Manzoni (non viene più insegnato bene e dunque) non insegna più

Un vecchio detto dice che, quasi sempre, chi intende coprire un errore invece di ammetterlo, ne commette uno più grosso. Ebbene, la mia impressione è che questo detto si attagli alla perfezione al modo in cui i nostri Governi stanno gestendo la questione Covid. Il famoso green pass rappresenta l’ultimo anello di una catena di errori, sempre più gravi, commessi da un Esecutivo, che – sul tema della reazione al Covid – si sta avvitando su sé stesso, incapace di trovare la forza di rimediare – ponendosi in netta discontinuità col Conte II – a scelte precedenti che si erano dimostrate non soddisfacenti. Ma vediamo di partire dal principio.

L’Italia, come l’Europa che (purtroppo) dalla famosa riunione dell’aprile 2020 ne ha seguito l’esempio, ha ridotto la propria reazione al covid al binomio “lockdown e vaccini”. O meglio: solo lockdown – senza promuovere autopsie per capire l’eziologia della malattia e senza indicare protocolli di cura precoce per i malati, in modo da evitare i ricoveri – in attesa che arrivassero i messia-vaccini. La scelta politica alla base di questa scelta era forse quella di evitare attività troppo onerose sotto il profilo finanziario e di mantenere in sicurezza il sistema sanitario – reso molto fragile da decenni di tagli e austerità nonché dal mancato ricambio generazionale dei medici – piuttosto che preoccuparsi di curare efficacemente i cittadini. Insomma: spendere il meno possibile (ricordiamo tutti l’ex Ministro Gualtieri che sosteneva nel 2020 che 3,6 miliardi di euro sarebbero stati sufficienti per reagire all’epidemia, quando poi ne son stati spesi quasi duecento) e scaricare il grosso del costo sociale dell’epidemia su alcune categorie (piccole partite iva e giovani), tutelando altre (pensionati, impiego pubblico e – ma solo per un certo tempo – dipendenti privati). Risultato: un tasso di mortalità tra i più alti al mondo, per non parlare delle devastazioni economiche e sociali causate dalle chiusure. Quando poi i vaccini (o, per essere più precisi, le prime terapie a base di mRNA) sono arrivati, il Ministero dalla Salute e, di riflesso, il Governo erano già prigionieri di una trappola normativa dalla quale era ormai impossibile liberarsi se non – appunto – rinnegando su tutta la linea la strategia precedente. Ma vediamo di capire il perché.

Le autorizzazioni all’immissione in commercio dei cosiddetti vaccini per il covid (di tutti i vaccini covid) sono infatti autorizzazioni “condizionate”. La vulgata – quando parla di vaccini “sperimentali” – non va infatti molto lontano dalla verità, considerando che quelli che vengono chiamati vaccini covid, in realtà, sono terapie non ancora sperimentate in misura sufficiente da generare la documentazione clinica necessaria per concedere l’autorizzazione al commercio da parte delle agenzie preposte alla verifica della sicurezza dei farmaci (l’EMA europea e l’AIFA italiana). I test completi per il rilascio di un’autorizzazione ordinaria in relazione a queste terapie saranno infatti disponibili solo entro dicembre del 2023, dunque – in sostanza – i vaccini covid sono stati messi in commercio più e meno tre anni prima di quando lo sarebbero stati in una situazione ordinaria. Si noti peraltro che terapie di questo genere (che si basano tutte sull’uso di RNA messaggero), non solo sono state poco sperimentate per il covid, ma non risultano mai essere state utilizzate in passato in alcun farmaco autorizzato per uso umano. Insomma, questi vaccini – per un verso – rappresentano il primo tentativo di applicare certe tecnologie mediche all’uomo e – per altro verso – non sono stati sperimentati in misura tale da fornire le garanzie di sicurezza normalmente ritenute sufficienti nell’UE per mettere in commercio un farmaco. Tutto questo spiega del resto assai bene perché tutte le case farmaceutiche abbiano preteso che gli stati accettassero di escludere ogni loro responsabilità per eventuali conseguenze dannose dei vaccini in capo chi li avrebbe assunti. Anche lo stato, del resto, si è ben curato di evitare di assumere alcuna responsabilità per i vaccini, di guisa che il malcapitato che, assunto il farmaco, dovesse subire una reazione avversa – in teoria – non ha nessuno cui chiedere i danni. Che dunque si tratti di trattamenti sanitari che implicano un rischio sanitario maggiore di un normale farmaco (e che lo implichino perché non sono stati sottoposti alle sperimentazioni ritenute sufficienti per considerare un farmaco sicuro in misura tale da poter essere assunto su larga scala) mi pare un dato di fatto difficile da negare.

La possibilità di distribuire i vaccini dunque si fonda sul fatto che, anche prima che i test sperimentali normali siano completati, i regolamenti comunitari prevedono che si possa in via eccezionale autorizzare la commercializzazione anticipata di farmaci ad uso umano a patto che vengano rispettate alcune condizioni, tra cui quella dell’urgenza del trattamento sanitario. L’autorizzazione condizionata di un farmaco ancora in fase di sperimentazione ha infatti la funzione di rendere prioritaria la procedura di autorizzazione, in modo da sveltire l’approvazione di trattamenti efficaci per porre rimedio a situazioni di emergenza sanitaria. In particolare il regolamento in questione prevede che un’autorizzazione condizionata possa essere concessa per farmaci che rispondono a quella che viene definita come esigenza medica non soddisfatta. Ed è proprio in relazione alla sussistenza (e, soprattutto, permanenza) di questa condizione che è scattata la trappola normativa di cui si parlava in precedenza.

Il concetto di “esigenza medica non soddisfatta” – in parole povere – significa che, per autorizzare un farmaco provvisoriamente, non deve esistere alcuna terapia “ordinaria” ritenuta efficace per la malattia che quel farmaco vorrebbe curare. Se dunque una cura efficace per i Covid, mediante la somministrazione di farmaci autorizzati, già esistesse – e in particolare se Ministero della salute o AIFA riconoscessero in via ufficiale questo – verrebbero meno i requisiti per le autorizzazioni condizionate all’immissione al commercio dei vaccini. In sintesi: se si trova una cura per il Covid certificata come efficace e che prevede la somministrazione di farmaci già autorizzati in via ordinaria, verrebbe giù tutto il castello costruito attorno alla ricetta “lockdown fino ai vaccini”. Questo spiega perché il Ministro Speranza non vuole modificare il famigerato protocollo della “tachipirina e vigile attesa”, tanto da mantenere un rigoroso silenzio sul punto anche di fronte a una interrogazione parlamentare sul punto – a lui diretta – approvata a larga maggioranza in parlamento. Ed ecco qui manifestarsi il primo caso di errore più grande (insistere solo sui vaccini senza prendere in considerazioni protocolli di cura precoce domiciliare, nonostante ne siano stati proposti diversi) per non voler ammettere un errore precedente (impostare la reazione al covid solo in termini di lockdown con cura ospedaliera dei casi più gravi in attesa dei vaccini). Ma andiamo avanti con la storia.

I vaccini sperimentali (o, se preferite, autorizzati in deroga) – come è noto – alla fine sono arrivati e, col governo Draghi, le fasce più a rischio (ossia dai sessant’anni in su) sono state vaccinate con una copertura piuttosto ampia. Nel frattempo è però arrivata anche la famigerata variante Delta che, per quel che si capisce, “buca” il vaccino quanto a contagio anche se, stando ai primi dati dei paesi in cui si è diffusa, non provoca sintomi gravi in misura comparabile alle varianti precedenti. Dunque questa estate abbiamo un aumento di contagi a fronte di pochi malati gravi e di pochissimi morti.

In realtà il fatto di avere una popolazione già “molto vaccinata” nelle categorie a rischio, crea un problema di verifica dei dati: non si riesce a capire in particolare quanto l’assenza di effetti sintomatici gravi sia dovuta ai vaccini e quanto invece al fatto che questa variante sia meno aggressiva rispetto alle precedenti (o magari al fatto che sia intervenuta in un periodo, quello estivo, in cui anche il clima alle nostre latitudini aiuta a combattere la malattia). Anche su questo versante, peraltro, il Governo – e il teatro mediatico che lo sostiene – è partito in quarta affermando che il merito del minore impatto sanitario della variante Delta sia certamente da collegarsi solo ai vaccini. Ma si tratta di affermazione che appare fondata – più che su una prova empirica – sulla tautologia per cui siccome i vaccini non possono non essere efficaci (altrimenti il Governo perde la faccia) allora il minore impatto della variante Delta non può che derivare dal fatto che i vaccini sono efficaci. Ovviamente anche qui fa capolino la tendenza del potere politico ad evitare di mettere in dubbio la correttezza della propria attività passata: anche qui, per evitare il rischio di dover cambiare strategia (di fatto ammettendo un errore passato), il Governo commette infatti l’errore (gravissimo in questa fase di attacco delle varianti) di non verificare adeguatamente se davvero sono i vaccini ad aver disattivato la variante Delta o se per caso questa variante non rappresenta un primo passo della naturale evoluzione dell’epidemia verso l’endemia. Ottenere e analizzare questi dati è però essenziale per modulare la reazione al Covid in vista dell’autunno. Eppure CTS e Governo paiono avere una certa allergia a condividere i dati su cui fondano i loro vaticini, non consentendo dunque a nessuno di capire davvero su cosa stiano davvero fondando le loro scelte.

Fatto sta che, quanto meno per ora, i dati sui decessi e sulle ospedalizzazioni causati dalla variante Delta non destano troppe preoccupazioni. In una simile situazione, non si comprende allora – quanto meno sotto il profilo del rischio sanitario – l’isteria (davvero al limite della psicosi collettiva) che si è creata intorno al cosiddetto green pass alla francese: se gli anziani italiani infatti sono già stati vaccinati in larga parte e se la variante Delta non morde come le precedenti (come parrebbe dimostrare, specie all’estero, l’aumento dei contagi in assenza di aumenti di sintomatologie gravi), a che serve far pressione sui giovani e sulle fasce di età a rischio meno elevato per indurre anche loro a vaccinarsi? A nulla, verrebbe da rispondere, se non a vendere più dosi vaccino (sarà un caso, ovviamente, la stipula di un contratto da 900 milioni di dosi tra UE e Pfizer fino al 2023, con opzione di altre 900 milioni di dosi). Il punto vero è che obbligare (indirettamente) ai vaccini tutta la popolazione, oltre che inutile, per le fasce di età più giovani potrebbe risultare dannoso.

E qui non stiamo parlando solo dei danni alla salute dei più giovani in ipotesi provocati da possibili reazioni avverse gravi (come trombosi e miocarditi), ma anche di possibili responsabilità giuridiche in capo al Governo e/o al Ministero della Salute per i provvedimenti adottati. Ma vediamo di capire dove sta il problema. Il punto da cui partire è chiedersi perché mai, se fosse vero – come vanno dicendo alcuni costituzionalisti – che gli obblighi vaccinali possono essere imposti per legge, il governo non dispone direttamente un obbligo in tal senso per decreto legge (da convertire poi alle camere) invece che adottare strumenti di coercizione indiretta come il green pass alla francese.

La risposta è duplice: per un verso, in presenza di un obbligo vaccinale imposto dall’autorità, non avrebbero più alcun valore legale le rinunce sottoscritte dai vaccinati che escludono le responsabilità dei vari soggetti coinvolti nella filiera del vaccino. Il consenso alla rinuncia a un diritto da parte di chi fosse obbligato a rinunciare per potere adempiere all’obbligo vaccinale non è infatti valido secondo gli stessi principi generali del diritto civile in tema di vizi del consenso contrattuale. Questo significa che, non solo lo stato, ma anche le case farmaceutiche – in caso di obbligo legale di vaccinazione – sarebbero chiamati ad assumersi la responsabilità per eventuali effetti avversi (il vaccino in fin dei conti è autorizzato in deroga, dunque presenta per definizione un rischio aumentato, dunque tale da classificare la sua somministrazione come attività pericolosa). In una simile situazione il rischio che il Governo intende scongiurare è che le farmaceutiche, le sole ad avere un’idea chiara dei rischi reali che implicano queste terapie, in caso di obbligo (e conseguente eliminazione della manleva a loro favore) decidano di sospendere le forniture, dunque facendo cadere di nuovo tutto il castello di carte costruito intorno alla portata salvifica del vaccino. A quanto risulta dei leaks allo stato disponibili, infatti, i contratti negoziati dall’UE con le farmaceutiche sono tanto sbilanciati a favore di queste ultime da consentire loro di sospendere le forniture in presenza di un mutato quadro di rischio. E anche qui, dunque, ecco che un errore più grande (non imporre un obbligo vaccinale, ricorrendo all’espediente del green pass) viene commesso per evitare di mostrare l’errore commesso in precedenza (reagire al covid con una strategia che, di fatto, rende i governi totalmente dipendenti dalle scelte delle case farmaceutiche).

La seconda ragione per cui il Governo preferisce evitare di imporre obblighi vaccinali diretti va invece ricondotta di nuovo al fatto che si tratta di terapie in fase di sperimentazione, di guisa che non è affatto detto che sia del tutto legittimo una loro imposizione per legge, nonostante l’art. 32 Cost. ammetta espressamente trattamenti sanitari obbligatori e, in passato, siano stati adottati provvedimenti che hanno imposto vaccini a certe categorie di persone. Questo accade perché i vaccini sinora imposti per legge (come ad esempio quelli che condizionano l’accesso alla scuola dei bambini) erano tutti farmaci immessi in commercio dopo il ciclo ordinario di sperimentazione, dunque ampiamente collaudati, mentre quelli anti covid non lo sono ancora. Ed esistono infatti almeno due fonti normative internazionali – un regolamento comunitario sulle attività di sperimentazione medica (accessibile in italiano qui) e il cosiddetto codice di Norimberga (la cui tradizione italiana è accessibile qui) – secondo cui qualunque forma di sperimentazione sull’uomo è possibile solo con il pieno ed informato consenso di chi vi si sottopone. Si può dunque obiettare che assumere farmaci ancora in fase di sperimentazione sia qualcosa di diverso dallo sperimentarli, ma a mio modesto parere la considerazione fondamentale da cui partire per trattare la questione è che assumere un farmaco ancora non autorizzato in via ordinaria espone il cittadino a rischi per la salute del tutto analoghi a quelli che correrebbe se accettasse di partecipare alla sua sperimentazione clinica su quel farmaco, di guisa che le due situazioni ben difficilmente potrebbero essere trattate diversamente sotto il profilo della necessità di garantire la piena libertà di esporsi o non esporsi ad un rischio per la salute.

Va aggiunto che anche il regolamento dell’UE sul green pass (Regolamento 2021/953 che definisce, a livello sovranazionale, un quadro di regole comuni, direttamente applicabile in tutti gli Stati europei, per il rilascio di certificati COVID digitali) che varrà per spostarsi tra Stati dell’UE è piuttosto chiaro (si veda in particolare il considerando 36) nel senso che il green pass europeo deve evitare ogni forma di discriminazione anche nei confronti di chi abbia scelto liberamente di non vaccinarsi. E se è vero che il green pass europeo è cosa diversa da quello nazionale, è però anche vero che gli stessi ambienti e soggetti che si dichiarano ora a favore delle restrizioni ai non vaccinati sono per lo più gli stessi ambienti e soggetti che, su ogni altro tema dello scibile umano, si sgolano per ricordare che i principi di diritto dell’UE devono sempre prevalere sul diritto nazionale. Ma non basta.

Nella recente risoluzione n. 2361, l’assemblea permanente del Consiglio D’Europa ha sancito che – così come gli obblighi vaccinali non sono accettabili alla luce della convenzione europea dei diritti umani (CEDU) – per la stessa ragione gli stati devono comunque garantire la liberta ai cittadini di non vaccinarsi, così come devono evitare discriminazioni – o pressioni indirette – nei confronti di chi sceglie liberamente di non assumere il vaccino. Traducendo liberamente, il punto 7.3.1 della risoluzione (accessibile qui), recita infatti che “ci si deve assicurare che i cittadini siano informati che la vaccinazione non è obbligatoria e che nessuno sia sotto pressione politica, sociale o altro se non desiderano vaccinarsi” mentre il punto 7.3.2 aggiunge “Ci si deve assicurare che nessuno subisca discriminazioni per non essere stato vaccinato a causa di possibili rischi per la propria salute o perché non vuole essere vaccinato”. Più chiaro di così è davvero difficile dirlo. E’ vero che la risoluzione in questione non è un atto vincolante. Ma altrettanto vero è che la risoluzione fornisce una sorta di interpretazione autentica della CEDU e la CEDU è invece una convenzione di diritto internazionale umanitario che ben può esplicare i propri effetti anche nel nostro ordinamento, per il tramite dell’art. 10 (e forse anche 11) della nostra Costituzione.

