione della pandemia.

Anche in Europa durante la prima ondata della pandemia la paura ha prevalso sulla difesa della privacy. I cittadini si sono rivelati accondiscendenti verso le restrizioni a molte libertà fondamentali come quella di circolazione, di culto, di impresa, ecc. Nei paesi dell’Unione Europea si è scelto di appiattire la curva epidemica mediante la limitazione delle attività affiancato all’utilizzo di tecnologie con le quali monitorare i soggetti potenzialmente infetti.

Una rete di autorità nazionali che opera in campo della digital health and care, l’eHealth Network, ha sviluppato un pacchetto di strumenti chiamato Common EU Toolbox of Practical Measures per l’uso di applicazioni mobili e di dati sulla mobilità delle popolazioni su base volontaria. Tuttavia, tali applicazioni sono state studiate con l’approvazione dell’autorità sanitaria nazionale, nel rispetto della vita privata e della tutela dei dati personali e a condizione che i dati venissero distrutti nel momento in cui non fossero più stati necessari per contrastare l’epidemia.

L’approccio europeo si basa perciò sulla minimizzazione della raccolta dei dati personali. Quelli utilizzati sono i soli dati di prossimità, raccolti con il ricorso alla tecnologia Bluetooth a bassa energia, che possono poi essere conservati o sullo stesso dispositivo della persona interessata (decentralised processing), sia sul server dell’autorità sanitaria pubblica (backend server solution). Al modello decentralizzato hanno aderito stati come l’Italia con l’app Immuni, la Germania con Corona Warn Up, la Svizzera con Swiss Covid e l’Austria con Stop Corona. Alcuni paesi come: Stati Uniti, Estonia, Finlandia e Portogallo hanno preferito invece avvalersi di un codice fornito da Apple e Google con una tecnologia basata sull’exposer notification: un codice identificativo anonimo viene scambiato tramite Bluetooth con un altro utente nelle vicinanze e se uno dei due risulta essere positivo al Covid-19 una notifica viene inviata a tutti quelli che sono entrati in contatto con loro.

Indipendentemente dal sistema prescelto, comunque, il tracciamento digitale si fondava sempre sull’adesione volontaria dei cittadini, che, contrariamente alle aspettative dei governi, è stata deludente, visto che il numero dei download si è attestato su percentuali modeste (ad oggi Immuni è al 19,6%, ben lontano dal milione di utenti raggiunto nei primi dieci giorni di vita dell’app coreana). Ma soprattutto sono stati pochissimi quelli che l’hanno utilizzata realmente (Immuni ha scoperto in tutto poco più di 5000 contagi: quanti fino a pochi giorni fa se ne verificavano in 6 ore), anche perché c’era la percezione diffusa (e purtroppo esatta) che il sistema non fosse affiancato da un’organizzazione capace di eseguire rapidamente i tamponi, senza la quale il tracciamento diventa inutile.

Ad agosto 2020, un’indagine pubblicata su Nature ha cercato di far luce sull’atteggiamento nei confronti del contact tracing in 19 paesi. È emerso che solo i tre quarti degli intervistati, quando positivi, hanno fornito informazioni complete sui contatti avvenuti nei giorni precedenti. Secondo il sociologo Robert Groves, ex direttore dell’US Census Bureau: “la fiducia del pubblico in tutti i tipi di istituzioni sta diminuendo” specialmente nelle grandi aree urbane. Mary Basset, ricercatrice di sanità pubblica presso la Harvard University di Cambridge, nel Massachusetts sembra non esserne sorpresa in quanto: “alcune comunità che sono state più colpite da COVID-19 hanno una sfiducia di vecchia data nei confronti delle autorità sanitarie pubbliche”. Il modello orientale, con la Corea del Sud in testa, rappresenta dunque un banco di prova sul quale misurare i termini del rapporto tra pubblico e privato e tra la tutela dell’anonimato e gli interessi della collettività in difesa della salute. In virtù dei risultati ottenuti dalla Corea del Sud non si può fare a meno di interrogarsi se non valga la pena rinunciare almeno in parte alle proprie libertà in favore del bene comune, ma resta il dubbio se un tracciamento massiccio simile a questo potrebbe realmente essere impiegato in Europa, dove le imposizioni sono da sempre mal tollerate.

