Vaccini, ultima carta

Fino a qualche settimana fa speravo ancora in un cambio di strategia nella lotta contro il virus. Oggi non più. Oggi è evidente che la politica, tutta la politica, ha gettato la spugna. I segnali sono chiarissimi.

Sul versante europeo, innanzitutto. L’accordo su green pass e voli internazionali, secondo cui le compagnie aeree avrebbero dovuto assicurare i controlli, è stato una perfetta presa in giro. La stragrande maggioranza dei passeggeri non vengono controllati né alla partenza né all’arrivo, il che può significare solo due cose: le regole stabilite dalle autorità europee non erano vincolanti, oppure lo erano ma non prevedevano sanzioni.

Le cose non vanno meglio sul versante italiano. I tamponi sono la metà di quelli che si facevano a marzo; da ben 3 settimane l’Rt galoppa al di sopra di 1; da qualche giorno il numero di casi giornalieri ha oltrepassato la soglia (circa 4000 al giorno) che consente il tracciamento. Per tutta risposta il governo sta cambiando i parametri di allarme, puntando sulle ospedalizzazioni (che sono ancora poche, per fortuna) anziché sull’indice di trasmissione Rt e sul numero di casi (incidenza settimanale), che invece stanno crescendo a un ritmo preoccupante e, con le vecchie regole, costringerebbero a far passare alcune regioni in zona gialla. Dunque lo scenario è chiaro: si cercherà di tirare a campare fino a Ferragosto per salvare il turismo, poi, quando saremo arrivati a 30 mila casi al giorno (così dicono le proiezioni), improvvisamente si scoprirà che dobbiamo chiudere tutto il chiudibile.

E a quel punto?

A quel punto, come l’anno scorso, avremo elezioni e ritorno a scuola. E poiché nel frattempo nulla è stato fatto né sul versante del trasporto locale, né su quello della messa in sicurezza delle scuole (per non parlare della riorganizzazione della medicina territoriale), sarà difficile evitare un’ulteriore esplosione dei contagi, anche agevolati dalla fine della bella stagione e della vita all’aperto.

Dunque, non nascondiamocelo: vaccini e green pass a parte, poco si sta facendo per arginare l’esplosione dei contagi. E la scuola non è affatto “una priorità assoluta”, come vorrebbe farci credere il ministro Speranza, ma è l’agnello sacrificale che, per il secondo anno consecutivo, immoliamo in nome del sacro diritto alle vacanze e alla ripartenza.

Detto questo, però, la domanda resta: che fare per limitare i danni?

Spiace essere tranchant, ma – dal momento che le autorità sanitarie hanno deciso, a dispetto della pericolosità della variante indiana, di lasciar correre il virus – non si può che concludere che siamo soli, completamente soli. E ci resta un’unica cosa da fare: provare a limitare i danni vaccinando noi stessi e convincendo gli altri a fare la stessa cosa. La possibilità di scegliere serenamente fra vaccinarsi e non vaccinarsi è un privilegio riservato ai cittadini dei paesi – quasi tutti non europei – in cui l’epidemia è sotto controllo.

Il vaccino, infatti, è l’unica vera arma che ci resta in una situazione in cui, per mille ragioni, si è deciso di rinunciare a usare altre armi, perché giudicate troppo costose o complicate.

Quali sono i vantaggi del vaccino?

Sono essenzialmente tre, uno di tipo altruistico, gli altri due di tipo egoistico.

Il vantaggio altruistico è che le persone vaccinate, pur potendo trasmettere il virus, lo fanno in misura considerevolmente minore. Una persona vaccinata è meno pericolosa per gli altri di una persona non vaccinata. Questo significa che, più persone si vaccinano, più lentamente circola il virus. Il rallentamento indotto dal vaccino, dunque, può controbilanciare (anche se solo in parte) l’accelerazione indotta dalla variante delta.

E veniamo ai due vantaggi egoistici. Il primo è che chi è vaccinato ha minori probabilità di contrarre il virus. Il secondo è che, anche se lo contrae, di norma sviluppa sintomi meno gravi di chi non è vaccinato, e raramente viene ospedalizzato o muore. Sono due vantaggi enormi, che fanno la differenza – esistenzialmente cruciale – fra vivere nell’angoscia e vivere nella consapevolezza di un piccolo rischio.

