Il martello o la danza: rileggere Pueyo alla luce dei fatti

Le vicende dei paesi del Pacifico, così ben documentate su questo sito dagli articoli di Silvia Milone, richiedono a mio avviso un ripensamento, almeno parziale, del giudizio sugli articoli di Tomas Pueyo, che sono da molti ritenuti il miglior “manuale di istruzioni” per la gestione del Covid-19.

Pueyo, che non è né un medico né un biologo, ma sostanzialmente un esperto di informatica, anche se ha studiato un po’ di tutto, si è imposto all’attenzione generale con un articolo intitolato Coronavirus: Why you must act now (Coronavirus: perché dobbiamo agire adesso, https://tomaspueyo.medium.com/coronavirus-act-today-or-people-will-die-f4d3d9cd99ca). Apparso il 10 marzo 2020 sulla piattaforma digitale Medium, in soli 9 giorni l’articolo ha avuto oltre 40 milioni di visualizzazioni e 53 traduzioni spontanee fatte dagli utenti di Internet per un totale di ben 42 lingue (43 contando l’inglese dell’originale), risultando ancor oggi l’articolo sul Covid più letto in assoluto.

Nonostante l’articolo, lungo ben 31 pagine, contenesse decine di grafici e tabelle, il concetto che intendeva comunicare era fondamentalmente uno solo e anche abbastanza semplice, benché della massima importanza: le epidemie presentano una crescita di tipo esponenziale, per cui bisogna agire con la massima decisione il più presto possibile, anche se la situazione non sembra ancora così grave da giustificare misure drastiche, perché guadagnare anche solo pochi giorni può fare un’enorme differenza.

Purtroppo, al grande interesse teorico per l’articolo di Pueyo non fece seguito una sua coerente traduzione in pratica, perché, come più volte è stato spiegato su questo sito da me e da altri, a cominciare da Ricolfi, i governi occidentali, seguendo il (pessimo) esempio di quello italiano guidato da Giuseppe Conte, fecero esattamente il contrario, rincorrendo l’andamento dell’epidemia anziché anticiparlo. Così ben presto ci si ritrovò con un livello elevatissimo di contagi, proprio come Pueyo aveva previsto.

Nel frattempo, però, appena 9 giorni dopo, il 19 marzo, Pueyo aveva già pubblicato il suo secondo articolo, The hammer and the dance (Il martello e la danza, https://tomaspueyo.medium.com/coronavirus-the-hammer-and-the-dance-be9337092b56), in cui intendeva spiegare come dovevano comportarsi quei paesi (tra cui l’Italia) nei quali il virus si era ormai diffuso su vasta scala. L’idea di base era anche qui abbastanza semplice: in un primo tempo occorre usare il “martello”, cioè delle misure restrittive molto dure per abbattere i contagi, dato che se questi sono troppo numerosi nessun metodo di contenimento può funzionare, per poi passare non appena possibile alla “danza”, cioè, appunto, a un metodo di contenimento, che per Pueyo, come vedremo fra poco, coincide di fatto con il metodo coreano.

Il 2 aprile uscì Out of many, one (Dai molti, uno, https://tomaspueyo.medium.com/coronavirus-out-of-many-one-36b886af37e9), dedicato specificamente alla situazione degli Stati Uniti (il titolo dell’articolo riprende infatti il motto “E pluribus unum” che compare nel loro stemma), che perciò non considererò, se non per notare che anche qui la sua stella polare continua ad essere la Corea del Sud e che per la prima volta Pueyo afferma chiaramente e dimostra persuasivamente che la strategia eliminativa è non solo più efficace, ma anche meno costosa di quella che punta alla sola mitigazione («a Suppression strategy would likely be less costly than a Mitigation strategy», p. 26): un concetto, questo, che i governi occidentali sembrano non aver mai capito, neppure ora, dopo quasi due anni di pandemia.

Il 20 aprile uscì A dancing masterclass (https://tomaspueyo.medium.com/coronavirus-learning-how-to-dance-b8420170203e), scritto in collaborazione con decine di esperti di varie discipline e paesi, prima parte di Learning how to dance (Imparare a danzare), un lavoro monumentale (forse anche troppo, visto che è rimasto incompiuto) in cui Pueyo intendeva tradurre in analisi e istruzioni dettagliate le idee-guida descritte nelle loro linee fondamentali in Il martello e la danza.

A questo articolo seguirono: il 23 aprile il secondo capitolo, The basic dance steps everybody can follow (https://tomaspueyo.medium.com/coronavirus-the-basic-dance-steps-everybody-can-follow-b3d216daa343); il 28 aprile il terzo, How to do testing and contact tracing (https://tomaspueyo.medium.com/coronavirus-how-to-do-testing-and-contact-tracing-bde85b64072e); e infine il 13 maggio il quinto, Prevent seeding and spreading (https://tomaspueyo.medium.com/coronavirus-prevent-seeding-and-spreading-e84ed405e37d), che fu anche l’ultimo.

Il quarto capitolo, infatti, pur annunciato, non è ancora stato pubblicato (così come, di conseguenza, la sintesi finale) e verosimilmente non lo sarà mai. Il motivo non è mai stato spiegato dall’autore, ma non si può fare a meno di notare la progressiva perdita di interesse da parte del pubblico. I suoi primi tre articoli, infatti, hanno avuto complessivamente oltre 60 milioni di visualizzazioni, più di 40 dei quali, però, dovute al primo. Considerando che Out of many, one aveva interesse solo per gli USA e confrontando il numero di like e commenti (rispettivamente 8.100 e 50 contro 106.000 e 526), si può dire che con ogni probabilità Il martello e la danza ha avuto oltre il 90% degli altri 20 milioni di visualizzazioni, cioè più di 18 milioni, mentre Out of many, one ne ha avute meno di 2 milioni.

Pueyo non ha mai fornito dati sulle visualizzazioni degli articoli successivi (il che già di per sé è un segnale negativo), ma non devono essere state molte, dato che all’inizio del suo ultimo articolo, The Swiss cheese strategy (La strategia del groviera, https://tomaspueyo.medium.com/coronavirus-the-swiss-cheese-strategy-d6332b5939de), uscito l’8 novembre 2020, continuava a riportare lo stesso dato («Our Coronavirus articles have been read more than 60 million times»). Ciò è inoltre confermato dal crollo verticale sia dei like e dei commenti, sia (dato ancor più significativo) delle lingue in cui gli articoli sono stati tradotti dagli utenti: rispettivamente 18, 15, 13 e 8 per i quattro capitoli pubblicati di Imparare a danzare.

Dopo altri tre articoli dedicati a temi più specifici e sempre di basso impatto, Pueyo concluse provvisoriamente la sua opera sul Covid l’8 novembre 2020 con l’appena menzionato La strategia del groviera, scritto di nuovo da solo e molto più vicino allo stile dei primi due, dopodiché se ne disinteressò per quasi un anno. Ci è ritornato solo il 15 settembre 2021 con The most alarming problem about Long COVID, un articolo sugli effetti di lungo periodo del Covid (https://tomaspueyo.medium.com/the-most-alarming-problem-about-long-covid-9929af7fabb9) che però è sostanzialmente caduto nel nulla, anche perché si tratta di un tema specificamente medico, campo cui lui non ha alcuna competenza e in cui non basta l’abilità nell’analizzare i dati per dire qualcosa di significativo.

Quindi Pueyo si è dedicato ad altri temi, ma anche qui senza mai avvicinarsi nemmeno lontanamente allo sfolgorante e probabilmente irripetibile successo degli inizi: basti dire che l’articolo più recente da lui pubblicato su Medium, How to fight ocean plastic (https://tomaspueyo.medium.com/?p=3dfd38edd824), al 31 dicembre 2021 aveva ottenuto appena 178 like e 5 commenti, contro i 247.000 like e i 902 commenti del suo primo articolo.

Che dobbiamo pensare di tutto ciò? Si potrebbe semplicemente dire che “sic transit gloria mundi” e soprattutto quella del mondo di Internet, ma credo che stavolta ci sia qualcosa di più.

Infatti, mentre Perché dobbiamo agire adesso è ancor oggi condivisibile quasi al 100%, lo stesso non si può dire di Il martello e la danza, cioè il lavoro di Pueyo che ha avuto le maggiori probabilità di influire sulle decisioni reali dei governi (anche se è praticamente impossibile dire in che misura l’abbia fatto davvero). Esso è infatti uscito proprio nel momento in cui i principali paesi occidentali cominciavano a adottare le prime vere misure di contenimento, venendo subito tradotto in ben 39 lingue (40 con l’originale inglese) e, soprattutto, potendo sfruttare l’effetto di trascinamento prodotto dal successo planetario del primo articolo.

Purtroppo, però, a differenza di quest’ultimo, qui c’è veramente tutto e il contrario di tutto, sicché, insieme a molte idee sicuramente giuste (peraltro quasi tutte riconducibili al “dobbiamo agire subito” del primo articolo), vi ritroviamo anche tutti i principali errori che abbiamo commesso: dall’eccessiva insistenza sul lavaggio delle mani e sull’uso delle mascherine alla mancanza della prevenzione del contagio via aerosol, dalla sottovalutazione dei contagi negli uffici e nelle fabbriche all’eccessiva insistenza sugli assembramenti all’aperto, fino alla valutazione positiva del coprifuoco (la misura più stupida di tutte e, in certo senso, la sintesi di tutti i nostri errori, dato che unisce tutte le idee sbagliate appena elencate al “linguaggio di guerra” irresponsabilmente adottato dai governi occidentali).

Questa tendenza si è ulteriormente accentuata nelle varie parti di Imparare a danzare, che per di più sono state scritte col contributo di così tante persone che è impossibile perfino dire esattamente quante. Questo ricorda da vicino gli errori commessi dai nostri governi anche dal punto di vista del metodo, dato che essi sono stati (e continuano purtroppo ad essere) il frutto di una babele di opinioni che si intrecciano freneticamente, senza una chiara idea di fondo che le unifichi e soprattutto senza una guida autorevole che si prenda la responsabilità di indicarla, col risultato che le decisioni vengono prese sostanzialmente a caso, in base a chi grida più forte o sulla spinta dell’emotività. Non è dunque tanto strano che l’interesse dei lettori di Pueyo sia rapidamente scemato, visto che è altrettanto rapidamente scemata anche la qualità dei suoi articoli.

Questo, però, non è tutto. È proprio l’idea di fondo che lascia a dir poco perplessi, secondo me già allora, ma in ogni caso di certo almeno oggi, alla luce dei fatti successivi. Infatti, se si può capire che all’inizio dell’epidemia si possa preferire la “danza” al “martello” in quanto meno traumatica, quello che invece appare del tutto incomprensibile è perché mai, una volta che (per necessità o per scelta) si sia optato per la “martellata”, non si dovrebbe poi tirarla fino in fondo, cioè fino alla totale eliminazione del virus. E ciò suona ancora più strano considerando che poco prima Pueyo aveva affermato in modo inequivocabile che la strategia che punta all’eliminazione del virus non solo è la migliore, ma è l’unica accettabile («Everybody should follow the Suppression Strategy»).

Eppure, poco oltre non solo Pueyo afferma che una volta che il tasso di trasmissione (il famoso R) sia sceso sotto 1 si deve fermare il “martello” per passare alla “danza”, cioè al contenimento, ma addirittura sostiene che quest’ultimo dovrebbe essere calibrato in modo tale che R resti sempre il più possibile vicino a 1, anche se in media sempre al di sotto di esso («during the Dance of the R period, they want to hover as close to 1 as possible, while staying below it over the long term term», The hammer and the dance, p. 28).

Ora, questo non è solo concettualmente sbagliato, ma è un’autentica follia, perché significa auto-costringerci a vivere perennemente sul filo del rasoio, con il rischio continuo (che alla lunga inevitabilmente si realizzerà) che la situazione ci sfugga di mano e si debba tornare al “martello”. E, di fatto, questo è esattamente ciò che è accaduto (e continua tuttora ad accadere) in Italia e un po’ in tutto l’Occidente, con i catastrofici risultati che ben conosciamo.

