Dove va il politicamente corretto? Uno sguardo dagli USA

Intervista di Luca Ricolfi al prof. Marco Del Giudice, docente di psicologia evoluzionistica e metodi quantitativi, che da 8 anni insegna e fa ricerca negli USA”

Sito di Marco Del Giudice: https://marcodg.net

Del Giudice, lei ha lasciato l’Università italiana nel 2013 e sta facendo una brillante carriera negli Stati Uniti. Come sa, il 2013 (secondo alcuni) è anche l’anno del “Great Awokening”, ossia del processo di radicalizzazione del mondo progressista. Lei come ha vissuto quel processo? Quando ha avvertito il cambiamento? Fin dal suo arrivo in America, o solo a un certo punto?
Ho cominciato a vivere per dei periodi negli USA nel 2009, ma il fatidico 2013 l’ho passato in Italia a fare preparativi per il trasferimento. Quando ho preso servizio nel 2014 all’Università del New Mexico insieme a mia moglie Romina (che è stata assunta nello stesso dipartimento), il cambiamento di atmosfera già si sentiva. C’erano stati i primi incidenti tra docenti e studenti legati alla libertà di espressione, e si iniziava a sentire una tensione insolita rispetto a temi come le differenze di genere, che sono uno dei miei argomenti di ricerca come psicologo evoluzionista. Nel giro di un paio d’anni l’atmosfera nelle università si è scaldata con le sempre più frequenti “cancellazioni” degli speaker politicamente controversi, ed è diventata incandescente dopo l’elezione di Trump, che ha letteralmente traumatizzato la sinistra americana. Per dire, subito dopo le elezioni del 2016, molte università e dipartimenti (incluso il nostro) hanno iniziato a mandare mail di conforto a studenti e professori, e tenere gruppi di auto-aiuto per chi era rimasto sconvolto dal risultato elettorale.
La tensione accumulata, amplificata dai lockdown e dalle elezioni imminenti, è esplosa tutta insieme nella primavera del 2020, quando le proteste per l’uccisione di George Floyd hanno innescato una rapidissima auto-radicalizzazione nelle università, nelle scuole, nei media, nelle piattaforme online, e così via. Nel giro di pochi mesi si è arrivati a quello che mi sento di chiamare un clima da rivoluzione culturale, centrato soprattutto sulle questioni etniche e razziali, ma esteso anche a quelle di genere e agli altri temi del movimento che va sotto le etichette di “wokeness”, “social justice”, “intersectionality”, eccetera. Nessuna istituzione o ambito della vita sociale è rimasto fuori da questa ondata di piena, dall’esercito alle congregazioni religiose alle associazioni mediche e scientifiche, dai libri per bambini ai cartoni animati e alle etichette dei prodotti al supermercato. L’elezione di Biden non ha fermato questo processo ma anzi lo ha accelerato, almeno per ora. Mi ha colpito quanto poco di questi avvenimenti sia filtrato nei media italiani… i miei amici in Italia mi ascoltavano raccontare queste cose come se venissi da una specie di realtà parallela. Mi pare che negli ultimi mesi ci sia stato qualche passaggio di informazioni in più, ma soprattutto attraverso canali “non ufficiali” come social e blog.

Parliamo del politicamente corretto negli Stati Uniti oggi. Come definirebbe il politicamente corretto?
Non voglio provare a dare una definizione ma una prospettiva d’insieme. Il politicamente corretto di solito si riferisce al controllo del linguaggio, per esempio tramite la creazione di tabù, la sostituzione di parole e frasi con altre, la ridefinizione di parole comuni all’introduzione di neologismi e nuove forme di etichetta (per esempio indicare i propri pronomi). Se si rimane a questo livello è facile coglierne gli aspetti più assurdi, perfino al limite della comicità. Ma fermarsi qui sarebbe un errore, perché lo scopo del politicamente corretto è modificare la realtà, e il controllo del linguaggio serve solo e unicamente in quanto strumento per incidere sulla realtà. La manifestazione più ingenua di questo atteggiamento è l’idea che si possa modificare la natura delle cose semplicemente cambiando il modo in cui se ne parla; questo può sembrare una specie di pensiero magico, anche se riflette certe idee postmoderne sulla costruzione sociale della realtà. Però ci sono molti altri effetti sul mondo reale, ben più importanti anche se indiretti. Imporre con successo dei cambiamenti linguistici ha l’effetto di legittimare implicitamente le teorie che hanno motivato quei cambiamenti, giuste o sbagliate che siano (per esempio, la teoria che l’uso generico del genere maschile in italiano serva a rinforzare e perpetuare forme di discriminazione femminile). Bollare certe parole e idee come tabù o introdurre significati alternativi di parole comuni restringe lo spazio della discussione, rende impossibile esprimere critiche e dissenso, e in questo modo apre la strada a riforme istituzionali e legislative via via più radicali, in cui ogni passo giustifica quello successivo. Tutto questo viene fatto in nome di ideali nobili come “rispetto”, “dignità” e “uguaglianza”. Il politicamente corretto è difficile da contrastare proprio perché sfrutta l’empatia e l’altruismo delle persone (facendole sentire allo stesso tempo “dalla parte giusta della storia”) e mette i critici nella posizione di sembrare insensibili, irrispettosi e intolleranti.
È anche importante notare che i termini e pensieri “corretti” cambiano velocemente e in modo imprevedibile; quello che oggi è un discorso avanzato e progressista può diventare problematico e bigotto nel giro di pochi anni, o addirittura pochi mesi (come è successo alle femministe radicali, che oggi vengono bollate come reazionarie dagli attivisti transgender perché considerano il sesso come un fatto biologico inalterabile). Questo induce un senso di ansia strisciante e porta le persone ad evitare certi argomenti o autocensurarsi in via preventiva, fa sì che dibattiti cruciali restino impantanati in questioni semantiche senza uscita, e offre pretesti di ogni tipo per “cancellare” retroattivamente gli avversari e distruggerne la reputazione. C’è di più: il politicamente corretto inietta nella cultura l’idea che le parole siano letteralmente forme di violenza e oppressione, e quindi che le idee “pericolose” giustifichino il ricorso alla censura e alla violenza. Le persone spesso intuiscono tutto questo, e reagiscono alle manifestazioni del politicamente corretto in modi che sembrano sproporzionati o allarmisti se ci si ferma al livello della superficie linguistica. Ma la posta in gioco è molto più alta e molto più seria.
La cosa più importante è riuscire a vedere il politicamente corretto non come un fenomeno a sé stante relativo all’uso del linguaggio, ma come la parte più visibile di una “creatura” ideologica molto più complessa e articolata. La chiamo wokeness perché è il termine colloquiale più comune nel mondo anglosassone, ma anche perché coglie bene lo spirito semi-religioso che la anima (essere woke vuol dire letteralmente essersi “svegliati”, aver aperto gli occhi sui sistemi di potere e oppressione che controllano la vita delle persone). L’idea centrale è che la società sia organizzata secondo una matrice più o meno invisibile di pregiudizi e privilegi (lungo molteplici assi di razza, sesso, identità di genere, orientamento sessuale, disabilità…) che si intersecano e rinforzano tra loro: la famosa “intersezionalità”. Questo crea dei sistemi di oppressione che si auto-perpetuano, operando per lo più a livello implicito e inconscio, e producono disparità tra gruppi e categorie sociali. La possibilità che esistano reali differenze culturali o biologiche (per esempio tra maschi e femmine), e che certe disparità non derivino da ingiustizie sociali ma da caratteristiche e scelte delle persone viene esclusa a priori e considerata moralmente inaccettabile, perfino violenta; anche solo suggerirlo come ipotesi è visto come una forma di oppressione e una manifestazione di sessismo, razzismo, ecc.
La wokeness vede la democrazia liberale come un’illusione che perpetua l’oppressione di donne, minoranze etniche e sessuali, e così via dietro una facciata di principi solo apparentemente giusti e imparziali. Qualunque opzione di neutralità politica (per esempio l’idea di tenere il più possibile separata la ricerca scientifica dall’attivismo, o di non usare le scuole per indottrinare politicamente i bambini) viene interpretata come una maniera subdola di perpetuare lo status quo e mantenere i privilegi delle categorie dominanti. Per questo la wokeness è sospettosa (se non ostile) verso principi liberali come la libertà di espressione o l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Abbraccia tutti gli aspetti della società e della cultura con la convinzione di essere dalla parte giusta della storia, e si concentra su come i sistemi di oppressione vengono interiorizzati (spesso in modo inconsapevole) ed espressi nella percezione, nelle emozioni, nel pensiero e nel linguaggio delle persone. In altre parole, ha una visione del mondo profondamente totalitaria, e si esprime in forme totalitarie (censura, processi sommari, delazione, “struggle sessions” e rieducazione, autodenunce e auto da fé…) ogni volta che prende il controllo di un gruppo o di un’istituzione. Il caso sconcertante dell’Evergreen College (documentato in dettaglio da Benjamin Boyce e Mike Nayna) è un esempio emblematico di cosa può succedere quando questi principi vengono messi in pratica a livello istituzionale.
Questa corrente ideologica ha iniziato a prendere forma nella sinistra accademica a partire dagli anni ’70, virando dalle questioni di classe a quelle di identità e incorporando alcuni concetti chiave della filosofia postmoderna. È cresciuta e si è sviluppata nelle università, in particolare nelle discipline umanistiche, in alcune scienze sociali come la sociologia e l’antropologia, e soprattutto nei dipartimenti di educazione (education schools) e nella galassia in continua espansione degli “studies” identitari (tra cui women’s studies, gender studies, queer studies, Black studies, Latino studies e così via). Dalle università ha continuato a diffondersi nelle scuole (ritornando poi alle università via via che i ragazzi crescevano e si iscrivevano al college), ai media, ai dipartimenti di risorse umane delle grandi aziende. Ha iniziato a farsi sentire negli anni ’90, ma non aveva ancora la massa critica per diventare una forza dominante nella sinistra, che pure stava diventando sempre più elitaria e sganciata dagli interessi della working class. Probabilmente anche grazie all’effetto accelerante dei social media, la massa critica è arrivata intorno al 2010, ed eccoci qua. Tra i critici e/o cronisti più interessanti di questo periodo convulso metterei Douglas Murray, Jordan Peterson, James Linsday, Bari Weiss, Wesley Yang, Zachary Goldberg, Richard Hanania, e altri collegati a riviste online come Quillette. Poi ci sono trent’anni di letteratura accademica e non; alla fine dell’intervista posso mettere qualche libro consigliato tra quwlli più recenti. Raccomando anche un’interessante video intervista sul politicamente corretto e identity politics fatta da Dario Maestripieri, mio caro amico e biologo all’università di Chicago.