Questo non significa che la vaccinazione piena (con 2 dosi, o con 1 di Johnson & Johnson) azzeri il rischio di infezione, ospedalizzazione, morte, come alcuni credono. Significa però, ed è decisivo, che i rischi si riducono in modo drastico.

In concreto tutto ciò implica che, ove la quota di pienamente vaccinati si avvicinasse all’80 o al 90%, almeno il numero di ospedalizzati e di decessi potrebbe essere fortemente limitato. E’ a questo che dobbiamo puntare, raggiungendo chi non si può muovere e ragionando con i dubbiosi. Vaccinarci è l’unica arma che ci è stata lasciata in mano, e quindi sarebbe stolto non usarla.

La vaccinazione di massa risolverà ogni problema?

Lo speriamo. Ma pensare che basti, e da sola ci garantisca anni di convivenza pacifica con il virus, potrebbe essere un tantino azzardato. Di per sé, la vaccinazione di massa non esclude due eventualità che dobbiamo sempre tenere presenti. Da un lato, è possibile che, proprio perché si è lasciato circolare il virus, si formino varianti che “bucano” la barriera dei vaccini, o che sono ancora più trasmissibili di quella indiana. Dall’altro, se il virus dovesse infettare quasi tutti, il rischio è che – oltre a scontare un numero di morti non trascurabile – si debba fare i conti con milioni di persone alle prese con il cosiddetto Long Covid, ossia con i postumi più o meno irreversibili della malattia (attualmente si stima che ne siano affetti il 10% dei guariti).

Da questo punto di vista la scelta di cambiare i parametri, abbandonando Rt e l’incidenza settimanale, appare un tantino imprudente. Se la gravità dell’epidemia viene valutata solo o prevalentemente con le ospedalizzazioni, il rischio è che – ancora una volta – ci si accorga del pericolo solo quando l’epidemia galoppa, e i costi economici e sociali per frenarla sono diventati proibitivi.

Pubblicato su Il Messaggero del 24 luglio 2021




Per “Il Foglio” del G8 di Genova verrà ricordato il conflitto ideologico. Gli stracci che volarono passano in secondo piano

Se sulle orme di Theodor W. Adorno, volessimo costruire una Scala T del totalitarismo, sicuramente dovremmo porre, tra le prime caratteristiche della personalità totalitaria l’attitudine a “far di tutta l’erba un fascio” ovvero a unificare “chi è contro di me” in una massa damnationis che non ammette o ritiene irrilevante ogni “distinguo”. I nemici dei nazisti erano gli ebrei, i socialdemocratici, i comunisti, i liberali, i democratici – fossero eredi dell’Illuminismo francese o di quello inglese – i cristiani fedeli all’universalismo etico dei Vangeli, i liberalconservatori legati all’idea dello stato di diritto etc. etc. Tra il (presunto) bene e il (presunto) male non esistono vie di mezzo. La fallacia del piano inclinato (slippery slope) è il manganello di cui si servono i custodi del pensiero unico per liquidare critici e dissenzienti. Se tu sostieni, come ha fatto una sociologa svedese, che la convivenza tra etnie culturali molto diverse comporta problemi di ordine pubblico, sei sulla china che porta alla svastica. E’ la liquidazione del “dialogo”, possibile solo se si suppone che i due interlocutori abbiano qualcosa di interessante – e di veritiero – da dire.