La spiegazione che dà Pueyo di questa clamorosa contraddizione è che ciò permetterebbe di eliminare le misure più pesanti, che alla lunga risulterebbero troppo onerose («That prevents a new outbreak, while eliminating the most drastic measures», The hammer and the dance, p. 28). Ma questo è falso (cfr. Luca Ricolfi, La notte delle ninfee, La Nave di Teseo, Milano 2021) e la cosa più sconcertante è che, come abbiamo detto prima, in Out of many, one, uscito appena due settimane dopo, Pueyo stesso dimostrerà che in realtà sono proprio le misure più drastiche ad essere le meno costose. Anche ammettendo che al momento della pubblicazione di Il martello e la danza non l’avesse ancora capito, perché non correggerlo successivamente, trattandosi di un articolo online pubblicato in un suo spazio personale e quindi modificabile in qualsiasi momento?

A questo punto, come suol dirsi, la domanda sorge spontanea: da dove vengono queste apparentemente inspiegabili incongruenze all’interno di un’analisi che per tanti altri aspetti è invece così precisa?

In realtà una spiegazione c’è, ed è che per Pueyo sembra esistere un unico modello di successo, cioè quello della Corea del Sud. Ciò si spiega col fatto che all’inizio della pandemia la Corea era sembrata per qualche tempo il paese messo peggio al mondo dopo la Cina e poi quello che si era ripreso più rapidamente, sempre dopo la Cina. Così, lasciata da parte quest’ultima, che, essendo una dittatura, non poteva costituire un modello per i paesi democratici, Pueyo si è concentrato sulla Corea e non ha mai considerato seriamente nessun’altra strategia,

Ciò si vede chiaramente dal fatto che ogni volta che parla di qualcuno degli altri paesi che hanno avuto successo nella lotta al virus tende invariabilmente ad assimilare la loro strategia a quella coreana (senza rendersi conto delle differenze) oppure a sottovalutarla (senza rendersi conto dei risultati). Per esempio, in Il martello e la danza Pueyo equipara sbrigativamente i sistemi di Taiwan e Singapore a quello coreano. Inoltre, nella nota finale a tutte le 4 parti pubblicate di Imparare a danzare scrive esplicitamente che i suoi modelli sono «Taiwan, Singapore, Cina e Corea del Sud» («In Part 1, we discuss best practices from Taiwan, Singapore, China and South Korea»), nemmeno menzionando Australia e Nuova Zelanda.

Peraltro, contraddittoriamente, Pueyo conclude la nota suddetta scrivendo che «la maggior parte dei paesi non stanno approcciando bene il tracciamento dei contatti» e che «continuando così faranno la fine di Singapore» («Most countries are not approaching contact tracing right. If they continue their current path, they will end up like Singapore»), il che non solo è contrario a quanto lui stesso aveva scritto poche righe prima, ma anche e soprattutto ai fatti, visto che Singapore è uno dei paesi che meglio hanno gestito l’epidemia, benché non abbia mai adottato il tracciamento elettronico in stile coreano (cfr. Silvia Milone, Il successo del sistema misto di Singapore, https://www.fondazionehume.it/societa/il-successo-del-sistema-misto-di-singapore/).

È vero che tra i primi di aprile e la fine di maggio del 2020, cioè esattamente nel periodo in cui sono uscite le quattro parti di Imparare a danzare, a Singapore c’era stata un’improvvisa impennata dei contagi nei dormitori destinati ai lavoratori stranieri. È altrettanto vero, però, che si era trattato di un focolaio grande ma isolato e che il numero di contagi poteva essere considerato alto solo in relazione a quello, bassissimo, dei mesi precedenti, mentre il numero dei decessi (20 in due mesi, cioè uno ogni 3 giorni) era stato bassissimo in qualsiasi modo lo si volesse considerare. Forse all’epoca questo non era ancora così evidente, ma, di nuovo, perché non correggere questa affermazione nemmeno successivamente, quando è diventato chiaro che era clamorosamente sbagliata?

Certo, su questa indisponibilità a modificare il suo punto di vista e sulla sua apparente indifferenza verso le contraddizioni suddette ha probabilmente influito anche l’inatteso successo planetario del primo articolo, che ha spinto Pueyo a scrivere tutti gli altri nel giro di appena due mesi (a parte l’ultimo, che infatti è molto più coerente). Con ritmi del genere e con una così grande quantità di tematiche, non c’è da stupirsi che non abbia avuto il tempo (né, probabilmente, la voglia) di rimettere in discussione la sua stella polare, su cui si basava tutta la sua impostazione teorica e a cui doveva tutta la sua fortuna.

Se però questa può essere la spiegazione del suo comportamento, non può esserne anche la giustificazione, soprattutto considerando che, come si è detto, Pueyo non ha modificato le sue convinzioni neanche successivamente, quando i limiti del modello coreano sul lungo periodo sono diventati sempre più evidenti, così come la maggiore efficacia di altri modelli, soprattutto quello della Nuova Zelanda. Ma la Nuova Zelanda è esattamente l’unico paese di cui Pueyo non parla mai: in tutti i suoi articoli a parte l’ultimo la nomina in tutto due volte e sempre di sfuggita, il che è davvero incredibile, ma certamente niente affatto casuale.

L’unico articolo in cui ne ha parlato (e anche qui brevemente) è stato La strategia del groviera, non a caso molto meno ambizioso, ma sicuramente molto più utile di Imparare a danzare. In esso Pueyo auspica l’uso contemporaneo di diverse strategie di difesa, in modo tale che se il virus ne supera una venga bloccato da un’altra, proprio come accade in una serie di fette di groviera sovrapposte: ciascuna di esse ha dei buchi che la attraversano da parte a parte, ma se le fette sono abbastanza numerose nessun buco riuscirà ad attraversarle tutte.

Qui Pueyo ha dedicato un breve paragrafo anche alla Nuova Zelanda e all’Australia, ma senza coglierne la specificità e minimizzando i successi da loro ottenuti (che a quel punto, a novembre del 2020, erano veramente clamorosi, anche rispetto agli altri paesi del Pacifico) con il solito ritornello per cui essi sarebbero dovuti essenzialmente al fatto di essere isole con una densità di popolazione molto bassa. Ma questa è una considerazione superficiale e fuorviante, che stupisce molto in un autore che certamente superficiale non è.

Infatti, la bassa densità di popolazione dei due paesi oceanici è un mero dato statistico, del tutto irrilevante ai nostri fini, dato che si deve essenzialmente al fatto che gran parte del loro territorio è disabitato. Tuttavia, nella parte abitata la loro densità di popolazione è sostanzialmente la stessa dei paesi europei: oltre il 60% dei neozelandesi vivono infatti in due sole città, Auckland e Wellington, entrambe più grandi di Milano, mentre gli australiani stanno quasi tutti sulle strette fasce costiere orientali e meridionali, lasciando l’immenso Outback desertico ai canguri e ai pochi aborigeni sopravvissuti, nonché ad alcuni gruppi di coloni sparpagliati in qualche migliaio di chilometri quadrati intorno ad Alice Springs.

Di conseguenza, i problemi che hanno dovuto affrontare sono stati del tutto simili ai nostri, ma i loro risultati sono stati enormemente migliori. E questo si deve, evidentemente, alla loro strategia, che è molto diversa da quella coreana, ma non meno efficace: anzi, sul lungo periodo si è addirittura rivelata più efficace, così come anche quella di Singapore, altro paese poco capito da Pueyo.

Ma c’è di più. Infatti, non solo l’alternanza martello-danza è chiaramente insensata, ma la stessa idea della “danza”, cioè del contenimento del virus in stile coreano messa in atto fin dal principio, appare oggi assai più discutibile, alla luce di quanto accaduto negli ultimi mesi. Infatti, rispetto al 13 maggio 2020, quando Pueyo pubblicava l’ultima parte di Imparare a danzare, la Corea del Sud ha avuto uno dei peggiori incrementi di mortalità al mondo: ben 21 volte, mentre in Italia, per esempio, nello stesso periodo la mortalità è cresciuta “solo” di circa 5 volte.

Certo, questo si deve al fatto che allora la sua mortalità era bassissima (centinaia di volte più bassa della nostra), per cui è bastato un piccolo numero di morti per farla crescere moltissimo in termini relativi, benché in termini assoluti sia tuttora enormemente inferiore alla nostra. Ma questo vale anche per la Nuova Zelanda, la cui mortalità è invece cresciuta di appena 2 volte. E ciò dipende dal fatto che, diversamente da quelle di Nuova Zelanda, la strategia coreana non è realmente eliminativa: è anch’essa una strategia di convivenza con il virus, che si differenzia dalla nostra solo per il fatto di essere molto più efficiente e, di conseguenza, “a bassa intensità”.

Questo spiega anche perché Pueyo abbia sempre detto che il lockdown non può eliminare completamente il virus. Infatti, il lockdown coreano è molto più simile (benché molto più efficiente) al semi-lockdown all’italiana che non al vero lockdown in stile neozelandese, che invece, come i fatti hanno dimostrato, è in grado di azzerare il contagio (cfr. Paolo Musso, Jacinda forever: perché il metodo neozelandese è migliore di quello coreano, https://www.fondazionehume.it/societa/jacinda-forever-perche-il-metodo-neozelandese-e-migliore-di-quello-coreano/).

Insomma, a conti fatti non sarei così sicuro che Pueyo in Occidente non sia stato ascoltato. Non lo è stato di certo (purtroppo) per quanto riguarda il suo primo articolo, che era anche il più importante, ma per il resto quello che abbiamo fatto non è stato poi così diverso da ciò che lui auspicava, anche se di sicuro non lo abbiamo fatto (neanche lontanamente) con l’efficienza che lui auspicava. Ma l’esempio della Corea ci dimostra che sul breve periodo la “danza” può funzionare, ma sul lungo periodo non è la strategia migliore, neanche se eseguita con il massimo di efficienza umanamente possibile. Quindi, anche se avessimo seguito alla lettera tutti i suggerimenti di Pueyo le cose sarebbero andate sicuramente meglio di come sono andate, ma probabilmente non tanto quanto lui e i suoi ammiratori ritengono.

Concludendo, ciò che si può ricavare da una rilettura delle teorie di Pueyo alla luce dei fatti successivi è innanzitutto la necessità di agire sempre e comunque il più rapidamente possibile. Quanto alla strategia da scegliere, se un’epidemia viene presa per tempo e se ci si può ragionevolmente aspettare che non duri troppo a lungo, allora la “danza”, cioè il metodo coreano, può andar bene, perché certamente crea meno traumi. Ma se così non è, allora è meglio passare subito al “martello” (ovvero al lockdown alla neozelandese) e usarlo fino in fondo, il che, se fatto con sufficiente decisione e rapidità in tutto il mondo, potrebbe addirittura stroncare l’epidemia sul nascere e impedirle di trasformarsi in pandemia. La “strategia del groviera” può essere usata come “rinforzo” del “martello” oppure come suo sostituto se per una qualsiasi ragione esso non dovesse avere successo (come è purtroppo accaduto da noi): anche in questo caso, però, bisognerebbe sempre puntare alla eliminazione del virus e non alla convivenza con esso, perché è ormai chiaro che sul lungo periodo quest’ultima non funziona.

Se questi sono dunque i principali insegnamenti di Pueyo, il suo principale errore si può invece riassumere tutto in una congiunzione: infatti non è “il martello e la danza”, ma “il martello o la danza”. E tutti i nostri guai sono nati non dal dover scegliere tra le due alternative, ma dal non aver saputo (o voluto) farlo.




Liberismo sanitario

Ero già stupito a fine ottobre, quando i primi chiari segnali di ripartenza dell’epidemia (incidenza e Rt) vennero ignorati dalle nostre autorità politiche e sanitarie. Da allora non ho fatto che ristupirmi, perché né la scoperta di omicron e della sua trasmissibilità, né i rischi connessi alle vacanze natalizie hanno condotto al varo di misure tempestive e incisive. Ma ieri il mio stupore si è trasformato in incredulità. Nel giorno in cui i contagi hanno superato la cifra record di 200 mila casi al giorno, il Consiglio dei ministri ha deciso che entro lunedì 10 gennaio tutti gli ordini di scuole riapriranno, e che solo nelle scuole materne lo faranno con la cautela minima necessaria, ossia con la regola: se c’è anche un solo positivo in classe la frequenza si interrompe per tutti. Non me lo aspettavo, non tanto perché lo giudico molto imprudente (a decisioni che considero incaute sono abituato da due anni, ma può essere che sia io a essere troppo cauto), ma perché sui rischi di apertura si erano espressi chiaramente molti presidenti di regione e molti dirigenti scolastici. I primi invocando il via libera preventivo del Comitato tecnico-scientifico, i secondi spiegando dettagliatamente perché le scuole e le Asl non erano in condizione di garantire un rientro “in sicurezza”.