Può farci qualche esempio concreto, per far capire al lettore italiano come si manifesta il politicamente corretto nella sua università e, se vuole, anche nella vita quotidiana.
Gli Stati Uniti sono un Paese incredibilmente vario dal punto di vista sociale e politico, per cui le esperienze di vita quotidiana dipendono molto dal posto in cui si vive. Più che un aneddoto specifico, mi sento di condividere un’esperienza che sta diventando sempre più comune: se non si è tra persone di fiducia o che si sa per certo essere “dalla stessa parte”, la reazione immediata è smettere di dire quello che si pensa, iniziare a pesare ogni parola, e usare frasi fatte e generiche, evitando accuratamente qualsiasi argomento che possa essere vissuto come problematico o offensivo (la lista si allunga ogni giorno di più). Prevedibilmente, il politicamente corretto ha tolto spontaneità alle relazioni sociali e le ha rese molto più caute, superficiali e legnose. Mi rendo conto che è difficile da spiegare se non si è provato. Quest’anno mia moglie ed io siamo tornati in Italia per qualche mese; la prima sensazione che ci ha sorpreso è stata che le persone si parlassero normalmente, tranquillamente, in un modo a cui non eravamo più abituati; come se all’improvviso si fosse sollevato un velo. Un’altra esperienza rivelatrice è quella di guardare film o serie TV girate negli anni ’90, nei primi anni 2000, o perfino intorno al 2010, e restare sorpresi per come fosse possibile dire o mostrare cose che ora sarebbero verboten. Lo spazio pubblico del discorso e delle rappresentazioni si sta restringendo velocemente, a fronte di una concentrazione sempre più ossessiva su pochi temi (questioni di razza, genere, orientamento sessuale, eccetera); è incredibile quanto in fretta ci si abitua, l’unico modo per rendersene conto è confrontare la produzione di oggi con quella del passato, anche molto recente.
Per quanto riguarda l’accademia USA, si tratta di una specie di Stato a sé, con una cultura molto uniforme e pochissimo radicamento nelle realtà locali (gli accademici americani si spostano molto di più tra università e Stati di quanto non succede in Italia o in Europa). Dentro le università, secondo me siamo già oltre la fase del politicamente corretto: con poche eccezioni, il conformismo ideologico è talmente capillare da essere diventato quasi un fatto naturale, come l’aria che si respira. Gli speech code che regolamentano il linguaggio e puniscono frasi e atteggiamenti “offensivi”; i training obbligatori su cosa si può e non si può dire quando si presentano situazioni problematiche con studenti e colleghi; il fatto che i candidati vengono valutati in modo diverso a seconda della razza, del sesso e dell’orientamento ideologico; i libri di testo depurati per non offendere nessuna categoria sensibile e celebrare “equità, diversità e inclusione”; i messaggi dall’amministrazione universitaria, sempre allineati con i progressisti sui temi politici del momento; potrei andare avanti per un bel po’.
Decenni di compromessi, silenzi e quieto vivere da parte degli accademici non attivisti hanno portato (lentamente, passo dopo passo) ad un sistema paternalistico e soffocante, dove limitazioni alla libertà individuale che hanno dell’incredibile (come i codici che disciplinano lo humor e, in qualche caso, le espressioni facciali) vengono vissute come normali, quasi ovvie. È una vera tragedia, perché le università americane sono piene di qualità e competenze a livelli altissimi; ma schierandosi politicamente, dando la priorità a obiettivi ideologici come “equità” e “giustizia sociale” a scapito del rigore accademico, e definendosi sempre più come fabbriche di attivisti stanno bruciando ad una velocità allarmante il capitale di fiducia che hanno accumulato nel tempo. Alla lunga non saranno in grado di mantenere gli standard su cui si basano il loro successo e il loro prestigio; peggio ancora, visto il loro ruolo di leadership rischiano di trascinare con sé una buona parte del sistema accademico internazionale.
A chi volesse farsi un’idea più precisa della situazione, raccomando il sito della Foundation for Individual Rights in Education (FIRE), un’associazione apolitica che lotta da vent’anni per ripristinare i diritti costituzionali del Primo Emendamento nelle università. La National Association of Scholars (NAS) ha un taglio politico più conservatore, e sta portando avanti battaglie e campagne di informazione importantissime, spesso come unica voce critica nel panorama accademico americano.

Ma secondo lei qui in Italia abbiamo idea di che cosa sta accadendo negli Stati Uniti? O viviamo felicemente all’oscuro perché da noi il great awokening è appena all’inizio, e magari non potrà mai veramente esplodere, perché manca l’ingrediente razziale?
Come accennavo all’inizio, mi pare che la consapevolezza di quello cha sta succedendo negli USA (e in altri Paesi anglosassoni come Canada, UK, Australia) a livello sociale e politico sia piuttosto scarsa, e questo è uno dei motivi che mi hanno spinto a fare questa intervista. Parlo di quello che ho potuto vedere nei principali media italiani e sentire parlando con amici e colleghi; naturalmente, molto dipende da quali canali online si seguono e di quali “bolle” politiche e informative si fa parte.
Per quanto riguarda la wokeness, si tratta di un fenomeno globale e globalizzato, anche se è maturato negli USA e in altri Paesi anglosassoni. Esploderà anche in Italia? Fare previsioni è molto difficile, ma provo a fare una lista di differenze sociali e culturali che potrebbero influenzare il corso degli eventi. Per esempio, l’Italia ha una società che si muove e cambia più lentamente, con più inerzia e stacchi meno netti tra le generazioni. I legami familiari e locali sono più forti e contrastano la tendenza all’atomizzazione e all’isolamento, che rendono le persone più fragili ed esposte alla manipolazione emotiva (penso soprattutto agli studenti universitari). Poi c’è una differenza culturale indefinibile, una specie di disincanto “all’italiana” per cui si tende a non prendere le cose troppo sul serio; manca quel fondo idealistico e puritano che negli Stati Uniti si sente, eccome. Naturalmente tutti questi aspetti della società italiana possono essere sia dei vantaggi che dei limiti. Per esempio l’inerzia generazionale e la dimensione locale possono frenare l’innovazione e sprecare occasioni e potenzialità; però possono anche rallentare i cambiamenti impulsivi e smorzare certi eccessi prima di fare troppi danni. Poi in Italia esiste la memoria del fascismo, che da un lato può essere invocata “a sinistra” per sopprimere il dissenso, ma dall’altro può funzionare da anticorpo e rendere più facile riconoscere i sintomi di una deriva totalitaria. Forse non è un caso che i Paesi dove la wokeness ha attecchito più profondamente siano quelli che non hanno fatto l’esperienza di dittature e regimi totalitari nel passato recente.
Un’altra differenza importante è che gli USA hanno avuto più di 50 anni di legislazione espansiva sui diritti civili che, al di là dei suoi risultati positivi, ha portato alla creazione di un’enorme e potente burocrazia a tutela di “equità, diversità e inclusione” nelle aziende e nelle istituzioni. Questa burocrazia tentacolare è stata terreno fertile per la crescita e diffusione della wokeness, ed è uno dei motivi per cui una manciata di attivisti può condizionare o mettere in ginocchio università, aziende, e così via. Christopher Caldwell ha scritto The age of entitlement, un libro importantissimo dove argomenta che la legislazione sui diritti civili a partire dagli anni ‘60 ha di fatto creato una “costituzione parallela” che si pone in conflitto sempre più aperto con quella formale del 1789. Richard Hanania ha fatto un’analisi molto lucida di questo fenomeno in un articolo intitolato Woke institutions is just civil rights law.
Detto tutto questo, sarebbe un errore illudersi che l’Italia sia al riparo. È vero, la questione razziale è molto meno profonda e centrale che negli USA, ma non bisogna dimenticare che la wokeness è un’ideologia totalizzante basata sul principio dell’intersezionalità. Il punto di partenza preciso importa poco: qualsiasi aspetto della storia o della società che possa essere inquadrato nella dinamica privilegio/oppressione può servire come innesco per iniziare il processo di radicalizzazione. Se non è la razza, può essere benissimo il sesso o l’identità di genere. Per fare un altro esempio, l’Italia non ha conosciuto lo schiavismo e la segregazione razziale come gli Stati Uniti; però ha avuto un periodo coloniale che, in linea di principio, potrebbe svolgere la stessa funzione di “peccato originale” da espiare. Ancora: i social media non conoscono frontiere e tendono a creare una monocultura globale molto permeabile, soprattutto per i più giovani. Per via dei miei interessi di ricerca sulle differenze di genere, seguo abbastanza da vicino le evoluzioni del femminismo e dell’attivismo transgender; è molto facile notare che gli attivisti italiani (e i media che ne amplificano la voce) usano le stesse parole, immagini e strategie retoriche delle loro controparti americane. Sono sistemi di idee adattabili e “contagiosi”, capaci di attraversare facilmente le barriere culturali.

Parliamo ancora dell’Università. Immagino che ci siano anche studenti e colleghi che non amano il politicamente corretto, o addirittura lo contestano apertamente. Che cosa succede a chi non si allinea?
Per cominciare, chi non si allinea paga il prezzo dell’ostracismo di colleghi e studenti, e sa di mettere a rischio la propria reputazione (con ricadute sulle possibilità di ricevere finanziamenti, promozioni, offerte lavorative, riconoscimenti, incarichi prestigiosi…). I professori dissidenti vengono bollati come sessisti, razzisti, transfobici e via dicendo, e rischiano di diventare bersagli di boicottaggi o denunce agli uffici per la diversità. Nel regime degli speech code, può bastare una denuncia anonima da parte di uno studente o un collega per far partire lunghi processi interni, sospensioni dall’insegnamento, e altri tipi di sanzioni amministrative. E chi non ha la tenure (il posto a tempo indeterminato) oppure lavora in un’università privata rischia seriamente di perdere il lavoro e la carriera. Sia NAS che FIRE mantengono dei database di professori “cancellati” o finiti nei guai per aver espresso opinioni scomode (o anche solo per aver infastidito qualche attivista con trasgressioni reali o immaginarie). Naturalmente, questo clima incoraggia l’autocensura, specialmente da parte dei più moderati e di chi ha molto da perdere in termini professionali; il silenzio dei moderati lascia campo libero agli attivisti, e così il circolo vizioso continua.
Nel nostro dipartimento, io e mia moglie siamo stati tra i pochi a schierarci apertamente per la libertà di espressione, per la neutralità politica dell’accademia, e contro la subordinazione dell’insegnamento e della ricerca a obiettivi ideologici di “giustizia sociale” e simili. Ovviamente i rapporti all’interno del dipartimento ne hanno risentito, ci siamo presi insulti da alcuni colleghi, e mi è giunta voce che i dottorandi più politicizzati hanno iniziato a boicottare i miei corsi. Devo dire che siamo stati comunque fortunati, perché lavoriamo in un dipartimento dove altri colleghi hanno espresso il loro dissenso, e sebbene si tratti di un gruppetto molto piccolo non ci sentiamo completamente soli. Siamo riusciti anche a ottenere qualche vittoria, e il nostro dipartimento non ha capitolato immediatamente quando l’estate scorsa gli studenti attivisti hanno scritto una lettera di denuncia con richieste di “decolonizzare il curriculum”, introdurre training sulle “microaggressioni” e sulla giustizia razziale, ridurre l’uso di test standardizzati nella valutazione dei candidati, e così via. Molti amici e colleghi in altri dipartimenti e università si trovano isolati, e spesso troppo spaventati per parlare o protestare. Alcuni hanno perso il lavoro o sono diventati “intoccabili” per aver pubblicato articoli e studi politicamente scorretti. Da studente, mi aveva stupito e turbato il fatto che, in tutta l’accademia italiana, solo dodici professori (più o meno uno su cento) avessero rifiutato di giurare fedeltà al fascismo nel 1931. Adesso mi sembra del tutto ovvio, purtroppo.

Esistono oggi negli Stati Uniti gruppi o forze che si oppongono al politicamente corretto? O la resistenza è puramente individuale, e magari anche un po’ criptica?
Gli USA sono un Paese grande, complesso e pieno di energia. Da qui arrivano le manifestazioni più estreme del politicamente corretto, ma anche le voci più forti e interessanti dell’opposizione. Oltre ad organizzazioni avviate come NAS e FIRE, negli ultimi anni stanno nascendo altre realtà come Counterweight, Academic Freedom Alliance (AFA), e Foundation Against Intolerance and Racism (FAIR). Heterodox Academy è un’altra associazione nata qualche anno fa per contrastare il pensiero unico nelle università, ma secondo me si è rivelata troppo debole e timida quando i nodi sono venuti al pettine. In questo momento, le forze in campo sono estremamente sbilanciate a favore della wokeness, ma è difficile prevedere come la situazione si evolverà nei prossimi cinque-dieci anni.
In modo sempre più esplicito, questa nuovo capitolo delle culture wars sta diventando una questione centrale nella politica dei partiti e degli Stati. Per esempio, in questi mesi si stanno combattendo delle importanti battaglie mediatiche e legislative riguardo all’uso nelle scuole pubbliche della critical race theory, che è una componente fondamentale della wokeness a livello teorico/accademico ed è stata adottata in varie forme da una larga fetta di educatori e amministratori scolastici. In parte, la stessa elezione di Trump è stata una reazione all’awokening delle élite progressiste iniziato qualche anno prima. Mi aspetto che negli anni a venire la wokeness e il politicamente corretto (che ne è una manifestazione) monopolizzeranno sempre di più il dibattito politico, non solo negli USA ma anche in Italia e in Europa.