 


SITOGRAFIA

https://www.korea.net
https://www.mofa.go.kr/eng/wpge/m_5810/contents.do
http://english.seoul.go.kr
http://ncov.mohw.go.kr/en/
https://www.ilgiorno.it/esteri/covid-corea-sud-così-sconfitto-il-virus-1.6249239
https://www.ilsole24ore.com/art/forniture-chip-intesa-usa-e-sud-corea-AExtEHL
http://www.pipc.go.kr/cmt/main/english.do#
https://www.saluteinternazionale.info/2021/01/covid-19-italia-vs-corea-del-sud/




Indice DQP: per la pseudo-immunità di gregge (70% di vaccinati) dobbiamo aspettare agosto 2021

Le autorità politiche e sanitarie, in particolare il ministro Roberto Speranza e la sottosegretaria Sandra Zampa, hanno ripetutamente dichiarato che la campagna di vaccinazione serve a raggiungere la cosiddetta immunità di gregge:

5 dicembre: “Il nostro obiettivo è l’immunità di gregge grazie al vaccino” (Roberto Speranza).

17 dicembre: “Immunità di gregge a settembre-ottobre prossimi (Sandra Zampa).

28 dicembre: “Oggi il ministro Speranza ha precisato che entro marzo raggiungeremo la quota di 13 milioni di italiani vaccinati contro Covid-19, e quindi in estate potremo già essere molto avanti nel perseguimento dell’obiettivo immunità di gregge data dal 70%” (Sandra Zampa).

9 gennaio 2021: “Per arrivare all’immunità di gregge dobbiamo vaccinare l’80% di 60 milioni di italiani” (Sandra Zampa).

13 marzo 2021: “È stata considerata una progressione della capacità vaccinale dalle 170 mila somministrazioni medie giornaliere (registrate dal 1 al 10 marzo) fino ad almeno 500 mila entro il mese di aprile” (Piano vaccinale del Commissario straordinario per l’emergenza Covid-19). In base al nuovo Piano vaccinale si dovrebbe arrivare a raggiungere il 70% di copertura vaccinale a fine agosto.

Per “immunità di gregge” si intende una situazione nella quale ci sono abbastanza persone vaccinate (e non in grado di trasmettere il virus) da portare la velocità di trasmissione del virus (Rt) al di sotto di 1, con conseguente progressiva estinzione dell’epidemia. Per calcolare la percentuale di vaccinati necessaria (Vc) per avviare il processo di estinzione dell’epidemia occorre conoscere il valore di R0 (velocità di trasmissione in condizioni di normalità) e il valore di E (efficienza media dei vaccini, intesa come capacità di bloccare la trasmissione):

Vc = (1-1/R0)/E

Poiché R0 ed E dipendono dal tipo di varianti presenti in un determinato paese in un dato momento, nonché dalle caratteristiche dei vaccini, nessuno è attualmente in grado di indicare la soglia per l’immunità di gregge. Se E è troppo basso, il valore di Vc supera 1, il che significa che nemmeno vaccinando tutti si ottiene l’immunità di gregge.

Ecco perché la soglia del 70% da noi utilizzata NON è quella che garantisce l’immunità di gregge (e che è sconosciuta), ma è semplicemente la quota realisticamente raggiungibile in un paese come l’Italia, in cui non si possono vaccinare i più giovani (perché manca il vaccino), e una parte degli adulti non intende vaccinarsi.

Ma quante settimane occorreranno per vaccinare un numero di italiani sufficiente a raggiungere una copertura del 70%?

A rispondere a questa domanda provvede l’indice DQP (acronimo di: Di Questo Passo), che stima il numero di settimane che sarebbero ancora necessarie se – in futuro – le vaccinazioni dovessero procedere “di questo passo”.

A metà della ventunesima settimana del 2021 (mercoledì mattina, 26 maggio) il valore di DQP è pari a 13 settimane, il che corrisponde al raggiungimento della pseudo-immunità di gregge non prima del mese di agosto del 2021.

Il valore del DQP è rimasto sostanzialmente stabile rispetto a quello della settimana scorsa.