Tralasciando dunque la questione della prevalenza del diritto UE su quello nazionale (che parrebbe poter valere o non valere a seconda dell’opportunità politica), occorre considerare che sia il codice di Norimberga che, soprattutto, la risoluzione del Consiglio d’Europa che interpreta la CEDU sono fonti di diritto umanitario internazionale. Per questa ragione, gli organi di uno stato che venisse accusato di averli violati rischiano in futuro di andare incontro a problemi seri. La legge che imponesse obblighi (diretti o indiretti che siano) in violazione delle due convenzioni, infatti, avrebbe i crismi per la promulgazione (non ostandovi, come si diceva, il tenore letterale dell’art. 32 Cost.). Ma il punto è che quando le norme internazionali che si assumono violate da una legge nazionale riguardano la tutela dei diritti umani cosiddetti universali (quali quelli sanciti dalla CEDU o dal codice di Norimberga), la reazione dell’ordinamento alla loro violazione potrebbe non consistere solo nell’eventuale abrogazione postuma della legge da parte della Corte costituzionale nazionale (in applicazione dell’art. 10 Cost.) o in un semplice annullamento delle sanzioni da parte dei TAR o dei Giudici di pace (come avvenuto con le misure restrittive disposte coi DPCM). Vi sarebbero infatti rischi penali – per effetto di una disapplicazione da parte dei giudici penali nazionali dell’atto normativo illegittimo in forza appunto delle norme di diritto umanitario – per gli organi politici che hanno deciso di porre certi limiti (o che li hanno avallati), che a quel punto non potrebbero neppure valersi della scudo rappresentato dall’aver agito in esecuzione di un mandato politico o nell’esercizio delle proprie prerogative istituzionali. Quando si tratta di potenziali violazioni di diritti umani, infatti, questa causa di non punibilità non necessariamente viene ritenuta applicabile.

Peraltro – qui – il mandato politico potrebbe anche difettare a monte, considerando che, essendo l’Italia in stato di emergenza, il governo – se non prevede passaggi parlamentari a sostegno dei provvedimenti che adotta – si deve assumere la piena responsabilità di quel che decide. Ed ecco manifestarsi qui un altro “errore storico” nella gestione “all’italiana” dell’emergenza covid, rappresentato dalla scelta di affidare gravissime decisioni sulle libertà individuali a organi non rappresentativi come la cabina di regia o il CTS o lo stesso Presidente del Consiglio (con Conte) e Consigli dei Ministri (con Draghi). Certe responsabilità politiche (implicando una limitazione delle libertà fondamentali dei cittadini) se le dovrebbe infatti assumere l’organo che rappresenta la sovranità popolare, dunque il Parlamento, non certo l’Esecutivo o – peggio ancora – comitati consultivi che non hanno alcun rilievo costituzionale. Ma, si dirà, in fin dei conti i decreti legge vengono poi convertiti dalle camere, dunque ci sarebbe almeno ex post una copertura politica democratica per il loro contenuto. Il che è certamente vero, salvo per il fatto che – di decreto legge in decreto legge – si crea una singolare dinamica normativa per cui il parlamento non viene mai messo in grado di legiferare per il futuro, potendo solo decidere di ratificare quel che si è già deciso per il passato. Il che – quando si vanno a comprimere fortemente e per mesi e mesi dei diritti fondamentali dei cittadini – potrebbe anche destare qualche perplessità in termini di effettività della “copertura parlamentare” di certi provvedimenti.

E tutto questo, si badi, a non voler considerare che, già sotto il profilo del nostro diritto costituzionale nazionale, qualunque obbligo terapeutico imposto per legge – così come qualunque limitazione di diritti fondamentali finalizzata a incentivare l’assunzione di terapie (specie se ancora sperimentali) – deve comunque essere proporzionato al rischio che intende scongiurare. E disporre obblighi e restrizioni di vario genere con gli ospedali vuoti e le terapie intensive semi-deserte e con una copertura vaccinale, nelle fasce di età a maggiore rischio, assai elevata, pone dei seri interrogativi in termini di proporzionalità e ragionevolezza nel contemperamento degli interessi in conflitto.

Al là dei profili formali relativi al tipo di provvedimento normativo utilizzato (il Decreto Legge) e dei dubbi di diritto interno, unionista e internazionale sulla legittimità dei provvedimenti in questione, il Governo – nel merito – ha alla fine scelto di non disporre un obbligo diretto a vaccinarsi, sostituendovi una serie di restrizioni alla vita sociale di chi non si vaccina. Scelta pilatesca, che dunque non risolve il problema della legittimità delle restrizioni, ma semmai lo sposta dal “se” al “quanto” o, meglio, al “cosa” viene condizionato al green pass. E’ infatti piuttosto evidente – senza che occorra spendere toppe parole al riguardo (anche se stranamente insigni costituzionalisti non se ne sono resi conto) – che se il possesso di un lasciapassare condiziona l’accesso ad attività che siano svolte con frequenza e che possano essere ritenute essenziali per una vita normale (considerando che un tampone rapido costa non meno di trenta euro), è infatti chiaro – dicevamo – che in un simile situazione l’obbligo di green pass crea un apartheid sanitario che si risolve in un obbligo vaccinale di fatto, implicando i medesimi effetti in termini di coercizione della volontà individuale che avrebbe – ad esempio – una sanzione amministrativa pecuniaria posta a presidio dell’inottemperanza a un obbligo diretto. Si noti peraltro che questo obbligo indiretto sarebbe in realtà anche gravemente discriminatorio, risultando assai più incisivo nei confronti delle fasce di popolazione con meno disponibilità economiche, che – avendo pochi soldi in tasca (specie in periodo di crisi come quello che stiamo attraversando) – non possono permettersi il lusso di sostituire la vaccinazione con tamponi troppo frequenti.

Pensiamo allora a un lasciapassare che condizioni ad esempio l’accesso a centri commerciali, negozi, banche e supermercati. Ma pensiamo anche all’accesso a mezzi pubblici, treni o aerei o, ancora, alla scuola o alle strutture sanitarie o agli uffici pubblici. Si tratta di altrettante attività essenziali per la vita normale del cittadino e che vengono svolte con frequenza. Se queste attività fossero consentite dietro presentazione del green pass, saremmo certamente  presenza in un obbligo indiretto di vaccinazione, specie appunto per le fasce meno abbienti della popolazione.

Ed ecco materializzarsi il terzo errore (più grave) commesso per coprire gli errori precedenti (meno gravi): pensare – furbescamente – che un obbligo vaccinale indiretto via green pass possa mettere al riparo Governo, Ministro, CTS e cabina di regia dalle conseguenze di eventuali censure di illegittimità costituzionale (o del diritto unionista o di norme di diritto internazionale umanitario) che, invece, colpirebbero quasi certamente un obbligo vaccinale vero e proprio. L’errore, si badi, qui è soprattutto politico: al di là del rischio di subire processi di vario genere in futuro, non fanno infatti certo una bella figura di fronte al paese delle istituzioni che – durante un periodo di crisi sociale ed economica che dura ormai da due anni – si nascondono dietro a trucchi normativi per evitare di assumersi la responsabilità di decisioni che influiranno in modo assai incisivo sulla vita e sui diritti di milioni di cittadini.

Si noti infatti bene che Macron, in Francia, dopo aver tirato per primo il sasso nello stagno ha subito fatto macchina indietro (il primo ministro francese ha infatti dichiarato che il provvedimento sul green pass dovrà passare per una legge ordinaria discussa dall’assemblea nazionale e verrà in ogni caso sottoposto alla corte costituzionale per una verifica di legittimità) e che nel regno unito e in Germania – così come nella grande parte degli altri stati europei – nessuno ha mai seriamente avanzato la proposta di imporre green pass nei termini in cui se ne parla da noi. Del resto, viene da chiedersi perche nessuno – e dico nessuno – dei Signori al Governo, specie di quelli che sostengono che vaccinarsi sarebbe una sorta di dovere civile (categoria che invero appartiene al dominio dell’etica e che dunque non dovrebbe affatto interessare a chi governa uno stato che voglia definirsi laico) – abbia proposto di premiare i vaccinati per il loro supposto “impegno civico” invece che punire i non vaccinati per aver esercitato il loro diritto a non vaccinarsi. Un’impostazione premiale ben congegnata (magari meno goffa dei cento dollari per capita offerti dal Governo USA per vaccinarsi), in luogo di quella punitiva adottata col green pass, avrebbe infatti conseguito l’obiettivo utile, risultando meno divisiva a livello sociale, migliore in termini di immagine per lo stesso Governo nonché – infine – meno problematica in termini di compatibilità con la costituzione e le norme di diritto internazionale umanitario. La cosa è tanto evidente che, davvero, il fatto che nessun esponente politico l’abbia proposta fa sorgere il sospetto che il green pass abbia ragioni del tutto diverse da quelle dichiarate.

In effetti, da quando c’è il Covid, i nostri governi (ma, va detto, anche quelli di quasi tutti gli altri paesi europei) paiono non volersi lasciar scappare alcuna occasione per limitare le libertà dei cittadini, specie quando si può far danno ai piccoli esercenti e imprenditori e al settore del turismo (o, in generale, contribuire ad affossare ancora di più la nostra, già alquanto precaria, situazione economica). Al di là della sempre più manifesta vena repressiva (o deflattiva, se – come me – preferite il complottismo economico) di chi ci governa, viene davvero da chiedersi perché mai – nel giro di un paio di settimane – i nostri governanti abbiano tirato fuori dal cappello un sistema odioso come quello dell’apartheid sanitario, oltretutto a rischio di violazione di norme di diritto internazionale umanitario e che presenta aspetti critici in termini di proporzionalità costituzionale, in assenza di un rischio attuale e concreto (contagi in aumento, ma ospedalizzazioni e morti stabili), quando – come si diceva – sarebbe bastato concedere degli incentivi premiali a vaccinati vecchi e nuovi e si sarebbe risolto il problema.

Secondo alcuni la questione del green pass sarebbe una scusa per far passare l’ennesima proroga dello stato di emergenza anche in assenza di vera emergenza (proroga che servirebbe al governo per proseguire nella sua agenda di “riforme” tagliando fuori il parlamento dalle scelte importanti fino a fine anno). Secondo altri, sarebbe solo un modo per creare uno strumento giuridico con cui – nel prossimo futuro –  introdurre forme di controllo della vita dei cittadini anche per esigenze diverse rispetto a quelle dell’emergenza sanitaria, in sostanza inaugurando un sistema di crediti sociali “alla cinese”. Non manca infatti chi sottolinea come lo strumento di controllo in questione sia stato proposto solo in Italia e in Francia, ossia nei due stati che – una volta che sarà finito il quatitative easing della BCE (che da ottobre, data delle elezioni in Germania, finirà verosimilmente nel mirino del neo insediato Governo tedesco) – potrebbero trovarsi ad affrontare l’alternativa tra un abbandono dell’area Euro (o una sua profonda riforma) e un default alla greca. A volersi esercitare con un po’ di sano complottiamo geopolitico, dunque, si potrebbe anche leggere la mossa di Macron (intervenuta, si badi bene, poco dopo un incontro a Parigi con il Presidente Matterella) poi seguita da Draghi, proprio come il tentativo di introdurre strumenti di controllo sociale per sterilizzare eventuali derive sovraniste (e anti Euro) nei due stati che – per peso economico e per situazione di bilancio pubblico – potrebbero nel futuro mettere in crisi il sistema, ove non si prestassero ad applicare ai relativi popoli l’austerità “alla Greca” che rappresenta lo strumento con cui l’UE regola i conti con gli Stati che non si prestano alle sue ricette rigoriste e deflattive.

Ammetto che la teoria in questione mi affascina non poco, ma personalmente mi sono fatto un’idea diversa delle motivazioni che potrebbero celarsi dietro alle ultime decisioni. Troppo spesso, nella storia umana, decisioni grandi e tragiche sono state in realtà l’esito ultimo della combinazione di tante piccolezze umane.

Non serve infatti certo un genio per capire che tutti quelli che hanno sostenuto sin qui la linea “lockdown e vaccini” (ossia in primis Speranza, ISS e CTS ma prima Conte e, ora, anche Draghi) temono soprattutto che – di fronte ad ennesime varianti del covid, magari in autunno e magari meno “blande” in termini di sintomi rispetto alla Delta – i governi (e i governatori delle regioni) potrebbero disporre nuovi blocchi e restrizioni. Ecco allora che creare una classe di untori da accusare (i non vaccinati, appunto, prontamente ribattezzati no vax) rappresenta la migliore – in quanto storicamente ben sperimentata – delle scuse per non dover ammettere di aver insistito per due anni con una strategia di reazione all’epidemia del tutto inadeguata di fronte ad un virus ad alto tasso di mutazione. La realtà è infatti che – in un anno e mezzo di “emergenza” – il Governo, nonostante i suoi pieni poteri e una serie di scostamenti di bilancio da capogiro autorizzati via via dal parlamento, ha fatto poco o nulla per potenziare il tracciamento o per promuovere terapie precoci domiciliari che evitassero ai pazienti di aggravarsi in misura tale da richiedere ospedalizzazione. Ma si è fatto ben poco – quasi nulla – anche per potenziare i trasporti pubblici e le strutture sanitarie (sia in termini di medicina territoriale che di posti letto che, salvo qualche raro esempio, di reparti intensivi). Di fatto, insomma, il Governo – nonostante i pieni poteri e risorse finanziarie aggiuntive assai ingenti – ha reagito al Covid solo imponendo restrizioni alle libertà dei cittadini e terrorizzandoli con la retorica della peste manzoniana: prima sotto forma di divieti di spostamento e chiusure di attività (a colori) e ora per mezzo di obblighi più e meno diretti di trattamenti sanitari ancora sperimentali (e costosi). Il tutto – si noti bene, perché è significativo – mentre quello stesso Governo ci stava facendo indebitare fino alla gola con l’UE, e parliamo di decine e decine di miliardi di euro, onde promuovere agende certamente non essenziali in periodo pandemico (quali la transizione verde e digitale).

Questa essendo la situazione, è chiaro che se alla fine i vaccini davvero non dovessero scongiurare un’ennesima ondata autunnale provocata da qualche nuova variante del virus, il nostro Governo si troverebbe con ogni probabilità costretto a disporre degli ennesimi lockdown (magari chiamandoli in altro modo). Si noti che questo rischio è tutt’altro che remoto: la variante Delta sta contagiando alla grande anche i vaccinati (e anche i vaccinati contagiano, di guisa che i portatori di green pass, a essere onesti, propagheranno il virus forse pure di più dei perfidi no green pass che se ne staranno più isolati per effetto dei divieti). Ma, si sostiene, è proprio il vaccino impedisce alla variante Delta di far danni gravi. Eppure – come si diceva – manca in realtà allo stato la controprova che sia davvero il vaccino (e non la minore forza del virus variato) a causare questa minore gravità della malattia. Del resto, tutti i vaccini sono stati elaborati per contrastare la variante di Wuhan, dunque non dovrebbe stupire che funzionino meno contro altre varianti. Ecco dunque spiegato perché il Governo teme che l’avvento in autunno di un’eventuale Variante Gamma (magari più aggressiva della Delta i termini di sintomi) potrebbe obbligarlo a chiusure e restrizioni, che smentirebbero mesi di fanfara e grancassa ad ogni ora e a reti unificate sulla portata salvifica dei vaccini. Per non parlare delle dichiarazioni rese dallo stesso Mario Draghi in diretta nazionale, che ormai lo vincolano a garantire la salvezza del popolo dal virus per via vaccinale.

Il rischio per Draghi e Speranza – in caso di recrudescenza dell’epidemia – è dunque quello di aver fatto l’ennesima promessa di Pinocchio, dopo le famigerate chiusure di Conte a ottobre per salvare il Natale e quelle di febbraio per salvare la Pasqua. Ennesimo promessa infranta che – a questo giro – colpirebbe una popolazione prostrata da ben due anni di crisi nera, in un momento in cui non si potranno più garantire ristori economici (il quantitative easing della BCE non può durare in eterno, specie dopo le elezioni tedesche di ottobre), quando ci saranno stati un mare di licenziamenti (già siamo arrivati a 750.000 occupati in meno rispetto al periodo pre-covid e agosto e settembre saranno un bagno di sangue sotto questo profilo) e – soprattutto – quando staranno venendo meno anche gli ultimi divieti di licenziamento.

