Il censore della nostalgia

Commentando il ‘discusso libro’ del generale Roberto Vannacci, Corrado Augias, uno dei terroristi della mente in servizio permanente effettivo sulle colonne di ‘Repubblica’, dopo aver ricollegato Il mondo al contrario al clima di esaltazione delle ‘famigerate SS naziste’, ironizza sulla nostalgia del mondo di ieri che cola dalle pagine del saggio. Rimpiangere l’Italia che fu significa ignorarne l’arretratezza, la diffusa povertà, i diritti civili inesistenti, il divorzio da conquistare a colpi di pistola, il delitto d’onore, l’assistenza sanitaria rudimentale. ‘E’ inutile polemizzare col presente tanto più se si considera la portata rivoluzionaria del passaggio in corso, dalla cultura della carta a quella digitale’. Sono preziose stille di saggezza! E tuttavia, vorremmo chiedere all’onnipresente columnist, è un reato ritenere che l’Italia di Pane amore e fantasia avesse anche positività perdute? Cercare di conservare qualcosa del passato è un reato di lesa modernità? Parlare di “bellezza del nucleo familiare tradizionale” comporta l’esposizione alla gogna mediatica? Forse è ingenuo voler ritornare al mondo pre-68 ma non si vede perché si debba essere obbligati a guardare al passato come a un blocco compatto in cui, ad es., il positivo (assenza di ballo con sballo) era indissolubilmente unito al negativo (l’autoritarismo familiare) e la meritocrazia era unita a una Università che teneva lontane le masse. In ogni caso, i valori legati al passato stanno sullo stesso piano di quelli che guardano al presente e al futuro e, in democrazia, quel che conta è la diversa risonanza che hanno negli animi dei cittadini. Il pluralismo – quello vero di Isaiah Berlin – è proprio questo: abbiamo idee diverse in campo morale, politico, sociale, bioetico, culturale e tali idee vanno rispettate tutte, dal momento che nessuna scienza è in grado di disporle in ordine gerarchico. Se quello che pensa il generale Vannacci è condiviso in tutti i bar d’Italia, Augias se ne faccia una ragione: vuol dire che la maggioranza dei nostri connazionali si riconosce in una etica tradizionale piuttosto che in quella illuministico-cosmopolita degli opinion makers di ‘Repubblica’. Toglieremo il voto ai retrogradi o li sottoporremo a una rieducazione di massa?