Anche questa settimana sono state somministrate più di 3 milioni di dosi, circa 480 mila al giorno, poco meno delle 500 mila dosi previste dal piano vaccinale (l’obiettivo delle 500 mila somministrazioni giornaliere è stato raggiunto soltanto per tre giornate consecutive, fra il 20 e il 22 maggio).

Nel caso in cui si decidesse di utilizzare soltanto vaccini che prevedono una seconda somministrazione, occorrerebbero 2 settimane in più. “Di questo passo” la pseudo-immunità di gregge verrebbe raggiunta in 15 settimane, non prima di inizio settembre del 2021.


Nota tecnica

Le stime fornite ogni settimana si riferiscono ai 7 giorni precedenti e si basano sui dati ufficiali disponibili la mattina del giorno in cui viene calcolato il DQP (quindi possono subire degli aggiornamenti).

Va precisato che la nostra stima è basata sulle ipotesi più ottimistiche che si possono formulare, e quindi va interpretata come il numero minimo di settimane necessarie.

Più esattamente l’interpretazione dell’indice è la seguente:

DQP = numero di settimane necessario per raggiungere almeno il 70% degli italiani con almeno 1 vaccinazione completa procedendo “Di Questo Passo”.

A partire dalla prima settimana completa dell’anno (da lunedì 4 a domenica 10 gennaio) la Fondazione Hume calcola settimanalmente il valore dell’indice DQP (acronimo per: Di Questo Passo).

L’indice si propone di fornire, ogni settimana, un’idea vivida della velocità con cui procede la vaccinazione, indicando l’anno e il mese in cui si potrà raggiungere l’immunità di gregge procedendo “Di Questo Passo”.

Il calcolo dell’indice si basa su 3 parametri:

  1. quante vaccinazioni sono state effettuate nell’ultima settimana considerata;
  2. quante vaccinazioni erano già state effettuate dall’inizio della campagna (1° gennaio 2021) fino alla settimana anteriore a quella su cui si effettua il calcolo;
  3. che tipo di vaccini verranno presumibilmente usati (a 2 dosi o a dose singola).

Nella versione attuale l’indice si basa su due ipotesi ottimistiche, e precisamente:

  • l’obiettivo è solo di vaccinare il 70% della popolazione (anziché l’80 o il 90%, come potrebbe risultare necessario);
  • ci si accontenta di vaccinare ogni italiano in modo completo una sola volta, trascurando il fatto che, ove la campagna di vaccinazione dovesse prolungarsi per oltre un anno, bisognerebbe procedere a un numero crescente di rivaccinazioni.



La fedeltà (leggera) di voto c’è ancora

Una delle recenti leggende metropolitane ci racconta come ormai i cittadini, nelle loro scelte di voto, siano condizionati da percezioni superficiali, o dallo story-telling del leader di turno (siano questi Renzi o Grillo, Salvini o Giorgia Meloni), e che abbiano abbandonato criteri di scelta più coerenti con la propria storia personale o con il modo di interpretare la società che li circonda. Vivremmo dunque un periodo di alta volatilità elettorale, con scelte episodiche, quasi casuali, come se fossimo al supermercato elettorale: si compra l’articolo di moda oppure quello con uno sconto più elevato. Ma sarà davvero così?

Come noto, la storia della fedeltà elettorale è piuttosto lunga e complessa, ed ha vissuto due fasi particolarmente significative. Fino agli anni Ottanta il sistema partitico è stato caratterizzato da un’estrema staticità, con incrementi o decrementi dei consensi limitati a pochi punti percentuali: l’elettore aveva un alto livello di vischiosità (si è per questo coniato il termine di “fedeltà pesante”), derivante o da appartenenza (sub-culturale) o dal voto di scambio, che permetteva il costante processo di allocazione mirata delle risorse economiche, determinante soprattutto nel meridione a favore del partito egemone, la DC.

A partire dagli anni Novanta, con il deciso incremento del voto d’opinione, il concetto di “fedeltà leggera” diviene un patrimonio interpretativo particolarmente efficace per leggere i risultati elettorali. L’idea si basa sul presupposto che, da un parte, il credo politico non sia più così fondamentale, per il cittadino-elettore, nella formazione della propria personalità, come lo era stato al contrario nei decenni precedenti (da qui, l’idea di una sorta di “leggerezza” nel proprio coinvolgimento elettorale); dall’altra, che permanga comunque una forte fedeltà di voto, legata non già al partito quanto alla propria coalizione o alla propria area politica di riferimento.