E in Italia? Secondo lei la resistenza al ddl Zan sull’omotransfobia è anche alimentata dalla diffidenza per il politicamente corretto?
Ovviamente sì. Entrambe le parti (pro e contro) si comportano come se la posta in gioco fosse molto più alta rispetto al contenuto specifico del decreto, e hanno assolutamente ragione! Come dicevo, la questione dell’identità di genere è un possibile punto di innesco della wokeness (come lo è stato per certi versi anche negli USA, soprattutto intorno al 2014), e si presta molto bene ad iniettare i principi del politicamente corretto nelle istituzioni e nella cultura usando la forza della legge.

Per finire, una domanda sulle sue scelte di vita, anche familiare. Come è oggi l’America (o meglio il New Mexico, dove lei vive) per uno studioso che ha dei bambini? Potesse tornare al 2013 sceglierebbe sempre di trasferirsi in America? E, per il futuro, pensa di restarvi o non esclude di tornare in Italia?
Non rimpiango la decisione di essermi trasferito e lo rifarei se tornassi indietro. Ho avuto la possibilità di lavorare con colleghi eccezionali, conoscere persone e realtà di ogni tipo, e godere di un ambiente accademico produttivo e amichevole, soprattutto nei primi tempi. I nostri bambini sono nati in America e qui abbiamo costruito la nostra famiglia. Però ci troviamo in un momento molto strano: la sensazione è che la sinistra woke abbia deciso fermamente di smantellare proprio gli aspetti di questo Paese che più ci hanno attirato qui, come la libertà personale e di ricerca, la varietà dei pensieri e delle opinioni, la meritocrazia e lo spirito competitivo. Non credo sia un caso che molti tra i critici più agguerriti della wokeness siano immigrati come noi o vengano da famiglie di immigrati.
Per quanto riguarda il futuro, abbiamo cominciato a considerare seriamente la possibilità di tornare in Italia, soprattutto per i bambini che tra poco inizieranno ad andare a scuola. Sta diventando sempre più difficile trovare scuole (pubbliche o private) che non siano dedicate anima e corpo all’indottrinamento ideologico degli studenti. E la nostra situazione non è neanche così estrema: il New Mexico è uno stato Democratico ma abbastanza periferico, senza il fervore ideologico del Midwest o degli Stati costieri come la California, Washington o New York. Ci stiamo chiedendo se sia giusto far crescere i nostri figli in un contesto dove l’autocensura, il conformismo e la “cancel culture” stanno diventando la norma, dove sta diventando impossibile parlare apertamente della realtà (anche di cose banali come il fatto che esistono due sessi biologici), dove bambini e ragazzi vengono educati a vivere la società come un gigantesco teatro di oppressione e guardare il mondo solo attraverso le lenti deformanti dell’identità razziale e di genere. Non siamo gli unici: attraverso il passaparola, negli ultimi tempi sono stato contattato da altri accademici italiani che lavorano negli USA e stanno facendo le nostre stesse riflessioni. Nel mio piccolo, sto cercando di prendermi le mie responsabilità, facendo quello che posso nell’ambiente accademico qui negli Stati Uniti e cercando di avvertire i miei colleghi italiani di quello che sta succedendo e che potrebbe succedere in futuro. Quando ho letto il Manifesto della libera parola sul sito della Fondazione Hume, l’ho subito voluto sottoscrivere come spero faranno molti altri. Grazie di cuore per avermi dato la possibilità di fare questa intervista e lanciare il mio sasso nello stagno!


 

Letture consigliate:

Bawer, B. (2012). The victims’ revolution: The rise of identity studies and the closing of the liberal mind. Broadside.

Caldwell, C. (2020). The age of entitlement: America since the Sixties. Simon & Schuster.

Campbell, B. (2018). The rise of victimhood culture: Microaggressions, safe spaces, and the new culture wars. Palgrave.

Flynn, J. R. (2019). A book too risky to publish: Free speech and universities. Academica Press.

Lukianoff, G., & Haidt, J. (2019). The coddling of the American mind: How good intentions and bad ideas are setting up a generation for failure. Penguin.

Mac Donald, H. (2018). The diversity delusion: How race and gender pandering corrupt the university and undermine our culture. St. Martin’s Press.

Pluckrose, H., & Lindsay, J. (2020). Cynical theories: How activist scholarship made everything about race, gender, and identity―and why this harms everybody. Pitchstone.

Rauch, J. (1995). Kindly inquisitors: The new attacks on free thought. University of Chicago Press.




Dal Green-pass alla “normazione di emergenza”: vera libertà o “sgambetto” alla Costituzione?

Passaporto vaccinale, green-pass, stato di emergenza, tre cose all’apparenza ben distinte fra loro ma che, in realtà, sono legate da un sottile filo rosso, come risulterà chiaro al lettore dalla lettura del presente articolo. Purtroppo, invece, in Italia il dibattito pubblico – sia in televisione sia sulla carta stampata – si è soffermato principalmente su un singolo “albero”, il green-pass, perdendo del tutto di vista la “foresta”, ovvero la visione d’insieme ed il contesto. Eppure, per capire se nella gestione italiana della pandemia stiamo andando verso la vera libertà, come ci viene fatto credere dal Governo o, al contrario, ce ne stiamo sempre più allontanando è necessario allargare la prospettiva, non zoomare sui singoli dettagli. E il quadro che ne emerge (anche grazie all’aiuto dei vari esperti via via citati) non può che sollevare pesanti e motivati interrogativi che non riguardano questa volta la ‘mala gestio’ della pandemia – di cui questo sito ha ampiamente trattato nell’ultimo anno e mezzo – ma la democrazia e la libertà degli individui, l’uguaglianza sociale, l’impatto sull’economia, etc., tutti aspetti di cui da noi poco o nulla si parla.

Il passaporto vaccinale e l'”aparthaid dei vaccini”

I recenti dibattiti sui “passaporti vaccinali” e sul Green-pass – o certificazione formale/obbligatoria della vaccinazione – indicano un potenziale divario sociale sempre più ampio tra coloro che sono vaccinati e coloro che non lo sono. Quelli con la certificazione dell’immunizzazione Covid-19 potrebbero essere autorizzati a viaggiare, lavorare, andare in palestra, praticare sport, partecipare a eventi di intrattenimento, cenare nei ristoranti e, infine, tornare alla vita “normale”. Secondo Clare Wenham, della London School of Economics, una tale distinzione contribuirebbe alla creazione di un “sistema a due livelli” e, dato che “la Storia mostra che quando si creano divisioni all’interno della società ciò porta a disordini civili”, ritiene che ciò possa sfocia in una sorta di “apartheid del vaccino” [1]. Personalmente, sono più pessimista anche a causa dell’impatto economico del pass, e temo che si possa in futuro arrivare a proteste violente.

Si noti che l’idea dell'”aparthaid dei vaccini” non è certo un’invenzione dei media. Infatti, funzionari kenioti hanno accusato il Regno Unito di “apartheid vaccinale” a luglio, dopo che Londra ha aggiunto il paese dell’Africa orientale alla sua “lista rossa” – i 39 paesi in cui il Regno Unito vieta l’ingresso a chiunque sia stato all’interno dei loro confini nei 10 giorni precedenti [5]. La stragrande maggioranza si trova in America Latina e Africa, compresi paesi come il Ruanda, che hanno fatto molto meglio nel controllare la diffusione della pandemia rispetto al Regno Unito. Funzionari britannici affermano che il divieto è necessario per prevenire l’introduzione di varianti di Covid-19. I funzionari kenioti lo hanno visto invece come un esempio di un paese ad alto reddito che usa la pandemia per discriminare e hanno imposto una quarantena di due settimane a tutti i passeggeri provenienti o in transito attraverso il Regno Unito.

Gli esperti affermano che questo scontro sulla capacità di movimento delle persone potrebbe impallidire in confronto alle interruzioni che saranno causate dalla potenziale introduzione su larga scala di “passaporti vaccinali”. E gli sforzi emergenti per limitare i movimenti delle persone in base al fatto che abbiano ricevuto un vaccino contro il Covid-19 stanno aumentando le preoccupazioni per le disuguaglianze a livello mondiale che sono già state rivelate o esacerbate dalla pandemia. In effetti, alla maggior parte delle persone nel sud del mondo non è stato nemmeno offerto un vaccino. Dei circa 850 milioni di dosi di vaccino anti-Covid che sono state somministrate in un qualsiasi giorno di luglio, solo lo 0,1% è andato a persone nei paesi a basso reddito. “Non dovrebbe esserci nessun passaporto vaccinale fino a quando non saremo in grado di garantire un accesso equo per il vaccino”, ha affermato pertanto Joia Mukherjee, chief medical officer di Partners in Health, un’associazione globale senza scopo di lucro per la giustizia sociale [5].

Ma questo obiettivo sembra essere oggi ancora lontano. La pandemia di Covid-19 ha innescato una corsa mondiale ai vaccini. I governi ricchi che hanno investito in vaccini candidati hanno stipulato accordi bilaterali con gli sviluppatori che di fatto comportano la prenotazione di dosi di vaccino per i paesi a più alto reddito – un fenomeno noto come “nazionalismo dei vaccini” – lasciando potenzialmente le persone nei paesi poveri vulnerabili al Covid-19. Una risposta al nazionalismo dei vaccini è stata la creazione della “COVAX Facility”, una partnership internazionale che mira a sostenere finanziariamente i principali candidati al vaccino ed a garantire l’accesso ai vaccini per i paesi a basso reddito [6]. Settantanove paesi ad alto reddito sono membri COVAX. I loro governi aiuteranno a sostenere 92 paesi a basso reddito che altrimenti non potrebbero permettersi i vaccini contro il Covid-19. Molto bello, ma ciò non basta.

Di fatto, stiamo creando un’altra sovrastruttura o gerarchia coloniale di persone provenienti da paesi più ricchi che hanno accesso e paesi più poveri che non hanno accesso. Se ai cittadini dei paesi a basso reddito viene negato l’accesso – avvertono i critici del passaporto vaccinale – si acuirà il divario globale creato da alcuni paesi ad alto reddito che accumulano l’offerta mondiale di vaccini e, così facendo, si impedirà alle persone non vaccinate di avere accesso a beni e conoscenze, anche se le loro controparti provenienti da paesi a reddito più elevato ottengono un balzo in avanti nella ripresa. Inoltre, se i paesi o le agenzie internazionali stabiliscono un passaporto digitale, ad esempio le persone che non hanno accesso agli smartphone potrebbero soffrirne. Si potrebbe anche alimentare un aumento degli sforzi per falsificare i passaporti, come avviene già con il mercato sotterraneo dei certificati contraffatti per la febbre gialla che esiste nell’aeroporto nigeriano di Lagos, dove le card false costano solo 8,50 dollari [5].