Oggi in Italia non pochi sovranisti fanno pensare alla Scala T ma lo stesso può dirsi degli antisovranisti. In un articolo, assai discutibile, apparso sul “Foglio” del 21 luglio (Nel ventennale del G8 di Genova c’è una grande verità rimossa: gli eredi dei No global oggi si trovano nella destra sovranista), Claudio Cerasa sostiene che i temi che, vent’anni fa, ispiravano i black bloc si ritrovano tutti a destra: l’avversione al mondialismo, alla globalizzazione, all’imperialismo |sic!|, alle oligarchie finanziarie, al neoliberismo, alle multinazionali, al WTO, ai Soros, alle privatizzazioni, all’austerità fiscale, alla liberalizzazione dei movimenti di capitali, il richiamo al primato nazionale. Ne deriva, secondo la più pura logica totalitaria che gli oggetti di avversione sono tra loro solidali, sono anelli congegnati in modo che ciascuno tira l’altro e che non si possono separare senza cadere in una contraddizione logica e in un peccato contro lo spirito. Sei perplesso sui modi in cui si sta costruendo l’unità europea? Significa che t‘ispiri ad Alfredo Rocco e sei un avversario ideologico di Altiero Spinelli. Vorresti una globalizzazione meno imprevidente – per citare il bel volume di Danilo Breschi, Zeffiro Ciuffoletti e Edoardo Tabasso, La globalizzazione imprevidente. Mappe nel nuovo (dis)ordine internazionale (Effici 2020)? Significa che sei un potenziale parlamentare di Fratelli d’Italia. La postazione ideologica in cui si colloca Claudio Cerasa è quella in grado di “associare le politiche portate avanti dal mondo progressista con quelle portate avanti dai difensori del mercato libero”. Insomma, sembra di capire: proliferazione dei diritti individuali (di qualsiasi tipo) più mercatismo, con la messa in soffitta non solo del vecchio Marx (che in soffitta già si trova dal 1911 con la famosa frase di Giovanni Giolitti) ma anche del welfarismo socialdemocratico che, secondo la geniale scienziata politica statunitense, Sheri Berman, ci ha regalato i venti anni migliori del nostro dopoguerra – v. il suo saggio del 2006 significativamente intitolato, Primacy of Politics: So-cial Democracy and the Ideological Dynamics of the Twentieth Century (Cambridge U.P. 2006). E’ la realizzazione dell’incubo di Augusto Del Noce che prevedeva una generazione di Claudio Cerasa che avrebbe liquidato sia la borghesia tradizionale (con i suoi valori vittoriani) sia il proletariato classico, con il suo sogno della rivoluzione anticapitalista.

Cerasa si fa raggiante al pensiero che la sinistra mondiale non sia stata contaminata dalla dottrina “no global” e che i miasmi genovesi siano rifluiti a destra ma, forse, si illude nel minimizzarne l’appeal in certi settori e movimenti politici (lui stessi ricorda Podemos, Mélenchon, Corbyn, Sanders, la Dibba Associati). Sennonché il problema vero è un altro: davvero il mondo si divide in due, global da una parte e no global dall’altra? Davvero chi non sta con gli uni, sta con gli altri secondo uno stile di pensiero che ha un fondamento religioso (“Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me, disperde” Luca 11,14-23) ma che ripugna allo spirito laico e realistico che contrassegna la modernità? Non potrebbero esserci antiglobalisti dubbiosi e moderati e globalisti consapevoli dei problemi indotti da un mondo divenuto un’indivisa comunità di produzione e di scambio? E quanti come Ernesto Galli della Loggia invitano a riflettere sulle “virtù del nazionalismo” – per riprendere l’espressione di Yoram Hazony – sono le quinte colonne di Donald Trump e di Steve Bannon?

In realtà, il disegno dei Cerasa è quello di contarsi, del muro contro muro, di scrivere sulla lavagna della Repubblica resistenziale e democratica l’elenco dei cittadini buoni e dei cattivi. Le tinte sfumate, i “sì..ma”, gli accordi parziali, le mezze misure non sono di loro gusto: redivivi Simplicius del pensiero unico debbono snidare l’avversario, smascherarne connivenze e intenzioni inconfessate.

Sennonché non è neppure questo l’aspetto più controverso dell’articolo di Cerasa. A far riflettere è che per lui l’orrore suscitato dalle devastazioni dei black bloc passa in secondo piano rispetto agli obiettivi ideologici dei dimostranti. “La violenza portata in piazza dai manifestanti per così dire più facinorosi” fa da pendant alla “evitabilissima prova di forza della polizia” ed entrambe concorrono alla “rappresentazione falsata di ciò che quel G8 è stato dal punto di vista storico”. Eh no, caro Direttore, il suo è un caso da manuale di “falsa coscienza” che chiude gli occhi davanti alla realtà e se ne inventa una fittizia per convalidare le sue credenze ideologiche. Per quanti hanno vissuto quelle tragiche giornate le ragioni dei contestatori non hanno contato un bel fico secco: le devastazioni, i danni provocati a negozi e banche, la città messa a soqquadro, le sirene delle forze dell’ordine, gli assalti, il sangue versato hanno lasciato un segno indelebile nella memoria collettiva, hanno mostrato quanto sia precario e difficile il mantenimento dell’ordine in una società democratica come la nostra. Alla posta in gioco (global/no global) non ha pensato nessuno: è la violazione delle più elementari “regole del gioco” a far ricordare quegli eventi come un sogno spaventoso. Mi ha scritto un lettore: “Io ricordo l’amarezza per lo sfregio fatto alla mia città da quei beceri violenti. Che poi le forze dell’ordine (o chi era loro preposto) non abbiano saputo prevenire l’invasione ed abbiano ecceduto nel rivalersi su quelli che hanno acchiappato e che magari non erano i più responsabili, è una faccia della medaglia che aggiunge dispetto”. E’ proprio il riemergere della violenza cieca, irrazionale, incontrollata e incontrollabile che accompagnerà la reminiscenza delle giornate di Genova, indipendentemente da chi protestava contro chi e perché.