Dopo un periodo di assestamento, dovuto alla scomparsa di molti dei partiti storici, il voto riacquistava dunque una nuova forma di stabilità, motivata non più dall’importanza che il partito rivestiva come rappresentante dei propri interessi, o della propria sub-cultura di riferimento, quanto dalla condivisione delle ideologie che le due aree politiche rappresentavano: destra contro sinistra, stato contro mercato, berlusconismo contro anti-berlusconismo sono state, fino alla fine del primo decennio del nuovo secolo, le fratture che determinavano maggiormente la scelta di voto dei cittadini.

Con l’avvento dei nuovi partiti a-ideologici, come il Movimento 5 stelle, si è presto dato per scontato che di quella contrapposizione non ci fosse più traccia e che, appunto, gli elettori si accostassero al voto privi di “pregiudizi” contro questa o quella forza politica. Come se fossero prodotti di consumo, altamente interscambiabili a seconda del momento e della situazione del paese, e condizionati prevalentemente dalla capacità comunicativa dei diversi leader.

Ma un’analisi più attenta dei flussi di voto, reali o potenziali, ci raccontano una realtà un po’ più complessa. Limitandoci ai passaggi avvenuti tra le ultime elezioni politiche del 2018 e le odierne dichiarazioni di voto (come si vede nella tabella qui accanto), il quadro che ci si presenta dinanzi non si discosta poi molto da quanto accadeva all’epoca della fedeltà leggera dei decenni della seconda repubblica, con un unico (sebbene significativo) mutamento, dovuto alla presenza del M5s.

Dunque, i partiti del centro-sinistra e quelli del centro-destra restano ancorati ad una percentuale di fedeli particolarmente elevata (rispettivamente, dell’88% e del 94%), con un passaggio di voti tra le due aree (i “traditori”) quasi inesistente. Gli unici elettori che al contrario si spostano in misura significativa sono quelli che nel 2018 avevano votato appunto per il movimento fondato da Grillo, che è caratterizzato da un tasso di fedeltà piuttosto limitata, di poco superiore al 50%.

Così, il deciso incremento del centro-destra e quello più circoscritto del centro-sinistra è dovuto sostanzialmente alle scelte dei pentastellati in uscita, che hanno premiato soprattutto la Lega (nel 2019) e più recentemente Fratelli d’Italia, oltre ad una quota minore che è approdata al Partito Democratico. La fedeltà di area esiste ancora, dunque, e i rapidi cambiamenti nelle gerarchie partitiche sono dovuti sostanzialmente a passaggi all’interno della stessa area politica: il partito di Meloni, ad esempio, è parecchio cresciuto negli ultimi due anni grazie agli elettori di Berlusconi e di Salvini che sono passati dalla sua parte.

Se le scelte future del nuovo Movimento 5 stelle, con la leadership di Conte, dovessero realmente andare verso un’alleanza con il Pd, è possibile che ci troveremo presto in una situazione molto simile a quelle dei decenni passati, con un centro-destra vicino al 50% e un’area “progressista”, come sempre a rincorrere, distaccata di una decina di punti. Entro qualche mese lo sapremo…




Le possibili ragioni dell’insistenza del Ministero della Salute sulla questione dei protocolli di cura domiciliare del Covid.

Ha destato un certo scalpore sui social media la notizia che AIFA e Ministero della Salute hanno impugnato – con esito positivo – la sospensiva concessa dal TAR sul famoso protocollo “Tachipirina e vigile attesa” per il trattamento dei casi di Covid. Il TAR, sospendendo il protocollo in via provvisoria con una decisione d’urgenza, aveva infatti in prima battuta lasciato liberi i medici di trattare simili casi in scienza e coscienza senza rischiare l’aggravio in termini di possibile responsabilità professionale derivante dal fatto di essersi discostati dai protocolli indicati dal Ministero. Tutto sommato, la sospensiva poteva essere considerata un risultato accettabile per il Ministero, che avrebbe potuto lasciar fare, sostenendo di voler rispettare la decisione dei giudici, lavandosi in tal modo le mani dall’accusa di voler mantenere a tutti i cosi un protocollo assai criticato. E invece Ministero e AIFA hanno insistito, impugnando la sospensiva dinanzi al Consiglio di Stato, che ha accolto il ricorso, con l’effetto di rimettere Speranza sul banco dei “cattivi” che non vogliono curare la gente. Perché dunque tutta questa insistenza, quando la decisione del TAR avrebbe in certo modo levato le castagne dal fuoco anche al Ministro?

