Ucraina, libere idee in libero dibattito

Su quale sia, di fronte all’invasione dell’Ucraina, la linea di condotta più adeguata, non ho convinzioni forti. E questo non solo perché sono del tutto incompetente in materia di geopolitica, ma perché constato che fra i competenti le opinioni divergono radicalmente. E le divergenze non riguardano solo la scelta dei mezzi, ma anche quella dei fini: fermare Putin o punire Putin? trovare un compromesso o umiliare l’avversario? minimizzare il numero di morti di oggi o quello di domani?

C’è chi ritiene che limitarsi agli aiuti umanitari sia la condotta più saggia, anche questo dovesse comportare la resa dell’Ucraina. C’è chi ritiene che solo continuando ad armare la resistenza ucraina sarà possibile fermare Putin. C’è chi ritiene che istituire una no fly zone sull’Ucraina ci porterebbe dritti alla terza guerra mondiale (se non all’apocalisse nucleare), e c’è chi ritiene – tutto al contrario – che ancora più imprudente sarebbe non istituirla: la rinuncia Nato alla no fly zone sarebbe un segnale di debolezza, che potrebbe convincere Putin che noi occidentali non oseremo mai entrare in guerra con lui, anche dovesse invadere un altro paese europeo.

Quello su cui ho invece un’opinione è il destino delle nostre menti in tempo di guerra. Quel che mi colpisce, come studioso di scienze sociali, è il clima di illibertà che governa i nostri scambi di idee. Un clima in cui nessuno si sente completamente libero di dire come vede le cose, perché sa che, qualsiasi cosa dica, sarà aggredito da chi vede le cose in modo opposto, o anche semplicemente diverso.

L’indizio più rivelatore di questo clima è la “premessite”: prima di dire qualcosa di sostanziale, si passa un tempo notevole a fare premesse autodifensive per tutelarsi dal rischio di essere crocefissi per quel che si sta per dire. Mi impressiona molto ascoltare in tv autorevoli giornalisti e studiosi avvilupparsi in lunghissime serie di auto-certificazioni di anti-putinismo per sentirsi in diritto di dire quel che pensano, ad esempio che li ha colpiti l’ammissione di Biden di aver passato l’ultimo anno a rifornire l’Ucraina di armamenti.

E’ un meccanismo che avevamo già sperimentato nella pandemia, quando – se si aveva da dire qualcosa di non perfettamente ortodosso sui vaccini – si esordiva dicendosi plurivaccinati, sottoposti alla terza dose, equipaggiati con green pass, eccetera.

Si potrebbe pensare che è normale che tutto ciò accada quando è in gioco una questione importante, e inoltre sussiste un’ortodossia, ossia un pensiero prevalente e ritenuto più giusto.

In realtà non è così. O meglio non è solo così. Il meccanismo che non ci lascia discutere liberamente, senza accusarci reciprocamente di stare dalla parte sbagliata, è più universale e profondo. Fu scoperto e studiato nei primi anni ’50 dallo psicologo sociale americano Leon Festinger, viene chiamato “riduzione della dissonanza cognitiva”, e costituisce probabilmente la più importante scoperta delle scienze sociali del Novecento. Quel che Festinger scoperse è che non solo la mente umana non sopporta i conflitti interni, ma il suo bisogno di coerenza interna è così forte da generare meccanismi di correzione radicali, come l’autoinganno, l’adozione di credenze irrazionali, l’incapacità di prendere atto dei dati di realtà, anche di fronte a clamorose smentite delle proprie convinzioni.

La mente umana, si potrebbe dire riprendendo una lucida considerazione di Walter Siti, funziona in modo opposto a come funziona la grande letteratura. La nostra mente ha bisogno di coerenza, la grande letteratura si nutre delle contraddizioni, dei drammi e delle ambiguità della vita reale. Soprattutto, la nostra mente è incapace di passare da un piano all’altro del discorso senza esigere che fra i vari piani vi sia coerenza. Se l’empatia ti porta da una parte, non ce la fai ad accettare che qualche notizia, o ragionamento, o fatto storico ti possa portare dall’altra. E se il ragionamento ti porta dalla parte opposta, la tua empatia ne risente, o gli altri ti percepiscono come privo di empatia.