Quando succede una cosa che non ti aspetti, la domanda da farsi non è “perché sbagliano?” ma “che cosa gli fa pensare di fare la cosa giusta?” Perché se l’esecutivo agisce come agisce, e il Comitato tecnico-scientifico avalla tacendo, una logica ci deve pur essere. Ma quale può essere questa logica?

A me pare che la logica che guida la filosofia di “apertura a oltranza” poggi su una scelta di fondo, maturata e ribadita innumerevoli volte in questi mesi: lasciamo pure correre i contagi, tanto – grazie ai vaccini – si muore poco e si va poco in ospedale. Questa scelta di “liberismo sanitario”, paradossalmente, è stata rafforzata e non indebolita dalla comparsa della variante omicron, di cui si è preferito sottolineare la mitezza condizionale (“poco più di un raffreddore, se si è vaccinati”) che l’estrema contagiosità. Di qui l’idea che il vero problema sia la resistenza del popolo novax, e che obbligando tutti a vaccinarsi usciremo dall’incubo.

Ma regge questo ragionamento?

Sfortunatamente no. La scommessa liberista è incompatibile con i dati su quattro punti fondamentali.

Primo, l’esperienza degli altri paesi mostra che la vaccinazione di massa è necessaria ma non sufficiente a fermare il contagio. Lo mostra senza ombra di dubbio il fatto che Rt è sopra la soglia critica di 1 in tutte le società avanzate, compresi i paesi che hanno vaccinato tutti i vaccinabili  (Portogallo) o sono molto avanti con le terze dosi (Israele, Regno Unito).

Secondo, noi discutiamo come se il nostro problema fossero i 5 milioni di maggiorenni non vaccinati, o i 2 milioni di ultra-cinquantenni non vaccinati (che sarebbero tenuti a vaccinarsi entro metà febbraio), ma i non vaccinati sono ben 11 milioni, di cui circa 3 non vaccinabili in assoluto (bambini fino a 4 anni), e altri 3 (bambini da 5 a 11 anni) vaccinabili solo nei casi in cui i genitori superassero i loro dubbi, peraltro condivisi da una parte della comunità scientifica e delle istituzioni sanitarie (nel Regno Unito la vaccinazione dei più piccoli non è ammessa). Tutto questo significa che l’obbligo per gli ultra 50-enni, ove venisse rispettato integralmente, coprirebbe circa il 20% della popolazione non vaccinata, mentre più del 50% del problema sta precisamente negli allievi delle scuole materne, elementari e medie, che ci apprestiamo a riaprire da lunedì.

Terzo, oggi il problema principale non è che 5 milioni di adulti non si vogliono vaccinare, ma che 15 milioni di adulti non riescono a farlo, perché gli hub vaccinali non sono in grado di coprire la richiesta di terze dosi per coloro che hanno perso la protezione.

Quarto, il calcolo secondo cui possiamo permetterci di lasciar correre il contagio perché la probabilità di ammalarsi gravemente è bassa, si scontra con l’aritmetica dell’epidemia: se la letalità si dimezza, ma i contagi quadruplicano (cosa per cui bastano 2 settimane), il numero di morti e di ospedalizzati raddoppia, rendendo catastrofica una situazione che negli ospedali di molte regioni è già oggi drammatica.

Ecco perché dicevo che la scommessa liberista di lasciar correre i contagi è incompatibile con i dati, ovvero con quel che si sa dei meccanismi che governano questa epidemia. Qualsiasi cosa si pensi del perché siamo arrivati fin qui, è difficile non prendere atto che lasciar (ancora) correre il virus è un azzardo che non ha alcun supporto nei dati.

Possiamo dolerci della chiusura delle scuole e del ritorno alla Dad, ma se siamo lucidi dovremmo riconoscere che è prima che avremmo dovuto tutelarle, le nostre amate scuole, con le tante cose che sono state invano proposte, dall’aumento delle aule alla ventilazione meccanica controllata. Ora ci resta solo da prendere atto che rimandarne l’apertura, come per primo ha proposto il governatore della Campania, non è certo la soluzione, ma è il minimo sindacale per provare a rallentare l’epidemia.




Assalto di branco

La pacca sul sedere alla giornalista sportiva Greta Beccaglia ha fatto versare fiumi d’inchiostro e per parecchio tempo giornali locali e nazionali, nonché reti televisive hanno commentato l’increscioso episodio con parole di fuoco. L’aggressione sessuale è stata considerata intollerabile e il tifoso, autore del gesto, è stato additato come un mostro e denunciato per violenza sessuale.

Risulta perciò tanto più incredibile che sulle violenze di gruppo perpetrate a Milano la notte di Capodanno da parte di un branco di maschi nei confronti di giovani ragazze (almeno cinque i casi registrati) per giorni non sia stata data alcuna notizia.Timidamente e solo dopo alcuni giorni Il Corriere della sera per primo e poi, buon ultima, La Repubblica hanno dato spazio alla notizia seguiti dai telegiornali nazionali.

Eppure i fatti rivelano, come si evince dai due video che sono circolati in rete, una carica di aggressività e di ferocia che fa paura. Il cerchio di maschi urlanti e assatanati che si stringono attorno alle giovani vittime denota una prepotenza misogina sconfinata e la convinzione di poter godere dell’impunità. I fatti sono avvenuti in pieno centro, in Piazza Duomo, nel cuore di una Milano in festa illuminata a giorno e presidiata da forze di polizia che avrebbero dovuto garantire il massimo della sicurezza.

La voce della segretaria del Pd milanese ha definito ‘strazianti’ le immagini della violenza di branco contro giovani ragazze inermi, ma ha poi intonato la solita litania generica sulla persistenza del patriarcato nella nostra società e sulla necessità che la scuola educhi al rispetto. Il sindaco Sala ha parlato di molestie indegne di una città come Milano, che si presenta come capitale morale, smart e all’avanguardia. Solo Sardone ha messo in evidenza l’analogia tra i fatti di Milano e quanto accaduto a Colonia nella notte di Capodanno del 2016, quando gruppi di giovani immigrati hanno aggredito e stuprato decine di donne giovani e meno giovani che festeggiavano in piazza.

Perché questa minimizzazione, questo passare sotto traccia il fatto che gli assalitori parlavano arabo? Cosa si vuole nascondere?

Scrive Bhakti Patel, giornalista di Womenplanet: “Si tratta di un attacco sessuale su donne che non avviene in un bosco o in strade solitarie. È l’assalto di un gruppo di uomini a donne nello spazio pubblico, sotto gli occhi di centinaia di altri uomini che possono assistere al crimine odioso cui sono sottoposte la vittime. Questo atto barbarico ha fatto la sua prima comparsa in Egitto più di dieci anni fa e si è diffuso in Europa attraverso immigrati e rifugiati che si sono riversati nel vecchio continente dopo il periodo delle rivoluzioni arabe. Il primo episodio è stato registrato al Cairo, durante le manifestazioni per il referendum costituzionale del 25 Maggio 2005.” In quella occasione furono aggredite attiviste e ragazze egiziane che partecipavano alle manifestazioni.

E come non ricordare Lara Logan, corrispondente della CBS, che è stata assalita da duecento uomini per trenta minuti in piazza Tahrir, prima di essere messa in salvo da un gruppo di donne e soldati. Questa pratica ha un nome preciso si chiama in arabo Taharrush jama’i e da quel lontano 2005 ha preso piede nelle piazze in lotta delle primavere arabe, ma è arrivata anche da noi sia pure in tutt’altro contesto.

Il messaggio esercitato grazie alla forza è chiaro: lo spazio pubblico è di esclusiva appartenenza maschile e va interdetto alle donne. Se osano avventurarsi da sole, in piazza, nel luogo del dominio maschile, sappiano che diventano delle prede. Questo dato va taciuto o la stampa deve metterlo in evidenza? A onor del vero sulla pagina di Wikipedia le aggressioni di Milano sono state subito ascritte alla pratica barbarica del Taharrush jama’i. Ma allora perché stampa e televisioni nazionali, che si fanno vanto di svolgere un compito fondamentale di informazione hanno minimizzato e chiuso gli occhi? Che cosa va nascosto ? Che le differenze culturali ci sono e sono difficili da superare ? Che se un crimine di questa gravita è commesso da giovani immigrati o figli di immigrati è meno grave? Che se gli autori vengono dalle periferie disagiate della città i mass media non devono dedicare alla cosa la stessa attenzione?

Abbiamo combattuto duramente per conquistarci il diritto di uscire e abitare lo spazio pubblico e non ce lo faremo scippare certo per un malinteso senso di compiacenza verso maschi trogloditi che di strada ne devono fare se vogliono vivere tra noi ed essere rispettati.




Nuova Zelanda: i primi della classe

Martedì 17 agosto 2021 i cittadini neozelandesi hanno ricevuto sui propri cellulari un messaggio inaspettato: la Nuova Zelanda era entrata nel livello di allerta 4 e così, dopo quasi 15 mesi dalla fine del primo, iniziava ufficialmente un nuovo lockdown. Era successo che un uomo di 58 anni che si era recato da Auckland nel Coromandel (un territorio situato nel nord-est dell’isola) al suo ritorno era risultato positivo alla variante Delta. È bastato quindi che una sola persona fosse risultata contagiata dal Covid su territorio neozelandese perché l’intera nazione si fermasse.

Per capire il senso di questo provvedimento, che in altri paesi potrebbe apparire ridicolo, se non addirittura folle, bisogna capire la logica della peculiare strategia di prevenzione in vigore nel paese fin dall’inizio della crisi.

La Nuova Zelanda aveva infatti registrato il suo primo caso di Covid il 28 febbraio 2020. Dopo tre settimane esatte, durante le quali cui si era seguita una strategia di contenimento in stile sudcoreano, la giovane premier Jacinda Ardern, vedendo che gli 8 casi rilevati fino al 15 marzo negli ultimi giorni avevano iniziato ad aumentare sempre più rapidamente, decise di cambiare radicalmente metodo, puntando a stroncare il contagio sul nascere anziché cercare di conviverci.

L’azione del governo da lei guidato fu rapidissima. Il 19 marzo vennero chiuse le frontiere a tutti i non residenti, mentre il 21 venne varato un sistema basato su 4 livelli differenti di allerta, così definiti sul sito ufficiale del governo (cfr. New Zealand Government, COVID-19 Alert System, https://covid19.govt.nz/alert-system/#:~:text=New%20Zealand%20has%20a%204,measures%20we%20need%20to%20take.&text=Advice%20on%20international%20travel%2C%20what,safely%20travel%20within%20New%20Zealand.):

Livello di allerta 1: «COVID-19 non è controllato all’estero. La malattia è contenuta in Nuova Zelanda e ci sono sporadici casi importati, ma potrebbe verificarsi una trasmissione familiare isolata». Esso prevede misure simili a quella adottate da noi a partire dal 21 febbraio 2020 fino all’inizio del semi-lockdown di marzo e poi di nuovo nell’estate 2020, ma anche controlli rigorosi alle frontiere e soprattutto il «tracciamento rapido dei contatti di qualsiasi caso positivo», misure previste anche per tutti i livelli successivi.

Livello di allerta 2: «La malattia è contenuta, ma rimane il rischio di trasmissione comunitaria. Potrebbe verificarsi trasmissione domestica e focolai di cluster singoli o isolati». Le misure previste sono simili a quelle del regime di “semi-lockdown non dichiarato” applicato in Italia a partire dal 3 novembre 2020 con il sistema dei “tre colori”.

Livello di allerta 3: «C’è un alto rischio che la malattia non sia contenuta. Potrebbe essere in corso una trasmissione comunitaria. Possono emergere nuovi cluster, ma possono essere controllati tramite test e tracciamento dei contatti». Le misure previste corrispondono all’incirca a quelle messe in atto da noi nel semi-lockdown dichiarato di marzo 2020.

Livello di allerta 4: «È probabile che la malattia non sia contenuta. Si sta verificando una trasmissione di comunità sostenuta e intensa e ci sono epidemie diffuse e nuovi cluster». Le misure previste sono quelle del lockdown vero e proprio, che da noi non è mai stato applicato, in cui si chiudono tutte le attività non vitali per la sopravvivenza e chi non lavora in una di esse può uscire di casa solo per fare la spesa.