Al coro del politicamente corretto s’è unita la voce di Maurizio Ferrera

‘La libertà non è una clava’ è il titolo di un editoriale di Maurizio Ferrera pubblicato sul ‘Corriere della Sera’ del 23 agosto. “Il discorso di odio, vi si legge, agisce come un sasso nello stagno, attiva una spirale di polarizzazione di gruppo, di radicalizzazione dei disaccordi e dei conflitti.” E ancora “anche a prescindere dai suoi contenuti, il discorso d’odio erode il terreno comune e trasforma un’idea (un punto di vista, una visione della società, una identità in una credenza assoluta, irri- ducibile, spesso ‘tribale’. “La libertà di espressione diventa una clava che frantuma le basi del regime – liberale e democratico – che rende possibile l’esercizio di quella libertà”. Quante volte ho pensato la stessa cosa leggendo le omelie degli opinion makers di ’Repubblica’, del ‘Fatto quotidiano’, di ‘Domani’, de ‘La Stampa’ etc. C’è un’Italia che viene letteralmente criminalizzata se non condivide ‘tutti’ i valori che stanno a fondamento della Costituzione antifascista e l’universalismo illuministico e cosmopolitico che ormai domina incontrastato nelle scuole italiane e nei mass media(anche quelli di Mediaset) e per il quale tutto ciò che si oppone al ‘pensiero egemone’ va stanato e denunciato. In  qualche caso, forse sotto la suggestione del fascistometro escogitato da Michela Murgia (parce sepultae), si sono proposti attestati ufficiali a dimostrazione di stare dalla parte giusta (v. la dichiarazione di antifascismo sulla carta d’identità proposta da un sindaco del Grossetano).Non sto rigirando la frittata. Il lettore sa bene che i casi da me citati non sono quelli ai quali si riferisce Ferrera, che pensava al libro di Roberto Vannacci e, soprattutto, alle “categorie più bersagliate dai discorsi d’odio” “i migranti in particolare, in particolare se musulmani e/o di pelle scura, gli ebrei, la comunità Lgbtq*” I pronunciamenti pubblici di disprezzo verso queste categorie, scrive tendono a sfuggire alle statistiche, ma costituiscono il retroterra dei veri e propri crimini d’odio”. Mi è difficile trovare un esempio di ‘pronunciamento pubblico’ e di implicito invito all’aggressione  nei vari periodici di area moderata, liberale, conservatrice e persino ‘nostalgica’ che mi capitano tra le mani; anche se non esito ad ammettere che nei bar dello sport disseminati nella penisola discorsi come quello di Vannacci trovano molti consensi: Ma questo poi cosa significa: che una visione tradizionalista della famiglia, dei generi sessuali, delle autorità laiche e religiose va considerata una ‘malattia’ da debellare al più presto? Sono d’accordo che “il valore del nostro modello di società dipende dalla misura in cui sapremo rendere ’normale’ la diversità nel discorso e nelle interazioni pubbliche”. Mi chiedo, però, quali diversità vadano riconosciute e chi debba decidere in merito. Come è stato detto da un giovane, brillante, studioso di Isaiah Berlin, il pluralismo esaltato nella retorica nazionale sono le tonalità diverse di uno stesso colore. Non sembra entrare nella nostra political culture il principio che il ‘diverso’ che legge i libri di Julius Evola e fonda un’associazione culturale intitolata a Ezra Pound va rispettato come il ‘normale’ che colleziona gli scritti di Antonio Gramsci. A Genova, ad es., un sindaco di sinistra ha capeggiato un corteo ANPI che chiedeva di allontanare dalla città i neofascisti (!) di Casa Pound.

In realtà, si dovrebbe prendere atto che   un paese non è una lavagna su cui elencare la parte buona e la parte cattiva, i giusti e i reprobi, i fascisti e gli antifascisti, gli amici dell’Occidente e gli amici di Putin. Ma per averne consapevolezza sarebbe necessario riconoscere l’aria di famiglia che in un conflitto politico, sociale e culturale caratterizza i partiti (in senso lato) in competizione. Non c’è comunità nazionale, oggi come ieri, in cui i modi di pensare, gli atteggiamenti verso la vita, i pregiudizi, le sentimentalità non si ripartiscono   equamente tra i vari piani dell’edificio sociale. In parole povere, la sinistra e la destra quasi sempre presentano lo stesso volto sia pure diversamente tatuato e colorato. Alle violenze degli anni venti contro gli agrari – cui non fu estraneo Giacomo Matteotti – corrispondono quelle delle squadre d’azione di Italo Balbo e di Renato Ricci, alla violenza dell’Inquisizione spagnola corrisponde l’efferatezza con cui gli anarchici irrompevano nei conventi, spesso profanandovi le tombe. La ‘manifestazione pubblica di odio’ nei confronti delle classi dirigenti e dei loro intellettuali, è quasi sempre  una reazione (certo inaccettabile) che nasce da quanti si sentono da esse  umiliati e trattati come sudditi di cui vergognarsi. L’idea che ci siano italiani proiettati nella modernità e altri ancorati a pregiudizi del passato circola da secoli nella ‘repubblica delle lettere’ come circola l’altra che ci siano italiani legati alle ‘buone tradizioni’ del tempo che fu e altri malati di novismo e di nichilismo. Ne è derivata la figura dell’intellettuale ‘bonificatore’ incaricato di metter il giardino in ordine, eliminandovi le sterpaglie e i parassiti di piante e animali. Sì, ha ragione Ferrera, “il terreno culturale che favorisce la democrazia è fragile e fatica a tenere il passo con i mutamenti sociali, fra cui l’emergenza di nuove sensibilità e domande di riconoscimento pubblico”. Tale riconoscimento, però, è possibile solo se si viene incontro all’altro, se se ne comprendono i valori profondi, se gli si garantisce che nessuno intende rifargli l’anima. Ma questo comporta – prendendo sul serio il pensiero di J.S.Mill – la rimozione del peccato capitale dell’ideologia italiana, quello di fondare l’identità su una contrapposizione assoluta e radicale invece che su valori positivi intesi a costituire un idem sentire de re publica. Ne rappresenta un esempio da manuale quella che Renzo De Felice chiamava la ‘vulgata antifascista’ e che da settant’anni è stata il fondamento indiscusso della retorica nazionale creando spaccature anacronistiche nel paese e stigmatizzando quanti non si riconoscevano nella retorica ufficiale e anpista. E non vi si riconoscevano non solo per aver letto analisi pacate del famigerato ventennio—quelle di storici come lo stesso De Felice, ma anche di Roberto Vivarelli, di Massimo L. Salvadori etc.—ma anche per esperienza personale, avendo conosciuto bene  persone (familiari e amici) che non corrispondevano affatto allo stereotipo creato dall’antifascismo di regime.