Ebbene: nei palazzi del potere sanno perfettamente che quando non mantieni troppe volte le promesse (specie di fronte a un popolo incattivito da quasi due anni di sofferenza), o dai al popolo un capro espiatorio con cui prendersela, o il popolo se la prende con te. Del resto, stanno facendo la stesa cosa da più di vent’anni con i piccoli  evasori fiscali, e funziona a meraviglia, perché non dovrebbero farlo anche con i non vaccinati? Ecco dunque a cosa serve soprattutto il Green Pass. Ed ecco spiegato perché non hanno optato per la soluzione “diplomatica” delle misure premiali per chi sceglie di vaccinarsi. Ma ecco spiegato anche lo stormire di fronde mediatico contro i perfidi no vax e  – infine – alcune discutibili dichiarazioni rese in conferenza stampa dallo stesso Draghi (in particolare quelle per cui tra vaccinati non ci si contagerebbe e che se uno si contagia e non è vaccinato alla fine muore). L’apartheid sanitario serve infatti a creare uno stigma sociale intorno ai non vaccinati, trasformandoli nel capro espiatorio da dare in pasto, all’occorrenza, a un popolo di vaccinati incattiviti per l’eventuale nuovo lockdown autunnale, onde distrarlo dal fatto che – se ciò davvero dovesse accadere – saremmo di fronte al totale e clamoroso fallimento della strategia dei lockdown senza cure nella (vigile) attesa dei vaccini.

Nell’attesa dei nuovi farmaci a base di anticorpi monoclonali (le cui autorizzazioni sono attese per fine anno), che dovrebbero – a quando si capisce – consentire cure domiciliari o quanto meno precoci (costose a sufficienza per essere gradite alla farmaceutiche) occorre infatti cautelarsi. Se infatti i nuovi farmaci funzioneranno, a quel punto si potrà cambiare narrazione rispetto a quella della vaccinazione come unica salvezza, ma siccome non v’è certezza che questo accada, occorre prima creare i presupposti per dare la colpa delle eventuali restrizioni autunnali ai perfidi no vax. A tale riguardo occorre peraltro ribadire che – a rigor di logica – saranno con ogni probabilità proprio i vaccinati (che sono la maggioranza della popolazione e non sono immuni a contagio e contagiosità) che quest’autunno, circolando per luoghi affollati grazie al loro green pass, costituiranno il più probabile veicolo di un contagio, di cui – però – verranno accusati solo i non vaccinati, invece costretti ad un maggiore isolamento. Cornuti e mazziati i no vax e solo mazziati i vaccinati, a solo beneficio di un Governo che intende autoassolversi creando colpevoli immaginari.

Se invece in autunno, al di là dei contagi, non ci sarà la temuta impennata di ospedalizzazioni, terapie intensive e decessi, ecco che Speranza, Draghi & Co. potranno sostenere trionfanti – aiutati dalla solita grancassa mediatica – che il merito è stato tutto del pass vaccinale, appuntandosi sul petto con orgoglio la medaglia dei salvatori della patria (e magari – quanto al Ministro – pubblicando finalmente il famoso libro). Con la mossa del green pass, in sostanza, Governo e Ministero rischiano il meno possibile (di certo assai meno che se avessero previsto un obbligo vaccinale) e – soprattutto – hanno trovato il modo di non perdere troppo consenso politico, qualunque cosa accada a ottobre. Dal loro punto di vista è certamente la strategia ideale. Se poi sia anche quella migliore per il paese o per sconfiggere l’epidemia, non saprei dire, ma so che in certi ambienti non dovrebbe essere cosa che interessa più di tanto.

Se però questo è lo scenario – a meno che, come io spero, il covid non si estingua naturalmente al secondo anno come ha fatto a suo tempo la spagnola – sarà chiaro che una vera fine dell’emergenza sanitaria non è possibile senza un rimpasto di governo che tocchi il Ministero della Salute, sia nei suoi vertici che in quel sottobosco di “consiglieri e comitati” che vaticinano ormai da mesi sull’epidemia, presentando invariabilmente dati e scenari apocalittici – quasi sempre smentiti a posteriori dei fatti – solo per giustificare il protrarsi di una strategia (chiusure e vaccini a oltranza) che si sta rivelando sempre più fallimentare. Finché infatti staranno al timone gli stessi uomini che sinora hanno imposto sempre la medesima (errata) strategia, saranno essi stessi a spingere verso errori sempre più grandi (arrivando financo a mentire per sostenere le loro tesi) pur di non dover ammettere che, alla fine, potrebbe essere proprio l’impostazione di fondo ad essere sbagliata. Incolpare una parte del popolo per gli errori che derivano da scelte politiche – mettendo gli italiani gli uni contro gli altri in un momento di grave crisi economica e sociale – è stato probabilmente solo l’ultimo espediente in ordine di tempo escogitato per nascondere ai cittadini le verità scomode. Ovviamente fomentare l’odio sociale a scopo politico in momenti di grave crisi nazionale non è condotta da statisti. Ma i nostri governanti – a questo punto Draghi incluso, spiace dirlo, specie considerando il contenuto di certe affermazioni rese nella conferenza stampa con cui ha annunciato il green pass – come statisti vanno rimandati in blocco a settembre (in tutti i sensi e sperando che ad agosto non riescano a far peggio di quanto hanno già fatto sinora).

Nel frattempo non mi resta che augurare buone vacanze, estesi rigorosamente sia ai vaccinati che ai non vaccinati.




Il Giappone dal successo dei “cluster” al caos olimpico

Il 25 maggio 2020, pochi mesi dopo l’inizio della pandemia, il Giappone aveva annunciato al mondo intero di aver sconfitto il virus. A farlo era stato il primo ministro Shinzō Abe, che durante una conferenza stampa aveva dichiarato finita l’emergenza, decretando la vittoria del modello giapponese sul Coronavirus. Secondo Abe, il paese era riuscito a limitare i contagi senza ricorrere alle pesanti restrizioni attuate da Stati Uniti ed Europa e in effetti a quell’epoca contava appena 4,1 morti per milione di abitanti (mpm), contro i 478 dell’Italia, i 535 della Spagna e i 680 del Belgio (i paesi allora messi peggio di tutti, che continueranno ad esserlo anche in seguito).

Il risultato era in linea con quelli degli altri paesi avanzati del Pacifico (Taiwan, Corea del Sud, Singapore, Australia e Nuova Zelanda), che viaggiavano tutti fra i 3 e i 5 mpm, con Taiwan addirittura a 0,3, mentre in tutti i principali paesi occidentali se ne contavano diverse centinaia. Tuttavia, negli ultimi mesi la situazione del Giappone è notevolmente peggiorata, pur restando nettamente migliore della nostra, al punto che la maggior parte della popolazione si è detta contraria allo svolgimento delle Olimpiadi di Tokyo e alcuni (peraltro senza alcuna prova) hanno addirittura accusato il governo di aver falsato i dati per non dovervi rinunciare, dichiarando un numero di contagi e di decessi più basso di quello reale.

Non c’è dubbio che il Giappone rappresenti oggi un “caso”, per molti versi paradossale e di non facile comprensione, nell’ambito di quella sorta di “isola felice” rappresentata dai paesi del Pacifico, che fin qui se l’erano cavata brillantemente nella gestione del virus. Tuttavia, quello che vi sta accadendo non si può spiegare con teorie complottiste a buon mercato. La realtà, infatti, è molto più complessa.

Prima di tutto è opportuno ricordare che il Giappone presenta alcune peculiarità che in parte hanno favorito e in parte ostacolato la lotta al virus. Per esempio, la Costituzione giapponese proibisce al governo di imporre dei blocchi totali delle attività: quindi, allo scoppio della pandemia il governo non ha potuto obbligare i cittadini a seguire le regole del distanziamento sociale e a ridurre le proprie attività a quelle strettamente necessarie, ma si è dovuto limitare a chiedere loro di rispettarle volontariamente, anche se l’appello è stato generalmente accolto, data che la cultura del paese valorizza molto l’ordine e il rispetto delle autorità.

Anche le condizioni geografiche e sociali hanno favorito il raggiungimento di risultati positivi nella lotta al Coronavirus. Anzitutto, il fatto di essere un arcipelago di isole ha reso più facili i controlli alle frontiere e in parte anche quelli sulla mobilità interna. Inoltre, molti giapponesi hanno da tempo preso l’abitudine di indossare le mascherine di protezione individuale anche in condizioni normali, ogni qual volta hanno un raffreddore o una banale influenza o anche per proteggersi dall’inquinamento, soprattutto nelle grandi città. E non sono certo famosi per la loro espansività: stringere le mani, abbracciarsi e baciarsi non sono comportamenti che rientrano nella tradizione nipponica. Ciò ha reso più facile ai cittadini organizzarsi spontaneamente per rispettare le distanze e limitare gli spostamenti, pur senza fermare le attività economiche.

Tuttavia, il successo giapponese è dovuto soprattutto al particolare metodo usato per il tracciamento dei contagi: quello dei cluster (termine ripreso dalla chimica, dove serve per indicare un ammasso o un raggruppamento).

Questo modello è stato sviluppato sulla base di uno studio epidemiologico condotto sulla nave da crociera Diamond Princess, che era entrata nel porto di Yokoama il 3 febbraio 2020 con diversi passeggeri positivi a bordo. La teoria sulla quale si fonda il metodo è nata per spiegare come gran parte dei passeggeri, nonostante avessero avuto contatti con persone infette, non abbiano contratto il virus. Si ritiene infatti che la trasmissione del virus sia causato quasi completamente da pochi soggetti ad alta contagiosità che vanno a formare grandi cluster di persone contagiate, mentre la maggior parte delle persone infette è responsabile di pochissimi contagi come in effetti è stato poi confermato da studi successivi, anche se non ne è ancora chiaro il motivo. Ciò suggerisce quindi che il metodo di contenimento più efficace sia arrivare alla fonte di ciascun cluster, scoprendo e isolando le poche persone ad elevata trasmissibilità, fermando le quali si arresterà anche la diffusione del contagio.

Questo è anche il motivo per cui in Giappone non sono mai stati effettuati dei test a tappeto su tutta la popolazione (come invece è avvenuto, benché tardivamente, in Europa), ma si è proceduto con tamponi mirati, tanto che il paese si trova attualmente al 143° posto al mondo, con appena il 14,5% della popolazione testata almeno una volta. Si pensi che il paese leader di questa speciale classifica, cioè la Danimarca, ha testato ogni abitante in media 13 volte, eppure ha 438 mpm, che è un discreto risultato per i disastrosi standard europei, ma è pure sempre 3,65 volte peggiore di quello del Giappone. Il successo del modello nipponico si basa infatti sul cosiddetto approccio delle tre T: Test, Trace, Treat, ovvero testa, traccia e tratta. Una volta che una persona positiva è stata identificata, il cluster viene tracciato fino a risalire alla fonte originale e a tutti i suoi membri, che vengono quindi isolati e curati.

Ciononostante, all’inizio di novembre 2020, senza che ne fosse ben chiaro il motivo, i contagi, che avevano già visto una leggera ripresa ad agosto, hanno incominciato improvvisamente a risalire, passando in due settimane da 600 a 2000 casi al giorno. Tokyo si è trovata in grande difficoltà con l’arrivo di una inaspettata terza ondata, molto più alta delle precedenti. Con gli ospedali vicini al collasso, la governatrice Yuriko Koike è stata costretta ad elevare lo stato di allerta. Ciononostante, le cose hanno continuato a peggiorare, finché a fine anno c’è stato un altro balzo che in una sola settimana ha visto praticamente raddoppiare i contagi, passati da 3400 a 5700 al giorno. Anche l’andamento dei decessi è stato molto simile, solo con un ritardo di circa 3 settimane (come è logico che sia, dati i tempi di evoluzione della malattia, e come infatti avviene dovunque).

A dicembre 2020 il nuovo premier Yoshihide Suga, subentrato ad agosto ad Abe, ritiratosi per ragioni di salute, ha dovuto fare i conti con un repentino calo dei consensi. Secondo un sondaggio avviato dalla televisione NHK il malcontento della popolazione era legato soprattutto alla sua gestione della pandemia e alla risalita dei contagi, che da allora non sono più scesi a livelli rassicuranti. In particolare, il governo viene criticato aspramente per non aver cancellato le Olimpiadi e per la tardiva e lentissima campagna vaccinale, fino a poco fa basata tra l’altro su un solo vaccino, Pfizer-Biontech.

L’istituto nazionale per malattie infettive ha rivelato che la variante N501Y del virus che si è originata in Gran Bretagna era ormai responsabile di circa il 90% dei casi, che presentavano in media sintomi più gravi rispetto alle mutazioni precedenti, in particolare nella fascia di età dai 40 ai 64 anni. I dati più recenti hanno anche evidenziato che l’età media degli ultimi contagi si è abbassata notevolmente. Nel distretto di Tokyo la percentuale dei trentenni positivi al Coronavirus tra gennaio e marzo 2021 era meno del 50%, mentre a maggio aveva raggiunto il 60%. Secondo la governatrice di Tokyo, Yuriko Koike, «le infezioni di Covid tra la popolazione più giovane crescono perché quest’ultime sono decisamente più attive nella vita sociale».

A metà maggio 2021 il primo ministro Suga ha dichiarato in una conferenza stampa: «La curva delle infezioni in alcune aree è in calo ma a livello generale la situazione rimane imprevedibile ed è per questo che abbiamo deciso di estendere lo stato di emergenza fino al 20 giugno». Le restrizioni hanno interessato 8 prefetture a partire dall’estremo nord dell’Hokkaido fino all’isola di Okinawa a sud dell’arcipelago, comprendendo molte delle principali città, tra cui Tokyo, Hokkaido, Hiroshima, Osaka e Okayama. Maggior potere decisionale è stato accordato ai vari governatori in base alle diverse esigenze e problematiche sanitarie. Le persone sono state invitate a stare in casa, a non spostarsi in altre prefetture e ad uscire solo per svolgere le commissioni necessarie. I bar, le sale karaoke e gli altri locali sono stati chiusi, mentre ai ristoranti è stato concesso di restare aperti, ma con il divieto di servire alcolici. La zona di Osaka è stata la più colpita dal Covid: gli ospedali erano pieni e molte persone hanno dovuto aspettare a casa o negli hotel con le bombole di ossigeno che si liberasse un posto letto.

Ai primi di giugno, solo un mese e mezzo prima della cerimonia di apertura delle Olimpiadi, fissata per il 23 luglio 2021, le prefetture di Chiba, Kanagawa e Saitama sono state sottoposte ad ulteriori restrizioni, come chiusure di bar e ristoranti anticipate alle 20, oltre alla serrata di centri commerciali e al divieto di organizzare attività ricreative. Inoltre, sei persone dell’organizzazione al seguito della staffetta della torcia olimpica sono risultate positive al tampone nella prefettura di Kagoshima situata a sud ovest dell’arcipelago. Gli organizzatori hanno tenuto a precisare che queste persone si occupavano di controllare il traffico durante l’evento e che indossavano la mascherina, ma ciò non è servito a molto, tanto che il capo del sindacato nazionale dei medici, Naoto Ueyama, è giunto a dichiarare: «È dura per gli atleti, ma qualcuno deve dire che i giochi dovrebbero essere cancellati».

Da allora l’ostilità della popolazione verso le Olimpiadi ha continuato a crescere, fino a raggiungere, secondo alcuni recenti sondaggi, addirittura l’80%. Tuttavia, nonostante le molte voci che si sono accavallate, il governo non ha mai avuto realmente intenzione di abolirle e il 23 luglio i Giochi sono regolarmente cominciati, benché senza pubblico in tutta l’area urbana di Tokyo e con pubblico ridotto nelle gare che si svolgono in zone limitrofe, in cui la situazione è migliore. Del resto, se perfino la disastrata Europa è riuscita a far svolgere regolarmente e senza troppi danni gli Europei di calcio, per giunta itineranti in ben 8 paesi, con regole diverse e con stadi sempre abbastanza pieni (in alcuni casi addirittura completamente), perché mai il Giappone, che è tuttora messo molto meglio di noi, non dovrebbe essere in grado di gestire le Olimpiadi? L’ostilità sembra perciò avere motivazioni più emotive che reali, tant’è vero che non appena le gare sono iniziate tutti i giapponesi si sono incollati al televisore per seguirle e finora tutto sta funzionando perfettamente.

Nonostante questo indubbio successo di immagine, tuttavia, attualmente il paese del Sol Levante si trova nel pieno della quarta ondata, che è iniziata verso metà giugno e per numero di contagi sembra essere la peggiore di tutte, con quasi 10.000 nuovi casi al giorno, dovuti anche qui alla famigerata variante delta, di cui i funzionari sanitari hanno segnalato ben 26 nuove sotto-varianti. Tuttavia, va notato che il numero di morti è invece in drastico calo, essendo passato dagli oltre 110 al giorno di metà maggio (il valore più alto mai raggiunto) ad appena una dozzina.