Viene il sospetto che Cerasa condivida sostanzialmente un caposaldo dell’ideologia italiana, che non tiene conto di Thomas Hobbes e della fondazione dello stato moderno fondato sul principio che la legge e l’ordine debbano avere la precedenza su tutto, per cui – in uno stato costituzionale e democratico – qualsiasi causa, anche la più giusta, diventa indifendibile se comporta il ricorso alla violenza. Nell’ideologia italiana, invece, è radicata l’idea della cosiddetta “rilevanza etico-politica delle piazze” per la quale cortei, manifestazioni, invasioni di luoghi pubblici, quando non sono mobilitazioni sanfediste, sono sempre un’espressione della “libertà come partecipazione” e vanno giudicati – positivamente o negativamente – per gli obiettivi che si propongono non per l’oggettivo perturbamento dell’ordine pubblico e il vulnus costituito per la convivenza civile. E’ sconfortante che si debba ancora ricordare che la piazza con i suoi furori non ha alcun rilievo né costituzionale né morale se la forza pubblica viene aggredita insultata dileggiata A Genova la polizia di Stato aveva il compito di non fare entrare i dimostranti nel recinto in cui si tenevano incontri e conferenze del G8: giustificare la pretesa di chi non intendeva rispettare il divieto avrebbe dovuto essere impensabile per ogni partito e cultura politica, anche quella di Vittorio Agnoletto, Viviamo, invece, in un paese in cui in primo piano stanno i fini – che, se buoni, fanno dimenticare i mezzi cattivi – sicché per il mainstream culturale oggi dominante, il G8 s’identifica con una battaglia ideologica non con una di quelle esplosioni collettive che società complesse e raffinate come quelle liberaldemocratiche non sanno spesso come gestire.

Quest’idea della piazza come supplente delle istituzioni – quando le istituzioni si orientano in direzioni che a una parte dei cittadini sembrano sbagliate – è qualcosa di cui, temo, non riusciremo a liberarci. Per certi ideologi, lo stato è la dimensione della legalità ma la società civile (che non è un’istituzione ma un contenitore dei più diversi progetti di vita) è la dimensione della legittimità. Se un Parlamento liberamente scelto dagli elettori prende una decisione o emana una legge che gli interpreti della volontà generale ritengono ingiusta, si è autorizzati a scendere in piazza, a scontarsi con poliziotti e carabinieri, a fare pressione su deputati e senatori affinché tornino sui propri passi.

Se invece dell’incontro dei leader delle principali potenze economiche mondiali, si fosse organizzato nel capoluogo ligure un vertice degli statisti dell’Europa orientale contrari alla globalizzazione e se le “nuove” sinistre avessero indetto manifestazioni non autorizzate da prefetti e questori, forse le probabili devastazioni ed erogazioni di violenza avrebbero ricevuto dal “Foglio” (ma anche da altri giornali nazionali) un diverso trattamento. Gli “eccessi” sarebbero stati sempre condannati, beninteso, ma la “giusta causa” li avrebbe fatti passare in secondo piano – come, d’altronde, è capitato agli “eccessi” della Resistenza che la storiografia ufficiale e anpista ha sempre minimizzato, ricorrendo, ma solo nei momenti di sincerità, all’adagio del vecchio azionista Riccardo Lombardi che “per fare una frittata si deve pur rompere qualche uovo”.