Nell’editoriale di Ferrera non c’è neppure il sospetto che certe reazioni—sicuramente deprecabili—possano essere dettate non da una malattia morale, da ignoranza, da atavismi tribali ma dall’oggettiva complessità dei problemi. Si prenda il caso dell’emigrazione. E’ una colpa temere che un’emigrazione incontrollata possa riversare sulle nostre rive fiumane di ‘desperados’ che potrebbero alterare i paesaggi materiali e spirituali nei quali siamo vissuti per secoli? Per l’abitante del quartiere povero la paura di aggressioni da parte di gente che non ha né un tetto né un lavoro non va tenuta in debito conto? E dobbiamo proprio mettere alla gogna Andrea Gianbruno per aver affermato ciò che ogni buon padre di famiglia non fa che ripetere alle figlie: ‘vai pure a ballare, ma ricordati che alcool e droga ti espongono a brutti incontri?’

Forse Ferrera, difensore (giustamente) dei diritti della comunità Lgbtq* dovrebbe riflettere su quanto ha scritto il filosofo Simone Regazzoni, allievo di Jacques Derrida, “In questi anni il discorso della sinistra non si è semplicemente focalizzato sui diritti delle minoranze. Ha fatto due cose, pessime, il cui risultato è una destra sempre più forte in Italia.

  1. Ha affermato, nella prassi e nella teoria, che qualsiasi riconoscimento dei diritti delle minoranze deve passare da una radicale messa in discussione critica e una colpevolizzazione morale di ciò che si presenta, e che la maggioranza delle persone vive, come la norma. Vuoi riconoscere i diritti della famiglia queer? Devi dire che la famiglia tradizionale è il male. Vuoi riconoscere diritti alla genitorialità delle coppie omosessuali? Devi dire che i termini mamma e papà sono formule da non usare. Vuoi riconoscere i diritti a quanti percepiscono la propria sessualità di genere diversa dal sesso biologico? Devi dire che esiste solo la sessualità di genere, che il sesso è un costrutto culturale e che maschile e femminile sono costruzioni oppressive.  Devi riconoscere il diritto a essere a pieno Italiani ai figli di immigrati? Devi dire che non esiste un’identità italiana.
  2. Queste tesi non vengono presentate come ipotesi da discutere in un contesto filosofico o culturale, ma come dogmi di una nuova religione che non possono essere messi in discussione, pena la scomunica morale. Per questo nello stesso spazio intellettuale che le sottoscrive pubblicamente molti sentono il bisogno, in privato, di prendere una distanza ironica da questa neoreligione a tratti kitsch con i suoi santoni e le sue vestali. Immaginiamo quale effetto possa avere questa neoreligione sulle masse… quello di vedere un libro rabberciato e mediocre come un grido liberatorio del tipo: “il re è nudo!”.