Ciò si spiega col fatto che finalmente la campagna vaccinale ha iniziato a procedere a ritmo sostenuto: a metà maggio, infatti, meno del 2% della popolazione era stata vaccinata con entrambe le dosi, mentre oggi siamo intorno al 28%, come promesso dal premier Yoshihide Suga, che a inizio giugno aveva assicurato che entro la fine di luglio tutte le persone sopra i 65 anni sarebbero state vaccinate grazie all’inoculazione di un milione di vaccini al giorno. All’inizio, però, la distribuzione è stata molto lenta per problemi logistici e per la mancanza di personale sanitario, ma da metà giugno in poi c’è stata una netta accelerazione, che ha permesso di rimettersi in linea con le previsioni.

È davvero difficile capire le ragioni di questa involuzione di uno dei paesi modello nella lotta al virus, anche se per molti aspetti intorno al Giappone sembra esserci un allarmismo eccessivo, anch’esso, a sua volta, difficile da spiegare. Dopotutto, il suo tasso di mortalità da Covid è attualmente di 120 mpm, che è all’incirca lo stesso dei paesi più virtuosi d’Europa, dove il Giappone si collocherebbe al terzo posto, dopo le Far Oer (20) e l’Islanda (87) e prima della Norvegia (146), mentre è migliore di 17 volte rispetto all’Italia (2121) e addirittura di 26 volte rispetto all’attuale “maglia nera” Ungheria (3117). Anche il numero dei nuovi contagi, pur in forte crescita, è ancora nettamente inferiore a quello dei principali paesi europei.

Ciò che invece è davvero reale è che, se in termini assoluti il Giappone continua ad essere uno dei paesi che se la sta cavando meglio, in termini relativi è invece quello che ha registrato il peggioramento di gran lunga maggiore durante l’ultimo anno (a parte quello di Taiwan, che però è stato causato da un unico focolaio, peraltro eliminato in soli 45 giorni, ed è risultato così elevato – da 0,3 a 33 mpm, ovvero ben 110 volte maggiore rispetto a maggio 2020 – solo perché l’isola partiva da una mortalità pressoché nulla). Si è infatti passati da 4,1 mpm a inizio maggio 2020 fino agli attuali 120 mpm, il che significa che nel paese del Sol Levante la mortalità è aumentata di ben 30 volte in poco più di un anno, facendolo di fatto uscire dal gruppo degli altri paesi del Pacifico, in cui la mortalità è rimasta ovunque molto bassa (anche se pure in Corea del Sud c’è stato un graduale peggioramento, di circa 8 volte rispetto a maggio 2020, mentre in Nuova Zelanda e a Singapore la situazione è rimasta pressoché invariata, così come in Australia dopo lo spegnimento del focolaio di Melbourne a metà ottobre 2020).

Questo probabilmente spiega anche l’esagerato pessimismo di cui sopra, giacché è noto che pessimismo e ottimismo sono influenzati assai più dalla evoluzione di una data situazione che non dalla situazione in sé stessa. Ma da cosa è stata causata l’evoluzione, o meglio, l’involuzione della situazione giapponese?

Sempre secondo il già citato sondaggio della NHK, molti attribuiscono l’improvvisa ascesa dei contagi di fine 2020 all’iniziativa “Go To Travel”, lanciata dal governo per incentivare il turismo interno e far riprendere l’economia giapponese. Il progetto era stato approvato a luglio, quando Abe era ancora il primo ministro e i contagi sembravano sotto controllo. All’inizio in molti vi avevano aderito, grazie ai voucher e agli sconti applicati che permettevano di ottenere rimborsi fino a un massimo di 20 mila yen al giorno (circa 158 euro) e questo ha sicuramente contribuito a una maggiore circolazione del virus, tanto da costringere il governo a sospendere il programma.

A ciò si è poi sommato il fatto che il metodo dei cluster è molto efficace, però funziona solo finché il numero dei contagi è relativamente basso, anche perché la legge giapponese in materia di malattie infettive stabilisce che tutti i soggetti colpiti da una malattia considerata ad alto tasso di contagio devono essere ricoverati in ospedali anche se non ci si trova in presenza di sintomi. Perciò, quando il numero dei contagi è cresciuto, ciò ha finito per minare il sistema sanitario nazionale, che ha visto riempiti in breve tempo interi reparti negli ospedali, tanto che alla fine, a dispetto della legge, i governatori sono stati costretti a prenotare camere d’albergo e altre strutture per isolare i casi positivi meno gravi. Tuttavia, queste spiegazioni, per quanto certamente contengano una parte di verità, non sembrano sufficienti.

Il problema principale sembra infatti essere il grave ritardo con cui il Giappone ha iniziato la campagna vaccinale. Il ministro ad essa preposto, Taro Kono, ha attribuito la lentezza nella somministrazione dei vaccini al sistema molto rigido di approvazione dei farmaci del suo paese. Fino a metà giugno, infatti, l’unico vaccino approvato dalle autorità sanitarie era Pfizer-BioNtech, la cui fornitura dipende totalmente dagli stabilimenti europei. Ora si sta cercando di accelerare: il Giappone ha firmato un contatto con Pfizer per la fornitura di oltre 50 milioni di dosi che dovrebbero arrivare entro settembre 2021, mentre anche Moderna è stato approvato e AstraZeneca dovrebbe esserlo a breve, con l’esecutivo che ha già firmato i contratti per la fornitura, rispettivamente, di 50 e 60 milioni di dosi.

Sembra però verosimile che in ciò abbia influito anche un eccesso di ottimismo circa la tenuta del proprio sistema di contenimento: non a caso, anche gli altri paesi del Pacifico hanno tutti iniziato molto tardi la campagna vaccinale e sono tuttora abbastanza indietro, anche se solo Corea del Sud e Taiwan hanno finora avuto dei problemi (comunque non gravi come il Giappone), mentre Nuova Zelanda, Singapore e Australia, almeno per il momento, persistono nella loro felice eccezionalità.

SITOGRAFIA

https://www.japan.go.jp
https://www.mhlw.go.jp/stf/seisakunitsuite/bunya/0000164708_00079.html
https://www.adnkronos.com/covid-giappone-per-la-prima-volta-oltre-10mila-nuovi-casi-a-tokyo-record-di-contagi_3XWqBLY1gqYITlWu34G4xL
https://www.it.emb-japan.go.jp/itpr_it/covid-19_0707_WSJ.html
https://www.japantimes.co.jp/liveblogs/news/coronavirus-outbreak-updates/
https://statistichecoronavirus.it/coronavirus-giappone/
https://www.lastampa.it/topnews/primo-piano/2021/07/08/news/alta-densita-di-popolazione-solo-il-15-vaccinati-e-tanti-anziani-ora-il-covid-fa-paura-cosi-e-franato-il-modello-giappone-1.40476699
https://www.japan-guide.com/news/0053.html
https://japan.kantei.go.jp/98_abe/statement/202005/_00003.html




Dove va il politicamente corretto? Uno sguardo dagli USA

Intervista di Luca Ricolfi al prof. Marco Del Giudice, docente di psicologia evoluzionistica e metodi quantitativi, che da 8 anni insegna e fa ricerca negli USA”

Sito di Marco Del Giudice: https://marcodg.net

Del Giudice, lei ha lasciato l’Università italiana nel 2013 e sta facendo una brillante carriera negli Stati Uniti. Come sa, il 2013 (secondo alcuni) è anche l’anno del “Great Awokening”, ossia del processo di radicalizzazione del mondo progressista. Lei come ha vissuto quel processo? Quando ha avvertito il cambiamento? Fin dal suo arrivo in America, o solo a un certo punto?
Ho cominciato a vivere per dei periodi negli USA nel 2009, ma il fatidico 2013 l’ho passato in Italia a fare preparativi per il trasferimento. Quando ho preso servizio nel 2014 all’Università del New Mexico insieme a mia moglie Romina (che è stata assunta nello stesso dipartimento), il cambiamento di atmosfera già si sentiva. C’erano stati i primi incidenti tra docenti e studenti legati alla libertà di espressione, e si iniziava a sentire una tensione insolita rispetto a temi come le differenze di genere, che sono uno dei miei argomenti di ricerca come psicologo evoluzionista. Nel giro di un paio d’anni l’atmosfera nelle università si è scaldata con le sempre più frequenti “cancellazioni” degli speaker politicamente controversi, ed è diventata incandescente dopo l’elezione di Trump, che ha letteralmente traumatizzato la sinistra americana. Per dire, subito dopo le elezioni del 2016, molte università e dipartimenti (incluso il nostro) hanno iniziato a mandare mail di conforto a studenti e professori, e tenere gruppi di auto-aiuto per chi era rimasto sconvolto dal risultato elettorale.
La tensione accumulata, amplificata dai lockdown e dalle elezioni imminenti, è esplosa tutta insieme nella primavera del 2020, quando le proteste per l’uccisione di George Floyd hanno innescato una rapidissima auto-radicalizzazione nelle università, nelle scuole, nei media, nelle piattaforme online, e così via. Nel giro di pochi mesi si è arrivati a quello che mi sento di chiamare un clima da rivoluzione culturale, centrato soprattutto sulle questioni etniche e razziali, ma esteso anche a quelle di genere e agli altri temi del movimento che va sotto le etichette di “wokeness”, “social justice”, “intersectionality”, eccetera. Nessuna istituzione o ambito della vita sociale è rimasto fuori da questa ondata di piena, dall’esercito alle congregazioni religiose alle associazioni mediche e scientifiche, dai libri per bambini ai cartoni animati e alle etichette dei prodotti al supermercato. L’elezione di Biden non ha fermato questo processo ma anzi lo ha accelerato, almeno per ora. Mi ha colpito quanto poco di questi avvenimenti sia filtrato nei media italiani… i miei amici in Italia mi ascoltavano raccontare queste cose come se venissi da una specie di realtà parallela. Mi pare che negli ultimi mesi ci sia stato qualche passaggio di informazioni in più, ma soprattutto attraverso canali “non ufficiali” come social e blog.

Parliamo del politicamente corretto negli Stati Uniti oggi. Come definirebbe il politicamente corretto?
Non voglio provare a dare una definizione ma una prospettiva d’insieme. Il politicamente corretto di solito si riferisce al controllo del linguaggio, per esempio tramite la creazione di tabù, la sostituzione di parole e frasi con altre, la ridefinizione di parole comuni all’introduzione di neologismi e nuove forme di etichetta (per esempio indicare i propri pronomi). Se si rimane a questo livello è facile coglierne gli aspetti più assurdi, perfino al limite della comicità. Ma fermarsi qui sarebbe un errore, perché lo scopo del politicamente corretto è modificare la realtà, e il controllo del linguaggio serve solo e unicamente in quanto strumento per incidere sulla realtà. La manifestazione più ingenua di questo atteggiamento è l’idea che si possa modificare la natura delle cose semplicemente cambiando il modo in cui se ne parla; questo può sembrare una specie di pensiero magico, anche se riflette certe idee postmoderne sulla costruzione sociale della realtà. Però ci sono molti altri effetti sul mondo reale, ben più importanti anche se indiretti. Imporre con successo dei cambiamenti linguistici ha l’effetto di legittimare implicitamente le teorie che hanno motivato quei cambiamenti, giuste o sbagliate che siano (per esempio, la teoria che l’uso generico del genere maschile in italiano serva a rinforzare e perpetuare forme di discriminazione femminile). Bollare certe parole e idee come tabù o introdurre significati alternativi di parole comuni restringe lo spazio della discussione, rende impossibile esprimere critiche e dissenso, e in questo modo apre la strada a riforme istituzionali e legislative via via più radicali, in cui ogni passo giustifica quello successivo. Tutto questo viene fatto in nome di ideali nobili come “rispetto”, “dignità” e “uguaglianza”. Il politicamente corretto è difficile da contrastare proprio perché sfrutta l’empatia e l’altruismo delle persone (facendole sentire allo stesso tempo “dalla parte giusta della storia”) e mette i critici nella posizione di sembrare insensibili, irrispettosi e intolleranti.
È anche importante notare che i termini e pensieri “corretti” cambiano velocemente e in modo imprevedibile; quello che oggi è un discorso avanzato e progressista può diventare problematico e bigotto nel giro di pochi anni, o addirittura pochi mesi (come è successo alle femministe radicali, che oggi vengono bollate come reazionarie dagli attivisti transgender perché considerano il sesso come un fatto biologico inalterabile). Questo induce un senso di ansia strisciante e porta le persone ad evitare certi argomenti o autocensurarsi in via preventiva, fa sì che dibattiti cruciali restino impantanati in questioni semantiche senza uscita, e offre pretesti di ogni tipo per “cancellare” retroattivamente gli avversari e distruggerne la reputazione. C’è di più: il politicamente corretto inietta nella cultura l’idea che le parole siano letteralmente forme di violenza e oppressione, e quindi che le idee “pericolose” giustifichino il ricorso alla censura e alla violenza. Le persone spesso intuiscono tutto questo, e reagiscono alle manifestazioni del politicamente corretto in modi che sembrano sproporzionati o allarmisti se ci si ferma al livello della superficie linguistica. Ma la posta in gioco è molto più alta e molto più seria.
La cosa più importante è riuscire a vedere il politicamente corretto non come un fenomeno a sé stante relativo all’uso del linguaggio, ma come la parte più visibile di una “creatura” ideologica molto più complessa e articolata. La chiamo wokeness perché è il termine colloquiale più comune nel mondo anglosassone, ma anche perché coglie bene lo spirito semi-religioso che la anima (essere woke vuol dire letteralmente essersi “svegliati”, aver aperto gli occhi sui sistemi di potere e oppressione che controllano la vita delle persone). L’idea centrale è che la società sia organizzata secondo una matrice più o meno invisibile di pregiudizi e privilegi (lungo molteplici assi di razza, sesso, identità di genere, orientamento sessuale, disabilità…) che si intersecano e rinforzano tra loro: la famosa “intersezionalità”. Questo crea dei sistemi di oppressione che si auto-perpetuano, operando per lo più a livello implicito e inconscio, e producono disparità tra gruppi e categorie sociali. La possibilità che esistano reali differenze culturali o biologiche (per esempio tra maschi e femmine), e che certe disparità non derivino da ingiustizie sociali ma da caratteristiche e scelte delle persone viene esclusa a priori e considerata moralmente inaccettabile, perfino violenta; anche solo suggerirlo come ipotesi è visto come una forma di oppressione e una manifestazione di sessismo, razzismo, ecc.
La wokeness vede la democrazia liberale come un’illusione che perpetua l’oppressione di donne, minoranze etniche e sessuali, e così via dietro una facciata di principi solo apparentemente giusti e imparziali. Qualunque opzione di neutralità politica (per esempio l’idea di tenere il più possibile separata la ricerca scientifica dall’attivismo, o di non usare le scuole per indottrinare politicamente i bambini) viene interpretata come una maniera subdola di perpetuare lo status quo e mantenere i privilegi delle categorie dominanti. Per questo la wokeness è sospettosa (se non ostile) verso principi liberali come la libertà di espressione o l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Abbraccia tutti gli aspetti della società e della cultura con la convinzione di essere dalla parte giusta della storia, e si concentra su come i sistemi di oppressione vengono interiorizzati (spesso in modo inconsapevole) ed espressi nella percezione, nelle emozioni, nel pensiero e nel linguaggio delle persone. In altre parole, ha una visione del mondo profondamente totalitaria, e si esprime in forme totalitarie (censura, processi sommari, delazione, “struggle sessions” e rieducazione, autodenunce e auto da fé…) ogni volta che prende il controllo di un gruppo o di un’istituzione. Il caso sconcertante dell’Evergreen College (documentato in dettaglio da Benjamin Boyce e Mike Nayna) è un esempio emblematico di cosa può succedere quando questi principi vengono messi in pratica a livello istituzionale.
Questa corrente ideologica ha iniziato a prendere forma nella sinistra accademica a partire dagli anni ’70, virando dalle questioni di classe a quelle di identità e incorporando alcuni concetti chiave della filosofia postmoderna. È cresciuta e si è sviluppata nelle università, in particolare nelle discipline umanistiche, in alcune scienze sociali come la sociologia e l’antropologia, e soprattutto nei dipartimenti di educazione (education schools) e nella galassia in continua espansione degli “studies” identitari (tra cui women’s studies, gender studies, queer studies, Black studies, Latino studies e così via). Dalle università ha continuato a diffondersi nelle scuole (ritornando poi alle università via via che i ragazzi crescevano e si iscrivevano al college), ai media, ai dipartimenti di risorse umane delle grandi aziende. Ha iniziato a farsi sentire negli anni ’90, ma non aveva ancora la massa critica per diventare una forza dominante nella sinistra, che pure stava diventando sempre più elitaria e sganciata dagli interessi della working class. Probabilmente anche grazie all’effetto accelerante dei social media, la massa critica è arrivata intorno al 2010, ed eccoci qua. Tra i critici e/o cronisti più interessanti di questo periodo convulso metterei Douglas Murray, Jordan Peterson, James Linsday, Bari Weiss, Wesley Yang, Zachary Goldberg, Richard Hanania, e altri collegati a riviste online come Quillette. Poi ci sono trent’anni di letteratura accademica e non; alla fine dell’intervista posso mettere qualche libro consigliato tra quwlli più recenti. Raccomando anche un’interessante video intervista sul politicamente corretto e identity politics fatta da Dario Maestripieri, mio caro amico e biologo all’università di Chicago.