Solo a una mente intossicata dall’ideologia poteva venire in mente che il G8 verrà ricordato, nella storia, per il fatto che le sinistre, allora, erano nemiche della globalizzazione e che in seguito si sarebbero ritrovate a pass the whitness a Matteo Salvini e a Giorgia Meloni. Nella mail del mio lettore, al contrario, l’“amarezza per lo sfregio fatto alla città” non ha nulla a che vedere con gli obiettivi dei contestatori Il lettore, non lo escludo, avrebbe potuto anche condividerli, almeno in parte ma in quei giorni vide solo il Cavaliere rosso dell’Apocalisse.




Ddl Zan, perché Renzi non dice la verità?

Credo che la stragrande maggioranza dei cittadini non abbiano letto un solo rigo del Ddl Zan sull’omotransfobia. Cionondimeno, i sondaggisti parlano degli orientamenti dell’opinione pubblica nei confronti della nuova legge, già approvata alla Camera e ora all’esame del Senato, come se tali orientamenti avessero qualcosa di reale.

E’ un grosso equivoco. Non perché – in generale – la gente non possa avere un’idea su una legge se non ne ha letto il testo, ma perché c’è legge e legge. Ci sono leggi su cui si può avere un’opinione fondata anche senza averle lette (le chiamerò leggi “sondaggiabili”), e leggi su cui non è possibile avere un’opinione fondata finché non se ne sono compresi bene i meccanismi interni (leggi “non sondaggiabili”).

Perché?

Perché ci sono leggi che, nel loro titolo, indicano anche i mezzi usati per raggiungere un dato fine, e ci sono leggi che indicano solo il fine, senza chiarire i mezzi usati per raggiungerlo. Una eventuale legge di semplificazione del sistema fiscale che introducesse una flat tax al 25%, ad esempio, è una legge sostanzialmente sondaggiabile, perché permette a ciascuno di farsi un’idea di quel che succederebbe se dovesse passare. La legge Zan per la “prevenzione e il contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità” è invece una legge sostanzialmente “non sondaggiabile”, perché i fini sono chiari (e difficilmente contestabili) ma nulla lasciano indovinare sui mezzi impiegati per raggiungerli.

La discussione sulla legge Zan è complicata per questo. Tutti ne conosciamo le finalità, quasi tutti le approviamo, ma non tutti siamo informati adeguatamente sui mezzi che la legge mette in campo per raggiungere i suoi fini. Su alcuni di questi mezzi (inasprimento delle pene per i crimini d’odio) c’è sostanziale accordo fra tutte le forze politiche, di destra, di centro e di sinistra. Ma su altri mezzi, invece, non tutti sono d’accordo. Le critiche più frequenti si appuntano su tre articoli.

L’articolo 1, che pretende di fissare il significato di termini come sesso, genere, identità di genere, orientamento sessuale, sancendo per legge la possibilità di scegliere il proprio genere in base alla percezione che ognuno ha di sé.

L’articolo 7, che – tra le altre cose – introduce una giornata nazionale “contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia”, senza prevedere alcuna esenzione per le scuole elementari, le scuole cattoliche, e più in generale gli allievi minorenni.

L’articolo 4, che limita la libertà di manifestazione del pensiero se le idee espresse appaiono (a un giudice) “idonee a de­terminare il concreto pericolo del compi­mento di atti discriminatori o violenti”.

La maggior parte delle proposte alternative al Ddl Zan, compresi gli emendamenti dei renziani, si concentrano su questi tre articoli, per sopprimerli o riformularli. Sull’articolo 1 si osserva, anche da parte di autorevoli esponenti del mondo femminista, che lasciare al singolo la libertà di definire il proprio genere può determinare conseguenze inique o pericolose per le donne, come quando detenuti maschi pretendono di trasferirsi nei reparti femminili asserendo di sentirsi femmine, o come quando, con la medesima motivazione soggettiva, atleti maschi pretendono di gareggiare con le donne. Per non parlare dell’accaparramento da parte dei maschi dei benefici del welfare riservati alle donne.

Sull’articolo 7 si osserva che, stante che le credenze del mondo LGBT in materia di stereotipi di genere riflettono solo una delle tante possibili visioni del mondo, nulla assicura che la giornata contro l’omotransfobia non si tramuti, in parte o in tutto, in un tentativo di diffondere tali idee, in aperto contrasto con il comma 3 dell’articolo 26 della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 (“I genitori hanno diritto di priorità nella scelta del genere d’istruzione da impartire ai loro figli”.).