Come chiunque può verificare da sé al link indicato, «l’Italia ha sempre adottato misure di contenimento che secondo il protocollo neozelandese erano inferiori di almeno un livello (e talvolta anche di due) rispetto a quello in cui il nostro paese si trovava […]. E tenete presente che a noi è sempre mancato il tracciamento dei contagi e spesso anche il controllo rigoroso delle frontiere, che invece in Nuova Zelanda sono previsti a tutti i livelli» (Paolo Musso, Un anno con il virus, Parte 2, in Nuova Secondaria, anno 38, n. 10, pp. 20-26).

In sole tre settimane la signora Ardern aveva capito due cose fondamentali, che né i nostri politici né i nostri esperti hanno ancora capito dopo quasi due anni. La prima è che la risposta a un’epidemia è tanto più efficace quanto più è “hard and early”, cioè “dura e precoce”, per dirla con il motto dei mitici All Blacks, simbolo della Nuova Zelanda. La seconda è che i dati sono importantissimi, ma non basta raccoglierli: bisogna anche saperli interpretare, per individuare quelli davvero importanti.

E così, mentre da noi il governo Conte ancora nell’autunno del 2020 si vantava dei 21 parametri su cui si basava la sua “strategia dei tre colori”, che aveva trasformato l’Italia in un “semaforo” impazzito che faceva continuamente cambiare le regole senza riuscire a contenere efficacemente il virus, sei mesi prima la giovane premier neozelandese aveva già capito che bisognava concentrarsi su uno solo: due settimane, ovvero il tempo massimo di incubazione del virus, il che significava che se si riusciva a impedire tutti o quasi tutti i contatti interpersonali per un periodo di poco superiore – diciamo tre settimane – il contagio sarebbe inevitabilmente andato a esaurimento. E così è stato.

Il livello di allerta venne progressivamente elevato fino a raggiungere il livello 4 – quello del “vero” lockdown – il 25 marzo. Il 28 marzo si ebbe il picco dell’epidemia, con 146 nuovi contagi e il primo morto (per ovvie ragioni, l’andamento delle morti è sempre spostato un paio di settimane in avanti rispetto a quello dei contagi). Il 14 aprile ci fu il picco dei morti (“picco” per modo di dire, dato che furono appena 4, cioè nemmeno 1 ogni milione di abitanti). Il 20 aprile era già tutto finito: i nuovi casi erano scesi a 9, i pazienti in fin di vita non erano più di una decina e la Ardern poté annunciare ufficialmente la vittoria sul virus, anche se per prudenza mantenne il lockdown ancora per una settimana, per un totale di un mese: il limite massimo che, secondo i suoi esperti, il paese poteva tollerare.

Il 27 aprile (giorno in cui, per un caso suggestivo, non si verificò nessun nuovo contagio) si scese al livello 3 e due settimane dopo, l’11 maggio, fu annunciato il progressivo passaggio al livello 2, che si concluse il 25 maggio, quando riaprirono anche i bar e gli altri locali pubblici e morì l’ultimo malato. L’ultimo contagio era invece stato rilevato il 22 maggio 2020. Da allora e per 15 mesi consecutivi la Nuova Zelanda è stata un paese Covid-free: un record assoluto a livello mondiale (a parte alcuni minuscoli Stati-isola dove il Covid non è mai arrivato per il loro estremo isolamento, ma che proprio per questo non possono costituire un termine di paragone per i paesi normali).

L’8 giugno, con un bilancio di appena 22 morti su 5 milioni di abitanti, il paese passò al livello 1, che permette una vita sostanzialmente normale, senza mascherine e senza distanziamenti, e da allora ci è rimasto quasi costantemente. Ci sono state due sole eccezioni, entrambe ad Auckland ed entrambe casi di allerta 3, anche se da noi sono stati chiamati impropriamente “lockdown” (perché, come già detto, le misure preventive corrispondono a quelle del “nostro” lockdown, che in realtà non è tale). La prima è stata imposta dall’11 al 30 agosto, per spegnere un focolaio che ha causato circa 200 contagi e 3 morti, la seconda invece, molto più breve, dal 14 al 17 febbraio 2021, durante la Coppa America di vela (cfr. Paolo Musso, Il virus dell’autoritarismo, https://www.fondazionehume.it/politica/il-virus-dellautoritarismo/), per stroncare sul nascere un mini-focolaio di soli 3 casi, che però causò anche un morto.

Questo è stato l’ultimo morto e anche l’ultimo caso di contagio “comunitario”, cioè avvenuto su territorio neozelandese (anche se innescato da qualcuno proveniente dall’estero, visto che nel paese il virus non era più presente) fino all’arrivo della variante Delta. Tutti quelli successivi (comunque molto pochi), compresi i due morti del settembre 2020, erano infatti casi “di importazione”, cioè persone provenienti dall’estero trovate positive all’aeroporto e messe in quarantena. Anche calcolando queste decessi “spuri”, comunque, al 17 agosto 2021 in tutta la Nuova Zelanda se n’erano registrati solo 26, con un tasso di appena 5,2 morti per milione di abitanti in 18 mesi, il migliore al mondo (sempre escludendo i soliti micro-Stati). In proporzione, noi avremmo dovuto avere poco più di 300 morti: invece ne avevamo 131.000.

Si capisce quindi perché, di fronte ad un successo del genere, si sia deciso di procedere con questa durezza anche per un solo caso di contagio comunitario. Il fatto che stavolta si sia arrivati addirittura al livello 4 è dovuto al fatto che si trattava della variante Delta, altrettanto letale, ma molto più contagiosa del ceppo originario. Inoltre, la copertura vaccinale era ancora piuttosto carente: appena il 18,7%. In effetti, l’unico errore fin qui commesso dal governo neozelandese è stato proprio il ritardato inizio della campagna vaccinale, decollata solo in giugno, come del resto anche negli altri paesi del Pacifico (con la sola eccezione di Singapore).

Purtroppo, quasi subito si sono scoperti altri dieci casi direttamente connessi al “paziente zero”, anch’essi poi risultati positivi alla variante delta, mentre altri hanno iniziato a comparire nel Nuovo Galles del Sud. Il 23 agosto si è perciò deciso di sospendere anche le sedute in presenza del Parlamento, garantendo solo le riunioni delle commissioni.

Nel valutare queste notizie, che a prima vista possono apparire preoccupanti (e in genere così vengono presentate dai mass media occidentali), non bisogna però mai dimenticare che ciò non accade perché la situazione è drammatica, ma perché la strategia della Nuova Zelanda è quella di impedire che lo diventi, prendendo misure drastiche fin dall’inizio e ammorbidendole progressivamente man mano che la situazione migliora. Come ha chiaramente dimostrato Luca Ricolfi (La notte delle ninfee, La Nave di Teseo, Milano 2021, pp. 110-125), si tratta di una logica diametralmente opposta rispetto a quella seguita in Italia e, più in generale, in Occidente. Che sia anche migliore (e di molto) lo dicono i numeri.

E infatti, anche se un po’ più lentamente della prima volta, il “martello” di Jacinda ha funzionato di nuovo. Attraverso l’analisi genomica dei virus è stato possibile ricondurre tutti i casi scoperti a specifici cluster, la maggior parte dei quali ubicata ad Auckland e nella contea di Manukau. Già due settimane dopo, Auckland a parte, la situazione era già sostanzialmente sotto controllo, tanto che il 1° settembre il resto del paese veniva riportato al livello 3 e il 7 settembre al livello 2 (anche se un po’ “rafforzato”), il che significava una vita “quasi” normale. E così si è andati avanti fino al 3 dicembre, quando è stato introdotto un nuovo sistema di gestione dell’epidemia (vedi oltre), anche se di quando in quando alcune specifiche aree, soprattutto al nord, sono state riportate per brevi periodi ai livelli 2 o 3.

Il 21 settembre anche Auckland è stata riportata al livello 3, anche se l’epidemia è andata avanti ancora per due mesi e mezzo. Il 17 novembre sono state riaperte anche le scuole di Auckland, benché proprio il giorno prima si fosse raggiunto il picco con 222 nuovi casi (nuovo record assoluto, ma comunque sempre bassissimo rispetto agli standard europei). Subito dopo, però, i contagi hanno cominciato a calare, prima lentamente, poi, a partire dall’inizio di dicembre, in maniera sempre più rapida.

In ciò ha sicuramente pesato anche la grande accelerazione impressa alla campagna vaccinale, che al 16 novembre era già arrivata al 63,7% (con un incremento del 15% al mese per 3 mesi consecutivi) e al 1° dicembre al 70,1% (oggi è al 75,3%, mentre noi, pur avendo iniziato 6 mesi prima, siamo al 74,1%). Per questo, come accennato sopra, il 16 novembre è stato annunciato che dal 3 dicembre sarebbe entrato in vigore un nuovo protocollo chiamato COVID-19 Protection Framework o, più informalmente Traffic Light System, che superficialmente può ricordare il sistema da tempo in vigore in Italia. I criteri su cui si basa sono però molto diversi (per i dettagli si veda il sito ufficiale: https://covid19.govt.nz/traffic-lights/covid-19-protection-framework/), anche se per ora non ha molto senso discuterne, dato che è presto per valutarne i risultati.

In ogni caso, ciò non significa, come molti hanno detto, che la Nuova Zelanda abbia rinunciato alla strategia eliminativa del virus, ma solo che, in considerazione del mutato contesto, ha deciso di perseguirla con metodi in parte diversi. Sono inequivocabili, al riguardo, le parole pronunciate dalla signora Ardern il 20 settembre, annunciando la fine dell’allerta 4 ad Auckland: «Non stiamo uscendo dal livello 4 perché il lavoro è finito, ma nemmeno ci muoviamo perché non pensiamo di poter raggiungere l’obiettivo di eliminare il Covid-19 – ci stiamo muovendo perché il livello 3 fornisce ancora un approccio sufficientemente cauto mentre continuiamo a eliminare il Covid-19» («We are not stepping out of level 4 because the job is done, but nor are we moving because we don’t think we can achieve the goal of stamping out Covid-19 – we are moving because level 3 still provides a cautious approach while we continue to stamp out Covid-19», The Guardian del 20 settembre 2021, https://www.theguardian.com/world/2021/sep/20/new-zealand-covid-update-new-cases-outside-auckland-could-delay-lockdown-easing).

Ma, più ancora di lei, parlano i fatti. Al 31 dicembre 2021, infatti, la temutissima variante Delta ha causato appena 24 morti in tutta la Nuova Zelanda, il che significa sì aver quasi raddoppiato il tasso di mortalità, ma solo perché si partiva da livelli incredibilmente bassi: in valore assoluto parliamo di 50 morti su una popolazione di oltre 5 milioni di persone, ovvero 10 morti per milione di abitanti. Tanto per dare un termine di paragone, oggi l’Italia ne ha 2.278, l’Europa nel suo insieme 2.038, il Sudamerica 2.744 e gli USA 2.536.

Quanto ai contagi, al 31 dicembre 2021 nel paese risultano ancora 1.197 casi di positività, quasi 200 dei quali, però, si trovano nelle strutture di quarantena per i viaggiatori in arrivo. I casi comunitari, quindi, sono ormai meno di un migliaio e continuano a scendere: oggi sono stati appena 61 in tutto il paese, cioè poco più di 12 per milione di abitanti. In proporzione, noi avremmo dovuto averne 144, mentre sono stati 144mila. Infine, a oggi in Nuova Zelanda non si è ancora registrato neanche un caso di variante Omicron (che peraltro, benché la cosa non sia ancora del tutto certa, sembra meno letale delle precedenti, anche se più contagiosa).

Il vero motivo del cambio di strategia della Nuova Zelanda non sta quindi in una presunta inefficacia del “metodo Jacinda” di fronte alle nuove varianti, ma è sostanzialmente analogo a quello dell’Australia (cfr. Silvia Milone, Australia: il “salto triplo” dei canguri, https://www.fondazionehume.it/societa/australia-il-salto-triplo-dei-canguri/): la necessità di trovare un modus vivendi accettabile con il resto del mondo, che invece il virus non l’ha ancora eliminato.

Infatti, anche se a prima vista ciò che colpisce di più della strategia neozelandese è il lockdown “duro e puro”, in realtà non è questo che causa i danni maggiori, dato che la sua durata è inversamente proporzionale alla sua durezza. Il vero problema sono i controlli alle frontiere, che hanno sì conosciuto qualche oscillazione a seconda del momento, ma devono comunque essere sempre molto rigorosi, onde evitare che il virus cacciato dalla porta rientri dalla finestra, il che finisce inevitabilmente col causare gravi problemi sia alle persone che agli scambi commerciali.