Oltretutto comprendere chi sta dall’altra parte non è qualcosa che riguardi solo lo scienziato politico o il filosofo morale ma è, soprattutto, un imperativo politico. Si prevale solo sull’avversario che si conosce.




A proposito di stupri – Il lato oscuro della civiltà

Ogni tanto la stampa e le televisioni ci informano di qualche drammatica violenza su donne, ragazze, e persino bambine: stalking, abusi sessuali, stupri, femminicidi. Ultimamente, l’attenzione è caduta su due casi di stupro di gruppo avvenuti uno a Palermo, l’altro a Caivano in provincia di Napoli, in una realtà degradata e ostaggio della criminalità.

Notizie di questo tipo sono doverose, e tanto più utili quanto più accompagnate da ricostruzioni accurate del contesto economico, sociale e culturale in cui i fatti maturano. C’è un risvolto della medaglia, tuttavia. Da questo genere di episodi, di cui si parla qualche volta al mese, possono derivare credenze sostanzialmente errate. Ad esempio, che si tratti di poche decine di casi l’anno. O che la matrice siano le condizioni sociali e culturali, particolarmente problematiche nel Mezzogiorno. O che l’Italia sia una realtà particolarmente arretrata, ben lontana dagli standard di civiltà di tante altre società avanzate.

Ebbene, nessuna di queste letture, spesso stimolate dagli episodi di cronaca, regge a un’analisi dei dati (pur imperfetti e frammentari) di cui oggi disponiamo. Partiamo dal numero di stupri: le denunce sono circa 5 al giorno, con un “numero oscuro” di almeno 50 casi non denunciati ogni giorno. Una stima rozza e per difetto suggerisce che gli stupri siano dell’ordine di 20 mila l’anno.

Ma dove si concentrano gli stupri? I dati disponibili mostrano che, contrariamente a una credenza piuttosto diffusa, la frequenza è maggiore nelle regioni del Centro-nord rispetto a quelle del Sud. Secondo i dati più recenti del Ministero dell’interno, relativi al 2021, il record negativo delle violenze sessuali è detenuto dalla civilissima Emilia- Romagna, mentre la regione meno toccata è l’arretrata Calabria. Né si pensi che questa (presunta) anomalia sia una particolarità italiana. Se allarghiamo l’orizzonte, e passiamo a considerare i paesi dell’Unione europea, o l’insieme ancor più ampio dei paesi Oecd, troviamo la stessa regolarità già osservata confrontando le regioni italiane. Sulla base dei pochi dati disponibili, pare che i tassi di violenza sulle donne più alti si riscontrino nei paesi (considerati) più sviluppati, come Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania, Olanda, con punte inquietanti negli ultra-moderni, ultra-civili paesi del Nord: Svezia, Norvegia, Finlandia, Danimarca (per non parlare di quel che accade fra i super-privilegiati e sovra-istruiti studenti dei college americani e britannici, dove alcune inchieste indicano che le studentesse vittime di violenza sessuale sarebbero 1 su 5). Mentre i tassi più bassi si riscontrano in paesi mediterranei come Grecia, Spagna, Portogallo, Italia. In tutte le statistiche il nostro paese si trova sempre nella fascia dei paesi meno esposti alla violenza di genere.

Arrivati a questo punto, so già qual è l’obiezione: è tutta colpa del “numero oscuro”, ossia del tasso di denuncia, presumibilmente molto diverso da paese a paese, e significativamente più alto nei “paesi civili”. Se il centro-nord ha più violenze sessuali del Sud, e la Svezia ne ha molte di più dell’Italia, è solo perché nelle realtà avanzate quasi tutte le violenze vengono denunciate, mentre in quelle arretrate ciò accade soltanto per una piccola frazione del totale.