A prima vista si potrebbe pensare che tratti dell’ennesimo esempio della inveterata tendenza dei nostri politici, quando si rendono conto di aver commesso un errore, a perseverare nell’errore (in modo da sostenere di non aver sbagliato) invece che assumersene la responsabilità dinanzi agli elettori, tentando di rimediare. Speranza avrebbe insomma semplicemente difeso il suo operato passato per non indebolirsi politicamente. Esiste tuttavia una lettura alternativa della vicenda, nel senso che l’insistenza nella difesa dei protocolli di “non cura” potrebbe in realtà dipendere dalla necessità di tutelare interessi assai più importanti rispetto alla “tenuta politica” di un ministro. Ma per capire quali potrebbero essere questi interessi occorre partire dall’analisi del contenuto della decisione del Consiglio di Stato che ha annullato la sospensiva del TAR. In particolare va sottolineato che il Consiglio di Stato ha espressamente affermato che va in ogni caso salvaguardata la liberta dei medici di curare in scienza e coscienza il Covid, di guisa che l’unico vero effetto della decisione di annullare la sospensiva è quello di non far venire meno l’efficacia giuridica del protocollo “tachipirina e vigile attesa”. Quel protocollo, dunque, oggi esiste e non esiste allo stesso tempo: esiste formalmente in quanto non ne è stata sospesa l’efficacia, ma non esiste sul piano degli effetti sostanziali perché il Consiglio di Stato ha anche sostenuto che non deve considerarsi vincolante per i medici. Perché dunque questo bizantinismo? Per capirlo occorre guardare altrove, in particolare al contenuto dei regolamenti relativi alle autorizzazioni al commercio dei farmaci (e dunque dei vaccini), per capire che in realtà l’effetto del protocollo che il Consiglio di Stato ha “salvato” si colloca su un piano differente rispetto a quello della responsabilità medica.

Come è noto, le autorizzazioni all’immissione in commercio dei vaccini Covid (di tutti i vaccini Covid attualmente presenti sul mercato dei paesi UE) sono autorizzazioni cosiddette “condizionate”. Per quanto la vulgata sostenga che si tratti di vaccini “sperimentali”, in realtà i vaccini in questione sono stati sperimentati, ma in misura non sufficiente per generare la documentazione ritenuta idonea – in condizioni normali – perché l’EMA (ossia l’agenzia europea del farmaco) conceda l’autorizzazione al commercio. Diciamo dunque che si tratta di vaccini sperimentati, ma non abbastanza per gli standard dei tempi ordinari. I regolamenti comunitari prevedono tuttavia che si possa comunque autorizzare la commercializzazione di farmaci (e dunque di vaccini) per i quali il fascicolo sperimentale non è ancora completo, a patto che vengano rispettate una serie di condizioni, tra le quali vi è quella della necessità e urgenza del trattamento sanitario corrispondente. L’autorizzazione subordinata a condizioni serve in altre parole a rendere prioritaria una procedura di autorizzazione, in modo da sveltire l’approvazione di trattamenti e vaccini ad esempio durante situazioni di emergenza per la salute pubblica. In particolare il regolamento UE sulle autorizzazioni dei medicinali prevede che una autorizzazione condizionata possa essere concessa – sulla base di dati meno completi di quelli normalmente richiesti – per farmaci che rispondono a una esigenza medica non soddisfatta adeguatamente da altre terapie.