Per adesso le frontiere restano chiuse, ma la premier e i suoi tecnici hanno illustrato una road map che avrà il compito di riportare alla graduale riapertura. Dal 2022 sarà infatti avviato un sistema basato su tre diversi livelli di rischio. Ai viaggiatori vaccinati e provenienti dai paesi considerati a basso rischio sarà consentito l’ingresso sul territorio neozelandese senza sottoporsi a quarantena: quelli provenienti dai paesi a medio rischio dovranno sottoporsi a un periodo di isolamento volontario; infine, quelli provenienti dai paesi ad alto rischio e tutti i non vaccinati, da qualsiasi paese provengano, dovranno sostare per quattordici giorni in isolamento in alcune strutture a ciò preposte.

Comunque, anche se alcune cose cambieranno, vi sono buone probabilità che i kiwi continuino ancora a lungo ad essere i “primi della classe” nella gestione del Covid. Infatti, il segreto del metodo neozelandese non sta solo nel lockdown. Anzitutto, come già detto, c’è la consapevolezza (che vale in generale) che qualunque cosa si voglia fare, occorre farla “hard and early”, cioè con la massima decisione e rapidità. Poi c’è una catena di comando cortissima, in cui gli unici autorizzati a parlare sono la premier e il direttore esecutivo del Ministero della Salute, il dottor Ashley Bloomfield: l’esatto contrario, ancora una volta, della caotica babele di casa nostra, in cui anche le persone più ragionevoli rischiano di perdere la testa.

Ma, soprattutto, il vero segreto sta nel diverso rapporto tra cittadini e istituzioni, che in parte è frutto della tradizione, ma in parte forse perfino maggiore è merito personale della signora Ardern. Anzitutto, infatti, la premier ha sempre usato un linguaggio basato sulla ragione anziché sulla paura. Inoltre, ci ha sempre “messo la faccia”, prendendosi la responsabilità di qualsiasi cosa, anche minima, che andasse storta, senza mai cercare di darne la colpa ai cittadini. Infine, non ha mai cercato di attribuirsi in esclusiva il merito degli straordinari risultati ottenuti, ma l’ha sempre condiviso con tutti, non solo a parole, ma anche nei fatti, come si è visto quando, dopo avere stravinto le elezioni con la maggioranza assoluta dei seggi, pur potendo governare da sola si è messa subito al lavoro per creare una maggioranza più ampia possibile.

In fondo è semplice: se le istituzioni rispettano i cittadini e dimostrano di fare del loro meglio per risolvere i loro problemi, anche i cittadini rispetteranno le istituzioni e faranno del loro meglio per sostenere i loro sforzi. Ed è per questo che la signora Ardern ha potuto applicare con successo in un paese democratico misure che si credeva fossero possibili solo schierando l’esercito per le strade, come in Cina.

Che differenza, anzi, che abisso rispetto ai leader nostrani, sempre pronti ad attribuirsi successi puramente immaginari e ad incolpare gli altri dei disastri reali da loro stessi combinati! Ma, se è stato possibile da loro, perché non dovrebbe esserlo anche da noi?

In fondo, basterebbe che qualcuno ci credesse e cominciasse a comportarsi come la signora Jacinda: nonostante le apparenze, la gente non aspetta altro.

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https://www.govt.nz

https://covid19.govt.nz

https://www.nzherald.co.nz

https://www.stuff.co.nz

https://www.cnbc.com

https://ourauckland.aucklandcouncil.govt.nz

https://www.theguardian.com/world/newzealand

www.ansa.it

https://lab24.ilsole24ore.com/coronavirus/

 




La frattura tra ragione e realtà

Ogni volta che mi capita di parlare con Luca Ricolfi, sia in pubblico che in privato, finiamo invariabilmente col rivolgerci a vicenda una domanda, ciascuno sperando che l’altro abbia la risposta: perché? Come è possibile che nella vicenda del Covid così tanti abbiano agito in modo così assurdo?

Qualche risposta parziale abbiamo tentato di darla, sia nelle nostre discussioni che nei nostri scritti, e qualcuno di tali frammenti di risposta ha anche una certa plausibilità.

Per esempio, è vero che gli esseri umani hanno una forte tendenza all’autoinganno e, in particolare, a cercare la soluzione più comoda anziché quella più efficace, atteggiamento che spesso viene chiamato “sindrome del lampione”, dalla famosa barzelletta dell’ubriaco che cerca le chiavi di casa sotto il lampione anziché dove le ha perse perché lì c’è più luce (il che è vero, ma il problema è che non ci sono le chiavi). Tuttavia, questa tendenza ha dei limiti, altrimenti la specie umana non sarebbe sopravvissuta a lungo. Dunque, si può forse spiegare in questo modo l’errore iniziale, ma non la successiva persistenza nell’errore, né, soprattutto, la sua giustificazione teorica, per cui i nostri governi e i nostri esperti non si limitano a negare che degli errori siano stati commessi, ma addirittura pretendono, contro ogni evidenza e ragionevolezza, di essere elogiati per avere fatto tutto nel miglior modo possibile.

Altrettanto vera è l’influenza nefasta di quella che Ricolfi ha chiamato “ideologia europea” (ma che forse andrebbe chiamata “ideologia atlantica”, perché coinvolge anche il Nordamerica), che ha prodotto quello che io ho chiamato “pandemically correct” (cfr. Paolo Musso, Il virus dell’autoritarismo, https://www.fondazionehume.it/politica/il-virus-dellautoritarismo/).

Inoltre, influisce certamente molto il nostro essere in certo senso “viziati” (tanto che Ricolfi ci ha giustamente definito una “società signorile di massa”), dato che dal “boom economico” degli anni Cinquanta fino alla crisi finanziaria del 2007 non abbiamo più dovuto affrontare problemi davvero drammatici, cioè tali da influire pesantemente sulla vita personale di tutti (anche gli Anni di Piombo e Mani Pulite, al di là del clima di emergenza nazionale che hanno creato, in realtà a livello pratico hanno toccato solo una piccolissima parte della popolazione). E anche se il fenomeno è nato in Italia, come molti altri si sta ormai da anni estendendo lentamente anche a buona parte del resto d’Europa.

Né si può negare il peso che ha avuto sulla gestione dell’emergenza la strumentalizzazione politica che se ne è fatta, non solo da destra, ma anche e anzi soprattutto da sinistra. Da almeno trent’anni, infatti, nei principali paesi occidentali le identità politiche tradizionali stanno scomparendo, per lasciare il passo alla formazione di due blocchi contrapposti: da una parte quello delle “persone civili”, che corrisponde all’incirca alla cosiddetta “maggioranza Ursula” e la cui ideologia unificante è il politically correct (di cui il pandemically correct è un sottogenere); dall’altra quello degli “impresentabili”, che non ha un’ideologia altrettanto precisa e trova la sua identità principalmente nel contrapporsi a quella degli avversari, per cui può essere legittimamente definito “reazionario”, ma solo in questo senso puramente descrittivo e non invece, come generalmente accade, in senso valutativo (sostanzialmente sinonimo di “fascista”).

Ora, è semplicemente un fatto, sotto gli occhi di tutti, che il Covid abbia impresso una fortissima accelerazione a tale processo, fornendo a tutte quelle “persone civili” che già nutrivano, più o meno coscientemente, tendenze autoritarie sia l’opportunità pratica ideale sia la giustificazione teorica perfetta per esprimerle alla luce del sole senza timore, mettendole al servizio di una causa – quella della salute – che poteva essere riconosciuta e accettata come “buona per definizione” da un numero di persone molto maggiore rispetto, per esempio, al matrimonio omosessuale o ai diritti degli immigrati. D’altra parte, è altrettanto innegabile che anche gli “impresentabili” hanno attivamente contribuito a tale processo, abbracciando spesso teorie complottiste e negazioniste davvero impresentabili e usandole per attaccare i governi per le ragioni sbagliate anziché per quelle giuste, che pure abbonderebbero.

E nemmeno si possono trascurare, infine, le semplici coincidenze, che sfortunatamente hanno fatto sì che il virus facesse la sua prima apparizione europea in un paese, l’Italia, guidato in quel momento dal peggior governo della sua storia, con il partito di maggioranza relativa che aveva un programma basato sulla pseudoscienza da blog (cfr. Paolo Musso, Il partito di Internet, in Paolo Bellini, Fabrizio Sciacca, Emilio Silvio Storace (eds.), Miti, simboli e potere. Scritti in onore di Claudio Bonvecchio, Albo Versorio, Milano, 2018, pp. 333-344) e che per questo, non sapendo che pesci pigliare, è stato totalmente succube dei disastrosi suggerimenti della OMS, a sua volta guidata dal peggior direttore della sua storia, il signor Tedros Adhanom Ghebreyesus, la cui familiarità con i dittatori è decisamente superiore a quella che ha con i problemi sanitari.

Tutte queste spiegazioni e molte altre ancora che abbiamo nel tempo proposto contengono certamente degli elementi di verità. E tuttavia, per quanto vere, restano, per l’appunto, frammenti: è come se avessimo trovato i tasselli sparsi di un mosaico, ma non fossimo ancora riusciti a ricostruirlo. Ed è chiaro che questo non basta, perché:

– Quando l’organizzazione che dovrebbe vegliare sulla salute dell’umanità (la OMS) aiuta un regime dittatoriale come quello cinese, che notoriamente se ne frega della vita umana, a insabbiare l’inizio di una pandemia.

– Quando questa stessa organizzazione pretende per mesi di fermare tale pandemia suggerendo di lavarsi le mani e starnutire nel gomito della giacca (!) e indica come esempio da seguire il paese che ha agito peggio di tutti al mondo (l’Italia, ahimè), mentre quello che ha agito meglio di tutti (Taiwan) per il suo sito ufficiale nemmeno esiste.

– Quando ci vogliono 7 mesi perché il più celebre immunologo del mondo (Anthony Fauci) riconosca che un virus respiratorio si trasmette principalmente attraverso la respirazione.

– Quando ci vogliono 9 mesi perché lo stesso Fauci la smetta di dire che gli USA dovrebbero imitare l’Italia, benché abbiano sempre avuto molti meno morti di noi.

– Quando ci vogliono 11 mesi perché la più importante istituzione medica del mondo (il Center for Disease Control and Prevention degli USA) riconosca che un virus respiratorio raramente si trasmette per contatto, eppure continua a dire che la disinfezione delle superfici è la prima misura di prevenzione.

– Quando ci vogliono 14 mesi perché finalmente i virologi ammettano pubblicamente ciò che sapevano fin dall’inizio e cioè che il 99,9% dei contagi avviene al chiuso (cfr. Antonella Viola, La prudenza e il sorriso, editoriale di La Stampa del 22 giugno 2021) e ciononostante appena i contagi salgono la prima cosa che si fa è imporre l’obbligo di mascherina all’aperto e nessuno di loro ha nulla da ridire.

– Quando non bastano 20 mesi a sfatare la balla cosmica del “virus-sconosciuto-di-cui-non-sappiamo-nulla”, benché, pur (ovviamente) con alcune peculiarità proprie, sia un coronavirus fondamentalmente simile agli altri e, in particolare, a quello della Sars, che conosciamo da quasi vent’anni.

– Quando ci si accapiglia per settimane per decidere se spostare o no dalle 22 alle 23 il coprifuoco, come se questo facesse qualche differenza e soprattutto come se il coprifuoco servisse a qualcosa.

– Quando tutti i governi dei paesi più progrediti, ricchi e organizzati del mondo, insieme ai loro consulenti scientifici e alle autorità mediche non sanno far altro che reiterare all’infinito misure palesemente inefficaci, senza chiedersi neanche per un istante come sia possibile che ci siano più morti in Europa che nel Terzo Mondo.

– Quando costoro, che dovrebbero essere i campioni del pensiero critico e razionale, si autocelebrano come salvatori dei paesi che stanno distruggendo e dei popoli che stanno massacrando.

– Quando i suddetti popoli, che dovrebbero essere i più istruiti e i più informati del mondo, non trovano di meglio che cantare sui balconi e mandarsi messaggi insulsi su Whatsapp e quando (dopo un anno e mezzo!) decidono finalmente di scendere in piazza a protestare se la prendono con l’unica cosa che funziona, cioè i vaccini, mentre continuano ad accettare passivamente tutte quelle che invece non funzionano.

– Quando i magistrati, che da decenni per qualsiasi cosa vada storta cercano a tutti i costi i colpevoli anche quando non ce ne sono, rinunciano a farlo proprio di fronte a una catastrofe in cui invece le responsabilità sono chiare come la luce del sole.