Questo argomento non è del tutto infondato, ma non basta a spiegare i fatti. Le differenze nei tassi di violenza fra un paese come l’Italia e un paese come la Svezia sono troppo ampie per attribuirle interamente a differenze nei tassi di denuncia, anche perché vari studi condotti nei paesi nordici indicano, anche lì come nel nostro paese, tassi di denuncia molto bassi, dell’ordine di 1 caso su 10 (se non peggio).

Ma c’è un modo sicuro per verificare se il “paradosso nordico” (i territori più avanzati hanno tassi di violenza sulle donne maggiori di quelli più arretrate), è una realtà e non un artefatto statistico: basta confrontare fra loro non le denunce per stupro, ma i femminicidi, per i quali il numero oscuro non può che essere vicino a zero (è molto difficile che l’uccisione di una donna non venga rilevata dalle statistiche). Ebbene, anche in questo caso i paesi del Nord hanno i tassi di femminicidio più alti, l’Italia ha valori comparativamente molto bassi e, dentro l’Italia, è il Centro-nord a primeggiare (sia pure di poco), non l’arretrato Mezzogiorno. Non solo, ma – contrariamente a un pregiudizio molto diffuso – i femminicidi “di possesso” (in cui il maschio non riesce ad accettare la perdita della donna) sono tipici del Nord, non del Sud.

Conclusione: i dati dicono che, tendenzialmente, più avanzata è una realtà dal punto di vista del benessere e della parità di genere, maggiore è il tasso di violenza sulle donne. In quale modo questa circostanza debba essere interpretata, è tutt’altro che ovvio. Ma il fatto resta. E solleva una domanda: non sarà che il nostro modello di civiltà, basato sull’espansione illimitata dei consumi e dei diritti individuali, contenga in sé un difetto di fabbricazione, una sorta di vizio nascosto?




Da Palermo a Napoli: a proposito degli stupri di gruppo

  1. Inferno nel parco verde di Caivano. Vittime sono delle bambine di 10 e 12 anni. Sembrava che il caso di Palermo fosse stato l’ultima storia di stupri. Siamo in un Paese malato?

Sì, ovviamente. Ma in Europa, e più in generale in occidente, sono tanti i paesi in cui i femminicidi, o gli stupri, o entrambi i reati sono più frequenti che in Italia. Anche le civilissime Svezia, Norvegia, Finlandia, Danimarca, Olanda hanno numeri inquietanti. Come la mettiamo?

  1. Già, come la mettiamo?

Forse è giunto il momento di farci la domanda cruciale: non siamo ancora abbastanza civili, o è il nostro tipo di civiltà che rende endemica la violenza sulle donne?

  1. Lei come risponde?

Propendo per l’idea che la nostra civiltà, che si basa sempre più su un mix sbilanciato fra diritti e doveri (tutto a favore dei diritti individuali), sia sempre meno capace di contenere le pulsioni individuali. Abbiamo un bel criticare il patriarcato, ma dimentichiamo che il padre non è solo il maschio-bianco-eterosessuale prepotente che sottomette la povera femmina indifesa, ma è anche il super-io che limita le richieste dell’es. Siamo in una “società senza padre”, come aveva profetizzato Alexander Mitscherlich fin dall’inizio degli anni ’60 con il suo libro omonimo (Verso una società senza padre, uscito nel 1963), e questo significa necessariamente due cose complementari, che non possono andare l’una senza l’altra: più libertà, ma anche meno freni.

  1. Quali sono, a suo parere, i motivi che spingono i giovani verso comportamenti così inspiegabili?

Veramente io non li trovo inspiegabili. Direi anzi che sono spiegabilissimi, e sono solo la punta dell’iceberg. A quel che risulta da alcune indagini statistiche, per ogni stupro denunciato ve ne sono almeno 10 non denunciati. Senza contare tutti i casi di prevaricazione sessuale, ai confini dello stupro. La spiegazione ovviamente non può essere condensata in una formula, ma credo che il fattore più importante, la matrice di tutto, sia la completa mancanza di una “educazione sentimentale”, per usare un termine ottocentesco. Dove per educazione sentimentale intendo un percorso lungo e accidentato di avvicinamento al sesso, un percorso che aveva nel pudore e nell’arte del corteggiamento i suoi caposaldi.