Vale oggi per la guerra in Ucraina, ma valeva anche ieri per le “guerre umanitarie”, o per quelle contro il terrorismo. Noi, per come funziona la nostra mente, non siamo capaci di sopportare quel che invece nutre la grande letteratura, ossia l’imperfezione del bene e la complessità del male. Abbiamo bisogno di pensare che il mondo delle vittime sia senza ombre, e quello dei carnefici sia del tutto privo di umanità. Ogni spiegazione del male ci appare un’offesa al bene, e il bisogno di sentirci dalla parte del bene ci impedisce di vedere i nostri limiti.

E’ un vero peccato, anche se – dopo Festinger – sappiamo che è connaturato al modo di funzionare del nostro cervello.  E’ un peccato perché, se può essere vero, come scrisse Primo Levi, che “comprendere è quasi giustificare”, è altrettanto vero che spiegare il male (che è cosa ben diversa dal comprenderlo) è essenziale per evitare il suo ripetersi, ed è ancora più essenziale adesso, quando una maggiore lucidità potrebbe guidarci a prendere le decisioni giuste.

La pietà e la solidarietà per le vittime non dovrebbero mai essere scalfite dalla ricostruzione dei torti e delle ragioni delle parti in gioco, che – nella storia – sono sempre entità collettive, ovvero partiti, nazioni, imperi, potenze che agiscono sopra le teste della gente comune.

 




Cimiteri di guerra e di retoriche

Nei cimiteri di guerra non ci sono soltanto le tombe dei caduti: accanto ad esse troviamo cippi senza croci in cui giacciono le retoriche dei tempi di pace. Quello più monumentale è dedicato all’idea che la convivenza pacifica dei popoli e delle etnie culturali troverebbe un ostacolo insormontabile negli stati nazionali. In realtà, come dimostra la storia contemporanea, sono gli imperi —da distinguere dalle libere federazioni— che, con le loro rovinose cadute, provocano stragi di uomini e distruzioni di beni. Scrivendo a Mauro Macchi nel 1856, Carlo Cattaneo così motivava il progetto di unione europea:” Congresso comune per le cose comuni; e ogni fratello padrone in casa sua. Quando ogni fratello ha casa, le cognate non fanno liti”. Già ognuno ‘padrone a casa sua’, ovvero ciascuno impegnato a preservare la propria identità, nella consapevolezza che non può esserci democrazia senza un comune linguaggio, senza un comune retaggio culturale, senza la valorizzazione e la tutela della propria diversità. Gli imperi fanno convivere popoli diversi giacché è nella loro essenza la rimozione della politica e l’imposizione di un ordine esterno, che nel caso dell’Austria-Ungheria non esclude la buona amministrazione. Quando però si rompono le file e riemerge la dimensione politica –il ‘noi’ e il ‘loro’– è la democrazia non la barbarie (che certo non manca mai) a richiedere un’arena istituzionale in cui i conflitti vengano regolati e contenuti dal sentirsi membri di una stessa famiglia. Le tragedie europee sono dovute ai lasciti degli imperi, al fatto che negli stati sorti sulle loro rovine si ritrovano cittadini appartenenti a minoranze etniche che ora ‘non si sentono più a casa’: v. i Sudeti in Cecoslovacchia, gli Armeni in Turchia, i Russi in Ucraina, gli Altoatesini in Italia etc.. Forse lo stato nazionale non ha tutte le colpe che gli vengono attribuite. Lo si comincia a sospettare negli Stati Uniti in cui la fine della nation ovvero del credo americano iscritto nel melting pot , non promuove la   pacifica convivenza razziale ma scatena una guerra permanente, che trova nella cancel culture la sua espressione più coerente.