Non solo più dell’80% delle dosi di vaccini anti-Covid sono andate a persone che vivono in paesi ad alto reddito, mentre solo l’1% delle persone che vivono in paesi poveri hanno ricevuto almeno una dose di vaccino. Ma i lavoratori asiatici che vivevano muovendosi da un continente all’altro sono stati fra i primi a perdere il lavoro a causa delle restrizioni negli spostamenti, mentre milioni di essi sono rimasti a casa senza la possibilità di guadagnarsi da vivere. Molti ignorano il fatto che i lavoratori migranti rappresentano una componente chiave della moderna economia. Ad esempio, negli Emirati Arabi Uniti ci sono 2,7 milioni di lavoratori indiani, 740.000 del Bangladesh e 560.000 delle Filippine [12]. Sebbene si stia cercando di tornare alla normalità, per questa classe di lavoratori l’incubo è ben lontano dal finire, anche perché il mondo occidentale non riconosce i vaccini cinesi e russi, nonostante l’autorizzazione dell’OMS.

Perché perfino l’OMS è contraria ai passaporti vaccinali

Come osserva l’esperta di diritti umani Kalla Tasneem, “il passaporto vaccinale proposto si concentra sullo stato di vaccinazione in cui vaccinato equivale a ‘sicuro’ e non vaccinato equivale a ‘pericoloso’. Questo indicatore binario fornisce le basi per dividere le popolazioni e controllare ciò che possono e non possono fare, fornendo essenzialmente una nuova base per la discriminazione e la disuguaglianza. Dividere le persone e i paesi in cose da fare e da non fare presenta un rischio nel suo potenziale di stabilire una polarizzazione ancora maggiore e divisioni sociali più profonde. [.. ] Le persone stanno spingendo per tornare a una vita di normalità nell’esistenza quotidiana. Ma dobbiamo chiederci che cos’è questa parvenza di normalità ed a chi è destinata. La distinzione tra persone vaccinate e non vaccinate potrebbe fornire un’altra base che perpetua l’ingiustizia, giustifica la discriminazione e controlla la libertà degli individui?”.

Inoltre, la Tasneem osserva: “L’OMS ha messo in guardia contro il rilascio di passaporti di immunità perché la loro accuratezza non può essere garantita, affermando che ‘attualmente non ci sono prove che le persone che si sono riprese dal Covid-19 e hanno anticorpi siano protette da una seconda infezione’. I vaccini sono temporanei, spiega Sarah Chan, bioeticista dell’Università di Edimburgo; la vaccinazione può fornire una certa protezione dal contrarre il Covid-19, ma non è efficace al 100% nel 100% degli individui. Inoltre, i vaccini approvati non impediscono la trasmissione, e si sa ancora poco della durata dell’immunità o della resistenza alle nuove varianti. La promessa delle vaccinazioni come mezzo efficace per gestire la pandemia e prevenire la trasmissione è discutibile, il che porta alla seguente domanda: vale la pena usare mezzi divisivi e potenzialmente discriminatori per verificare una vaccinazione?”.

L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha preso una posizione distinta in merito ai passaporti vaccinali basata su questioni etiche, tecnologiche, legali e scientifiche e sollecita misure che ostacolino meno la libertà di movimento. Le considerazioni etiche riguardano la carenza globale di vaccini e l’ulteriore peggioramento delle disuguaglianze esistenti (sia in termini di accessibilità che di disponibilità di vaccini e test Covid-19). L’OMS attualmente scoraggia le autorità nazionali dall’imporre passaporti per le vaccinazioni Covid-19 [1]. Dicono che “ci sono ancora incognite critiche sull’efficacia della vaccinazione nel ridurre la trasmissione”. Inoltre, per implementare tali passaporti, i vaccini devono essere prima approvati dall’OMS garantendone la qualità e la disponibilità globale. Ciò è della massima importanza se si considera la moltitudine di attuali vaccini Covid-19 e candidati e le differenze nazionali nei vaccini adottati.

I Centri africani per il controllo e la prevenzione delle malattie e l’Organizzazione mondiale della sanità si sono uniti nello sforzo di respingere un passaporto vaccinale, con la portavoce dell’OMS Margaret Harris che cita già da molti mesi incertezze sul fatto che il vaccino prevenga la trasmissione, nonché preoccupazioni sull’equità di tale misura. Non a caso, la stessa OMS si è dichiarata contraria sia alla vaccinazione obbligatoria, se non in circostanze professionali specifiche (ma passaporti vaccinali e Green-pass non sono altro, di fatto, che una sorta di obbligo mascherato),  sia all’uso dei soli vaccini come arma per combattere la pandemia. John Nkengasong, direttore di Africa CDC, è stato ancora più diretto in una recente conferenza stampa: “La nostra posizione è molto semplice. Qualsiasi imposizione di un passaporto per le vaccinazioni creerà enormi disuguaglianze e le aggraverà ulteriormente” [5].

La pandemia ha evidenziato che, sebbene il virus non discrimini, lo stesso non si può dire per la prevenzione e la cura e per tutto ciò che a valle ne consegue, a cominciare dal passaporto vaccinale. Ciò può avere conseguenze catastrofiche. Sempre più scuole e luoghi di lavoro chiedono prove di determinate vaccinazioni o di vaccini antinfluenzali. Tuttavia, ci sono alcune cose che rendono l’introduzione della prova della vaccinazione contro il Covid-19 molto diversa dall’avere un libretto giallo che mostra che hai avuto un vaccino contro la febbre gialla. La prova di essere vaccinati è essenzialmente classificare le persone in base al loro stato rispetto al Covid-19 e creare una nuova misura per dividere gli abbienti ed i non abbienti, o gli “immunoprivilegiati” e gli “immunodeprivati” [8]. Si tratta di un unicum senza precedenti, eppure nessuno ne ha analizzato a fondo le possibili conseguenze per capire se la “toppa” sia peggiore del “buco”.

La restrizione più ampia su chi è autorizzato a viaggiare a livello regionale e internazionale, in particolare, alla fine potrebbe aggravare il danno economico della pandemia di Covid-19 nei paesi a basso e medio reddito e impedire a studenti, scienziati e molti altri di partecipare al mondo globalizzato, potenzialmente per gli anni a venire. Ma le cose sono, se possibile, ancora peggiori a livello nazionale, poiché esattamente come il divario economico si va allargando sia tra Paesi sia all’interno delle singole nazioni, anche il divario prodotto dalla campagna vaccinale – o vaccine divide, per dirla alla anglosassone – non è meno rilevante. Alcuni paesi, come Israele e l’Italia, stanno introducendo “di getto” normative nazionali che consentono alle persone vaccinate di accedere a spazi, come palestre e ristoranti, vietati alle persone che non sono state vaccinate. Ciò ha conseguenze potenzialmente devastanti e del tutto inesplorate.

Il Green-pass fra (poche) luci e (tante) ombre

Israele ha emesso un Green-pass che consente alle persone di frequentare corsi di ginnastica, teatri, concerti e hotel; l’uso di tali certificati è esteso a coloro che desiderano sedersi all’interno di ristoranti e bar. Tuttavia, mentre questo approccio ha già consentito a circa 5 milioni di cittadini di tornare a una certa “normalità”, il processo di attuazione e applicazione dell’uso di questi passaporti rimane problematico, principalmente per gli aspetti logistici, legali ed etici. Il passaporto verde può essere integrato con test rapidi. Il governo polacco ha emesso un codice QR che consente una versione scaricabile di un documento di conferma del vaccino, che garantisce “i diritti a cui hanno diritto le persone vaccinate”. Oltre alle misure nazionali, grandi attori privati ​​(ad esempio il tour operator britannico Sage e British Airways) stanno valutando l’introduzione di Green-pass o passaporti vaccinali. Gli assicuratori di viaggio possono operare un sistema a due livelli che addebita tariffe più elevate per gli individui non vaccinati.

Ma l’idea sta sollevando serie domande legali ed etiche [10]: le aziende possono richiedere a dipendenti o clienti di fornire prove, digitali o di altro tipo, di essere stati vaccinati quando il vaccino contro il coronavirus è apparentemente volontario? Le scuole possono richiedere che gli studenti dimostrino di essere stati iniettati con quella che è ancora ufficialmente una profilassi sperimentale allo stesso modo in cui richiedono vaccini approvati da tempo per il morbillo e la poliomielite? E infine, i governi possono imporre le vaccinazioni o ostacolare le imprese o le istituzioni educative che richiedono prove di vaccinazione? Gli esperti legali dicono che la risposta a tutte queste domande è generalmente sì, anche se in una società così divisa, i politici sono già pronti a combattere. E gli stati potrebbero emanare una legge che vieta la discriminazione basata sullo stato di vaccinazione (mentre l’Italia fa proprio l’opposto).

In mancanza di tale legge, le aziende possono fare quel che vogliono ed i cittadini che non sono vaccinati ne pagano le conseguenze. Per questo, giocando d’anticipo, negli Stati Uniti il governatore della Florida Ron DeSantis ha preventivamente vietato alle aziende di richiedere l’esibizione di Green-pass o certificati vaccinali. “È completamente inaccettabile che il governo o il settore privato ti impongano l’obbligo di mostrare la prova del vaccino per essere semplicemente in grado di partecipare alla società normale”, ha affermato DeSantis [11]. “Proprio come è una tua scelta possedere o meno un’auto, dovremmo avere la possibilità di scegliere cosa vogliamo fare della nostra vita”, osserva un semplice cittadino, “i Green-pass ci fanno sentire come in una società discriminante. È come indossare la lettera scarlatta. È pazzesco”. E la politica non fa che polarizzare i cittadini su posizioni estreme, invece di smorzare i toni.

Non mancano, inoltre, critiche di tipo legale per il Green-pass, che comunque – a differenza di quanto pensano alcune persone – non è affatto anticostituzionale. Infatti, l’articolo 16 della Costituzione stabilisce che “ogni cittadino può circolare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità”. I dubbi a riguardo sono stati spazzati via da due dei massimi costituzionalisti italiani, Giovanni Maria Flick e Sabino Cassese, entrambi  docenti universitari ed a lungo giudici costituzionali. Come spiega infatti l’avv. Angelo Greco, che ha studiato le loro tesi, “esiste un interesse complessivo alla salute che giustifica la compressione delle scelte dei singoli, sia che si tratti di vietare l’ingresso nei pub a chi non è vaccinato sia che si voglia imporre per legge la profilassi vaccinale a intere categorie di lavoratori, come per esempio gli insegnanti oppure i sanitari” [15].

Infine, come osservavano Sesa et al. sul prestigioso British Medical Journal già nel mese di marzo, anche “il ruolo dei Green-pass  per contrastare l’esitazione vaccinale rimane problematico. Coloro che resistono ai programmi di vaccinazione (perché no-vax o perché non convinti dalla “narrazione ufficiale” a senso unico che esalta i vantaggi dei vaccini sperimentali nascondendone quasi tutti gli svantaggi, ndr) possono finire per considerare i Green-pass come misure coercitive del piano di vaccinazione globale, usate per controllare la popolazione e violare la privacy. E la mancanza di prove coerenti di efficacia dei vaccini nel contrastare la trasmissione dell’infezione evidenziata dall’OMS compromette il messaggio del vaccinarsi” [1]. In effetti, ormai sappiamo che i vaccini anti-Covid attuali sono “leaky” [3], cioè permettono l’infezione di terzi (infezioni secondarie)  da parte dei vaccinati (infettatisi) in circa un terzo dei casi, se non più [4].

Per non parlare dell’impatto economico del Green-pass, da tutti trascurato. Non è infatti prevista nessuna analisi preventiva dell’impatto economico delle misure legislative sui generis, cioè non strettamente economiche, adottate. Ma ciò non significa che il loro impatto non possa essere grande, potenzialmente enorme. Infatti, limitare l’ingresso a locali, ristoranti, stadi e trasporti in pratica ai soli vaccinati (quale famiglia spenderà 100 euro di tamponi antigenici solo per sedersi a tavola?) impatta eccome sulle attività e, di conseguenza, sull’economia del Paese, che già esce dalla pandemia fragilissima e con il rischio di superare pericolose soglie critiche, come discusso in un mio precedente articolo [17]. Il solo annuncio del Green-pass da parte del Governo ha fatto cancellare in poche ore circa il 40% delle prenotazioni alberghiere! E questo sorvolando sul fatto che, ancora oggi, gran parte della popolazione italiana – quand’anche si vaccinasse come da auspici del Governo – non è materialmente attrezzata per entrare in possesso del Green-pass [13], con tutte le conseguenze (e possibili discriminazioni) del caso.