– Quando i mass media occidentali, che dovrebbero essere i più democratici e trasparenti del mondo, mettono in atto una vera e propria censura verso qualunque critica alle politiche governative.

– Quando questi stessi mass media nascondono sistematicamente, spesso ricorrendo a sotterfugi grotteschi, i risultati di quei paesi che hanno ottenuto i risultati migliori.

– Quando perfino i medici, che pure non possono non rendersi conto di cosa sta accadendo e rischiano la vita in prima persona, preferiscono morire a centinaia piuttosto che dire che si sta sbagliando tutto.

– Quando quei pochi di loro che vanno ancora a visitare i malati a casa vengono trattati come irresponsabili che mettono a rischio la salute della cittadinanza, anziché come gli unici che ce l’hanno davvero a cuore.

– Quando i pochi che si ribellano ai dogmi del pandemically correct preferiscono aderire alle più folli teorie complottiste anziché cercare di capire cosa si è sbagliato e individuare alternative sensate.

– Quando questa sterile contrapposizione tra negazionismo e conformismo (in realtà due facce della stessa medaglia) arriva addirittura a coinvolgere i sommi vertici del paese più progredito al mondo (il Presidente USA Donald Trump e il suo sfidante e successore Joe Biden).

– Quando quegli stessi politici e scienziati che hanno deciso (sbagliando) di puntare esclusivamente sui vaccini sono poi i primi a sabotarli, avanzando dubbi irragionevoli sulla loro sicurezza.

– Quando quegli stessi politici e scienziati pensano di rimediare a questi errori con un pasticcio pericolosissimo come il Green Pass anziché chiedere al Parlamento di approvare, in modo trasparente e democratico, l’obbligo di vaccinazione per tutti, come si è già fatto in passato senza tanti drammi per molte altre malattie.

– Quando il progressivo emergere delle evidenze scientifiche dimostra che abbiamo sbagliato tutto e tuttavia non riesce a cambiare nulla.

Quando tutto questo e molto altro ancora accade, allora è evidente che nessuna spiegazione parziale è più possibile, perché qui siamo di fronte a una crisi della ragione in quanto tale.

Si era parlato molto, negli ultimi anni, di “crisi delle evidenze”, intendendo con questo essenzialmente la crescente difficoltà di trovare ancora delle evidenze morali condivise da tutti, ma qui ormai siamo molto, molto al di là di tutto questo: qui siamo di fronte ad un rifiuto, o meglio, ad una vera e propria incapacità di guardare la realtà.

Del virus prima o poi ce ne libereremo e, per quanto oggi possa sembrarci inconcepibile, nel giro di qualche anno ce ne dimenticheremo, come ci dimentichiamo di tutto, in questo nostro strano tempo. Ma di questa incapacità di vedere ciò che abbiamo davanti al naso non ce ne libereremo tanto presto, temo. Soprattutto se continueremo a non comprenderne le cause.

E siccome per poter cercare le cause di un fenomeno bisogna prima riconoscere che il fenomeno in questione esiste, ecco perché ho premesso quel lungo (e tuttavia pur sempre largamente incompleto) riepilogo delle principali follie che abbiamo commesso davanti al virus, sperando contra spem che possa aiutare a prendere coscienza di quanto grave sia la situazione.

Ciò fatto, vorrei ora provare a dare un contributo alla comprensione di ciò che ci è accaduto, dato che mi sembra sempre più chiaro che la pazzesca vicenda del Covid non abbia fatto altro che spingere ulteriormente verso il suo limite estremo (che per il bene di tutti spero non venga mai raggiunto, anche se mi sembra ormai pericolosamente vicino) un processo iniziato oltre quattrocento anni fa e che sto studiando da molto tempo, potrei dire da sempre o almeno da quando ho iniziato ad essere in grado di pensare autonomamente.

Per farlo, tuttavia, prenderò le mosse da qualcosa di molto più recente, vale a dire la bellissima Lettera sulla cattiva gestione della pandemia del medico fiorentino Paolo De Bonfioli Cavalcabò, pubblicata su questo sito l’11 maggio 2021 (https://www.fondazionehume.it/societa/lettera-sulla-cattiva-gestione-della-pandemia/). Dopo aver fatto anche lui un elenco delle principali assurdità a cui gli era toccato assistere durante il suo lavoro di medico di base, egli scriveva infatti (i corsivi sono miei):

«Molte cose non tornavano nelle scelte dei governanti, nelle rivendicazioni degli operatori, nelle dispute scientifiche e, a copertura di tutto questo, nell’informazione scandalosamente unidirezionale (e spesso fuorviante ad arte) che è stata data. Ed è stata proprio questa univocità dell’informazione, da regime anche se non c’è un regime, che mi ha fatto pensare che una parte importante nelle scelte prese ce l’ha avuta una mentalità prevalente su tutto che è l’esagerata avversione al rischio che permea tutta la nostra società. […]

All’inizio c’è stata soprattutto l’avversione al rischio di ammalarsi, che ha fatto chiudere la maggior parte degli studi medici (con l’avallo stupefacente del ministero della salute che non voleva essere accusato di “mandare al macello” i medici, pensi un po’ come avrebbero fatto con questa mentalità a spegnere la centrale di Cernobyl…). Poi accanto a questa è comparsa una marea di burocrazia con una gara a chi metteva più regole (sempre per tutelare le persone ovviamente!) […].

Chi emana queste regole non vuole rischiare di essere considerato poco attento alla sicurezza dei suoi dipendenti e dei pazienti e di prendersi una denuncia o un rimbrotto dai suoi superiori sempre per lo stesso motivo e così via fino al ministro della sanità che oltre alle denunce della magistratura teme anche di scontentare i suoi elettori che ormai sono abituati a pretendere un bassissimo livello di rischio.

Cosa è successo negli ultimi anni per produrre questo atteggiamento? […] Ho solo delle idee vaghe e confuse ma sento che quello che è successo con questa pandemia non si spiega solo con “la superbia e l’arroganza dei governanti e la loro incapacità di imparare dagli errori” che pur ci sono.»

Credo che il dottor Cavalcabò abbia ragione. Anch’io, infatti, sono convinto che alla base del problema ci sia il rifiuto viscerale del rischio, anche minimo, da parte dell’uomo moderno, che lo porta a rifugiarsi nella falsa sicurezza delle regole. Tuttavia, nessuna regola potrà mai eliminare il rischio dalla vita, perché le due cose sono inestricabilmente connesse, sicché l’unico modo per riuscirci sarebbe eliminare la vita stessa. E non si pensi che sia solo una battuta: come proprio l’esperienza della pandemia ha messo in chiaro, infatti, nella nostra società ci sono ormai moltissime persone, forse addirittura la maggioranza, disposte a rinunciare a vivere per paura di morire, nonostante la palese assurdità di un tale atteggiamento (se non altro perché alla fine moriremo tutti comunque).

Quanto al “cosa è successo negli ultimi anni”, io credo, come accennavo prima, che stia semplicemente giungendo a maturazione un processo culturale iniziato moltissimo tempo fa, che però era rimasto a lungo confinato tra le élites intellettuali e solo in tempi relativamente recenti, con l’avvento della società di massa, è diventato mentalità comune.

Attenzione, però: io non penso che dietro a tutto questo vi sia un qualche piano organizzato a livello mondiale, giacché, come ripeto continuamente, ritengo il complottismo un tentativo illusorio di “ingabbiare” in schemi semplicistici l’immensa complessità del reale. Quello che penso, invece, è che siamo di fronte ad un caso di auto-organizzazione perversa della società: quello che nella teoria dei sistemi non lineari viene chiamato “effetto Qwerty”, dal nome delle tastiere che tutti continuiamo ad usare da quasi 150 anni benché la disposizione delle lettere sia notoriamente inefficiente (cfr. Paolo Musso, La scienza e l’idea di ragione, 2a ed. ampliata, Mimesis, Milano 2019, cap. 7).

Ho già citato al proposito in un precedente articolo una frase di Luca Palamara, quel gentiluomo che per anni è stato il “garante” del sistema che manipolava le nomine dei vertici della magistratura italiana: «Non c’è uno che dà le carte, c’è un blocco culturale omogeneo che si muove all’unisono» (Il Sistema, Rizzoli 2021, p. 221). Ecco, questo è quello che secondo me ci sta succedendo.

Ciò spiega perché ci sia un’informazione “da regime anche se non c’è un regime”, come acutamente notato da Cavalcabò. Ma soprattutto spiega perché il prodotto finale di questa dinamica abbia una certa coerenza globale, ma sia spesso confuso e perfino contraddittorio nei dettagli, dato che essi sono perlopiù il risultato casuale dell’interazione fra le diverse componenti di tale blocco (mass media, correnti di pensiero, centri di potere economico, governi, burocrazie e anche semplici cittadini), che hanno interessi e scopi molto diversi e spesso conflittuali, diffidano gli uni degli altri, cercano di fregarsi a vicenda e a volte addirittura si combattono apertamente, anche se sul lungo periodo finiscono sempre per muoversi tutti nella stessa direzione, perché ragionano tutti allo stesso modo..

La vera domanda è dunque cosa è successo negli ultimi secoli, perché ci sono voluti secoli per creare un “blocco culturale” così “omogeneo” da determinare la mentalità di tutto l’Occidente e, almeno in parte, addirittura di tutto il mondo. La storia completa si trova nel mio libro appena citato, La scienza e l’idea di ragione, a cui rimando per ogni approfondimento. Qui invece, per forza di cose, sarò costretto a riassumerla in una forma così sintetica da apparire quasi “dogmatica”.

In breve, io sono convinto che il “peccato originale” della modernità stia nella frattura tra ragione ed esperienza che si è prodotta nell’ambito della filosofia all’inizio del Seicento, paradossalmente proprio nello stesso periodo in cui nasceva la moderna scienza sperimentale, che si basa invece sulla loro inscindibile unità.

Tale frattura, a sua volta, è stata in realtà solo lo sbocco finale di un processo secolare e in gran parte “sotterraneo”, proprio come è stato per quello che ha dato origine alla scienza e come in generale accade per tutte le grandi rivoluzioni. Tuttavia, perché i mille rivoli sparsi si uniscano a formare un nuovo grande fiume in cui incanalare il corso della Storia occorre che a un certo punto arrivi qualcuno che faccia una sintesi, il che è sempre opera di pochi e a volte addirittura di uno solo. Nel caso della scienza l’uomo della sintesi fu Galileo Galilei, mentre in campo filosofico a incaricarsene fu René Descartes, meglio noto col nome latinizzato di Cartesio.

Se quest’ultima affermazione è condivisa praticamente da tutti, non si può dire lo stesso circa il fatto (innegabile, eppure negato pressoché da tutti) che Cartesio avesse una concezione della conoscenza diametralmente opposta a quella propria del metodo scientifico, di cui è generalmente considerato addirittura uno dei fondatori. Infatti, come ritengo di aver dimostrato al di là di ogni dubbio nel mio libro, al quale pertanto rimando chi non volesse credermi sulla parola, non solo Cartesio non diede alcun contributo alla nascita della scienza, ma addirittura, in una lettera scritta nel 1638 all’amico Mersenne, rifiutò esplicitamente il metodo galileiano, che riteneva sbagliato in quanto rinunciava a cercare l’essenza delle cose per limitarsi a studiare alcune proprietà. In altre parole, Cartesio rifiutò proprio quella che fu la chiave di volta del successo del metodo galileiano, ritenendo che la scienza naturale dovesse essere ricavata deduttivamente dalla filosofia, in questo essendo, di fatto, completamente d’accordo con gli aristotelici, che pure a parole osteggiava.

Quanto alla frattura tra ragione e realtà, fu Cartesio stesso che disse esplicitamente che alla base del suo metodo c’era il rifiuto aprioristico di basarsi sull’esperienza sensibile («Quindi, dato che i sensi a volte ci ingannano, volli supporre che nessuna cosa fosse tal quale ce la fanno immaginare», Cartesio, Discorso sul metodo, in Opere filosofiche, Laterza, Bari 1986, vol. I, p. 312, corsivi miei). Anche la sua celebre ipotesi del “genio ingannatore” (alla cui esistenza ovviamente egli non credeva davvero) nacque proprio per assicurarsi di non basarsi mai, neanche per sbaglio, sull’infida esperienza, ma solo ed esclusivamente sulla ragione. Dunque, l’esaltazione della ragione in Cartesio indubbiamente c’è, ma non è il suo punto di partenza, giacché si tratta di una conseguenza della sua radicale sfiducia nell’esperienza, che pertanto è anche la vera origine della filosofia moderna, la quale, col tempo, ha poi finito per determinare la mentalità dominante nel mondo moderno.