Il concetto di “esigenza medica non soddisfatta” ovviamente significa – in parole povere – che non deve esistere già una cura alternativa ritenuta efficace per la malattia. Se dunque una cura alternativa efficace esistesse per il Covid – e, in particolare, se il Ministero della salute o l’AIFA riconoscessero ufficialmente che una cura efficace esiste, ecco che metterebbero a rischio la validità delle autorizzazioni condizionate all’immissione al commercio dei vaccini, per mancanza di una condizione essenziale, rappresentata appunto dall’esigenza medica non soddisfatta. E, si badi, anche se AIFA e Ministero non ritirassero le autorizzazioni in questione (eventualmente sostenendo che solo l’Agenzia Europea del Farmaco abbia il potere di farlo), da un lato avrebbero creato un imbarazzo all’EMA e, dall’altro, permarrebbe il rischio che qualunque soggetto interessato potrebbe agire dinanzi al Tribunale Amministrativo Regionale per far dichiarare nulle le determinazioni AIFA che hanno rese efficaci in Italia le autorizzazioni (condizionate) concesse a dall’Agenzia Europea del Farmaco sui vari vaccini. Per farla breve: se si trovasse davvero una cura per il Covid certificata come efficace da qualche Ministero della salute di uno stato membro dell’UE, potrebbe venire giù tutto il castello costruito sulla ricetta europea “lockdown fino ai vaccini” – verosimilmente decisa nell’aprile del 2020 in un incontro dei governi dei maggiori paesi UE – che tanti disastri (economici e forse non solo) ha sinora provocato nel vecchio continente. Il che sarebbe uno smacco clamoroso per l’UE e per le forze politiche che tanto si sono spese per appoggiare l’approccio vaccinale (e dunque chiusurista) di reazione al Covid. Ma non basta ancora: se venissero meno per quella ragione le autorizzazioni al commercio dei vaccini, gli stati si troverebbero anche nella scomoda situazione di dover pagare miliardi di euro alle case farmaceutiche per l’acquisto di vaccini che non potrebbero poi neppure somministrare ai loro cittadini. E qui sarebbe la Commissione Europea a finire inevitabilmente sulla graticola, accusata dagli stati membri di aver fatto loro spendere un mucchio di danaro per nulla.

Questa lettura spiegherebbe del resto bene anche perché il Ministero – nell’accingersi a rivedere il protocollo della tachipirina e vigile attesa – si sia premurato, a quanto pare, di chiamare solo esperti contrari alle cure domiciliari e dunque favorevoli al vecchio schema. Anche qui – infatti – la ragione per l’adozione di un nuovo protocollo potrebbe non essere quella di verificare se davvero, e come, si può curare la malattia precocemente in modo efficace (con l’effetto di sgravare le strutture ospedaliere della pressione generata dai ricoveri dei malati di Covid), ma semmai poter continuare a sostenere ufficialmente che le varie cure domiciliari sinora proposte non sarebbero efficaci, in modo da poter continuare a sostenere che rappresenti ancora una “necessità medica” la somministrazione di massa di vaccini autorizzati solamente in via condizionata.

Sotto questo profilo l’azione del Ministero – e dell’AIFA – appare particolarmente ben congegnata. Il semplice fatto di adottare un nuovo protocollo di cure consentirebbe infatti di far decadere l’azione di annullamento già pendente davanti al TAR: se viene adottato un nuovo protocollo, il vecchio decade. E se decade il vecchio protocollo, viene meno automaticamente – per sopravvenuto ritiro dell’atto amministrativo – il procedimento di annullamento di quell’atto già pendente davanti al TAR. In questo modo cesserebbe il rischio che un giudice, rendendo la sentenza definitiva, sostenga “ufficialmente” che esistono delle cure efficaci per il Covid. Dunque, la direzione in cui si stanno muovendo sia il Ministero che l’AIFA è verosimilmente quella di ottenere una sospensiva dell’ordinanza cautelare del TAR, in modo da avere il tempo – prima della fine del processo di merito davanti allo stesso TAR – di adottare un nuovo protocollo che, per il semplice fatto di essere adottato in sostituzione del vecchio, faccia decadere l’azione pendente contro il vecchio protocollo. Il tutto facendo al contempo in modo che il contenuto del nuovo protocollo adottato dal Ministero sia tale da consentire ancora di sostenere che “ufficialmente” non esistono terapie efficaci contro il Covid, così da non creare i presupposti giuridici perché terzi possano attaccare dinanzi al TAR (o all’EMA) le autorizzazioni al commercio condizionate dei vaccini. Tutto questo sino al momento in cui le case farmaceutiche non avranno completato le sperimentazioni necessarie per presentare all’EMA la documentazione completa per ottenere una autorizzazione ordinaria al commercio dei vaccini.