Può farci qualche esempio concreto, per far capire al lettore italiano come si manifesta il politicamente corretto nella sua università e, se vuole, anche nella vita quotidiana.
Gli Stati Uniti sono un Paese incredibilmente vario dal punto di vista sociale e politico, per cui le esperienze di vita quotidiana dipendono molto dal posto in cui si vive. Più che un aneddoto specifico, mi sento di condividere un’esperienza che sta diventando sempre più comune: se non si è tra persone di fiducia o che si sa per certo essere “dalla stessa parte”, la reazione immediata è smettere di dire quello che si pensa, iniziare a pesare ogni parola, e usare frasi fatte e generiche, evitando accuratamente qualsiasi argomento che possa essere vissuto come problematico o offensivo (la lista si allunga ogni giorno di più). Prevedibilmente, il politicamente corretto ha tolto spontaneità alle relazioni sociali e le ha rese molto più caute, superficiali e legnose. Mi rendo conto che è difficile da spiegare se non si è provato. Quest’anno mia moglie ed io siamo tornati in Italia per qualche mese; la prima sensazione che ci ha sorpreso è stata che le persone si parlassero normalmente, tranquillamente, in un modo a cui non eravamo più abituati; come se all’improvviso si fosse sollevato un velo. Un’altra esperienza rivelatrice è quella di guardare film o serie TV girate negli anni ’90, nei primi anni 2000, o perfino intorno al 2010, e restare sorpresi per come fosse possibile dire o mostrare cose che ora sarebbero verboten. Lo spazio pubblico del discorso e delle rappresentazioni si sta restringendo velocemente, a fronte di una concentrazione sempre più ossessiva su pochi temi (questioni di razza, genere, orientamento sessuale, eccetera); è incredibile quanto in fretta ci si abitua, l’unico modo per rendersene conto è confrontare la produzione di oggi con quella del passato, anche molto recente.
Per quanto riguarda l’accademia USA, si tratta di una specie di Stato a sé, con una cultura molto uniforme e pochissimo radicamento nelle realtà locali (gli accademici americani si spostano molto di più tra università e Stati di quanto non succede in Italia o in Europa). Dentro le università, secondo me siamo già oltre la fase del politicamente corretto: con poche eccezioni, il conformismo ideologico è talmente capillare da essere diventato quasi un fatto naturale, come l’aria che si respira. Gli speech code che regolamentano il linguaggio e puniscono frasi e atteggiamenti “offensivi”; i training obbligatori su cosa si può e non si può dire quando si presentano situazioni problematiche con studenti e colleghi; il fatto che i candidati vengono valutati in modo diverso a seconda della razza, del sesso e dell’orientamento ideologico; i libri di testo depurati per non offendere nessuna categoria sensibile e celebrare “equità, diversità e inclusione”; i messaggi dall’amministrazione universitaria, sempre allineati con i progressisti sui temi politici del momento; potrei andare avanti per un bel po’.
Decenni di compromessi, silenzi e quieto vivere da parte degli accademici non attivisti hanno portato (lentamente, passo dopo passo) ad un sistema paternalistico e soffocante, dove limitazioni alla libertà individuale che hanno dell’incredibile (come i codici che disciplinano lo humor e, in qualche caso, le espressioni facciali) vengono vissute come normali, quasi ovvie. È una vera tragedia, perché le università americane sono piene di qualità e competenze a livelli altissimi; ma schierandosi politicamente, dando la priorità a obiettivi ideologici come “equità” e “giustizia sociale” a scapito del rigore accademico, e definendosi sempre più come fabbriche di attivisti stanno bruciando ad una velocità allarmante il capitale di fiducia che hanno accumulato nel tempo. Alla lunga non saranno in grado di mantenere gli standard su cui si basano il loro successo e il loro prestigio; peggio ancora, visto il loro ruolo di leadership rischiano di trascinare con sé una buona parte del sistema accademico internazionale.
A chi volesse farsi un’idea più precisa della situazione, raccomando il sito della Foundation for Individual Rights in Education (FIRE), un’associazione apolitica che lotta da vent’anni per ripristinare i diritti costituzionali del Primo Emendamento nelle università. La National Association of Scholars (NAS) ha un taglio politico più conservatore, e sta portando avanti battaglie e campagne di informazione importantissime, spesso come unica voce critica nel panorama accademico americano.

Ma secondo lei qui in Italia abbiamo idea di che cosa sta accadendo negli Stati Uniti? O viviamo felicemente all’oscuro perché da noi il great awokening è appena all’inizio, e magari non potrà mai veramente esplodere, perché manca l’ingrediente razziale?
Come accennavo all’inizio, mi pare che la consapevolezza di quello cha sta succedendo negli USA (e in altri Paesi anglosassoni come Canada, UK, Australia) a livello sociale e politico sia piuttosto scarsa, e questo è uno dei motivi che mi hanno spinto a fare questa intervista. Parlo di quello che ho potuto vedere nei principali media italiani e sentire parlando con amici e colleghi; naturalmente, molto dipende da quali canali online si seguono e di quali “bolle” politiche e informative si fa parte.
Per quanto riguarda la wokeness, si tratta di un fenomeno globale e globalizzato, anche se è maturato negli USA e in altri Paesi anglosassoni. Esploderà anche in Italia? Fare previsioni è molto difficile, ma provo a fare una lista di differenze sociali e culturali che potrebbero influenzare il corso degli eventi. Per esempio, l’Italia ha una società che si muove e cambia più lentamente, con più inerzia e stacchi meno netti tra le generazioni. I legami familiari e locali sono più forti e contrastano la tendenza all’atomizzazione e all’isolamento, che rendono le persone più fragili ed esposte alla manipolazione emotiva (penso soprattutto agli studenti universitari). Poi c’è una differenza culturale indefinibile, una specie di disincanto “all’italiana” per cui si tende a non prendere le cose troppo sul serio; manca quel fondo idealistico e puritano che negli Stati Uniti si sente, eccome. Naturalmente tutti questi aspetti della società italiana possono essere sia dei vantaggi che dei limiti. Per esempio l’inerzia generazionale e la dimensione locale possono frenare l’innovazione e sprecare occasioni e potenzialità; però possono anche rallentare i cambiamenti impulsivi e smorzare certi eccessi prima di fare troppi danni. Poi in Italia esiste la memoria del fascismo, che da un lato può essere invocata “a sinistra” per sopprimere il dissenso, ma dall’altro può funzionare da anticorpo e rendere più facile riconoscere i sintomi di una deriva totalitaria. Forse non è un caso che i Paesi dove la wokeness ha attecchito più profondamente siano quelli che non hanno fatto l’esperienza di dittature e regimi totalitari nel passato recente.
Un’altra differenza importante è che gli USA hanno avuto più di 50 anni di legislazione espansiva sui diritti civili che, al di là dei suoi risultati positivi, ha portato alla creazione di un’enorme e potente burocrazia a tutela di “equità, diversità e inclusione” nelle aziende e nelle istituzioni. Questa burocrazia tentacolare è stata terreno fertile per la crescita e diffusione della wokeness, ed è uno dei motivi per cui una manciata di attivisti può condizionare o mettere in ginocchio università, aziende, e così via. Christopher Caldwell ha scritto The age of entitlement, un libro importantissimo dove argomenta che la legislazione sui diritti civili a partire dagli anni ‘60 ha di fatto creato una “costituzione parallela” che si pone in conflitto sempre più aperto con quella formale del 1789. Richard Hanania ha fatto un’analisi molto lucida di questo fenomeno in un articolo intitolato Woke institutions is just civil rights law.
Detto tutto questo, sarebbe un errore illudersi che l’Italia sia al riparo. È vero, la questione razziale è molto meno profonda e centrale che negli USA, ma non bisogna dimenticare che la wokeness è un’ideologia totalizzante basata sul principio dell’intersezionalità. Il punto di partenza preciso importa poco: qualsiasi aspetto della storia o della società che possa essere inquadrato nella dinamica privilegio/oppressione può servire come innesco per iniziare il processo di radicalizzazione. Se non è la razza, può essere benissimo il sesso o l’identità di genere. Per fare un altro esempio, l’Italia non ha conosciuto lo schiavismo e la segregazione razziale come gli Stati Uniti; però ha avuto un periodo coloniale che, in linea di principio, potrebbe svolgere la stessa funzione di “peccato originale” da espiare. Ancora: i social media non conoscono frontiere e tendono a creare una monocultura globale molto permeabile, soprattutto per i più giovani. Per via dei miei interessi di ricerca sulle differenze di genere, seguo abbastanza da vicino le evoluzioni del femminismo e dell’attivismo transgender; è molto facile notare che gli attivisti italiani (e i media che ne amplificano la voce) usano le stesse parole, immagini e strategie retoriche delle loro controparti americane. Sono sistemi di idee adattabili e “contagiosi”, capaci di attraversare facilmente le barriere culturali.

Parliamo ancora dell’Università. Immagino che ci siano anche studenti e colleghi che non amano il politicamente corretto, o addirittura lo contestano apertamente. Che cosa succede a chi non si allinea?
Per cominciare, chi non si allinea paga il prezzo dell’ostracismo di colleghi e studenti, e sa di mettere a rischio la propria reputazione (con ricadute sulle possibilità di ricevere finanziamenti, promozioni, offerte lavorative, riconoscimenti, incarichi prestigiosi…). I professori dissidenti vengono bollati come sessisti, razzisti, transfobici e via dicendo, e rischiano di diventare bersagli di boicottaggi o denunce agli uffici per la diversità. Nel regime degli speech code, può bastare una denuncia anonima da parte di uno studente o un collega per far partire lunghi processi interni, sospensioni dall’insegnamento, e altri tipi di sanzioni amministrative. E chi non ha la tenure (il posto a tempo indeterminato) oppure lavora in un’università privata rischia seriamente di perdere il lavoro e la carriera. Sia NAS che FIRE mantengono dei database di professori “cancellati” o finiti nei guai per aver espresso opinioni scomode (o anche solo per aver infastidito qualche attivista con trasgressioni reali o immaginarie). Naturalmente, questo clima incoraggia l’autocensura, specialmente da parte dei più moderati e di chi ha molto da perdere in termini professionali; il silenzio dei moderati lascia campo libero agli attivisti, e così il circolo vizioso continua.
Nel nostro dipartimento, io e mia moglie siamo stati tra i pochi a schierarci apertamente per la libertà di espressione, per la neutralità politica dell’accademia, e contro la subordinazione dell’insegnamento e della ricerca a obiettivi ideologici di “giustizia sociale” e simili. Ovviamente i rapporti all’interno del dipartimento ne hanno risentito, ci siamo presi insulti da alcuni colleghi, e mi è giunta voce che i dottorandi più politicizzati hanno iniziato a boicottare i miei corsi. Devo dire che siamo stati comunque fortunati, perché lavoriamo in un dipartimento dove altri colleghi hanno espresso il loro dissenso, e sebbene si tratti di un gruppetto molto piccolo non ci sentiamo completamente soli. Siamo riusciti anche a ottenere qualche vittoria, e il nostro dipartimento non ha capitolato immediatamente quando l’estate scorsa gli studenti attivisti hanno scritto una lettera di denuncia con richieste di “decolonizzare il curriculum”, introdurre training sulle “microaggressioni” e sulla giustizia razziale, ridurre l’uso di test standardizzati nella valutazione dei candidati, e così via. Molti amici e colleghi in altri dipartimenti e università si trovano isolati, e spesso troppo spaventati per parlare o protestare. Alcuni hanno perso il lavoro o sono diventati “intoccabili” per aver pubblicato articoli e studi politicamente scorretti. Da studente, mi aveva stupito e turbato il fatto che, in tutta l’accademia italiana, solo dodici professori (più o meno uno su cento) avessero rifiutato di giurare fedeltà al fascismo nel 1931. Adesso mi sembra del tutto ovvio, purtroppo.

Esistono oggi negli Stati Uniti gruppi o forze che si oppongono al politicamente corretto? O la resistenza è puramente individuale, e magari anche un po’ criptica?
Gli USA sono un Paese grande, complesso e pieno di energia. Da qui arrivano le manifestazioni più estreme del politicamente corretto, ma anche le voci più forti e interessanti dell’opposizione. Oltre ad organizzazioni avviate come NAS e FIRE, negli ultimi anni stanno nascendo altre realtà come Counterweight, Academic Freedom Alliance (AFA), e Foundation Against Intolerance and Racism (FAIR). Heterodox Academy è un’altra associazione nata qualche anno fa per contrastare il pensiero unico nelle università, ma secondo me si è rivelata troppo debole e timida quando i nodi sono venuti al pettine. In questo momento, le forze in campo sono estremamente sbilanciate a favore della wokeness, ma è difficile prevedere come la situazione si evolverà nei prossimi cinque-dieci anni.
In modo sempre più esplicito, questa nuovo capitolo delle culture wars sta diventando una questione centrale nella politica dei partiti e degli Stati. Per esempio, in questi mesi si stanno combattendo delle importanti battaglie mediatiche e legislative riguardo all’uso nelle scuole pubbliche della critical race theory, che è una componente fondamentale della wokeness a livello teorico/accademico ed è stata adottata in varie forme da una larga fetta di educatori e amministratori scolastici. In parte, la stessa elezione di Trump è stata una reazione all’awokening delle élite progressiste iniziato qualche anno prima. Mi aspetto che negli anni a venire la wokeness e il politicamente corretto (che ne è una manifestazione) monopolizzeranno sempre di più il dibattito politico, non solo negli USA ma anche in Italia e in Europa.

E in Italia? Secondo lei la resistenza al ddl Zan sull’omotransfobia è anche alimentata dalla diffidenza per il politicamente corretto?
Ovviamente sì. Entrambe le parti (pro e contro) si comportano come se la posta in gioco fosse molto più alta rispetto al contenuto specifico del decreto, e hanno assolutamente ragione! Come dicevo, la questione dell’identità di genere è un possibile punto di innesco della wokeness (come lo è stato per certi versi anche negli USA, soprattutto intorno al 2014), e si presta molto bene ad iniettare i principi del politicamente corretto nelle istituzioni e nella cultura usando la forza della legge.

Per finire, una domanda sulle sue scelte di vita, anche familiare. Come è oggi l’America (o meglio il New Mexico, dove lei vive) per uno studioso che ha dei bambini? Potesse tornare al 2013 sceglierebbe sempre di trasferirsi in America? E, per il futuro, pensa di restarvi o non esclude di tornare in Italia?
Non rimpiango la decisione di essermi trasferito e lo rifarei se tornassi indietro. Ho avuto la possibilità di lavorare con colleghi eccezionali, conoscere persone e realtà di ogni tipo, e godere di un ambiente accademico produttivo e amichevole, soprattutto nei primi tempi. I nostri bambini sono nati in America e qui abbiamo costruito la nostra famiglia. Però ci troviamo in un momento molto strano: la sensazione è che la sinistra woke abbia deciso fermamente di smantellare proprio gli aspetti di questo Paese che più ci hanno attirato qui, come la libertà personale e di ricerca, la varietà dei pensieri e delle opinioni, la meritocrazia e lo spirito competitivo. Non credo sia un caso che molti tra i critici più agguerriti della wokeness siano immigrati come noi o vengano da famiglie di immigrati.
Per quanto riguarda il futuro, abbiamo cominciato a considerare seriamente la possibilità di tornare in Italia, soprattutto per i bambini che tra poco inizieranno ad andare a scuola. Sta diventando sempre più difficile trovare scuole (pubbliche o private) che non siano dedicate anima e corpo all’indottrinamento ideologico degli studenti. E la nostra situazione non è neanche così estrema: il New Mexico è uno stato Democratico ma abbastanza periferico, senza il fervore ideologico del Midwest o degli Stati costieri come la California, Washington o New York. Ci stiamo chiedendo se sia giusto far crescere i nostri figli in un contesto dove l’autocensura, il conformismo e la “cancel culture” stanno diventando la norma, dove sta diventando impossibile parlare apertamente della realtà (anche di cose banali come il fatto che esistono due sessi biologici), dove bambini e ragazzi vengono educati a vivere la società come un gigantesco teatro di oppressione e guardare il mondo solo attraverso le lenti deformanti dell’identità razziale e di genere. Non siamo gli unici: attraverso il passaparola, negli ultimi tempi sono stato contattato da altri accademici italiani che lavorano negli USA e stanno facendo le nostre stesse riflessioni. Nel mio piccolo, sto cercando di prendermi le mie responsabilità, facendo quello che posso nell’ambiente accademico qui negli Stati Uniti e cercando di avvertire i miei colleghi italiani di quello che sta succedendo e che potrebbe succedere in futuro. Quando ho letto il Manifesto della libera parola sul sito della Fondazione Hume, l’ho subito voluto sottoscrivere come spero faranno molti altri. Grazie di cuore per avermi dato la possibilità di fare questa intervista e lanciare il mio sasso nello stagno!