Oggi quasi nessuno accetta più la filosofia cartesiana nel suo insieme, ma se tutti continuano a ritenerlo il padre della modernità vuol dire che evidentemente qualcosa di lui è sopravvissuto: ed è facile constatare che ciò che è sopravvissuto è proprio la suddetta frattura tra ragione ed esperienza, che per questo ho chiamato «il dogma centrale della modernità» e ho definito come la convinzione che «la ragione non può mai incontrare la verità dentro l’esperienza» (cfr. Paolo Musso, La scienza e l’idea di ragione, § 2.9).  Dopo Cartesio, infatti, questi due aspetti essenziali della conoscenza umana si sono definitivamente separati, andando ciascuno per suo conto e dando origine ai due eccessi opposti e speculari del materialismo e dello spiritualismo, che nella filosofia dei successivi 4 secoli hanno continuato ad alternarsi senza che più nessuno riuscisse a rimetterli insieme, come risulta evidente anche semplicemente guardando l’indice di un qualsiasi manuale di storia della filosofia.

Questo spiega, tra l’altro, anche come è possibile che le due filosofie più caratteristiche della modernità siano il razionalismo e il relativismo, cosa di cui nessuno dubita, ma che, a pensarci bene, è piuttosto paradossale, dato che a prima vista sembrano diametralmente opposte. Infatti, se quel che ho appena detto è vero, allora esse appaiono come due facce di una stessa medaglia, giacché il razionalismo pensa che alla verità si possa arrivare attraverso la pura ragione, mentre il relativismo lo nega. Entrambi, tuttavia, condividono il dogma suddetto, negando che alla verità si possa arrivare attraverso l’esperienza. In questo senso, il relativista è in fondo un razionalista deluso, perché continua a pensare che se si potesse arrivare alla verità, l’unico modo sarebbe attraverso la pura ragione, ma poiché lo ritiene impossibile nega che ci si possa arrivare in qualsiasi modo.

Si potrebbe pensare che questa sia solo una faccenda per addetti ai lavori, che non ha molto a che fare con le scelte concrete della nostra vita quotidiana. In realtà non è così. Lo è stato per lungo tempo, anche perché non dovremmo mai dimenticare che fino a pochi decenni fa le persone erano in grande maggioranza analfabete e anche chi sapeva leggere, scrivere e far di conto perlopiù se ne serviva per scopi molto semplici e non certo per leggere libri impegnativi (che oltretutto anche dopo l’invenzione della stampa per molto tempo rimasero molto rari e molto cari). Quindi, quando parliamo delle rivoluzioni culturali del passato dovremmo sempre ricordare che i cambiamenti di cui parliamo interessarono solo delle ristrette élites, mentre la maggior parte delle persone nemmeno se ne accorse, anche se ciò non significa che i cambiamenti culturali non avessero già allora conseguenze per tutti, giacché erano le suddette élites a decidere come il mondo doveva funzionare.

Tale fenomeno divenne tuttavia molto più accentuato verso fine Ottocento, quando, almeno nelle città, l’istruzione cominciò a diffondersi, sicché i cambiamenti culturali cominciarono a determinare la vita della gente comune non più solo per via indiretta e inconsapevole, ma anche direttamente e consapevolmente. Tuttavia, la vera svolta è avvenuta solo con la diffusione su scala planetaria del mass media, che ha certo avuto molti effetti positivi, ma ha reso anche sempre più facile la creazione di un vero e proprio “pensiero unico” che pretende di stabilire a tavolino non solo che cosa si deve fare, ma addirittura che cosa esiste. Questa tendenza negli ultimi tempi si è accentuata moltissimo (basti pensare alla teoria del gender, secondo cui il sesso di una persona può essere deciso a tavolino senza alcun riferimento alla biologia) e il Covid le ha dato ulteriore impulso, tanto che sta ormai cominciando ad assumere le caratteristiche di un pensiero autoritario e, almeno tendenzialmente, totalitario.

L’aspetto più insidioso è che tale pensiero può mantenere le forme democratiche, dato che il suo potere si esercita soprattutto attraverso l’introduzione di una quantità sempre crescente di regole in apparenza puramente “tecniche”, che solo in piccola parte richiedono una legge. Gran parte di esse vengono infatti imposte dalle burocrazie ministeriali attraverso atti di natura amministrativa, che però spesso condizionano le nostre vite assai più delle leggi stesse, oppure, a un livello più elevato, dalle grandi burocrazie internazionali, attraverso la definizione di “obiettivi”, “linee guida”, “best practices” e simili, che, pur presentendosi come tecnicismi ideologicamente “neutrali”, in realtà hanno sempre alla loro base (e come potrebbe essere altrimenti?) una precisa visione del mondo. Inoltre, anche indipendentemente dal contenuto, per loro natura le regole tendono sempre alla standardizzazione e, di conseguenza, a penalizzare (e alla lunga eliminare) ogni forma di pensiero originale e creativo.

Questo lo aveva capito benissimo, già 43 anni fa, Václav Havel (1936-2011), il più geniale dei dissidenti del blocco sovietico, successivamente Presidente della Cecoslovacchia liberata e poi della Repubblica Ceca, nel suo straordinario libro Il potere dei senza potere, pubblicato clandestinamente nel 1978 tramite il samizdat.

In quest’opera Havel parlava infatti di «sistema post-totalitario», specificando che «con quel “post” non intendo dire che si tratta di un sistema che non è più totalitario; al contrario, voglio dire che esso è totalitario in modo sostanzialmente diverso rispetto alle dittature totalitarie “classiche” a cui nella nostra coscienza si collega normalmente il concetto di totalitarismo. A differenza della dittatura “classica”, dove la volontà del potere si realizza in misura di gran lunga maggiore direttamente e senza norme, […] il sistema post-totalitario è invece ossessionato dal bisogno di legare ogni cosa con un regolamento. La vita in esso è percorsa da una rete di ordinanze, avvisi, direttive, norme, disposizioni e regole (non per niente lo si definisce un sistema burocratico)» (Václav Havel, Il potere dei senza potere, La Casa di Matriona – Itacalibri, Milano – Castel Bolognese 2013, p. 36, corsivi dell’autore).

Che il totalitarismo moderno abbia un’essenziale componente burocratica lo aveva in realtà compreso (e magistralmente spiegato) già Hannah Arendt nel suo famosissimo libro La banalità del male, dedicato al processo ad Adolf Eichmann, l’uomo che aveva organizzato con scrupolosissima efficienza la deportazione degli ebrei verso i campi di concentramento, benché non avesse nulla contro di loro e anzi non avesse mai neanche veramente condiviso l’ideologia nazista («Eichmann non s’iscrisse al partito per convinzione, né acquistò mai una fede ideologica […]. Kaltenbrunner gli disse: “Perché non entri nelle S.S.?”, e lui rispose: “Già, perché no? Andò così.», Hannah Arendt, La banalità del male, Feltrinelli, Milano 2016, p. 40). Quando gli chiesero perché l’avesse fatto, la sua unica risposta fu che quelle erano le regole e tutta la sua difesa consistette in lunghe discettazioni volte a dimostrare che gli ordini di Hitler erano formalmente legali e che quindi lui era tenuto ad eseguirli con il massimo impegno, indipendentemente dal fatto che li condividesse.

Eichmann «non si sarebbe sentito la coscienza a posto se non avesse fatto quello che gli veniva ordinato. […] Comunicare con lui era impossibile, non perché mentiva, ma perché le parole e la presenza degli altri, e quindi della realtà in quanto tale, non lo toccavano. […] Non era uno stupido; era semplicemente senza idee (una cosa molto diversa dalla stupidità), e tale mancanza d’idee ne faceva un individuo predisposto a diventare uno dei più grandi criminali di quel periodo. […] Quella lontananza dalla realtà e quella mancanza d’idee possono essere molto più pericolose di tutti gli istinti malvagi che forse sono innati nell’uomo» (Hannah Arendt, op. cit., pp. 33, 57, 290, 291, corsivi miei). Infatti, avendo rinunciato a pensare e ad avere idee in proprio, egli era pronto ad adottare quelle di chiunque gli offrisse una possibilità di entrare «nella “storia” […] e far carriera», applicando senza discutere le regole stabilite dai superiori e avendo, quando queste non gli piacevano, «una capacità spaventosa di consolarsi con frasi vuote» (Hannah Arendt, op. cit., pp. 40 e 61).

La Arendt aveva così capito che i totalitarismi moderni hanno sì il volto degli Hitler e degli Stalin, ma le loro braccia e soprattutto i loro artigli sono costituiti dagli Eichmann, senza i quali nessun regime potrebbe esistere, perché i primi sono sì dei mostri, ma per fortuna sono pochi, mentre i secondi sono uomini qualsiasi (banali, appunto), ma in compenso sono moltissimi, anche ai giorni nostri (anzi, oggi probabilmente sono ancora di più). Havel fece un altro passo avanti e comprese che i sistemi post-totalitari possono esistere anche senza un mostro che dia loro un volto, essendo formati interamente dagli Eichmann ed essendo quindi interamente burocratici (il che peraltro non li rende meno, bensì più mostruosi).

Del resto, anche se si legge attentamente 1984, l’opera più celebre del terzo grande studioso del totalitarismo moderno, George Orwell, si capisce che il Grande Fratello in realtà non esiste, ma soprattutto che non ha importanza che esista o meno, perché tanto a comandare non è questo o quell’individuo, bensì il Partito nel suo insieme, proprio come accadeva anche nella realtà in Unione Sovietica. Havel esplicitò pienamente tale meccanismo, che in Orwell era rimasto sullo sfondo, estendendolo inoltre a tutta la società post-totalitaria e chiamandolo «autototalitarismo sociale». Con ciò intendeva che in questi sistemi non esistono vittime e tiranni in un senso assoluto, ma solo persone che rivestono in maggior grado l’uno o l’altro ruolo, certo con differenze anche molto grandi, ma tuttavia senza che vi sia nessuno che, almeno a qualche grado, non li rivesta entrambi, sicché tutti sono al tempo stesso le vittime e i tiranni di sé stessi, oltre che degli altri.

Ma la vera genialità di Havel, che lo rende diverso da tutte le altre pur straordinarie figure del dissenso, da Sacharov a Solženicyn a Wałęsa, sta nell’aver compreso, con lucidità profetica, che ciò che stava accadendo da loro era un’anticipazione di ciò che sarebbe accaduto da noi. Infatti, «la crisi planetaria della condizione umana penetra sia il mondo occidentale sia il nostro: in Occidente assume solo forme sociali e politiche diverse. […] Si potrebbe anzi dire che quanto più grande è […], rispetto al nostro mondo, lo spazio per le intenzioni reali della vita, tanto meglio […] nasconde all’uomo la situazione di crisi e più profondamente ve lo immerge» (Havel, op. cit., p. 125).

È importante capire che quando Havel parla di “automatismo” si riferisce certamente anche all’automatismo tipico della tecnica, per cui spesso basta l’introduzione di un nuovo tipo di tecnologia per introdurre con essa degli obblighi di fatto, che nessuno ha esplicitamente definito come tali, ma a cui è praticamente impossibile sottrarsi (basti pensare a come oggi sia praticamente impossibile vivere nella nostra società senza un cellulare, benché nessuna legge ci imponga di averlo), ma ancor più si riferisce a certi comportamenti “automatici” che certo coinvolgono la tecnologia, ma in ultima analisi sono messi in atto dagli esseri umani.

Ciò non vuol dire, naturalmente, che non vi siano anche gruppi organizzati che spingono in certe direzioni, per motivi ideologici e/o economici, come d’altronde vi erano anche al tempo di Havel. Tuttavia, essi non sono la forza principale che sta determinando l’attuale involuzione autoritaria delle democrazie occidentali. Infatti, come dice ancora Havel, «che l’uomo si sia creato e continui, giorno per giorno, a crearsi un sistema finalizzato a sé stesso, attraverso il quale si priva da sé della propria identità, non è una incomprensibile stravaganza della storia, una sua aberrazione irrazionale o l’esito di una diabolica volontà superiore che per oscuri motivi ha deciso di torturare in questo modo una parte dell’umanità. Questo è potuto e può succedere solo perché evidentemente ci sono nell’uomo moderno determinate inclinazioni a creare o per lo meno a sopportare un tale sistema» (Havel, op. cit., p. 51).