Le prove di vaccinazione: verso un remake della “lettera scarlatta”?

Alcuni giorni fa è stato chiesto ai cittadini statunitensi, in un sondaggio [2], cosa ne pensassero del loro equivalente del nostro Green-pass, da usare in ristoranti, matrimoni ed eventi sportivi. Il 53% ha risposto che esso è benvenuto per la tranquillità nel viaggiare e nel partecipare ad eventi, mentre il 44% del campione ha risposto di essere contro il passaporto vaccinale perché esso infrange i propri diritti; il restante 3% si è dichiarato più incerto, avendo risposto “dipende”. Ma, come scrive Palma Kristi su Boston.com, “è incredibile come le persone non si rendano conto che si sta creando un pericoloso precedente. Una volta che abbiamo iniziato a mostrare il nostro passaporto vaccinale, quando avrà fine la cosa? Sarà necessario esibirlo anche per altre situazioni, ad esempio per i malati di mente o per chi è stato arrestato o condannato? Dopotutto, anche loro sono persone ‘pericolose’ per la società” [2].

Immagina un futuro distopico in cui la prova che sei stato vaccinato contro il Covid-19 potrebbe dettare la tua libertà, l’accesso agli spazi pubblici, il lavoro e altre attività che comportano il contatto con altre persone. Come osserva Kalla Tasneem, “questa distopia potrebbe non essere così inverosimile e potrebbe diventare una realtà mentre il mondo cerca di riconquistare un senso di normalità. Non sarebbe la prima volta che la libertà per alcuni gruppi di persone è determinata da stratificazioni sociali e disuguaglianze strutturali profondamente radicate. La disuguaglianza e la stratificazione sociale hanno svolto un ruolo enorme nel modo in cui i paesi sono stati colpiti e hanno affrontato la pandemia. Il 2021 ha inaugurato la fase di vaccinazione con una serie di nuove preoccupazioni per quanto riguarda la gestione della pandemia globale, una delle quali è la disuguaglianza nell’accesso alle vaccinazioni”.

Questa nuova realtà propone un sistema in cui coloro che scelgono di non essere vaccinati – o non hanno accesso ai vaccini – avranno la loro libertà ridotta in nome della salute pubblica. Anche se l’introduzione della verifica della vaccinazione è stata discussa fin dal 2020, il 2021 sembra essere l’anno che renderà il Green-pass (o la prova della vaccinazione) una realtà. Ma in che modo i paesi intendono affrontare il rischio di dividere le persone in vaccinate e non vaccinate e garantire che ciò non contribuisca ai modelli esistenti di privilegio, svantaggio e discriminazione? Come può la società garantire che un’altra divisione binaria non perpetui la disuguaglianza già esistente rafforzando la discriminazione basata sullo stato di salute di una persona? Gli impatti dei Green-pass e dei passaporti vaccinali sono di vasta portata e potrebbero aggravare le divisioni sociali. Problemi di razza, occupazione, precedenti penali, status di immigrato e altre divisioni nella società potrebbero essere esacerbati dalla necessità di dimostrare la tua vaccinazione.

L’Italia sta spingendo molto per vaccinare i cittadini sperando che il Green-pass sia la soluzione sicura per riaprire tutto, sbloccare l’economia e ripristinare una parvenza di normalità. Peccato, però, che nonostante le promesse più o meno implicite nell’adozione del Green-pass, nel nostro paese si stia andando nella direzione opposta, un po’ come se la mano sinistra non sapesse quel che fa la mano destra. Un gran numero di persone, guarite dal Covid o vaccinate, hanno segnalato falle burocratiche e difficoltà a ottenere il Green-pass al quale avrebbero diritto; oppure l’hanno ricevuto ma è sbagliato. Alcune storie sono fra l’assurdo e l’inverosimile, e ricevere un aiuto via telefono è quasi impossibile [6]. Inoltre, per la serie A di basket – solo per fare un esempio – la percentuale di occupazione dei palazzetti per la prossima stagione è simile a quella, bassissima, di quando non vi erano vaccini e Green-pass; mentre in Sardegna e Puglia molte discoteche sono di fatto operative, ma per i Dpcm non potrebbero. Forse qualcosa non torna…

Insomma, Green-pass e passaporti vaccinali sembrano porre più problemi di quanti non ne risolvano. Non stupisce, quindi, che negli Stati Uniti molti stati li abbiano messo al bando, citando preoccupazioni per la privacy (da noi si è invece giunti al paradosso di bocciare a priori, con la scusa della privacy, un’app come ad es. quella di tracciamento inglese, assai efficace nel contenere i contagi come dimostrano i dati di questi ultime settimane, e non invece il Green-pass, che al contrario la viola palesemente) e per l’intrusione nella decisione delle persone di vaccinarsi o mano. Se si considera che su una tematica così importante si dovrebbe cercare l’unità e non la divisione, si può almeno intuire il danno prodotto dal Green-pass, che è una soluzione “facile” per i Governi deboli e incapaci di offrire reali soluzioni alternative – o almeno complementari – ai vaccini, che però oggi esistono eccome (ma ne parlerò in un futuro articolo).

Vorrei, infine, sottolineare ancora una volta come tutto il presente dibattito riguardi non dei vaccini normali, bensì dei vaccini “sperimentali”, dei quali non si conoscono gli effetti a medio e soprattutto a lungo termine (ciò è vero sia in generale, poiché non è passato abbastanza tempo per poterli osservare, sia in particolare per quanto riguarda i vaccini a mRNA, mai usati in precedenza per vaccinazioni sull’uomo) e i danni che si stanno scoprendo grazie all’esame dei vaccinati da parte di ricercatori indipendenti (ne parlerò in un futuro articolo) sono piuttosto inquietanti. Si noti, inoltre, che i dati tratti dal database VAERS degli effetti avversi mostrano che ai vaccini “normali” tutti insieme sono associate negli USA 4.182 segnalazioni di morti per “presunti effetti collaterali” in 20 anni, mentre ai vaccini sperimentali anti-Covid che oggi si vogliono obbligare indirettamente con l’escamotage del Green-pass è associato lo stesso numero di morti (4.178) per “presunti effetti collaterali” nel giro di pochi mesi di vaccinazioni [18]. Ciò fa riflettere.

La Costituzione non prevede la sua auto-sospensione per motivi sanitari

Se i Green-pass ed i passaporti vaccinali possono avervi fornito l’idea che il Governo possieda la vostra vita, il vostro corpo e la vostra libertà, allora ancor più male vi farà venire a conoscenza dell’argomento che tratterò ora, che è stato molto trascurato dai media nonostante la sua enorme importanza. Il perdurare a oltranza, in Italia, dello “stato di emergenza” deliberato dal Governo pone sempre più sul tavolo il tema – del tutto ignorato dai talk-show televisivi, più interessati dalla questione del green pass – sul punto di equilibrio fra il diritto alla salute e gli altri diritti della persona garantiti dalla Costituzione.

In Italia, con la “scusa” della pandemia, la situazione sta diventando così restrittiva delle libertà da ricordare per certi versi lo status della popolazione in regimi autoritari che noi abitualmente biasimiamo, tanto che perfino una mia carissima amica cinese che vive da oltre vent’anni nel nostro Paese mi ha confidato: “Ora in Italia ti assicuro che è peggio che in Cina!”. In effetti, non posso darle torto. Ma la questione è, in realtà, assai più generale che non il cercare di stabilire la mera costituzionalità o meno del singolo strumento (ad es. il Green-pass) e dei singoli decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri (i famosi Dpcm). È solo allargando la prospettiva che si coglie l’assoluta anomalia della situazione attuale, dato che la nostra Costituzione non prevede lo “stato di emergenza”. Ho per questo deciso di farci illuminare, a riguardo, da un esperto come Angelo Di Lorenzo, avvocato penalista del Foro di Roma. Ciò, beninteso, non implica che io condivida posizioni negazioniste che potrebbero avere eventualmente animato alcuni suoi colleghi.

Come spiega Di Lorenzo in una sua relazione orale disponibile su YouTube [16], “la cosiddetta ‘normazione di emergenza’ non ha solo la finalità di regolare le questioni di vita sociale, politica ed economica in un Paese in un momento di crisi, ma ha la pretesa di entrare – come poi in effetti è entrata – all’interno delle nostre coscienze, all’interno delle nostre inclinazioni e pretende di esercitare per nostro conto diritti personalissimi e attività che poi alla fine ci qualificano come persone e ci consentono di realizzarci come singoli sia nelle formazioni sociali cui apparteniamo o sentiamo la necessità di appartenere, sia anche come individui. Ed allora, fino al 31 gennaio del 2020, la Costituzione era la pietra in cui trovare scolpite quelle che sono le regole fondamentali del nostro convivere civile e che caratterizzano, in qualche modo, la Repubblica Italiana e i diritti che ciascuno di noi gode nell’abbraccio ordinamentale”.

Ma poi le cose sono – lo sappiamo tutti – all’improvviso cambiate, come chiarisce però molto bene l’avvocato: “Dal 31 gennaio del 2020 si è introdotto, con un’azione d’impeto mossa da una sorta di ‘impreparazione e ignoranza congenita’, questo nuovo modello sociale che avrebbe dovuto in qualche maniera farci tornare Covid free – o potenzialmente tali – nel giro di brevissimo tempo: se pensate che il primo provvedimento a carattere nazionale era del 4 di marzo del 2020 e le prime misure previste in quel provvedimento dovevano cessare il 3 aprile del 2020, siamo nel giro di più o meno 30 giorni. E questo nuovo modello era basato sulla logica del lockdown e sulla possibilità di derogare alle regole, ai valori ed ai principi che hanno regolato il nostro convivere civile fino a quel momento”.

Come ci illustra ancora Di Lorenzo con una chiara immagine, in Italia con la pandemia di Covid-19 “la normazione di emergenza ha scalzato con uno ‘sgambetto a tradimento’ la Costituzione dall’apice della cosiddetta ‘gerarchia delle fonti’. Immaginate la gerarchia delle fonti, le quali altro non sono che la sorgente da cui vengono prodotte le norme, come un sistema gerarchico piramidale: all’apice di questa struttura piramidale – quasi militare – ci sono la Costituzione e le leggi costituzionali. Dalla Costituzione, poi, promanano – e vengono rilasciati a cascata – i semi dei princìpi, dei valori e dei diritti che vanno a costituire le regole. E questi semi vanno a informare le fonti sotto ordinate nella suddetta piramide: quindi, sotto la Costituzione troviamo le leggi generali di ambito europeo internazionalmente riconosciute e poi le leggi ordinarie, poi le leggi regionali e così, via via, a scendere fino alla base di questa struttura, che sono gli usi e le consuetudini. Ma tutte queste fonti sono generate dallo stesso seme, e rispettose dello stesso metaprincipio, di modo che l’ordinamento si presenti come un sistema organico e coerente”.