Quello che la mia generazione e quella successiva non paiono aver compreso è che la liberazione da ogni inibizione e da ogni autorità ha ottime ragioni dalla sua parte, ma ha anche un costo. Se i genitori non fanno più i genitori, se la scuola diventa ostaggio delle famiglie, se le istituzioni rinunciano a esercitare l’autorità, certo che si vive in una società più tollerante e meno repressiva, ma non ci si può stupire che una frazione della gioventù sia senza freni, e lo sia molto precocemente. E non importa dove: può essere nei quartieri chic di una grande città, come in una periferia degradata ostaggio della criminalità organizzata

  1. Quanto influiscono i social?

Direi che sono decisivi. I media, piuttosto ingenuamente, parlano della scuola e dell’università come luoghi di competizione sfrenata, dove l’ansia da prestazione divorerebbe una gioventù fragile e infelice, tentata dal suicidio. Non si accorgono che la competizione c’è, ma non è per ottenere buoni voti, bensì per eccellere nel gruppo dei pari, massimizzando il numero di like, facendo circolare video più o meno spinti (il cosiddetto sexting), compiendo gesta clamorose: atti vandalici, risse di strada, scippi, stupri individuali e di gruppo. Ragazzi e ragazze sono sottoposti a una pressione mostruosa per evitare lo stigma di compagni e amici, l’incubo di non essere nessuno.

  1. I ragazzi di oggi sono più violenti di quelli di ieri?

Probabilmente sì, ma io userei un altro termine: direi più spregiudicati.

  1. Le istituzioni cosa possono fare rispetto a quanto si sta verificando?

Qui voi vi aspettate la ricetta del sociologo. Ma, proprio come sociologo, vi rispondo: quasi nulla. Inutile aumentare le pene, se poi lo stupratore non finisce in carcere, o ci resta poco. Patetico dire che deve cambiare la mentalità, che è un problema culturale, che bisogna educare. Educare? Adesso ce ne accorgiamo? C’è bisogno di uno stupro di gruppo per farci accorgere che non lo facciamo più da mezzo secolo?

  1. Non le sembra che il dibattito politico affronti questioni marginali, ignorando le problematiche vere del Paese?

Non credo che le questioni affrontate dalla politica siano marginali, semmai il problema è che le “problematiche vere” (compresa la violenza sulle donne) sono troppe.

[intervista uscita su L’Identità il 27 agosto 2023]




A proposito del caso Vannacci – Il grande boomerang

Per un sociologo come me il caso Vannacci è estremamente interessante. Esso infatti illustra in modo plastico uno dei concetti chiave della sociologia: quello di conseguenze non intese (o non volute) dell’azione sociale (una variante moderna del concetto hegeliano di “eterogenesi dei fini”). Introdotto da Robert Merton fin dagli anni ’30, ripreso e sviluppato da Raymond Boudon negli anni ’70 con la sua teoria degli “effetti perversi” dell’azione sociale, il concetto si riferisce a quelle situazioni nelle quali un’azione, concepita in vista di un certo fine, produce risultati diversi – quando non opposti – rispetto a quelli desiderati.

Nel caso Vannacci è andata così. Il 10 agosto il libro, autopubblicato e acquistabile su Amazon, esce senza particolare clamore. Dopo qualche giorno, però, numerosi media progressisti mettono in atto una delle pratiche meno scientifiche (e meno professionali) del mondo dell’informazione: individuato come nemico un determinato testo, lo si sottopone a una sorta di Tac, o meglio scintigrafia (esame accuratissimo, in grado di individuare le minime anomalie) per isolarne i passaggi più scottanti e discutibili; identificati tali passaggi, li si estrae dal contesto, li si ritocca un po’, e li si dà in pasto all’opinione pubblica, trascurando del tutto le argomentazioni (spesso assai articolate) del libro; dopodiché, incuranti della pubblicità gratuita che così si offre al testo incriminato, si dà inizio alla lapidazione del suo autore, che per giorni e giorni prosegue sulla carta stampata, sui social e in tv.