 

Letture consigliate:

Bawer, B. (2012). The victims’ revolution: The rise of identity studies and the closing of the liberal mind. Broadside.

Caldwell, C. (2020). The age of entitlement: America since the Sixties. Simon & Schuster.

Campbell, B. (2018). The rise of victimhood culture: Microaggressions, safe spaces, and the new culture wars. Palgrave.

Flynn, J. R. (2019). A book too risky to publish: Free speech and universities. Academica Press.

Lukianoff, G., & Haidt, J. (2019). The coddling of the American mind: How good intentions and bad ideas are setting up a generation for failure. Penguin.

Mac Donald, H. (2018). The diversity delusion: How race and gender pandering corrupt the university and undermine our culture. St. Martin’s Press.

Pluckrose, H., & Lindsay, J. (2020). Cynical theories: How activist scholarship made everything about race, gender, and identity―and why this harms everybody. Pitchstone.

Rauch, J. (1995). Kindly inquisitors: The new attacks on free thought. University of Chicago Press.




Dal Green-pass alla “normazione di emergenza”: vera libertà o “sgambetto” alla Costituzione?

Passaporto vaccinale, green-pass, stato di emergenza, tre cose all’apparenza ben distinte fra loro ma che, in realtà, sono legate da un sottile filo rosso, come risulterà chiaro al lettore dalla lettura del presente articolo. Purtroppo, invece, in Italia il dibattito pubblico – sia in televisione sia sulla carta stampata – si è soffermato principalmente su un singolo “albero”, il green-pass, perdendo del tutto di vista la “foresta”, ovvero la visione d’insieme ed il contesto. Eppure, per capire se nella gestione italiana della pandemia stiamo andando verso la vera libertà, come ci viene fatto credere dal Governo o, al contrario, ce ne stiamo sempre più allontanando è necessario allargare la prospettiva, non zoomare sui singoli dettagli. E il quadro che ne emerge (anche grazie all’aiuto dei vari esperti via via citati) non può che sollevare pesanti e motivati interrogativi che non riguardano questa volta la ‘mala gestio’ della pandemia – di cui questo sito ha ampiamente trattato nell’ultimo anno e mezzo – ma la democrazia e la libertà degli individui, l’uguaglianza sociale, l’impatto sull’economia, etc., tutti aspetti di cui da noi poco o nulla si parla.

Il passaporto vaccinale e l'”aparthaid dei vaccini”

I recenti dibattiti sui “passaporti vaccinali” e sul Green-pass – o certificazione formale/obbligatoria della vaccinazione – indicano un potenziale divario sociale sempre più ampio tra coloro che sono vaccinati e coloro che non lo sono. Quelli con la certificazione dell’immunizzazione Covid-19 potrebbero essere autorizzati a viaggiare, lavorare, andare in palestra, praticare sport, partecipare a eventi di intrattenimento, cenare nei ristoranti e, infine, tornare alla vita “normale”. Secondo Clare Wenham, della London School of Economics, una tale distinzione contribuirebbe alla creazione di un “sistema a due livelli” e, dato che “la Storia mostra che quando si creano divisioni all’interno della società ciò porta a disordini civili”, ritiene che ciò possa sfocia in una sorta di “apartheid del vaccino” [1]. Personalmente, sono più pessimista anche a causa dell’impatto economico del pass, e temo che si possa in futuro arrivare a proteste violente.

Si noti che l’idea dell'”aparthaid dei vaccini” non è certo un’invenzione dei media. Infatti, funzionari kenioti hanno accusato il Regno Unito di “apartheid vaccinale” a luglio, dopo che Londra ha aggiunto il paese dell’Africa orientale alla sua “lista rossa” – i 39 paesi in cui il Regno Unito vieta l’ingresso a chiunque sia stato all’interno dei loro confini nei 10 giorni precedenti [5]. La stragrande maggioranza si trova in America Latina e Africa, compresi paesi come il Ruanda, che hanno fatto molto meglio nel controllare la diffusione della pandemia rispetto al Regno Unito. Funzionari britannici affermano che il divieto è necessario per prevenire l’introduzione di varianti di Covid-19. I funzionari kenioti lo hanno visto invece come un esempio di un paese ad alto reddito che usa la pandemia per discriminare e hanno imposto una quarantena di due settimane a tutti i passeggeri provenienti o in transito attraverso il Regno Unito.

Gli esperti affermano che questo scontro sulla capacità di movimento delle persone potrebbe impallidire in confronto alle interruzioni che saranno causate dalla potenziale introduzione su larga scala di “passaporti vaccinali”. E gli sforzi emergenti per limitare i movimenti delle persone in base al fatto che abbiano ricevuto un vaccino contro il Covid-19 stanno aumentando le preoccupazioni per le disuguaglianze a livello mondiale che sono già state rivelate o esacerbate dalla pandemia. In effetti, alla maggior parte delle persone nel sud del mondo non è stato nemmeno offerto un vaccino. Dei circa 850 milioni di dosi di vaccino anti-Covid che sono state somministrate in un qualsiasi giorno di luglio, solo lo 0,1% è andato a persone nei paesi a basso reddito. “Non dovrebbe esserci nessun passaporto vaccinale fino a quando non saremo in grado di garantire un accesso equo per il vaccino”, ha affermato pertanto Joia Mukherjee, chief medical officer di Partners in Health, un’associazione globale senza scopo di lucro per la giustizia sociale [5].

Ma questo obiettivo sembra essere oggi ancora lontano. La pandemia di Covid-19 ha innescato una corsa mondiale ai vaccini. I governi ricchi che hanno investito in vaccini candidati hanno stipulato accordi bilaterali con gli sviluppatori che di fatto comportano la prenotazione di dosi di vaccino per i paesi a più alto reddito – un fenomeno noto come “nazionalismo dei vaccini” – lasciando potenzialmente le persone nei paesi poveri vulnerabili al Covid-19. Una risposta al nazionalismo dei vaccini è stata la creazione della “COVAX Facility”, una partnership internazionale che mira a sostenere finanziariamente i principali candidati al vaccino ed a garantire l’accesso ai vaccini per i paesi a basso reddito [6]. Settantanove paesi ad alto reddito sono membri COVAX. I loro governi aiuteranno a sostenere 92 paesi a basso reddito che altrimenti non potrebbero permettersi i vaccini contro il Covid-19. Molto bello, ma ciò non basta.

Di fatto, stiamo creando un’altra sovrastruttura o gerarchia coloniale di persone provenienti da paesi più ricchi che hanno accesso e paesi più poveri che non hanno accesso. Se ai cittadini dei paesi a basso reddito viene negato l’accesso – avvertono i critici del passaporto vaccinale – si acuirà il divario globale creato da alcuni paesi ad alto reddito che accumulano l’offerta mondiale di vaccini e, così facendo, si impedirà alle persone non vaccinate di avere accesso a beni e conoscenze, anche se le loro controparti provenienti da paesi a reddito più elevato ottengono un balzo in avanti nella ripresa. Inoltre, se i paesi o le agenzie internazionali stabiliscono un passaporto digitale, ad esempio le persone che non hanno accesso agli smartphone potrebbero soffrirne. Si potrebbe anche alimentare un aumento degli sforzi per falsificare i passaporti, come avviene già con il mercato sotterraneo dei certificati contraffatti per la febbre gialla che esiste nell’aeroporto nigeriano di Lagos, dove le card false costano solo 8,50 dollari [5].

Non solo più dell’80% delle dosi di vaccini anti-Covid sono andate a persone che vivono in paesi ad alto reddito, mentre solo l’1% delle persone che vivono in paesi poveri hanno ricevuto almeno una dose di vaccino. Ma i lavoratori asiatici che vivevano muovendosi da un continente all’altro sono stati fra i primi a perdere il lavoro a causa delle restrizioni negli spostamenti, mentre milioni di essi sono rimasti a casa senza la possibilità di guadagnarsi da vivere. Molti ignorano il fatto che i lavoratori migranti rappresentano una componente chiave della moderna economia. Ad esempio, negli Emirati Arabi Uniti ci sono 2,7 milioni di lavoratori indiani, 740.000 del Bangladesh e 560.000 delle Filippine [12]. Sebbene si stia cercando di tornare alla normalità, per questa classe di lavoratori l’incubo è ben lontano dal finire, anche perché il mondo occidentale non riconosce i vaccini cinesi e russi, nonostante l’autorizzazione dell’OMS.

Perché perfino l’OMS è contraria ai passaporti vaccinali

Come osserva l’esperta di diritti umani Kalla Tasneem, “il passaporto vaccinale proposto si concentra sullo stato di vaccinazione in cui vaccinato equivale a ‘sicuro’ e non vaccinato equivale a ‘pericoloso’. Questo indicatore binario fornisce le basi per dividere le popolazioni e controllare ciò che possono e non possono fare, fornendo essenzialmente una nuova base per la discriminazione e la disuguaglianza. Dividere le persone e i paesi in cose da fare e da non fare presenta un rischio nel suo potenziale di stabilire una polarizzazione ancora maggiore e divisioni sociali più profonde. [.. ] Le persone stanno spingendo per tornare a una vita di normalità nell’esistenza quotidiana. Ma dobbiamo chiederci che cos’è questa parvenza di normalità ed a chi è destinata. La distinzione tra persone vaccinate e non vaccinate potrebbe fornire un’altra base che perpetua l’ingiustizia, giustifica la discriminazione e controlla la libertà degli individui?”.

Inoltre, la Tasneem osserva: “L’OMS ha messo in guardia contro il rilascio di passaporti di immunità perché la loro accuratezza non può essere garantita, affermando che ‘attualmente non ci sono prove che le persone che si sono riprese dal Covid-19 e hanno anticorpi siano protette da una seconda infezione’. I vaccini sono temporanei, spiega Sarah Chan, bioeticista dell’Università di Edimburgo; la vaccinazione può fornire una certa protezione dal contrarre il Covid-19, ma non è efficace al 100% nel 100% degli individui. Inoltre, i vaccini approvati non impediscono la trasmissione, e si sa ancora poco della durata dell’immunità o della resistenza alle nuove varianti. La promessa delle vaccinazioni come mezzo efficace per gestire la pandemia e prevenire la trasmissione è discutibile, il che porta alla seguente domanda: vale la pena usare mezzi divisivi e potenzialmente discriminatori per verificare una vaccinazione?”.

L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha preso una posizione distinta in merito ai passaporti vaccinali basata su questioni etiche, tecnologiche, legali e scientifiche e sollecita misure che ostacolino meno la libertà di movimento. Le considerazioni etiche riguardano la carenza globale di vaccini e l’ulteriore peggioramento delle disuguaglianze esistenti (sia in termini di accessibilità che di disponibilità di vaccini e test Covid-19). L’OMS attualmente scoraggia le autorità nazionali dall’imporre passaporti per le vaccinazioni Covid-19 [1]. Dicono che “ci sono ancora incognite critiche sull’efficacia della vaccinazione nel ridurre la trasmissione”. Inoltre, per implementare tali passaporti, i vaccini devono essere prima approvati dall’OMS garantendone la qualità e la disponibilità globale. Ciò è della massima importanza se si considera la moltitudine di attuali vaccini Covid-19 e candidati e le differenze nazionali nei vaccini adottati.

I Centri africani per il controllo e la prevenzione delle malattie e l’Organizzazione mondiale della sanità si sono uniti nello sforzo di respingere un passaporto vaccinale, con la portavoce dell’OMS Margaret Harris che cita già da molti mesi incertezze sul fatto che il vaccino prevenga la trasmissione, nonché preoccupazioni sull’equità di tale misura. Non a caso, la stessa OMS si è dichiarata contraria sia alla vaccinazione obbligatoria, se non in circostanze professionali specifiche (ma passaporti vaccinali e Green-pass non sono altro, di fatto, che una sorta di obbligo mascherato),  sia all’uso dei soli vaccini come arma per combattere la pandemia. John Nkengasong, direttore di Africa CDC, è stato ancora più diretto in una recente conferenza stampa: “La nostra posizione è molto semplice. Qualsiasi imposizione di un passaporto per le vaccinazioni creerà enormi disuguaglianze e le aggraverà ulteriormente” [5].

La pandemia ha evidenziato che, sebbene il virus non discrimini, lo stesso non si può dire per la prevenzione e la cura e per tutto ciò che a valle ne consegue, a cominciare dal passaporto vaccinale. Ciò può avere conseguenze catastrofiche. Sempre più scuole e luoghi di lavoro chiedono prove di determinate vaccinazioni o di vaccini antinfluenzali. Tuttavia, ci sono alcune cose che rendono l’introduzione della prova della vaccinazione contro il Covid-19 molto diversa dall’avere un libretto giallo che mostra che hai avuto un vaccino contro la febbre gialla. La prova di essere vaccinati è essenzialmente classificare le persone in base al loro stato rispetto al Covid-19 e creare una nuova misura per dividere gli abbienti ed i non abbienti, o gli “immunoprivilegiati” e gli “immunodeprivati” [8]. Si tratta di un unicum senza precedenti, eppure nessuno ne ha analizzato a fondo le possibili conseguenze per capire se la “toppa” sia peggiore del “buco”.

La restrizione più ampia su chi è autorizzato a viaggiare a livello regionale e internazionale, in particolare, alla fine potrebbe aggravare il danno economico della pandemia di Covid-19 nei paesi a basso e medio reddito e impedire a studenti, scienziati e molti altri di partecipare al mondo globalizzato, potenzialmente per gli anni a venire. Ma le cose sono, se possibile, ancora peggiori a livello nazionale, poiché esattamente come il divario economico si va allargando sia tra Paesi sia all’interno delle singole nazioni, anche il divario prodotto dalla campagna vaccinale – o vaccine divide, per dirla alla anglosassone – non è meno rilevante. Alcuni paesi, come Israele e l’Italia, stanno introducendo “di getto” normative nazionali che consentono alle persone vaccinate di accedere a spazi, come palestre e ristoranti, vietati alle persone che non sono state vaccinate. Ciò ha conseguenze potenzialmente devastanti e del tutto inesplorate.

Il Green-pass fra (poche) luci e (tante) ombre

Israele ha emesso un Green-pass che consente alle persone di frequentare corsi di ginnastica, teatri, concerti e hotel; l’uso di tali certificati è esteso a coloro che desiderano sedersi all’interno di ristoranti e bar. Tuttavia, mentre questo approccio ha già consentito a circa 5 milioni di cittadini di tornare a una certa “normalità”, il processo di attuazione e applicazione dell’uso di questi passaporti rimane problematico, principalmente per gli aspetti logistici, legali ed etici. Il passaporto verde può essere integrato con test rapidi. Il governo polacco ha emesso un codice QR che consente una versione scaricabile di un documento di conferma del vaccino, che garantisce “i diritti a cui hanno diritto le persone vaccinate”. Oltre alle misure nazionali, grandi attori privati ​​(ad esempio il tour operator britannico Sage e British Airways) stanno valutando l’introduzione di Green-pass o passaporti vaccinali. Gli assicuratori di viaggio possono operare un sistema a due livelli che addebita tariffe più elevate per gli individui non vaccinati.

Ma l’idea sta sollevando serie domande legali ed etiche [10]: le aziende possono richiedere a dipendenti o clienti di fornire prove, digitali o di altro tipo, di essere stati vaccinati quando il vaccino contro il coronavirus è apparentemente volontario? Le scuole possono richiedere che gli studenti dimostrino di essere stati iniettati con quella che è ancora ufficialmente una profilassi sperimentale allo stesso modo in cui richiedono vaccini approvati da tempo per il morbillo e la poliomielite? E infine, i governi possono imporre le vaccinazioni o ostacolare le imprese o le istituzioni educative che richiedono prove di vaccinazione? Gli esperti legali dicono che la risposta a tutte queste domande è generalmente sì, anche se in una società così divisa, i politici sono già pronti a combattere. E gli stati potrebbero emanare una legge che vieta la discriminazione basata sullo stato di vaccinazione (mentre l’Italia fa proprio l’opposto).