Questa potrebbe dunque essere la vera ragione per cui il nostro Ministero della salute si è tanto speso in passato (e ancora oggi insiste) per non curarci dal Covid. La prova del nove – del resto – potrebbe arrivare appunto quando, a test clinici ultimati, saranno concesse dall’EMA le autorizzazioni definitive al commercio dei vaccini. Se a partire da quel momento il Ministero inizierà a dire che invece è possibile curare efficacemente il Covid, sarà chiara la ragione per cui in precedenza non l’ha mai voluto ammettere.




Ddl Zan, cavallo di Troia del politicamente corretto

Ho cercato di capire come funziona il ddl Zan e, poiché non sono un giurista né sono dotato di un’intelligenza prodigiosa, ho impiegato circa una settimana per ricostruire la ragnatela di norme che esso introduce, spesso modificando leggi precedenti e articoli del codice penale. Sono quindi assai stupito che tante persone, negli studi tv e nelle piazze, siano convinte di possedere delle opinioni su un oggetto che – nella stragrande maggioranza dei casi – semplicemente non conoscono.

La ragione per cui ciò accade è abbastanza semplice: siamo abituati a giudicare le leggi dalle intenzioni dei proponenti, anziché dagli effetti che verosimilmente sono destinate a produrre. E’ un grave errore, perché non è raro che intenzioni ed effetti divergano, tanto è vero che lo studio degli “effetti perversi” e delle “conseguenze non attese” dell’azione è uno dei filoni di studio più fecondi delle scienze sociali.

Nel caso del ddl Zan le intenzioni paiono chiarissime, e sostanzialmente condivisibili: colmare una lacuna della legislazione esistente. La lacuna è che le leggi vigenti (e in particolare la legge Mancino) puniscono con particolare severità alcuni comportamenti motivati da ostilità nei confronti di razze, etnie, nazionalità, religioni, ma si dimenticano altri possibili moventi: sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere, disabilità.

Messa così, come non essere d’accordo? L’unica obiezione che mi sentirei di sollevare è di natura logica: siamo sicuri che allungare la lista delle categorie protette sia la strada giusta?

Si potrebbe osservare, ad esempio, che nella lista del ddl Zan mancano i barboni, spesso oggetto di cieca violenza. E, se uno dei fenomeni che si vogliono colpire è il bullismo giovanile, come non considerare che, nelle classi scolastiche, da sempre la crudeltà dei nostri amati bambini umilia i grassi, i secchioni, gli introversi?

Non mi stupirei che, in futuro, il “legislatore” – questa figura mitica del discorso politico – si decidesse a novellare periodicamente le norme esistenti, aggiungendo di volta in volta, alle categorie da proteggere, nuove e sempre diverse sensibilità offese.

Ma supponiamo, per un attimo, che la moltiplicazione delle categorie sovra-tutelate sia la strada giusta, e che la lista Zan sia completa. E torniamo alla domanda inziale: al di là dei fini dichiarati, sicuramente lodevoli, quali sono gli effetti prevedibili del ddl Zan?

E’ su questi effetti, infatti, che si concentrano le critiche che, non solo da destra, sono state sollevate nei confronti del disegno di legge.

Una prima classe di critiche riguarda il restringimento dell’area della libertà di espressione, determinato non tanto dall’ampliamento delle categorie protette, ma dal fatto che a decidere se la manifestazione di un’idea, di un sentimento, di un’opinione sia o non sia reato, non potrà che essere la sensibilità del singolo giudice. Questo è già un problema oggi, vigente la legge Mancino, ma viene aggravato dall’articolo 4 del ddl Zan (Pluralismo delle idee e libertà delle scelte), secondo cui le idee si possono esprimere “purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”. Qualcuno può credere che, sul giudizio di “idoneità” di un’idea a determinare il “concreto pericolo” di atti discriminatori, non influiranno pesantemente le idiosincrasie (e le idee politiche) del magistrato chiamato a giudicare?