Se ho ragione, le suddette “inclinazioni” sono nate nel Rinascimento (contemporaneamente alla scienza moderna, ma tuttavia contro di essa) e consistono nel rifiuto della realtà così come ci si dà nell’esperienza (cioè come qualcosa che non facciamo noi e che perciò non dominiamo) e del conseguente rischio di fidarci di essa per rifugiarci nella falsa sicurezza delle “regole”, che soddisfano, benché solo illusoriamente, la mania del controllo, che è la vera ossessione dell’uomo moderno

Ciò ha prodotto, nel tempo, le varie ideologie totalitarie che hanno insanguinato il Novecento, ovvero degli insiemi di regole immaginate a tavolino prescindendo dall’esperienza, volte a dirigere il corso delle cose verso un “bene” anch’esso immaginato a tavolino prescindendo dall’esperienza.

Il loro tragico fallimento ci ha portati negli ultimi decenni a prendere finalmente le distanze da esse, ma non dalla logica perversa che le aveva prodotte, cosicché ne sono nate delle altre, con obiettivi apparentemente più modesti e “realistici”, ma in effetti solo più meschini, come quella tutela isterica di qualsiasi capriccio o suscettibilità soggettiva che va sotto il nome di politically correct o come quell’astratto “aperturismo” a tutti i costi che Ricolfi ha chiamato “ideologia europea” e le altrettanto astratte reazioni ad esso che in genere vengono sbrigativamente riassunte sotto il nome di “populismo”.

Il risultato è stato che quando la realtà ci è improvvisamente piombata addosso con tutto il suo peso, sotto forma di problemi così grossi che non potevano più essere ignorati, come la crisi finanziaria, i problemi ecologici e adesso il Covid, eravamo così disabituati ad affrontarla che, salvo alcune lodevoli ma rarissime eccezioni, quasi tutti hanno reagito nell’unico modo che conoscevano: costruendo al più presto un insieme di regole immaginate a tavolino prescindendo dall’esperienza.

È chiaro che in questo modo è difficile elaborare strategie efficaci, ma questo è ancora il meno. Dopotutto, nessuno può pretendere che, davanti a problemi nuovi e gravi, si trovino subito tutte le risposte e si potrebbero ancora perdonare gli errori iniziali, compresi i più gravi, se si fosse poi disposti ad ammetterli e a cambiare strada di fronte all’evidenza dei fatti. E invece no! La cosa veramente grave è che nel nostro mondo, appena delle regole (quali che siano) vengono stabilite, diventa subito difficilissimo cambiarle. E la ragione di fondo è appunto la paura del rischio, che prevale su qualunque altra cosa.

Questo spiega perché i popoli dell’Occidente abbiano accettato senza reagire e spesso, almeno all’inizio, addirittura di buon grado (vi ricordate gli “Andrà tutto bene”, le bandiere e i canti sui balconi, manco avessimo vinto i Mondiali?) una serie di regole in gran parte inefficaci e a volte addirittura folli, che hanno distrutto la nostra economia e minato le radici stesse della convivenza sociale (vedi Green Pass) senza risolvere il problema del virus. Chi ha questo atteggiamento di viscerale rifiuto del rischio, infatti, dalle regole vuole innanzitutto essere rassicurato, per cui tende a non chiedersi se sono realmente efficaci, anzi, è tanto meno disposto a farlo quanto più è evidente che non lo sono, perché ammetterlo sarebbe psicologicamente devastante.

D’altra parte, i governanti sanno benissimo che oggi basta un solo caso in cui qualcosa va storto perché la gente inizi a gridare allo scandalo. Perciò non hanno nessuna voglia di cambiare le regole in vigore, anche quando la loro efficacia è minima, per non rischiare di essere accusati di negligenza. Piuttosto preferiranno aggiungerne delle altre, senza preoccuparsi più di tanto che le nuove siano coerenti con le vecchie, anche se ciò finirà in genere per creare un sistema meno efficiente. Ma non ha importanza, perché, come abbiamo appena detto, quanto più uno è fissato con le regole tanto meno è interessato a verificare se funzionano e anzi alla lunga non è nemmeno più capace di farlo.

Infatti, chi adotta questo atteggiamento si allontana sempre più dalla realtà, fino a quando non è più in grado di vedere nemmeno quello che ha davanti al naso e a quel punto gli si può far credere praticamente qualsiasi cosa, dalle false rassicurazioni dei governi fino alle più assurde teorie complottiste, che in fondo non sono che l’altra faccia della medaglia, avendo anch’esse la stessa funzione rassicurante: benché infatti prospetti in genere scenari apocalittici, il complottismo dà ai suoi adepti l’illusione di conoscere come stanno davvero le cose e quindi di avere il controllo della situazione.

E, per convincervi che quanto ho fin qui detto non è solo una teoria, ma ciò che sta accadendo realmente, farò tre esempi, tutti pre-Covid, in cui questa dinamica appare con clamorosa evidenza.

Il primo esempio è il disastro del volo Germanwings 9525, che il 24 marzo 2015 il copilota Andreas Lubitz, affetto da una grave depressione, fece deliberatamente schiantare al suolo, uccidendo tutti i suoi 150 passeggeri, compreso sé stesso. Benché fosse il primo caso nella storia in cui un pilota decideva di suicidarsi mentre era al comando di un aereo di linea, tutti decisero che era “inaccettabile” che la porta della cabina non si potesse aprire dall’esterno. Peccato che questa misura fosse stata presa perché dopo l’11 settembre tutti avevano ritenuto “inaccettabile” che la porta della cabina si potesse aprire dall’esterno, favorendo i dirottamenti. In qualche servizio televisivo la cosa venne fatta notare, ma nessuno si azzardò a dire esplicitamente che, essendo le due richieste contraddittorie, era assurdo sostenerle entrambe e bisognava inevitabilmente accettare o l’uno o l’altro dei due rischi, possibilmente scegliendo quello minore.

Il secondo esempio è quello della sparatoria del 9 aprile 2015 nel Tribunale di Milano, dove un uomo accusato di bancarotta fraudolenta uccise tre persone a colpi di pistola. Era la seconda volta che un fatto simile si verificava nella storia della Repubblica italiana, durante la quale nei suoi tribunali si erano celebrati milioni di processi. Considerando che in un processo si incontrano persone che perlopiù si odiano e che in moltissimi casi vorrebbero uccidersi a vicenda, che ciò fosse accaduto solo due volte in 69 anni avrebbe dovuto essere considerato uno straordinario successo. E invece no! Tutti dissero in coro che era “inaccettabile” e pretesero che si installassero i metal detector anche all’ingresso da cui passano giudici e avvocati, poiché era stato usato dall’assassino per introdurre la pistola. Ciò comportò spese assolutamente sproporzionate al rischio che si intendeva prevenire e, naturalmente, interminabili code, che rallentarono ulteriormente il già troppo lento svolgimento dei processi: tutti (c’era da dubitarne?) dissero in coro che ciò era “inaccettabile”, ma nessuno si sognò di mettere in discussione l’assurda richiesta di “rischio zero” che ne era la causa.

Ma il mio esempio preferito è il terzo, cioè quello dei seggiolini “intelligenti”, che vennero resi obbligatori proprio poche settimane prima dello scoppio del Covid, con una legge votata all’unanimità e tra l’entusiasmo generale (il che, tra parentesi, è qualcosa di cui bisogna sempre diffidare, giacché, soprattutto in un tempo come il nostro, in cui nessuna idea gode di un consenso unanime, solo la demagogia riesce talvolta a produrlo). Lo scopo era (ed è tuttora) impedire che qualche genitore distratto dimentichi il bambino in auto, grazie ad un sistema automatico che manda un avviso sul cellulare. Ho fatto un calcolo approssimativo, da cui è risultato che il costo di questa innovazione per i prossimi 12 anni sarà di circa 500 milioni di euro, tutti a carico dei cittadini (ma anche se fossero a carico dello Stato sarebbe lo stesso, perché lo Stato siamo noi e i suoi soldi escono sempre dalle nostre tasche). Considerando che nei 12 anni precedenti l’approvazione della legge in tutta Italia erano morti in auto 8 bambini, ciò significa che nei prossimi 12 anni spenderemo mezzo miliardo per salvare un bambino ogni 18 mesi su una popolazione di 60 milioni di persone (sempre poi che lo salviamo davvero, perché se uno si abitua che se dimentica il pupo in macchina glielo dice il seggiolino è molto più facile che non ci faccia attenzione e poi cosa succede se il seggiolino si guasta o se dimentica il cellulare a casa?). Se disponessimo di risorse illimitate potremmo anche farlo, ma poiché non è così dovrebbe essere chiaro a qualunque persona sana di mente che ciò è assurdo, perché in qualsiasi altro modo spendessimo quei soldi salveremmo molte più vite. Eppure, provate a dirlo in giro è la risposta unanime sarà sempre e soltanto una: “è inaccettabile”.

È con queste aspettative irragionevoli e con questo drammatico livello di disconnessione dalla realtà che abbiamo affrontato l’emergenza del Covid e che ci prepariamo ora ad affrontare quella ambientale.

Non è certo un caso che i paesi che meglio di tutti hanno gestito il virus, cioè quelli del Pacifico, o (come quelli asiatici) hanno una cultura molto diversa dalla nostra o (come quelli oceanici) hanno la nostra stessa cultura, ma non sono stati influenzati né dalla nefasta “ideologia europea” né, soprattutto, dal sistema di “scaricabarile incrociato” che essa consente. Infatti, di fronte a qualsiasi critica l’Italia può sempre rispondere (e di fatto risponde) «ma fanno così anche la Germania, la Francia, l’Inghilterra… », la Germania può sempre rispondere (e di fatto risponde) «ma fanno così anche l’Italia, la Francia, l’Inghilterra… », ecc. Ma, soprattutto, tutte insieme possono sempre rispondere (e di fatto rispondono) «ma fa così anche l’Europa», che tanto non si sa cosa sia (essendo sempre, pirandellianamente, una, nessuna e centomila) e non deve quindi mai rispondere di niente a nessuno.

Proprio la necessità di rispondere ai propri cittadini (insieme a quella di doversi confrontare molto più direttamente di noi con una superpotenza a loro profondamente ostile come la Cina) ha costretto invece le classi dirigenti di quei paesi ad un realismo molto maggiore rispetto al resto dell’Occidente. Poi, certo, di Jacinda Ardern ce n’è una sola, ma, come in qualsiasi altro campo, anche nella politica i fuoriclasse nascono per caso o per Destino (a seconda di come uno la vede), ma per permettere loro di emergere e di esprimersi al meglio bisogna prima creare un ambiente favorevole. E per questo non servono fuoriclasse: bastano dei normali esseri umani, che però non abbiano paura di guardare la realtà per quello che è e siano disposti ad imparare da essa.

Dopo avere esposto le sue sette “leggi” sull’urto dei corpi (in cui, incredibilmente, molti pretendono di vedere la prima enunciazione del principio di azione e reazione, nonostante che siano sette e non una e, soprattutto, che siano tutte e sette sbagliate) Cartesio scrisse: «E le dimostrazioni di tutto questo sono così certe, che anche se l’esperienza sembrasse farci vedere il contrario, noi dovremmo, nondimeno, prestare maggior fede alla nostra ragione che ai nostri sensi» (Cartesio, I principi della filosofia, in Opere filosofiche, Laterza, Bari 1986, vol. III, p. 102).

Se questa idea di ragione, tutta chiusa su sé stessa e pronta a negare perfino l’evidenza pur di difendere le proprie rassicuranti ma false certezze, sta (come io credo) alla base della mentalità moderna, non c’è da stupirsi troppo per quello che è accaduto con il Covid. Ma, se non c’è da stupirsi, c’è però da preoccuparsi, perché, come ebbe a scrivere il vero fondatore del metodo scientifico, Galileo Galilei, «la natura, Signor mio, si burla delle costituzioni e decreti de i principi, degl’imperatori e de i monarchi, a richiesta de’ quali ella non muterebbe un iota delle leggi e statuti suoi» (Lettera a Francesco Ingoli, in Opere, Giunti Barbera, Firenze 1890-1909, vol. VI, p. 538).

Non lo farà neanche a richiesta di governanti democraticamente eletti e ossequiosamente politically correct.

Di quanti altri disastri avremo ancora bisogno per capirlo?