In mancanza di tale legge, le aziende possono fare quel che vogliono ed i cittadini che non sono vaccinati ne pagano le conseguenze. Per questo, giocando d’anticipo, negli Stati Uniti il governatore della Florida Ron DeSantis ha preventivamente vietato alle aziende di richiedere l’esibizione di Green-pass o certificati vaccinali. “È completamente inaccettabile che il governo o il settore privato ti impongano l’obbligo di mostrare la prova del vaccino per essere semplicemente in grado di partecipare alla società normale”, ha affermato DeSantis [11]. “Proprio come è una tua scelta possedere o meno un’auto, dovremmo avere la possibilità di scegliere cosa vogliamo fare della nostra vita”, osserva un semplice cittadino, “i Green-pass ci fanno sentire come in una società discriminante. È come indossare la lettera scarlatta. È pazzesco”. E la politica non fa che polarizzare i cittadini su posizioni estreme, invece di smorzare i toni.

Non mancano, inoltre, critiche di tipo legale per il Green-pass, che comunque – a differenza di quanto pensano alcune persone – non è affatto anticostituzionale. Infatti, l’articolo 16 della Costituzione stabilisce che “ogni cittadino può circolare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità”. I dubbi a riguardo sono stati spazzati via da due dei massimi costituzionalisti italiani, Giovanni Maria Flick e Sabino Cassese, entrambi  docenti universitari ed a lungo giudici costituzionali. Come spiega infatti l’avv. Angelo Greco, che ha studiato le loro tesi, “esiste un interesse complessivo alla salute che giustifica la compressione delle scelte dei singoli, sia che si tratti di vietare l’ingresso nei pub a chi non è vaccinato sia che si voglia imporre per legge la profilassi vaccinale a intere categorie di lavoratori, come per esempio gli insegnanti oppure i sanitari” [15].

Infine, come osservavano Sesa et al. sul prestigioso British Medical Journal già nel mese di marzo, anche “il ruolo dei Green-pass  per contrastare l’esitazione vaccinale rimane problematico. Coloro che resistono ai programmi di vaccinazione (perché no-vax o perché non convinti dalla “narrazione ufficiale” a senso unico che esalta i vantaggi dei vaccini sperimentali nascondendone quasi tutti gli svantaggi, ndr) possono finire per considerare i Green-pass come misure coercitive del piano di vaccinazione globale, usate per controllare la popolazione e violare la privacy. E la mancanza di prove coerenti di efficacia dei vaccini nel contrastare la trasmissione dell’infezione evidenziata dall’OMS compromette il messaggio del vaccinarsi” [1]. In effetti, ormai sappiamo che i vaccini anti-Covid attuali sono “leaky” [3], cioè permettono l’infezione di terzi (infezioni secondarie)  da parte dei vaccinati (infettatisi) in circa un terzo dei casi, se non più [4].

Per non parlare dell’impatto economico del Green-pass, da tutti trascurato. Non è infatti prevista nessuna analisi preventiva dell’impatto economico delle misure legislative sui generis, cioè non strettamente economiche, adottate. Ma ciò non significa che il loro impatto non possa essere grande, potenzialmente enorme. Infatti, limitare l’ingresso a locali, ristoranti, stadi e trasporti in pratica ai soli vaccinati (quale famiglia spenderà 100 euro di tamponi antigenici solo per sedersi a tavola?) impatta eccome sulle attività e, di conseguenza, sull’economia del Paese, che già esce dalla pandemia fragilissima e con il rischio di superare pericolose soglie critiche, come discusso in un mio precedente articolo [17]. Il solo annuncio del Green-pass da parte del Governo ha fatto cancellare in poche ore circa il 40% delle prenotazioni alberghiere! E questo sorvolando sul fatto che, ancora oggi, gran parte della popolazione italiana – quand’anche si vaccinasse come da auspici del Governo – non è materialmente attrezzata per entrare in possesso del Green-pass [13], con tutte le conseguenze (e possibili discriminazioni) del caso.

Le prove di vaccinazione: verso un remake della “lettera scarlatta”?

Alcuni giorni fa è stato chiesto ai cittadini statunitensi, in un sondaggio [2], cosa ne pensassero del loro equivalente del nostro Green-pass, da usare in ristoranti, matrimoni ed eventi sportivi. Il 53% ha risposto che esso è benvenuto per la tranquillità nel viaggiare e nel partecipare ad eventi, mentre il 44% del campione ha risposto di essere contro il passaporto vaccinale perché esso infrange i propri diritti; il restante 3% si è dichiarato più incerto, avendo risposto “dipende”. Ma, come scrive Palma Kristi su Boston.com, “è incredibile come le persone non si rendano conto che si sta creando un pericoloso precedente. Una volta che abbiamo iniziato a mostrare il nostro passaporto vaccinale, quando avrà fine la cosa? Sarà necessario esibirlo anche per altre situazioni, ad esempio per i malati di mente o per chi è stato arrestato o condannato? Dopotutto, anche loro sono persone ‘pericolose’ per la società” [2].

Immagina un futuro distopico in cui la prova che sei stato vaccinato contro il Covid-19 potrebbe dettare la tua libertà, l’accesso agli spazi pubblici, il lavoro e altre attività che comportano il contatto con altre persone. Come osserva Kalla Tasneem, “questa distopia potrebbe non essere così inverosimile e potrebbe diventare una realtà mentre il mondo cerca di riconquistare un senso di normalità. Non sarebbe la prima volta che la libertà per alcuni gruppi di persone è determinata da stratificazioni sociali e disuguaglianze strutturali profondamente radicate. La disuguaglianza e la stratificazione sociale hanno svolto un ruolo enorme nel modo in cui i paesi sono stati colpiti e hanno affrontato la pandemia. Il 2021 ha inaugurato la fase di vaccinazione con una serie di nuove preoccupazioni per quanto riguarda la gestione della pandemia globale, una delle quali è la disuguaglianza nell’accesso alle vaccinazioni”.

Questa nuova realtà propone un sistema in cui coloro che scelgono di non essere vaccinati – o non hanno accesso ai vaccini – avranno la loro libertà ridotta in nome della salute pubblica. Anche se l’introduzione della verifica della vaccinazione è stata discussa fin dal 2020, il 2021 sembra essere l’anno che renderà il Green-pass (o la prova della vaccinazione) una realtà. Ma in che modo i paesi intendono affrontare il rischio di dividere le persone in vaccinate e non vaccinate e garantire che ciò non contribuisca ai modelli esistenti di privilegio, svantaggio e discriminazione? Come può la società garantire che un’altra divisione binaria non perpetui la disuguaglianza già esistente rafforzando la discriminazione basata sullo stato di salute di una persona? Gli impatti dei Green-pass e dei passaporti vaccinali sono di vasta portata e potrebbero aggravare le divisioni sociali. Problemi di razza, occupazione, precedenti penali, status di immigrato e altre divisioni nella società potrebbero essere esacerbati dalla necessità di dimostrare la tua vaccinazione.

L’Italia sta spingendo molto per vaccinare i cittadini sperando che il Green-pass sia la soluzione sicura per riaprire tutto, sbloccare l’economia e ripristinare una parvenza di normalità. Peccato, però, che nonostante le promesse più o meno implicite nell’adozione del Green-pass, nel nostro paese si stia andando nella direzione opposta, un po’ come se la mano sinistra non sapesse quel che fa la mano destra. Un gran numero di persone, guarite dal Covid o vaccinate, hanno segnalato falle burocratiche e difficoltà a ottenere il Green-pass al quale avrebbero diritto; oppure l’hanno ricevuto ma è sbagliato. Alcune storie sono fra l’assurdo e l’inverosimile, e ricevere un aiuto via telefono è quasi impossibile [6]. Inoltre, per la serie A di basket – solo per fare un esempio – la percentuale di occupazione dei palazzetti per la prossima stagione è simile a quella, bassissima, di quando non vi erano vaccini e Green-pass; mentre in Sardegna e Puglia molte discoteche sono di fatto operative, ma per i Dpcm non potrebbero. Forse qualcosa non torna…

Insomma, Green-pass e passaporti vaccinali sembrano porre più problemi di quanti non ne risolvano. Non stupisce, quindi, che negli Stati Uniti molti stati li abbiano messo al bando, citando preoccupazioni per la privacy (da noi si è invece giunti al paradosso di bocciare a priori, con la scusa della privacy, un’app come ad es. quella di tracciamento inglese, assai efficace nel contenere i contagi come dimostrano i dati di questi ultime settimane, e non invece il Green-pass, che al contrario la viola palesemente) e per l’intrusione nella decisione delle persone di vaccinarsi o mano. Se si considera che su una tematica così importante si dovrebbe cercare l’unità e non la divisione, si può almeno intuire il danno prodotto dal Green-pass, che è una soluzione “facile” per i Governi deboli e incapaci di offrire reali soluzioni alternative – o almeno complementari – ai vaccini, che però oggi esistono eccome (ma ne parlerò in un futuro articolo).

Vorrei, infine, sottolineare ancora una volta come tutto il presente dibattito riguardi non dei vaccini normali, bensì dei vaccini “sperimentali”, dei quali non si conoscono gli effetti a medio e soprattutto a lungo termine (ciò è vero sia in generale, poiché non è passato abbastanza tempo per poterli osservare, sia in particolare per quanto riguarda i vaccini a mRNA, mai usati in precedenza per vaccinazioni sull’uomo) e i danni che si stanno scoprendo grazie all’esame dei vaccinati da parte di ricercatori indipendenti (ne parlerò in un futuro articolo) sono piuttosto inquietanti. Si noti, inoltre, che i dati tratti dal database VAERS degli effetti avversi mostrano che ai vaccini “normali” tutti insieme sono associate negli USA 4.182 segnalazioni di morti per “presunti effetti collaterali” in 20 anni, mentre ai vaccini sperimentali anti-Covid che oggi si vogliono obbligare indirettamente con l’escamotage del Green-pass è associato lo stesso numero di morti (4.178) per “presunti effetti collaterali” nel giro di pochi mesi di vaccinazioni [18]. Ciò fa riflettere.

La Costituzione non prevede la sua auto-sospensione per motivi sanitari

Se i Green-pass ed i passaporti vaccinali possono avervi fornito l’idea che il Governo possieda la vostra vita, il vostro corpo e la vostra libertà, allora ancor più male vi farà venire a conoscenza dell’argomento che tratterò ora, che è stato molto trascurato dai media nonostante la sua enorme importanza. Il perdurare a oltranza, in Italia, dello “stato di emergenza” deliberato dal Governo pone sempre più sul tavolo il tema – del tutto ignorato dai talk-show televisivi, più interessati dalla questione del green pass – sul punto di equilibrio fra il diritto alla salute e gli altri diritti della persona garantiti dalla Costituzione.

In Italia, con la “scusa” della pandemia, la situazione sta diventando così restrittiva delle libertà da ricordare per certi versi lo status della popolazione in regimi autoritari che noi abitualmente biasimiamo, tanto che perfino una mia carissima amica cinese che vive da oltre vent’anni nel nostro Paese mi ha confidato: “Ora in Italia ti assicuro che è peggio che in Cina!”. In effetti, non posso darle torto. Ma la questione è, in realtà, assai più generale che non il cercare di stabilire la mera costituzionalità o meno del singolo strumento (ad es. il Green-pass) e dei singoli decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri (i famosi Dpcm). È solo allargando la prospettiva che si coglie l’assoluta anomalia della situazione attuale, dato che la nostra Costituzione non prevede lo “stato di emergenza”. Ho per questo deciso di farci illuminare, a riguardo, da un esperto come Angelo Di Lorenzo, avvocato penalista del Foro di Roma. Ciò, beninteso, non implica che io condivida posizioni negazioniste che potrebbero avere eventualmente animato alcuni suoi colleghi.

Come spiega Di Lorenzo in una sua relazione orale disponibile su YouTube [16], “la cosiddetta ‘normazione di emergenza’ non ha solo la finalità di regolare le questioni di vita sociale, politica ed economica in un Paese in un momento di crisi, ma ha la pretesa di entrare – come poi in effetti è entrata – all’interno delle nostre coscienze, all’interno delle nostre inclinazioni e pretende di esercitare per nostro conto diritti personalissimi e attività che poi alla fine ci qualificano come persone e ci consentono di realizzarci come singoli sia nelle formazioni sociali cui apparteniamo o sentiamo la necessità di appartenere, sia anche come individui. Ed allora, fino al 31 gennaio del 2020, la Costituzione era la pietra in cui trovare scolpite quelle che sono le regole fondamentali del nostro convivere civile e che caratterizzano, in qualche modo, la Repubblica Italiana e i diritti che ciascuno di noi gode nell’abbraccio ordinamentale”.

Ma poi le cose sono – lo sappiamo tutti – all’improvviso cambiate, come chiarisce però molto bene l’avvocato: “Dal 31 gennaio del 2020 si è introdotto, con un’azione d’impeto mossa da una sorta di ‘impreparazione e ignoranza congenita’, questo nuovo modello sociale che avrebbe dovuto in qualche maniera farci tornare Covid free – o potenzialmente tali – nel giro di brevissimo tempo: se pensate che il primo provvedimento a carattere nazionale era del 4 di marzo del 2020 e le prime misure previste in quel provvedimento dovevano cessare il 3 aprile del 2020, siamo nel giro di più o meno 30 giorni. E questo nuovo modello era basato sulla logica del lockdown e sulla possibilità di derogare alle regole, ai valori ed ai principi che hanno regolato il nostro convivere civile fino a quel momento”.

Come ci illustra ancora Di Lorenzo con una chiara immagine, in Italia con la pandemia di Covid-19 “la normazione di emergenza ha scalzato con uno ‘sgambetto a tradimento’ la Costituzione dall’apice della cosiddetta ‘gerarchia delle fonti’. Immaginate la gerarchia delle fonti, le quali altro non sono che la sorgente da cui vengono prodotte le norme, come un sistema gerarchico piramidale: all’apice di questa struttura piramidale – quasi militare – ci sono la Costituzione e le leggi costituzionali. Dalla Costituzione, poi, promanano – e vengono rilasciati a cascata – i semi dei princìpi, dei valori e dei diritti che vanno a costituire le regole. E questi semi vanno a informare le fonti sotto ordinate nella suddetta piramide: quindi, sotto la Costituzione troviamo le leggi generali di ambito europeo internazionalmente riconosciute e poi le leggi ordinarie, poi le leggi regionali e così, via via, a scendere fino alla base di questa struttura, che sono gli usi e le consuetudini. Ma tutte queste fonti sono generate dallo stesso seme, e rispettose dello stesso metaprincipio, di modo che l’ordinamento si presenti come un sistema organico e coerente”.

In sostanza, il Governo ha fatto una vera e propria “deroga” alla Costituzione e alle leggi ordinarie. Infatti, come chiarisce Di Lorenzo nel suo intervento, “la Costituzione non lo prevede! Quindi, è necessariamente al di fuori o al di sotto della Costituzione. E che non lo preveda non è certo una lacuna, un caso, se pensate che la Costituzione in generale è il collettore di quanto c’è di buono in tutti gli approcci ideologici e che i nostri ‘padri fondatori’ l’hanno voluta, pensata e scritta in un’assemblea costituente che ci ha regalato questo documento destinato ad essere perpetuo proprio perché fluido ed omogeneo, e quindi idoneo ad essere applicato in tutti i contesti storici, così da garantirne, appunto, la perpetuità e la contemporaneità. Siamo alla fine della Seconda guerra mondiale, nel 1948, ed i padri fondatori vengono da una esperienza bellica, ma soprattutto alcuni di loro hanno vissuto anche la pandemia di ‘Spagnola’ che aveva colpito l’intero mondo – non solo l’Europa – alla fine della Prima guerra mondiale, dal 1918 al 1920, mietendo dai 50 ai 100 milioni di morti con un tasso di letalità stimato dal 3 al 4 percento”.