Ma la classe di critiche più fondata, a mio parere, è quella che osserva che il ddl Zan non si limita ad allargare le tutele di determinate categorie, ma pretende di rieducare ideologicamente i reprobi (articolo 5), intervenire attivamente sui contenuti trasmessi dalla scuola (articolo 7), e persino di legiferare sul linguaggio (articolo 1), fissando e delimitando il significato di parole come sesso biologico, genere, identità di genere, ruolo di genere, orientamento sessuale.

Che simili pretese possano determinare effetti aberranti credo sia evidente a (quasi) tutti. Ne abbiamo avuto un assaggio nelle linee guida gender apparse sul sito dell’Ufficio Scolastico del Lazio, poi precipitosamente ritirate (il titolo esatto era: “Linee guida per le strategie di intervento e promozione del benessere dei bambini e degli adolescenti con varianza di genere).

Questa seconda classe di critiche mette a nudo il vero punto debole del ddl Zan. Che non è di voler assicurare una protezione speciale a determinate categorie finora trascurate (obiettivo sensato, e condiviso anche dal centro-destra) ma di voler imporre alla società nel suo insieme il linguaggio, la visione del mondo e gli obiettivi educativi di una élite politico-culturale. Questo progetto, in forme più innocenti e ridicole, era già in atto negli anni ’80, quando Natalia Ginzburg, dalle colonne della Stampa e dell’Unità – con un coraggio e un anticonformismo che agli intellettuali di oggi difetta – denunciava il velleitarismo e l’ipocrisia del politicamente corretto. Ma nel corso degli ultimi anni ha assunto forme sempre più pervasive, condizionando pesantemente il mondo dell’informazione, della cultura, dello spettacolo, persino dell’economia, con l’effetto – presumibilmente non voluto – di allargare sempre più la frattura fra le parole dell’establishment e il comune sentire dei ceti popolari.

Che sia questo il vero obiettivo del ddl Zan lo prova, in modo secondo me incontrovertibile, una comparazione filologicamente puntuale fra il testo finale (già approvato dalla Camera) e le proposte di legge che l’hanno preceduto, sempre a firma di Alessandro Zan. Se si ha la pazienza di leggere, ad esempio, il disegno di legge del 2013 (primi firmatari Scalfarotto e Zan) o la proposta di legge del 2018 (primi firmatari Zan e Annibali) si può notare, con enorme sorpresa, che tutto ciò che inquieta i critici attuali del ddl Zan semplicemente non c’è. Niente articolo 4 su “Pluralismo delle idee e libertà delle scelte”.  Nessuna pretesa di legiferare sul linguaggio. Nessuna pretesa di intervenire nelle scuole.

Ma c’è di più. Se andiamo alla sostanza, e lasciamo perdere la tecnica giuridica adottata (intervenire su leggi precedenti, o direttamente sul codice penale), scopriamo una cosa molto interessante: le due vecchie proposte Scalfarotto-Zan e soprattutto Zan-Annibali, sono del tutto esenti dalle critiche che oggi vengono rivolte al ddl Zan. E la proposta di legge del centro-destra (prima firmataria Licia Ronzulli) è decisamente più avanzata della proposta Zan-Annibali del 2018, che si era scordata dei disabili.

Dunque la situazione è abbastanza chiara. Fino a un certo punto le principali proposte di legge si sono mosse in una direzione ragionevole, o quantomeno circoscritta all’obiettivo di estendere a nuovi soggetti tutele finora previste per un insieme troppo ristretto di situazioni e di categorie. Poi, non saprei dire perché, i proponenti hanno deciso di strafare, finendo per snaturare gli obiettivi originari. Il ddl Zan, anziché limitarsi a proteggere i deboli, è diventato un cavallo di Troia per imporre a tutti una particolare concezione del bene comune, dell’educazione, e persino degli usi appropriati del linguaggio. Il tutto semplicemente riscrivendo in Commissione Giustizia i testi originari, e senza un dibattito pubblico, come invece è avvenuto in altri paesi.

Il minimo che si dovrebbe pretendere è che delle preoccupazioni dei cittadini (sulla libertà di espressione) e delle inquietudini delle famiglie (per l’educazione dei figli) si discuta apertamente, senza demonizzare nessuno. Perché la posta in gioco è alta, e nessuno ha il monopolio del bene comune.

Pubblicato su Il Messaggero del 22maggio 2021