Dino Cofrancesco

Il Giornale del Piemonte e della Liguria

Vistodagenova

Martedì 8 marzo 2022




L’Ucraina e noi – Il sentimento della vergogna

La politica internazionale ha le sue regole, una sua logica, il suo pacchetto di criteri di valutazione. Ne so poco, anzi quasi niente. Mi sono sempre occupato di altri temi, forse meno importanti, sicuramente più nazionali che internazionali. Perciò su questa guerra scoppiata in Europa non sono titolato a parlare, e infatti non lo farò.

Quello di cui vorrei parlare è qualcosa di più intimo, è qualcosa che succede dentro di me e, suppongo, possa succedere anche ad altri. Vorrei parlare di un sentimento, che probabilmente nasce proprio dall’ignoranza, dal non essere esperti di geopolitica e di strategie militari, dal fatto di vedere le cose con l’occhio ingenuo della persona comune. Un sentimento che, non mi è bene chiaro perché, è bandito dal discorso pubblico. Non emerge mai esplicitamente. Non se ne discute, o forse non se ne deve discutere.

Quel sentimento è la vergogna. Ma forse sarebbe più esatto dire: doppia vergogna. Vergogna perché, nonostante i disperati appelli del presidente Zelensky, l’Occidente, l’Europa (e ovviamente anche l’Italia) non sono disposte a fornire alcun aiuto concreto al popolo ucraino, al di là delle fantomatiche e inefficaci “sanzioni durissime”. Ma vergogna, anche, perché non solo non siamo disposti a correre alcun rischio per aiutare gli ucraini, ma stiamo trasformando in spettacolo la tragedia altrui. Comodamente seduti davanti ai teleschermi, veniamo inondati da maratone televisive come quelle del Quirinale o, in passato, quelle delle guerre del Golfo.

E’ come se, vedendo una banda di bulli che picchia a sangue un bambino, noi ci limitassimo a minacciarli di non invitarli più alle nostre feste, e in compenso non ci facessimo scappare l’occasione di filmare tutto. Eppure ci hanno insegnato che è vile voltarsi dall’altra e far fina di niente davanti a uno stupro. E che non è bello, quando c’è un incidente per strada, fare ressa intorno ai feriti non per soccorrere ma per vedere lo spettacolo.

Sono paragoni sbagliati?

Forse sì, se la domanda è soltanto: cos’altro potremmo fare?

Ma forse no, se la domanda è: che cosa siamo diventati, come cittadini e come operatori dell’informazione?

Già, che cosa siamo diventati?

A me sembra che una parola condensi tutto: siamo diventati spettatori, e come tali veniamo trattati. L’informazione, specie in tv e su internet, si preoccupa poco di farci capire e molto di assicurarci un intrattenimento permanente, h24. Quanto a noi, cittadini del ricco ed evoluto occidente, quel che ci è chiarissimo almeno da mezzo secolo (da quando i giovani americani ripudiarono la guerra del Vietnam) è che la guerra non fa per noi. Possiamo condannare, esprimere solidarietà, indignarci, accogliere profughi, imporre sanzioni economiche, ma aiutare un popolo aggredito no. Quello resta fuori del nostro orizzonte morale. Le uniche guerre che siamo disposti a fare sono quelle per i nostri stretti interessi, possibilmente solo dal cielo, meglio se affidate agli anglo-americani.

E’ un bene? E’ una conquista di civiltà? Potremmo fare diversamente?

Non ho le risposte. Ma mi accontenterei che provassimo a riflettere. E a non rimuovere. Il sentimento della vergogna è del tutto bandito dalla retorica del discorso pubblico, ma a me pare, in questo momento, il più appropriato, per non dire il più onesto. Quanto alla fuoruscita della guerra dal novero delle cose concepibili è sicuramente una conquista di civiltà. Ma non è solo questo: è anche il segno che tutto ciò che costa fatica, comporta rischi, richiede impegno e spirito di sacrificio è a sua volta uscito dal radar delle nostre vite. E non da ieri, né solo in Europa: la psicologa israeliana Hara Estroff Marano aveva descritto la mutazione nei giovani americani già due decenni fa in un libro significativamente intitolato A Nation of Whimps (una nazione di schiappe).