In sostanza, il Governo ha fatto una vera e propria “deroga” alla Costituzione e alle leggi ordinarie. Infatti, come chiarisce Di Lorenzo nel suo intervento, “la Costituzione non lo prevede! Quindi, è necessariamente al di fuori o al di sotto della Costituzione. E che non lo preveda non è certo una lacuna, un caso, se pensate che la Costituzione in generale è il collettore di quanto c’è di buono in tutti gli approcci ideologici e che i nostri ‘padri fondatori’ l’hanno voluta, pensata e scritta in un’assemblea costituente che ci ha regalato questo documento destinato ad essere perpetuo proprio perché fluido ed omogeneo, e quindi idoneo ad essere applicato in tutti i contesti storici, così da garantirne, appunto, la perpetuità e la contemporaneità. Siamo alla fine della Seconda guerra mondiale, nel 1948, ed i padri fondatori vengono da una esperienza bellica, ma soprattutto alcuni di loro hanno vissuto anche la pandemia di ‘Spagnola’ che aveva colpito l’intero mondo – non solo l’Europa – alla fine della Prima guerra mondiale, dal 1918 al 1920, mietendo dai 50 ai 100 milioni di morti con un tasso di letalità stimato dal 3 al 4 percento”.

E continua l’avvocato: “nonostante tutto ciò, non si è voluto inserire nella Costituzione un meccanismo di auto-sospensione del proprio ordine costituzionale in presenza di un evento pandemico di natura sanitaria. Avrebbero potuto farlo e non l’hanno fatto, come invece però hanno fatto con l’unica eccezione che prevede la Costituzione: la dichiarazione dello stato di guerra. [..] Se la Costituzione non prevede questo meccanismo di auto-sospensione, è ovvio e naturale che nessuna legge ad essa subordinata possa disporre l’elusione o l’esclusione della sua immanenza, e infatti nessuna legge lo prevede: nemmeno la legge che è attualmente in vigore in materia sanitaria, che è il Testo Unico Sanitario, ovvero 394 articoli ricompresi in un Regio decreto del 1934. Questo è stato certamente aggiornato con la normativa contemporanea, ma in tale normativa di carattere generale – che ha il compito di indicare le linee guida e l’attività l’azione dello Stato in materia sanitaria – non si prevede un meccanismo di questo tipo”.

L’anomalia italiana dello “stato di emergenza” di fatto illimitato

In effetti, come vi sarà a questo punto chiaro, quando nel nostro Paese è scoppiata la pandemia, si è effettuata una forzatura ricorrendo alla normazione di emergenza per “mettere una toppa” all’impreparazione, all’ignoranza (nel senso di “non sapere”) e alla mancanza di competenze specifiche di alcune strutture preposte tradizionalmente alla gestione delle emergenze. In pratica, si è cercato in tutta fretta – creando però un precedente pericolosissimo – uno strumento che permettesse di operare al di fuori del controllo e dei limiti costituzionali. Il problema è che, senza che la gente neppure se ne renda conto – trattandosi di un argomento evidentemente tecnico-legale – nel suo utilizzo si sta andando ben al di là dei limiti temporali e dell’ambito previsto dalla legge per lo “stato di emergenza”.

Come spiega molto bene Di Lorenzo nel suo intervento, “la dichiarazione dello stato di emergenza nazionale è prevista dal codice della Protezione Civile: è il Decreto legislativo n.1 del 2 gennaio del 2018. E quello che effettivamente è stato fatto con questa dichiarazione dello stato di emergenza è costituire una sorta di fonte del diritto subdola, perché la si è utilizzata in una maniera impropria. L’unica vera attribuzione che la legge dà alla dichiarazione dello stato di emergenza è una competenza funzionale: quella di attivare una mobilitazione straordinaria del Servizio nazionale di Protezione Civile in presenza di una delle condizioni calamitose indicate dalla legge, in particolare dall’articolo 7 del Codice della Protezione Civile, il quale prevede tre tipi di calamità: le prime due riguardano le regioni; la terza – quella che a noi interessa – ovvero la lettera c, riguarda invece gli eventi calamitosi naturali o derivanti dall’attività dell’uomo che hanno una rilevanza nazionale in questo  momento”.

Di Lorenzo è chiaro: “le particolari attività di protezione civile sono indicate dalla stessa norma.’Protezione Civile’ significa previsione, prevenzione e gestione dell’emergenza, oltre alla soluzione dell’emergenza. Ma stendiamo un velo pietoso sulla soluzione dell’emergenza. Per gestione dell’emergenza si intende qualsiasi tipo di attività coordinata, integrata di soccorso e assistenza alla popolazione. Le attività di previsione riguardano, invece, l’identificazione degli scenari di rischio possibile, mentre le attività di prevenzione sono deputate al contenimento e ad evitare i danni conseguenti all’emergenza. Tutto ciò è alla base dell’attività conseguente la dichiarazione dello stato di emergenza, ma in tutti e quattro i decreti che hanno disposto o prorogato lo stato di emergenza non vi è stato alcun riferimento alla Costituzione, a una norma costituzionale, sebbene in tutti e quattro venga indicata la necessità di attribuzione – quasi un’auto attribuzione – di poteri e mezzi straordinari per far fronte all’emergenza sanitaria”.

Come osserva Di Lorenzo, “ciò costituisce quel vulnus di tutta la normazione emergenziale, perché in questa attribuzione di mezzi e poteri straordinari si dimentica di inserire un suffisso decisivo: ‘di protezione civile’. Ciò apre scenari vastissimi di incompatibilità costituzionale, proprio perché la dichiarazione dello stato di emergenza è stata utilizzata in questo modo impropriamente, oltre i propri limiti, oltre i propri fini e oltre le attribuzioni che la legge dà ad essa, di modo che la dichiarazione dello stato di emergenza è stata considerata come quella fonte del diritto che potesse in qualche modo generare le norme per derogare a quelle provenienti dalla fonti sovraordinate, quindi Costituzione e leggi europee. [..] Sebbene sia consentito attraverso le ordinanze speciali di Protezione Civile una deroga alle leggi in vigore – e stiamo parlando di leggi, non di fonti sovraordinate alle leggi – è necessario che questa eventuale deroga con le ordinanze speciali di protezione civile comunque rispetti i principi generali dell’ordinamento italiano”.

Insomma, lo stato di emergenza nazionale ha l’unica funzione di innescare l’azione di protezione civile, ma poi ci si è allargati parecchio, per usare un gentile eufemismo. E, come sottolinea Di Lorenzo, “se pensiamo che tutto ciò è davanti ai nostri occhi e si traduce nella nostra vita reale, basta aprire la Costituzione, chiudere gli occhi e far cadere il dito in un punto a caso dall’articolo 2 all’articolo 42. Vedrete che questo cadrà certamente su un diritto che viene affievolito dalla normativa emergenziale, compreso anche quello del diritto alla salute, perché se è vero che la lotta alla pandemia in qualche modo rientra nella tutela del diritto alla salute, non è vero il contrario: ovvero, la tutela del diritto alla salute non si esaurisce nella lotta alla pandemia, e questo è un aspetto di compatibilità costituzionale dell’intera normazione emergenziale che va ad abbracciare tutti gli altri aspetti coinvolti, anche e soprattutto quelli sanitari”.

Di Lorenzo spiega poi come l’anomalia italiana riguardi anche la durata dello stato di emergenza: “Il decreto legislativo n.1 del 2018 ci dice che, quando il Consiglio dei ministri delibera lo ‘stato di emergenza nazionale’, ne fissa la relativa estensione temporale l’articolo 24 comma 3, il quale prosegue dicendo che la durata dello stato di emergenza non può essere superiore a 12 mesi e può essere prorogabile per non più di ulteriori 12 mesi. Dalla lettura della norma, quindi, si evince una struttura ‘bifasica’ del termine della durata dello stato di emergenza: una prima fase –  diciamo così – ‘costitutiva e genetica’ che non può durare più di 12 mesi, ed una seconda fase eventuale e di proroga che non può durare per ulteriori massimo 12 mesi”. Nella sua relazione, Di Lorenzo mostra che la prima di queste due fasi è stata, di fatto, fissata dal Governo in 6 mesi (dal 29 di gennaio al 31 di luglio 2020), per cui lo stato di emergenza, con le proroghe, avrebbe dovuto terminare dopo altri 12 mesi, il 31 luglio 2021. Invece, esso è stato di recente ri-prorogato fino al 31/12/21. Il lettore può, a questo punto, facilmente trarre le proprie conclusioni.

Riferimenti bibliografici

[1] Sesa G. et al., “Covid-19 Vaccine passports and vaccine hesitancy: freedom or control?”, The British Medical Journal, 30 marzo 2021.

[2]  Kristi P., “Be ready to pay the consequences: Vaccine passports leave Boston.com readers divided”, Boston.com, 4 maggio 2021.

[3]  Menichella M., “I vaccini anti-COVID: perché ci attende un futuro pieno di incognite”, Fondazione David Hume, 10 marzo 2021.

[4]  Menichella M., “Quale potrebbe essere l’impatto del COVID-19 in Italia nel prossimo autunno-inverno?”, Fondazione David Hume, 28 giugno 2021.

[5] Green A., “How ‘vaccine passports’ could exacerbate global inequities”, Devex, 15 luglio 2021.

[6]  Fiori D., “Tutte le falle del Green pass: da chi non riceve il codice ai guariti con il certificato sbagliato. La corsa a risolvere le criticità prima del decreto”, Il Fatto Quotidiano, 21 luglio 2021.

[7]  Menichella M., ” ‘Pillole’ anti-COVID: quelle che non vi hanno mai dato”, Fondazione David Hume, 25 marzo 2021.

[8]  Kalla T., “Passport or Affidavit: How Vaccine Passports Could Further Divide Populations and Perpetuate Cycles of Inequalities”, Human Rights Pulse, 21 maggio 2021.

[9]  Aratani L., “US split on vaccine passports as country aims for return to normalcy”, The Guardian, 29 aprile 2021.

[10]  Stolberg S.G., “Vaccine passports are the next coronavirus divide?”, Financial Review, 7 aprile 2021.

[11]  Smith T., “Vaccine Passports: ‘Scarlet Letter’ Or Just The Ticket?”, NPR,  9 aprile 2021.

[12]  Dagia N., “Vaccine Passports: Ticket to Freedom or Path to a Divided World?”, The Diplomat, 12 luglio 2021.

[13]  Redazione cronaca di Viareggio, “L’odissea per arrivare al Green pass”, La Nazione, 24 luglio 2021.

[14]  Borga L., “Green pass, 20 milioni ancora esclusi: si teme impatto sull’economia”, SkyTG24, 20 luglio 2021.

[15]  Greco A., “Il Green pass e il vaccino obbligatorio sono costituzionali?”, YouTube, 24 luglio 2021. https://www.youtube.com/watch?v=kbNRdYq0XBo

[16]  Di Lorenzo A., Relazione fatta al Congresso di “Mille Avvocati e Mille medici per la Costituzione” – Verona, 17-18 aprile 2021, e pubblicata su YouTube. https://www.youtube.com/watch?v=f9c04QF3c_E&t=227s

[17]  Menichella M., “Il ‘boom’ dei prezzi e l’impatto del lockdown: l’Italia rischia ora la ‘tempesta perfetta’ “, Fondazione David Hume, 21 aprile 2021.

[18]  AFP USA, “US Government data does not show Covid-19 vaccine death tall”, AFP Fact Check, 19 maggio 2021.




Covid, perché questa Babele informativa?

Che ci sia un conflitto fra favorevoli e ostili alla vaccinazione sta nell’ordine delle cose. Nessuno, infatti, può prevedere completamente le conseguenze delle varie linee di condotta possibili. Inoltre, anche ammesso che tutte le conseguenze siano accuratamente prevedibili, non esiste alcun punto di equilibrio ovvio fra i “beni” che si vogliono tutelare: salute, diritto al lavoro, socialità, libertà di movimento, democrazia, eccetera. E infatti siamo divisi fra quanti ritengono che stiamo dando troppa importanza alla salute, e quanti ritengono che ne stiamo dando troppo poca. Può succedere così che, su certi punti (green pass), Giorgia Meloni sembri pensarla come il filosofo Cacciari, e su altri (obbligo di vaccinazione per i lavoratori) Salvini sembri pensarla come il capo della Cgil Landini.