Risultato: il libro, anziché suscitare l’attesa ondata di indignazione nell’opinione pubblica, balza in testa alla classifica dei libri più venduti, posizionandosi davanti ai libri di Michela Murgia che, anche in seguito alla commozione per la morte della scrittrice, stavano ampiamente dominando le classifiche. Le prime stime suggeriscono che, grazie alla solerte vigilanza dei media progressisti, il generale Vannacci abbia venduto oltre 25 mila copie, con un guadagno di almeno 200 mila euro.

E non è tutto. La immediata reazione delle autorità militari e del ministro della Difesa, che rimuovono il Generale dal suo incarico e avviano un’azione disciplinare, pone le basi per farne un eroe nazionale, o meglio una sorta di “profeta armato” della parte più conservatrice del Paese. In breve: un’azione concepita per screditare un autore, un libro, una concezione del mondo, produce effetti opposti a quelli desiderati, in perfetto accordo con la teoria degli “effetti perversi” dell’azione sociale.

Questa però non è l’unica ragione per cui il caso Vannacci è interessante. Al di là del merito (per pronunciarmi aspetto di aver letto tutto il libro), la questione che si pone è quella dei limiti della libertà di espressione. In quali casi si possono punire le persone per le loro idee? E soprattutto: chi è titolato a punire? Solo la magistratura, o anche i superiori gerarchici di chi esprime idee inaccettabili? E inaccettabili per chi?

Come si vede, è un bel guazzabuglio. E che la questione sia ingarbugliata lo segnala il fatto che, a difesa del generale Vannacci, sono scesi in campo non soltanto esponenti politici di destra, ma anche personalità dell’area progressista: Piero Sansonetti, direttore dell’Unità; Antonio Padellaro, tra i fondatori del Fatto Quotidiano; Enrico Mentana, Direttore del TG La 7; Elisabetta Trenta, ex ministro della difesa durante il primo governo Conte; Marco Rizzo, presidente onorario del Partito Comunista.

Insomma, la questione è davvero aperta e controversa. Quello che la rende tale, a mio parere, è soprattutto una circostanza: l’intervento contro il Generale Vannacci si basa sì sui contenuti del suo libro (definiti “deliranti”, o “farneticanti”), ma non poggia sulla individuazione di alcun reato, né di opinione né di altro tipo, connesso alle idee ivi espresse.

Il punto è importante perché la Costituzione, dopo aver enunciato il principio della libertà di manifestazione del pensiero (articolo 21), è piuttosto precisa nell’indicare i casi nei quali il principio può essere sospeso, a tutela di altri principi che con esso possono confliggere. I casi principali sono l’offesa al buon costume (menzionato nell’articolo 21) e la commissione di un ben circoscritto insieme di reati: minaccia, vilipendio, istigazione a delinquere, calunnia, diffamazione, ingiuria (dal 2016 declassata da reato penale a illecito civile).

Dunque, quello cui ci troviamo di fronte, in questo come in numerosi casi consimili nelle aziende, nelle università, negli apparati pubblici, è un intervento contro la libertà di manifestazione del pensiero che non viene esercitato in sede penale o civile, ma su base per così dire amministrativa, semplicemente lungo la catena di comando di una istituzione. Si punisce, si sospende, si multa, si traferisce, si licenzia un dipendente non perché il suo comportamento sul lavoro va contro una policy, un regolamento, un codice etico, ma perché – al di fuori del lavoro – ha espresso un pensiero che non integra alcun reato ma dai superiori è ritenuto incompatibile con la sua posizione nell’istituzione.

È ragionevole? Forse sì, forse no, ma penso che non possiamo sottrarci alla domanda.