Forse la domanda che dovremmo farci è se, in un mondo che non è ancora tutto sulla nostra lunghezza d’onda, possiamo permetterci di essere quello che siamo. Il grado di civiltà di un paese, o di un continente, può anche essere eccessivo, non solo insufficiente. Si racconta che, a Yalta, a chi gli faceva presente che il Papa avrebbe preferito un altro assetto del mondo, Stalin avesse chiesto: quanto divisioni ha il Papa? Dev’essere la stessa domanda che si è fatto Putin: quante divisioni ha Ursula von der Leyen?




A due anni da Codogno – 10 domande al CTS e alle autorità politiche

A due anni esatti dallo scoppio dell’epidemia (Codogno, 20 febbraio 2020), dopo oltre 150 mila morti, è giunto il momento che chi ha gestito l’epidemia risponda alle tante domande che finora non hanno trovato una risposta.

Ecco le dieci che ci paiono più importanti:

  1. Perché, all’inizio della pandemia, è stato dichiarato che l’Italia era “prontissima” ad affrontare il virus, nonostante il piano antipandemico del 2006 non fosse stato attuato, e tantomeno aggiornato?
  1. Perché, dopo aver preso in considerazione la chiusura immediata (primi giorni di marzo) della zona di Nembro e Alzano, si è rinunciato a metterla in atto?
  1. Perché è stata completamente ignorata la lettera aperta degli scienziati italiani che, fin dal 29 marzo del 2020, avevano suggerito di sostituire ai lockdown prolungati il protocollo dei paesi orientali, basato su test di massa, tracciamento elettronico e quarantene vere (non in famiglia)?
  1. Perché, almeno dopo il primo anno, non è stato creato un sistema di sorveglianza epidemiologica e allerta precoce nelle scuole?
  1. Perché nel Comitato-tecnico-scientifico sono stati esclusi ingegneri e studiosi di qualità dell’aria?
  1. Perché, nonostante le evidenze scientifiche disponibili fin dall’estate del 2020, è stata prima negata e poi trascurata la trasmissione aerea del virus?
  1. Perché, anche dopo il riconoscimento della trasmissione aerea del virus da parte dell’OMS (luglio 2020), il problema della messa in sicurezza degli ambienti chiusi non è mai stato affrontato in termini ingegneristici, ovvero garantendo, anche mediante la ventilazione meccanica controllata, la qualità dell’aria respirata?
  1. Perché gli interventi di messa in sicurezza da agenti patogeni respiratori negli ambienti chiusi non sono rientrati nel PNRR?
  1. Perché fino all’ultima parte del 2021 è stata negata la trasmissione del virus da parte dei vaccinati, salvo poi – erroneamente – considerarla trascurabile rispetto a quella dei non vaccinati?
  1. Perché la somministrazione della terza dose è iniziata solo a ottobre 2021 quando almeno da giugno, grazie ai dati israeliani, si conosceva la ridotta protezione temporale dei vaccini rispetto al rischio di contagio?

 

    Giorgio Buonanno – Luca Ricolfi

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Per chi vuole approfondire:

  1. Perché, nonostante le evidenze scientifiche disponibili fin dall’estate del 2020, è stata prima negata e poi trascurata la trasmissione aerea del virus?

https://www.who.int/news-room/commentaries/detail/transmission-of-sars-cov-2-implications-for-infection-prevention-precautions

https://www.who.int/news-room/questions-and-answers/item/coronavirus-disease-covid-19-how-is-it-transmitted

  1. Perché gli interventi di messa in sicurezza da agenti patogeni repiratori negli ambienti chiusi non sono rientrati nel PNRR?