Sull’articolo 4, infine, si osserva che l’articolo 21 della Costituzione prevede che l’unico limite alla libertà di espressione sia la contrarietà “al buon costume”, e che è estremamente pericoloso delegare a un giudice la valutazione della pericolosità di un’idea.

Conclusione. Tutte le principali proposte alternative al Ddl Zan, comprese alcune precedentemente formulate da Ivan Scalfarotto e dallo stesso on. Zan, sono altrettanto incisive nella loro capacità di reprimere i crimini d’odio, e molto superiori nella tutela della libertà di espressione e di insegnamento (oltreché nella protezione del mondo femminile).

Non capisco quindi come Renzi e gli esponenti di Italia Viva possano presentare le proposte alternative come “un compromesso” fra la perfezione immacolata del Ddl Zan e la rinuncia ad avere una legge contro l’omotransfobia. No, la realtà è che le proposte alternative, nella misura in cui meglio tutelano la libertà, sono migliori del ddl Zan da qualsiasi punto di vista ci si ponga, eccetto il particolarissimo punto di vista del mondo LGBT, che ha tutto il diritto di difendere e promuovere le sue idee e la sua visione del mondo, ma non ha alcun titolo per imporla a tutti.

Ecco perché mi auguro che, quando proporrà i suoi emendamenti, Renzi la smetta di nascondersi dietro i rischi del voto segreto, che potrebbe affossare “la migliore delle leggi possibili”, e trovi il coraggio per dire forte e chiaro che quel che Italia viva ed altre forze politiche propongono non è un compromesso al ribasso, ma un miglioramento sostanziale del Ddl Zan.

Pubblicato su Il Messaggero del 17 luglio 2021




Le dimensioni culturali e la pandemia: come in Cina la cultura ha favorito il successo della gestione del Covid-19

La sorprendente evoluzione dell’epidemia in Cina

Secondo i dati diffusi dalla World Health Organization, la Cina è tra gli Stati che, a oggi, registrano il minor numero di casi e di morti da Covid-19 nel mondo. Ciò risulta particolarmente sorprendente se si tiene conto della densità della popolazione, della presunta paternità finora del virus e dell’ancora permanente stato di squilibrio socioeconomico delle regioni interne.

In particolare, in rapporto all’Italia…

Leggi l’articolo completo Le dimensioni culturali e la pandemia




“Errore imporre i vaccini ai giovani” – Intervista a Mario Menichella

La Verità (nella persona di Daniele Capezzone, ndr) ha conversato con Mario Menichella, fisico e divulgatore impegnato con la Fondazione David Hume, guidata da Luca Ricolfi.

Partiamo dal tema più delicato e spinoso, e cioè la vaccinazione dei ragazzi e poi quella dei bambini. Lei è stato il primo in Italia a individuare un “punto di break even”: sopra i 25-30 anni vaccinarsi è certamente vantaggioso (i rischi legati al vaccino sono senz’altro inferiori ai rischi delle conseguenze del Covid). Sotto quel limite di età, invece, le cose si invertono. Vuole spiegarci meglio?
Il rischio di morte per Covid si abbassa – e davvero di molto – al diminuire dell’età dei contagiati. Purtroppo, come abbiamo imparato nel caso delle trombosi legate ai vaccini, non altrettanto si può dire del rischio di morte per gli effetti collaterali. Pertanto, a un certo punto i due rischi si equivalgono, e ciò avviene grosso modo intorno ai 25-30 anni di età, come mostrato in un’analisi che ho reso pubblica a marzo e come in seguito ammesso ufficialmente anche dall’Ema, l’Agenzia europea per i medicinali.