Questo stato di anarchia del pensiero non deve sorprenderci troppo. Le società democratiche sono per loro natura iper-pluraliste e, quanto alla comprensione del virus e dell’epidemia, le scienze medico-sociali operano con margini di incertezza fortissimi.

E tuttavia c’è, nel modo confuso e cacofonico in cui parliamo di pandemia, vaccinazione, libertà, economia, qualcosa di non ovvio e non giustificato: la proliferazione di credenze false e di tesi tendenziose. Perché è vero che sono tantissime le cose che non sappiamo, ma sono anche parecchie – e importanti – le cose che sappiamo, o di cui siamo ragionevolmente sicuri. Quello cui assistiamo, invece, è la diffusione, anche da parte delle autorità politiche e dei mass media, di informazioni poco chiare, ambigue, fuorvianti, talora semplicemente false. Sicché oggi non esiste un minimo comune denominatore di informazioni condivise da tutti o, perlomeno, dalla stragrande maggioranza della popolazione.

Vorrei fare tre esempi.

Primo: i completamente vaccinati possono infettarsi?

Molti credono di no. E c’è persino chi dice che, poiché sono protetti dalla vaccinazione, i vaccinati non possono imporre alcuna restrizione nei confronti dei non vaccinati (se sono vaccinato, non posso temere il contatto con un non vaccinato). Non solo: se sono immune in quanto completamente vaccinato, non ho alcun bisogno – per proteggermi – di usare la mascherina, né all’aperto né al chiuso.

Bene, questa è una credenza falsa, e lo sappiamo non da ieri, ma fin dall’inizio della campagna vaccinale. Perché è così diffusa? Perché così raramente viene detta la verità, e cioè che il vaccino protegge dall’infezione molto meno di quanto protegga dalla morte o dall’ospedalizzazione?

Fondamentalmente perché pensare di essere invulnerabili è rassicurante (per i vaccinati). E forse anche perché le autorità politico-sanitarie hanno ritenuto che esaltare le virtù del vaccino avrebbe favorito la campagna vaccinale e la ripresa dell’economia, e poco hanno badato alla ovvia obiezione: se non dici tutta la verità sui limiti dei vaccini, i vaccinati prenderanno la palla al balzo per abbassare la guardia.

Secondo: anche i completamente vaccinati, se positivi, possono contagiare gli altri?

Gli scienziati, in modo sostanzialmente unanime, rispondono di sì, aggiungendo che – fortunatamente – il contagio dovrebbe verificarsi con minore probabilità. Il premier Draghi, invece, dice di no, pensando di rassicurare tutti, vaccinati e no. Forse il retropensiero è che se si dicesse verità (anche i vaccinati possono contagiare) la distinzione fra i buoni (vaccinati) e i cattivi (non vaccinati) sarebbe meno netta, e la campagna vaccinale rischierebbe di perdere appeal.

Terzo: siamo a un passo dall’immunità di gregge?

Molti politici (ultimo in ordine di tempo: l’assessore alla sanità del Lazio) credono o fingono di credere di sì. Anche alcuni giornalisti, particolarmente solerti nel promuovere la campagna vaccinale, ne sembrano convinti.

Invece no. Per qualsiasi epidemiologo dotato di una calcolatrice da tavolo è evidente che, con la variante delta e i vaccini attuali (che non sono sterilizzanti) è praticamente impossibile. Se R0 è vicino a 7, si dovrebbe vaccinare con vaccini sterilizzanti (che non abbiamo) almeno l’85% della popolazione, obiettivo chiaramente irraggiungibile senza un vaccino per i bambini e senza obbligo vaccinale.

Che cosa hanno in comune queste tre false e assai diffuse credenze?

Essenzialmente una cosa: ci rassicurano, perché nascondono i lati più inquietanti dell’epidemia. Ma perché nasconderli?

Non lo so. Forse per non rattristare le nostre vacanze. Forse per prolungare il più a lungo possibile il periodo di apertura delle attività. Forse per darci una speranza nel futuro.

Io però vedo anche un’altra spiegazione, meno tranquillizzante. Forse il governo, sulla gestione dell’epidemia, si è già rassegnato a ripetere il film dell’anno scorso, quando il governo Conte scelse di non intervenire durante l’estate e di non preparare in alcun modo il rientro dalle vacanze. Il mix era ed è chiarissimo, ieri come oggi: tamponi insufficienti, nessuna messa in sicurezza delle scuole, nessun rafforzamento del trasporto locale, nessuna riorganizzazione dell’assistenza domiciliare, nessuna app (funzionante) per il tracciamento elettronico dei contatti. Tutte cose che richiedono molti mesi, e non possono certo essere realizzate all’ultimo momento, per di più in agosto.

Con un’importante differenza, fra oggi e ieri. Oggi la politica può brandire l’arma del vaccino, e ha assoluto bisogno di farci credere che basterà a fermare l’epidemia (o a trasformarla in un incomodo con cui potremo convivere), e che se le cose andranno male sarà essenzialmente colpa nostra, che non ci saremo vaccinati in numero sufficiente.

Purtroppo, però, la differenza fra il rientro di quest’anno e quello dell’anno scorso non è solo il vaccino ma è la variante delta, molto più trasmissibile di quelle prevalenti un anno fa (R0 vicino a 7, anziché vicino a 3). E non è tutto: se compariamo il luglio di quest’anno con il luglio dell’anno scorso dobbiamo registrare che il numero di soggetti contagiati è circa 5 volte quello di un anno fa, e il valore di Rt è drammaticamente più alto (prossimo a 1.5, un valore catastrofico, mentre un anno fa fluttuava nei pressi di 1).

Insomma, tutti gli indicatori segnalano che la quarta ondata è in corso dai primi di luglio. La campagna vaccinale è, colpevolmente, l’unica vera arma messa in campo. Usiamola, ma per favore smettiamola di demonizzare i dubbiosi e diffondere incertezza con informazioni false, incomplete, distorte, ambigue. Potrebbe essere proprio una migliore informazione, che non nasconde le ombre e le incertezze della scienza, l’arma vincente per convincere non tanto i pochi Novax (che non sentono ragioni), ma il popolo degli indecisi, che vogliono capire e decidere per il meglio.

Pubblicato su Il Messaggero del 31 luglio 2021




Vaccini, ultima carta

Fino a qualche settimana fa speravo ancora in un cambio di strategia nella lotta contro il virus. Oggi non più. Oggi è evidente che la politica, tutta la politica, ha gettato la spugna. I segnali sono chiarissimi.

Sul versante europeo, innanzitutto. L’accordo su green pass e voli internazionali, secondo cui le compagnie aeree avrebbero dovuto assicurare i controlli, è stato una perfetta presa in giro. La stragrande maggioranza dei passeggeri non vengono controllati né alla partenza né all’arrivo, il che può significare solo due cose: le regole stabilite dalle autorità europee non erano vincolanti, oppure lo erano ma non prevedevano sanzioni.

Le cose non vanno meglio sul versante italiano. I tamponi sono la metà di quelli che si facevano a marzo; da ben 3 settimane l’Rt galoppa al di sopra di 1; da qualche giorno il numero di casi giornalieri ha oltrepassato la soglia (circa 4000 al giorno) che consente il tracciamento. Per tutta risposta il governo sta cambiando i parametri di allarme, puntando sulle ospedalizzazioni (che sono ancora poche, per fortuna) anziché sull’indice di trasmissione Rt e sul numero di casi (incidenza settimanale), che invece stanno crescendo a un ritmo preoccupante e, con le vecchie regole, costringerebbero a far passare alcune regioni in zona gialla. Dunque lo scenario è chiaro: si cercherà di tirare a campare fino a Ferragosto per salvare il turismo, poi, quando saremo arrivati a 30 mila casi al giorno (così dicono le proiezioni), improvvisamente si scoprirà che dobbiamo chiudere tutto il chiudibile.

E a quel punto?

A quel punto, come l’anno scorso, avremo elezioni e ritorno a scuola. E poiché nel frattempo nulla è stato fatto né sul versante del trasporto locale, né su quello della messa in sicurezza delle scuole (per non parlare della riorganizzazione della medicina territoriale), sarà difficile evitare un’ulteriore esplosione dei contagi, anche agevolati dalla fine della bella stagione e della vita all’aperto.

Dunque, non nascondiamocelo: vaccini e green pass a parte, poco si sta facendo per arginare l’esplosione dei contagi. E la scuola non è affatto “una priorità assoluta”, come vorrebbe farci credere il ministro Speranza, ma è l’agnello sacrificale che, per il secondo anno consecutivo, immoliamo in nome del sacro diritto alle vacanze e alla ripartenza.

Detto questo, però, la domanda resta: che fare per limitare i danni?

Spiace essere tranchant, ma – dal momento che le autorità sanitarie hanno deciso, a dispetto della pericolosità della variante indiana, di lasciar correre il virus – non si può che concludere che siamo soli, completamente soli. E ci resta un’unica cosa da fare: provare a limitare i danni vaccinando noi stessi e convincendo gli altri a fare la stessa cosa. La possibilità di scegliere serenamente fra vaccinarsi e non vaccinarsi è un privilegio riservato ai cittadini dei paesi – quasi tutti non europei – in cui l’epidemia è sotto controllo.

Il vaccino, infatti, è l’unica vera arma che ci resta in una situazione in cui, per mille ragioni, si è deciso di rinunciare a usare altre armi, perché giudicate troppo costose o complicate.

Quali sono i vantaggi del vaccino?

Sono essenzialmente tre, uno di tipo altruistico, gli altri due di tipo egoistico.

Il vantaggio altruistico è che le persone vaccinate, pur potendo trasmettere il virus, lo fanno in misura considerevolmente minore. Una persona vaccinata è meno pericolosa per gli altri di una persona non vaccinata. Questo significa che, più persone si vaccinano, più lentamente circola il virus. Il rallentamento indotto dal vaccino, dunque, può controbilanciare (anche se solo in parte) l’accelerazione indotta dalla variante delta.

E veniamo ai due vantaggi egoistici. Il primo è che chi è vaccinato ha minori probabilità di contrarre il virus. Il secondo è che, anche se lo contrae, di norma sviluppa sintomi meno gravi di chi non è vaccinato, e raramente viene ospedalizzato o muore. Sono due vantaggi enormi, che fanno la differenza – esistenzialmente cruciale – fra vivere nell’angoscia e vivere nella consapevolezza di un piccolo rischio.

Questo non significa che la vaccinazione piena (con 2 dosi, o con 1 di Johnson & Johnson) azzeri il rischio di infezione, ospedalizzazione, morte, come alcuni credono. Significa però, ed è decisivo, che i rischi si riducono in modo drastico.

In concreto tutto ciò implica che, ove la quota di pienamente vaccinati si avvicinasse all’80 o al 90%, almeno il numero di ospedalizzati e di decessi potrebbe essere fortemente limitato. E’ a questo che dobbiamo puntare, raggiungendo chi non si può muovere e ragionando con i dubbiosi. Vaccinarci è l’unica arma che ci è stata lasciata in mano, e quindi sarebbe stolto non usarla.

La vaccinazione di massa risolverà ogni problema?

Lo speriamo. Ma pensare che basti, e da sola ci garantisca anni di convivenza pacifica con il virus, potrebbe essere un tantino azzardato. Di per sé, la vaccinazione di massa non esclude due eventualità che dobbiamo sempre tenere presenti. Da un lato, è possibile che, proprio perché si è lasciato circolare il virus, si formino varianti che “bucano” la barriera dei vaccini, o che sono ancora più trasmissibili di quella indiana. Dall’altro, se il virus dovesse infettare quasi tutti, il rischio è che – oltre a scontare un numero di morti non trascurabile – si debba fare i conti con milioni di persone alle prese con il cosiddetto Long Covid, ossia con i postumi più o meno irreversibili della malattia (attualmente si stima che ne siano affetti il 10% dei guariti).