E continua l’avvocato: “nonostante tutto ciò, non si è voluto inserire nella Costituzione un meccanismo di auto-sospensione del proprio ordine costituzionale in presenza di un evento pandemico di natura sanitaria. Avrebbero potuto farlo e non l’hanno fatto, come invece però hanno fatto con l’unica eccezione che prevede la Costituzione: la dichiarazione dello stato di guerra. [..] Se la Costituzione non prevede questo meccanismo di auto-sospensione, è ovvio e naturale che nessuna legge ad essa subordinata possa disporre l’elusione o l’esclusione della sua immanenza, e infatti nessuna legge lo prevede: nemmeno la legge che è attualmente in vigore in materia sanitaria, che è il Testo Unico Sanitario, ovvero 394 articoli ricompresi in un Regio decreto del 1934. Questo è stato certamente aggiornato con la normativa contemporanea, ma in tale normativa di carattere generale – che ha il compito di indicare le linee guida e l’attività l’azione dello Stato in materia sanitaria – non si prevede un meccanismo di questo tipo”.

L’anomalia italiana dello “stato di emergenza” di fatto illimitato

In effetti, come vi sarà a questo punto chiaro, quando nel nostro Paese è scoppiata la pandemia, si è effettuata una forzatura ricorrendo alla normazione di emergenza per “mettere una toppa” all’impreparazione, all’ignoranza (nel senso di “non sapere”) e alla mancanza di competenze specifiche di alcune strutture preposte tradizionalmente alla gestione delle emergenze. In pratica, si è cercato in tutta fretta – creando però un precedente pericolosissimo – uno strumento che permettesse di operare al di fuori del controllo e dei limiti costituzionali. Il problema è che, senza che la gente neppure se ne renda conto – trattandosi di un argomento evidentemente tecnico-legale – nel suo utilizzo si sta andando ben al di là dei limiti temporali e dell’ambito previsto dalla legge per lo “stato di emergenza”.

Come spiega molto bene Di Lorenzo nel suo intervento, “la dichiarazione dello stato di emergenza nazionale è prevista dal codice della Protezione Civile: è il Decreto legislativo n.1 del 2 gennaio del 2018. E quello che effettivamente è stato fatto con questa dichiarazione dello stato di emergenza è costituire una sorta di fonte del diritto subdola, perché la si è utilizzata in una maniera impropria. L’unica vera attribuzione che la legge dà alla dichiarazione dello stato di emergenza è una competenza funzionale: quella di attivare una mobilitazione straordinaria del Servizio nazionale di Protezione Civile in presenza di una delle condizioni calamitose indicate dalla legge, in particolare dall’articolo 7 del Codice della Protezione Civile, il quale prevede tre tipi di calamità: le prime due riguardano le regioni; la terza – quella che a noi interessa – ovvero la lettera c, riguarda invece gli eventi calamitosi naturali o derivanti dall’attività dell’uomo che hanno una rilevanza nazionale in questo  momento”.

Di Lorenzo è chiaro: “le particolari attività di protezione civile sono indicate dalla stessa norma.’Protezione Civile’ significa previsione, prevenzione e gestione dell’emergenza, oltre alla soluzione dell’emergenza. Ma stendiamo un velo pietoso sulla soluzione dell’emergenza. Per gestione dell’emergenza si intende qualsiasi tipo di attività coordinata, integrata di soccorso e assistenza alla popolazione. Le attività di previsione riguardano, invece, l’identificazione degli scenari di rischio possibile, mentre le attività di prevenzione sono deputate al contenimento e ad evitare i danni conseguenti all’emergenza. Tutto ciò è alla base dell’attività conseguente la dichiarazione dello stato di emergenza, ma in tutti e quattro i decreti che hanno disposto o prorogato lo stato di emergenza non vi è stato alcun riferimento alla Costituzione, a una norma costituzionale, sebbene in tutti e quattro venga indicata la necessità di attribuzione – quasi un’auto attribuzione – di poteri e mezzi straordinari per far fronte all’emergenza sanitaria”.

Come osserva Di Lorenzo, “ciò costituisce quel vulnus di tutta la normazione emergenziale, perché in questa attribuzione di mezzi e poteri straordinari si dimentica di inserire un suffisso decisivo: ‘di protezione civile’. Ciò apre scenari vastissimi di incompatibilità costituzionale, proprio perché la dichiarazione dello stato di emergenza è stata utilizzata in questo modo impropriamente, oltre i propri limiti, oltre i propri fini e oltre le attribuzioni che la legge dà ad essa, di modo che la dichiarazione dello stato di emergenza è stata considerata come quella fonte del diritto che potesse in qualche modo generare le norme per derogare a quelle provenienti dalla fonti sovraordinate, quindi Costituzione e leggi europee. [..] Sebbene sia consentito attraverso le ordinanze speciali di Protezione Civile una deroga alle leggi in vigore – e stiamo parlando di leggi, non di fonti sovraordinate alle leggi – è necessario che questa eventuale deroga con le ordinanze speciali di protezione civile comunque rispetti i principi generali dell’ordinamento italiano”.

Insomma, lo stato di emergenza nazionale ha l’unica funzione di innescare l’azione di protezione civile, ma poi ci si è allargati parecchio, per usare un gentile eufemismo. E, come sottolinea Di Lorenzo, “se pensiamo che tutto ciò è davanti ai nostri occhi e si traduce nella nostra vita reale, basta aprire la Costituzione, chiudere gli occhi e far cadere il dito in un punto a caso dall’articolo 2 all’articolo 42. Vedrete che questo cadrà certamente su un diritto che viene affievolito dalla normativa emergenziale, compreso anche quello del diritto alla salute, perché se è vero che la lotta alla pandemia in qualche modo rientra nella tutela del diritto alla salute, non è vero il contrario: ovvero, la tutela del diritto alla salute non si esaurisce nella lotta alla pandemia, e questo è un aspetto di compatibilità costituzionale dell’intera normazione emergenziale che va ad abbracciare tutti gli altri aspetti coinvolti, anche e soprattutto quelli sanitari”.

Di Lorenzo spiega poi come l’anomalia italiana riguardi anche la durata dello stato di emergenza: “Il decreto legislativo n.1 del 2018 ci dice che, quando il Consiglio dei ministri delibera lo ‘stato di emergenza nazionale’, ne fissa la relativa estensione temporale l’articolo 24 comma 3, il quale prosegue dicendo che la durata dello stato di emergenza non può essere superiore a 12 mesi e può essere prorogabile per non più di ulteriori 12 mesi. Dalla lettura della norma, quindi, si evince una struttura ‘bifasica’ del termine della durata dello stato di emergenza: una prima fase –  diciamo così – ‘costitutiva e genetica’ che non può durare più di 12 mesi, ed una seconda fase eventuale e di proroga che non può durare per ulteriori massimo 12 mesi”. Nella sua relazione, Di Lorenzo mostra che la prima di queste due fasi è stata, di fatto, fissata dal Governo in 6 mesi (dal 29 di gennaio al 31 di luglio 2020), per cui lo stato di emergenza, con le proroghe, avrebbe dovuto terminare dopo altri 12 mesi, il 31 luglio 2021. Invece, esso è stato di recente ri-prorogato fino al 31/12/21. Il lettore può, a questo punto, facilmente trarre le proprie conclusioni.

Riferimenti bibliografici

[1] Sesa G. et al., “Covid-19 Vaccine passports and vaccine hesitancy: freedom or control?”, The British Medical Journal, 30 marzo 2021.

[2]  Kristi P., “Be ready to pay the consequences: Vaccine passports leave Boston.com readers divided”, Boston.com, 4 maggio 2021.

[3]  Menichella M., “I vaccini anti-COVID: perché ci attende un futuro pieno di incognite”, Fondazione David Hume, 10 marzo 2021.

[4]  Menichella M., “Quale potrebbe essere l’impatto del COVID-19 in Italia nel prossimo autunno-inverno?”, Fondazione David Hume, 28 giugno 2021.

[5] Green A., “How ‘vaccine passports’ could exacerbate global inequities”, Devex, 15 luglio 2021.

[6]  Fiori D., “Tutte le falle del Green pass: da chi non riceve il codice ai guariti con il certificato sbagliato. La corsa a risolvere le criticità prima del decreto”, Il Fatto Quotidiano, 21 luglio 2021.

[7]  Menichella M., ” ‘Pillole’ anti-COVID: quelle che non vi hanno mai dato”, Fondazione David Hume, 25 marzo 2021.

[8]  Kalla T., “Passport or Affidavit: How Vaccine Passports Could Further Divide Populations and Perpetuate Cycles of Inequalities”, Human Rights Pulse, 21 maggio 2021.

[9]  Aratani L., “US split on vaccine passports as country aims for return to normalcy”, The Guardian, 29 aprile 2021.

[10]  Stolberg S.G., “Vaccine passports are the next coronavirus divide?”, Financial Review, 7 aprile 2021.

[11]  Smith T., “Vaccine Passports: ‘Scarlet Letter’ Or Just The Ticket?”, NPR,  9 aprile 2021.

[12]  Dagia N., “Vaccine Passports: Ticket to Freedom or Path to a Divided World?”, The Diplomat, 12 luglio 2021.

[13]  Redazione cronaca di Viareggio, “L’odissea per arrivare al Green pass”, La Nazione, 24 luglio 2021.

[14]  Borga L., “Green pass, 20 milioni ancora esclusi: si teme impatto sull’economia”, SkyTG24, 20 luglio 2021.

[15]  Greco A., “Il Green pass e il vaccino obbligatorio sono costituzionali?”, YouTube, 24 luglio 2021. https://www.youtube.com/watch?v=kbNRdYq0XBo

[16]  Di Lorenzo A., Relazione fatta al Congresso di “Mille Avvocati e Mille medici per la Costituzione” – Verona, 17-18 aprile 2021, e pubblicata su YouTube. https://www.youtube.com/watch?v=f9c04QF3c_E&t=227s

[17]  Menichella M., “Il ‘boom’ dei prezzi e l’impatto del lockdown: l’Italia rischia ora la ‘tempesta perfetta’ “, Fondazione David Hume, 21 aprile 2021.

[18]  AFP USA, “US Government data does not show Covid-19 vaccine death tall”, AFP Fact Check, 19 maggio 2021.




Covid, perché questa Babele informativa?

Che ci sia un conflitto fra favorevoli e ostili alla vaccinazione sta nell’ordine delle cose. Nessuno, infatti, può prevedere completamente le conseguenze delle varie linee di condotta possibili. Inoltre, anche ammesso che tutte le conseguenze siano accuratamente prevedibili, non esiste alcun punto di equilibrio ovvio fra i “beni” che si vogliono tutelare: salute, diritto al lavoro, socialità, libertà di movimento, democrazia, eccetera. E infatti siamo divisi fra quanti ritengono che stiamo dando troppa importanza alla salute, e quanti ritengono che ne stiamo dando troppo poca. Può succedere così che, su certi punti (green pass), Giorgia Meloni sembri pensarla come il filosofo Cacciari, e su altri (obbligo di vaccinazione per i lavoratori) Salvini sembri pensarla come il capo della Cgil Landini.

Questo stato di anarchia del pensiero non deve sorprenderci troppo. Le società democratiche sono per loro natura iper-pluraliste e, quanto alla comprensione del virus e dell’epidemia, le scienze medico-sociali operano con margini di incertezza fortissimi.

E tuttavia c’è, nel modo confuso e cacofonico in cui parliamo di pandemia, vaccinazione, libertà, economia, qualcosa di non ovvio e non giustificato: la proliferazione di credenze false e di tesi tendenziose. Perché è vero che sono tantissime le cose che non sappiamo, ma sono anche parecchie – e importanti – le cose che sappiamo, o di cui siamo ragionevolmente sicuri. Quello cui assistiamo, invece, è la diffusione, anche da parte delle autorità politiche e dei mass media, di informazioni poco chiare, ambigue, fuorvianti, talora semplicemente false. Sicché oggi non esiste un minimo comune denominatore di informazioni condivise da tutti o, perlomeno, dalla stragrande maggioranza della popolazione.

Vorrei fare tre esempi.

Primo: i completamente vaccinati possono infettarsi?

Molti credono di no. E c’è persino chi dice che, poiché sono protetti dalla vaccinazione, i vaccinati non possono imporre alcuna restrizione nei confronti dei non vaccinati (se sono vaccinato, non posso temere il contatto con un non vaccinato). Non solo: se sono immune in quanto completamente vaccinato, non ho alcun bisogno – per proteggermi – di usare la mascherina, né all’aperto né al chiuso.

Bene, questa è una credenza falsa, e lo sappiamo non da ieri, ma fin dall’inizio della campagna vaccinale. Perché è così diffusa? Perché così raramente viene detta la verità, e cioè che il vaccino protegge dall’infezione molto meno di quanto protegga dalla morte o dall’ospedalizzazione?

Fondamentalmente perché pensare di essere invulnerabili è rassicurante (per i vaccinati). E forse anche perché le autorità politico-sanitarie hanno ritenuto che esaltare le virtù del vaccino avrebbe favorito la campagna vaccinale e la ripresa dell’economia, e poco hanno badato alla ovvia obiezione: se non dici tutta la verità sui limiti dei vaccini, i vaccinati prenderanno la palla al balzo per abbassare la guardia.

Secondo: anche i completamente vaccinati, se positivi, possono contagiare gli altri?

Gli scienziati, in modo sostanzialmente unanime, rispondono di sì, aggiungendo che – fortunatamente – il contagio dovrebbe verificarsi con minore probabilità. Il premier Draghi, invece, dice di no, pensando di rassicurare tutti, vaccinati e no. Forse il retropensiero è che se si dicesse verità (anche i vaccinati possono contagiare) la distinzione fra i buoni (vaccinati) e i cattivi (non vaccinati) sarebbe meno netta, e la campagna vaccinale rischierebbe di perdere appeal.

Terzo: siamo a un passo dall’immunità di gregge?

Molti politici (ultimo in ordine di tempo: l’assessore alla sanità del Lazio) credono o fingono di credere di sì. Anche alcuni giornalisti, particolarmente solerti nel promuovere la campagna vaccinale, ne sembrano convinti.

Invece no. Per qualsiasi epidemiologo dotato di una calcolatrice da tavolo è evidente che, con la variante delta e i vaccini attuali (che non sono sterilizzanti) è praticamente impossibile. Se R0 è vicino a 7, si dovrebbe vaccinare con vaccini sterilizzanti (che non abbiamo) almeno l’85% della popolazione, obiettivo chiaramente irraggiungibile senza un vaccino per i bambini e senza obbligo vaccinale.

Che cosa hanno in comune queste tre false e assai diffuse credenze?

Essenzialmente una cosa: ci rassicurano, perché nascondono i lati più inquietanti dell’epidemia. Ma perché nasconderli?

Non lo so. Forse per non rattristare le nostre vacanze. Forse per prolungare il più a lungo possibile il periodo di apertura delle attività. Forse per darci una speranza nel futuro.

Io però vedo anche un’altra spiegazione, meno tranquillizzante. Forse il governo, sulla gestione dell’epidemia, si è già rassegnato a ripetere il film dell’anno scorso, quando il governo Conte scelse di non intervenire durante l’estate e di non preparare in alcun modo il rientro dalle vacanze. Il mix era ed è chiarissimo, ieri come oggi: tamponi insufficienti, nessuna messa in sicurezza delle scuole, nessun rafforzamento del trasporto locale, nessuna riorganizzazione dell’assistenza domiciliare, nessuna app (funzionante) per il tracciamento elettronico dei contatti. Tutte cose che richiedono molti mesi, e non possono certo essere realizzate all’ultimo momento, per di più in agosto.

Con un’importante differenza, fra oggi e ieri. Oggi la politica può brandire l’arma del vaccino, e ha assoluto bisogno di farci credere che basterà a fermare l’epidemia (o a trasformarla in un incomodo con cui potremo convivere), e che se le cose andranno male sarà essenzialmente colpa nostra, che non ci saremo vaccinati in numero sufficiente.

Purtroppo, però, la differenza fra il rientro di quest’anno e quello dell’anno scorso non è solo il vaccino ma è la variante delta, molto più trasmissibile di quelle prevalenti un anno fa (R0 vicino a 7, anziché vicino a 3). E non è tutto: se compariamo il luglio di quest’anno con il luglio dell’anno scorso dobbiamo registrare che il numero di soggetti contagiati è circa 5 volte quello di un anno fa, e il valore di Rt è drammaticamente più alto (prossimo a 1.5, un valore catastrofico, mentre un anno fa fluttuava nei pressi di 1).

Insomma, tutti gli indicatori segnalano che la quarta ondata è in corso dai primi di luglio. La campagna vaccinale è, colpevolmente, l’unica vera arma messa in campo. Usiamola, ma per favore smettiamola di demonizzare i dubbiosi e diffondere incertezza con informazioni false, incomplete, distorte, ambigue. Potrebbe essere proprio una migliore informazione, che non nasconde le ombre e le incertezze della scienza, l’arma vincente per convincere non tanto i pochi Novax (che non sentono ragioni), ma il popolo degli indecisi, che vogliono capire e decidere per il meglio.

Pubblicato su Il Messaggero del 31 luglio 2021