Tra l’altro, un conto era la situazione 8-9 mesi fa: l’ipotetica positività di un ragazzo poteva davvero portare il virus in famiglia, con conseguenze pesanti per gli anziani di casa. Ma ora genitori e nonni sono vaccinati. Quindi perché far correre un rischio ai più giovani?
Sì, a livello individuale un giovane ha più da perdere che da guadagnare nel vaccinarsi. A livello di società, invece, l’apparente beneficio sarebbe di non far circolare il coronavirus. Tuttavia, se si analizza la questione dal punto di vista quantitativo, come ho fatto in un’altra analisi più recente pubblicata anch’essa nel sito della Fondazione Hume, si scopre che, perfino se si vaccinasse il 100% dei giovani, il virus potrebbe in teoria ancora tranquillamente circolare, poiché i dati provenienti dal Regno Unito indicano che una buona percentuale dei vaccinati non impediscono la trasmissione del virus se contagiati. Il piccolo contributo alla riduzione dell’Rt fornito dalla vaccinazione dei giovani potrebbe essere quindi ottenuto in altro modo, senza mettere necessariamente a rischio giovani vite.

In generale, non le pare che con i ragazzi si sia esagerato? Tra open day, notti bianche del vaccino, per non dire dell’associazione di idee tra vaccino e vacanza, non le pare che si sia spinto troppo verso di loro?
Sì, non solo non è stata fatta per loro un’analisi rischio-beneficio come ci si aspetterebbe prima di prendere decisioni così importanti, ma più in generale non si è voluto prendere realmente atto del fatto che il problema Covid riguarda – come del resto avviene anche per l’influenza – principalmente gli over 60. Aver voluto coinvolgere i giovani può essere parso politicamente corretto, ma dal punto di vista matematico, ad esempio del minimizzare l’impatto sul tessuto economico e sociale, mi suscita più di qualche dubbio. Perciò, mi pare davvero curioso che nel CTS non vi sia un matematico o almeno uno statistico, nonostante l’importanza degli aspetti quantitativi e dell’ottimizzazione nelle decisioni da prendere.

Vogliamo ribadire un punto che mi pare troppo sottovalutato? Per forza di cose, cioè vista la miracolosa rapidità con cui i vaccini sono stati realizzati, stiamo parlando di vaccini necessariamente in fase sperimentale. Voglio dire che non ne conosciamo gli effetti nel medio e lungo termine. È giusto?
Esattamente. Senza creare inutili allarmismi, è così. E il fatto che un tale modo di procedere normalmente non sarebbe accettabile è il motivo per cui si è derogato alle normali procedure di sperimentazione – che di solito durano molti anni – con l’autorizzazione all’uso di emergenza. Vorrei evidenziare che si sta anche creando un pericolosissimo precedente per altre tecnologie, come ad esempio il 5G, che secondo esperti indipendenti assai qualificati, se fosse un farmaco, non supererebbe neppure la sperimentazione preclinica.

È vero o è falso che alcune delle tecnologie usate non erano mai state utilizzate prima nella vaccinazione umana?
Vero. È ben noto che i vaccini a mRNA non sono mai stati usati prima sull’uomo, per cui questa inattesa occasione di sperimentarli senza troppi “lacci e lacciuoli” ha rappresentato una grossa opportunità per l’industria farmaceutica, che ora evidentemente ha forte interesse a testarli anche su ragazzi e bambini.

A questo punto, la interrogo su due conseguenze. La prima: non dovremmo essere specialmente prudenti verso i ragazzi ed i bambini? La seconda: davanti a farmaci sperimentali, parlare di eventuale obbligatorietà del vaccino sarebbe una ipotesi gravissima, irricevibile, inaccettabile. È così?
Sì, dovremmo essere prudenti con i ragazzi e tanto più con i bambini, perché sul Covid sappiamo tantissimo, ma mi sembra assai poco sugli effetti dei vaccini attuali, al di là di poche scarne statistiche: che io sappia – ma sarei molto felice di sbagliarmi – nessun soggetto terzo rispetto alle case farmaceutiche ha testato un campione di vaccinandi con semplici esami del sangue e monitoraggio dei parametri vitali per vedere l’azione dei vaccini sul livello di coagulazione sanguigna, sulla frequenza cardiaca, etc., nonostante non fosse difficile o costoso farlo. Insomma, ci si è fidati a occhi chiusi dell'”oste” e del suo vino. L’obbligo a sottoporsi a un vaccino di fatto sperimentale mi pare quanto meno eticamente sbagliato, soprattutto per i giovani, tanto più che si è costretti a firmare una manleva dalle responsabilità su eventuali effetti collaterali.