Da questo punto di vista la scelta di cambiare i parametri, abbandonando Rt e l’incidenza settimanale, appare un tantino imprudente. Se la gravità dell’epidemia viene valutata solo o prevalentemente con le ospedalizzazioni, il rischio è che – ancora una volta – ci si accorga del pericolo solo quando l’epidemia galoppa, e i costi economici e sociali per frenarla sono diventati proibitivi.

Pubblicato su Il Messaggero del 24 luglio 2021




Per “Il Foglio” del G8 di Genova verrà ricordato il conflitto ideologico. Gli stracci che volarono passano in secondo piano

Se sulle orme di Theodor W. Adorno, volessimo costruire una Scala T del totalitarismo, sicuramente dovremmo porre, tra le prime caratteristiche della personalità totalitaria l’attitudine a “far di tutta l’erba un fascio” ovvero a unificare “chi è contro di me” in una massa damnationis che non ammette o ritiene irrilevante ogni “distinguo”. I nemici dei nazisti erano gli ebrei, i socialdemocratici, i comunisti, i liberali, i democratici – fossero eredi dell’Illuminismo francese o di quello inglese – i cristiani fedeli all’universalismo etico dei Vangeli, i liberalconservatori legati all’idea dello stato di diritto etc. etc. Tra il (presunto) bene e il (presunto) male non esistono vie di mezzo. La fallacia del piano inclinato (slippery slope) è il manganello di cui si servono i custodi del pensiero unico per liquidare critici e dissenzienti. Se tu sostieni, come ha fatto una sociologa svedese, che la convivenza tra etnie culturali molto diverse comporta problemi di ordine pubblico, sei sulla china che porta alla svastica. E’ la liquidazione del “dialogo”, possibile solo se si suppone che i due interlocutori abbiano qualcosa di interessante – e di veritiero – da dire.

Oggi in Italia non pochi sovranisti fanno pensare alla Scala T ma lo stesso può dirsi degli antisovranisti. In un articolo, assai discutibile, apparso sul “Foglio” del 21 luglio (Nel ventennale del G8 di Genova c’è una grande verità rimossa: gli eredi dei No global oggi si trovano nella destra sovranista), Claudio Cerasa sostiene che i temi che, vent’anni fa, ispiravano i black bloc si ritrovano tutti a destra: l’avversione al mondialismo, alla globalizzazione, all’imperialismo |sic!|, alle oligarchie finanziarie, al neoliberismo, alle multinazionali, al WTO, ai Soros, alle privatizzazioni, all’austerità fiscale, alla liberalizzazione dei movimenti di capitali, il richiamo al primato nazionale. Ne deriva, secondo la più pura logica totalitaria che gli oggetti di avversione sono tra loro solidali, sono anelli congegnati in modo che ciascuno tira l’altro e che non si possono separare senza cadere in una contraddizione logica e in un peccato contro lo spirito. Sei perplesso sui modi in cui si sta costruendo l’unità europea? Significa che t‘ispiri ad Alfredo Rocco e sei un avversario ideologico di Altiero Spinelli. Vorresti una globalizzazione meno imprevidente – per citare il bel volume di Danilo Breschi, Zeffiro Ciuffoletti e Edoardo Tabasso, La globalizzazione imprevidente. Mappe nel nuovo (dis)ordine internazionale (Effici 2020)? Significa che sei un potenziale parlamentare di Fratelli d’Italia. La postazione ideologica in cui si colloca Claudio Cerasa è quella in grado di “associare le politiche portate avanti dal mondo progressista con quelle portate avanti dai difensori del mercato libero”. Insomma, sembra di capire: proliferazione dei diritti individuali (di qualsiasi tipo) più mercatismo, con la messa in soffitta non solo del vecchio Marx (che in soffitta già si trova dal 1911 con la famosa frase di Giovanni Giolitti) ma anche del welfarismo socialdemocratico che, secondo la geniale scienziata politica statunitense, Sheri Berman, ci ha regalato i venti anni migliori del nostro dopoguerra – v. il suo saggio del 2006 significativamente intitolato, Primacy of Politics: So-cial Democracy and the Ideological Dynamics of the Twentieth Century (Cambridge U.P. 2006). E’ la realizzazione dell’incubo di Augusto Del Noce che prevedeva una generazione di Claudio Cerasa che avrebbe liquidato sia la borghesia tradizionale (con i suoi valori vittoriani) sia il proletariato classico, con il suo sogno della rivoluzione anticapitalista.

Cerasa si fa raggiante al pensiero che la sinistra mondiale non sia stata contaminata dalla dottrina “no global” e che i miasmi genovesi siano rifluiti a destra ma, forse, si illude nel minimizzarne l’appeal in certi settori e movimenti politici (lui stessi ricorda Podemos, Mélenchon, Corbyn, Sanders, la Dibba Associati). Sennonché il problema vero è un altro: davvero il mondo si divide in due, global da una parte e no global dall’altra? Davvero chi non sta con gli uni, sta con gli altri secondo uno stile di pensiero che ha un fondamento religioso (“Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me, disperde” Luca 11,14-23) ma che ripugna allo spirito laico e realistico che contrassegna la modernità? Non potrebbero esserci antiglobalisti dubbiosi e moderati e globalisti consapevoli dei problemi indotti da un mondo divenuto un’indivisa comunità di produzione e di scambio? E quanti come Ernesto Galli della Loggia invitano a riflettere sulle “virtù del nazionalismo” – per riprendere l’espressione di Yoram Hazony – sono le quinte colonne di Donald Trump e di Steve Bannon?

In realtà, il disegno dei Cerasa è quello di contarsi, del muro contro muro, di scrivere sulla lavagna della Repubblica resistenziale e democratica l’elenco dei cittadini buoni e dei cattivi. Le tinte sfumate, i “sì..ma”, gli accordi parziali, le mezze misure non sono di loro gusto: redivivi Simplicius del pensiero unico debbono snidare l’avversario, smascherarne connivenze e intenzioni inconfessate.

Sennonché non è neppure questo l’aspetto più controverso dell’articolo di Cerasa. A far riflettere è che per lui l’orrore suscitato dalle devastazioni dei black bloc passa in secondo piano rispetto agli obiettivi ideologici dei dimostranti. “La violenza portata in piazza dai manifestanti per così dire più facinorosi” fa da pendant alla “evitabilissima prova di forza della polizia” ed entrambe concorrono alla “rappresentazione falsata di ciò che quel G8 è stato dal punto di vista storico”. Eh no, caro Direttore, il suo è un caso da manuale di “falsa coscienza” che chiude gli occhi davanti alla realtà e se ne inventa una fittizia per convalidare le sue credenze ideologiche. Per quanti hanno vissuto quelle tragiche giornate le ragioni dei contestatori non hanno contato un bel fico secco: le devastazioni, i danni provocati a negozi e banche, la città messa a soqquadro, le sirene delle forze dell’ordine, gli assalti, il sangue versato hanno lasciato un segno indelebile nella memoria collettiva, hanno mostrato quanto sia precario e difficile il mantenimento dell’ordine in una società democratica come la nostra. Alla posta in gioco (global/no global) non ha pensato nessuno: è la violazione delle più elementari “regole del gioco” a far ricordare quegli eventi come un sogno spaventoso. Mi ha scritto un lettore: “Io ricordo l’amarezza per lo sfregio fatto alla mia città da quei beceri violenti. Che poi le forze dell’ordine (o chi era loro preposto) non abbiano saputo prevenire l’invasione ed abbiano ecceduto nel rivalersi su quelli che hanno acchiappato e che magari non erano i più responsabili, è una faccia della medaglia che aggiunge dispetto”. E’ proprio il riemergere della violenza cieca, irrazionale, incontrollata e incontrollabile che accompagnerà la reminiscenza delle giornate di Genova, indipendentemente da chi protestava contro chi e perché.

Viene il sospetto che Cerasa condivida sostanzialmente un caposaldo dell’ideologia italiana, che non tiene conto di Thomas Hobbes e della fondazione dello stato moderno fondato sul principio che la legge e l’ordine debbano avere la precedenza su tutto, per cui – in uno stato costituzionale e democratico – qualsiasi causa, anche la più giusta, diventa indifendibile se comporta il ricorso alla violenza. Nell’ideologia italiana, invece, è radicata l’idea della cosiddetta “rilevanza etico-politica delle piazze” per la quale cortei, manifestazioni, invasioni di luoghi pubblici, quando non sono mobilitazioni sanfediste, sono sempre un’espressione della “libertà come partecipazione” e vanno giudicati – positivamente o negativamente – per gli obiettivi che si propongono non per l’oggettivo perturbamento dell’ordine pubblico e il vulnus costituito per la convivenza civile. E’ sconfortante che si debba ancora ricordare che la piazza con i suoi furori non ha alcun rilievo né costituzionale né morale se la forza pubblica viene aggredita insultata dileggiata A Genova la polizia di Stato aveva il compito di non fare entrare i dimostranti nel recinto in cui si tenevano incontri e conferenze del G8: giustificare la pretesa di chi non intendeva rispettare il divieto avrebbe dovuto essere impensabile per ogni partito e cultura politica, anche quella di Vittorio Agnoletto, Viviamo, invece, in un paese in cui in primo piano stanno i fini – che, se buoni, fanno dimenticare i mezzi cattivi – sicché per il mainstream culturale oggi dominante, il G8 s’identifica con una battaglia ideologica non con una di quelle esplosioni collettive che società complesse e raffinate come quelle liberaldemocratiche non sanno spesso come gestire.

Quest’idea della piazza come supplente delle istituzioni – quando le istituzioni si orientano in direzioni che a una parte dei cittadini sembrano sbagliate – è qualcosa di cui, temo, non riusciremo a liberarci. Per certi ideologi, lo stato è la dimensione della legalità ma la società civile (che non è un’istituzione ma un contenitore dei più diversi progetti di vita) è la dimensione della legittimità. Se un Parlamento liberamente scelto dagli elettori prende una decisione o emana una legge che gli interpreti della volontà generale ritengono ingiusta, si è autorizzati a scendere in piazza, a scontarsi con poliziotti e carabinieri, a fare pressione su deputati e senatori affinché tornino sui propri passi.

Se invece dell’incontro dei leader delle principali potenze economiche mondiali, si fosse organizzato nel capoluogo ligure un vertice degli statisti dell’Europa orientale contrari alla globalizzazione e se le “nuove” sinistre avessero indetto manifestazioni non autorizzate da prefetti e questori, forse le probabili devastazioni ed erogazioni di violenza avrebbero ricevuto dal “Foglio” (ma anche da altri giornali nazionali) un diverso trattamento. Gli “eccessi” sarebbero stati sempre condannati, beninteso, ma la “giusta causa” li avrebbe fatti passare in secondo piano – come, d’altronde, è capitato agli “eccessi” della Resistenza che la storiografia ufficiale e anpista ha sempre minimizzato, ricorrendo, ma solo nei momenti di sincerità, all’adagio del vecchio azionista Riccardo Lombardi che “per fare una frittata si deve pur rompere qualche uovo”.

Solo a una mente intossicata dall’ideologia poteva venire in mente che il G8 verrà ricordato, nella storia, per il fatto che le sinistre, allora, erano nemiche della globalizzazione e che in seguito si sarebbero ritrovate a pass the whitness a Matteo Salvini e a Giorgia Meloni. Nella mail del mio lettore, al contrario, l’“amarezza per lo sfregio fatto alla città” non ha nulla a che vedere con gli obiettivi dei contestatori Il lettore, non lo escludo, avrebbe potuto anche condividerli, almeno in parte ma in quei giorni vide solo il Cavaliere rosso dell’Apocalisse.