Lei ha detto che l’immunità di gregge è una chimera, perché anche i vaccini attuali, pur per molti versi efficaci, sono “leaky”. Vuole spiegarci meglio?
Come mostrano i dati contenuti nei rapporti periodici di Public Health England, gli attuali vaccini anti-Covid prevengono molto bene la malattia grave ma in una buona percentuale di vaccinati non prevengono l’infezione e, in molti di questi, neppure la trasmissione a terzi della stessa, perciò si dicono “leaky”. L’immunità di gregge è un concetto nato per i vaccini cosiddetti sterilizzanti, cioè che impediscono a un agente patogeno di replicarsi nelle cellule e quindi di trasmettere l’infezione ad altri, come quello per il morbillo, la poliomelite, etc. Se si vuole estendere il concetto di immunità di gregge ai vaccini leaky anti-Covid, come ho mostrato quantitativamente in due modi diversi nella mia analisi pubblicata dalla Fondazione Hume, si scopre che troppi vaccinati contribuirebbero alla circolazione del virus, per cui l’immunità di gregge con i vaccini attuali non sembra essere raggiungibile.

Veniamo agli anziani. Ferma restando la libertà di ciascuno di vaccinarsi o no, mi pare che il punto sia qui: negli oltre 2 milioni di over 60 che ancora non si sono vaccinati. Sono loro i soggetti potenzialmente a rischio a settembre-ottobre?
Principalmente, poiché circa il 95% dei morti per Covid è costituito da over 60. Nel mio articolo, sotto ipotesi oggi del tutto ragionevoli, ho mostrato come il bacino di potenziali nuove vittime nel prossimo autunno-inverno sarà verosimilmente costituito soprattutto da anziani non vaccinati e, in misura minore, da quella piccolissima percentuale di anziani vaccinati su cui i vaccini non risultano essere efficaci.

Dunque occorrerebbe informarli e convincerli razionalmente. Condivide?
Assolutamente, e anche raggiungerli capillarmente, ma non mi pare che in tutte le regioni ciò sia stato fatto.

Non dobbiamo trascurare un’altra carta importantissima: le cure domiciliari. Nello scenario che lei ha descritto può essere uno strumento decisivo in autunno.
Per gli anziani non vaccinati avere un protocollo di cura serio e ufficiale sarà fondamentale. Quello proposto dal gruppo del prof. Remuzzi è assai efficace nel ridurre la mortalità. Lo dimostra il loro studio pubblicato a giugno su una prestigiosa rivista peer-reviewed. Ora Aifa e Cts, a mio parere, non hanno più “scuse” per non adottarlo, anche perché in caso di ulteriore inerzia in tal senso qualche magistrato potrebbe magari trovare i presupposti per aprire un caso giudiziario, come già accaduto per il piano pandemico non aggiornato.

La Fondazione Hume e Luca Ricolfi hanno suggerito altri due interventi di buon senso: attivarsi da ora per un notevole potenziamento dei trasporti in vista della ripresa scolastica, e spendere un po’ di soldi (ne basterebbero forse meno dei 300 milioni spesi per i banchi a rotelle) per mettere in tutte le aule impianti di purificazione dell’aria. Conferma?
Sì. Il ricambio d’aria è un approccio interessante e non solo a scuola, non a caso la questione sarà affrontata in dettaglio proprio nella mia prossima analisi quantitativa, che uscirà a settembre. Suggerirei poi una misura a costo zero: eseguire controlli e test a campione sulle mascherine in commercio, anche online, ritirando quelle – temo ancora numerose – che non garantiscono quasi alcuna protezione a chi le indossa.

 Se facciamo tutto questo, possiamo ragionevolmente sperare di trattare le varianti più o meno come le malattie respiratorie stagionali, insomma come delle influenze? Ogni anno ci sono vittime, lo sappiamo bene. Ma nessuno ha mai proposto un lockdown contro l’influenza…
Sì, la matematica ci suggerisce che, ampliando l’arsenale delle armi per ridurre l’Rt e vaccinando più anziani possibile, arriveremo prima a una convivenza pacifica con questo coronavirus. I vaccini ed i farmaci di nuova generazione, probabilmente, faranno il resto.

Intervista rilasciata a Daniele Capezzone e pubblicata su “La Verità” del 12 luglio 2021
(riprodotta per gentile concessione di D. Capezzone / La Verità)