 Morawska et al. (2021) A paradigm shift to combat indoor respiratory infection. Science, 372 (6543). pp. 689-691. ISSN 0036-8075).

  1. Perché fino all’ultima parte del 2021 è stata negata la trasmissione del virus da parte dei vaccinati, salvo poi – erroneamente – considerarla trascurabile rispetto a quella dei non vaccinati?

https://www.cdc.gov/coronavirus/2019-ncov/variants/delta-variant.html

https://www.thelancet.com/journals/laninf/article/PIIS1473-3099(21)00648-4/fulltext

 




Sui meccanismi di trasmissione di SARS-COV-2 (osservazioni critiche sull’articolo del prof. Saccani)

Con riferimento all’articolo dal titolo ”Analisi della trasmissione di SARS-CoV-2: influenza delle condizioni termoigrometriche rispetto al rischio di diffusione del contagio” di C. Saccani et al., avrei piacere di condividere alcune osservazioni che limiterò, per motivi di tempo, alla parte iniziale.

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Lo studio prende le mosse dalla constatazione che, allo stato dell’arte, manca una terminologia rigorosa e univocamente accettata nella letteratura tecnico-scientifica con riferimento alle modalità con cui può avvenire la trasmissione del contagio di SARS-CoV-2 e, in particolare, alle modalità di trasporto cosiddette “droplet” e “airborne”.

La trasmissione di agenti patogeni respiratori è una tematica dibattuta dai tempi degli antichi filosofi (https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=3904176) ma da quasi 100 anni (si vedano il lavori di Wells del 1934) è nota per esperti di aerosol e ingegneri ambientali la dinamica delle goccioline emesse da un soggetto durante una attività metabolica e respiratoria. Non è accettabile (perché non è vero) affermare che non esiste una terminologia rigorosa a riguardo.

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Partendo dalla definizione di una terminologia rigorosa ed univoca, attraverso l’applicazione un nuovo modello per lo studio della propagazione del contagio, lo studio, sulla base di valutazioni fisico-matematiche, dà ragione di come il contagio avvenga solo mediante goccioline, sole a poter veicolare efficacemente il virus.

E’ curioso che gli autori prima parlino di assenza di terminologia rigorosa e poi affermano che il contagio avvenga solo mediante goccioline. Cosa intendono per goccioline? Per gli studiosi di aerosol le goccioline altro non sono che particelle liquide, indipendentemente dalla loro dimensione. Per l’OMS, in una definizione sbagliata ormai corretta sulla base delle interazioni con la comunità scientifica degli studiosi dell’aerosol e degli ingegneri, le goccioline erano particelle con traiettoria balistica, soggette alla gravità, con dinamiche non dipendenti dall’ambienti circostante e con diametro > 5 µm.

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Infatti, la gittata di una goccia emessa da un soggetto infetto, ovvero la distanza di sicurezza da mantenere per minimizzare il rischio di contagio, dipende da numerosi parametri fra i quali, di notevole importanza, il grado igrometrico dell’ambiente in cui questa, la goccia, si trova: da esso, infatti, dipende la velocità di evaporazione e, quindi, la sussistenza della goccia.

Pertanto, lo studio dimostra che il controllo del trasporto del contagio non può essere affrontato in assenza di controllo del grado igrometrico dell’ambiente in cui la goccia si muove: infatti, la definizione stessa di distanza di sicurezza perderebbe di significato in quanto la gocciolina potrebbe “sopravvivere” nell’ambiente con elevata umidità, anche per tempi lunghi e realizzando percorsi casuali, qualora le goccioline fossero al di sotto di certe dimensioni.

Come proposto da W. Wells quasi 100 anni fa, nel continuum di diametri delle particelle emesse è possibile ipotizzare due comportamenti differenti (in realtà il problema è molto più complesso perché viene emessa una nuvola di gas turbolento multifase e non singole particelle). Le goccioline più piccole (diametri inferiori a 100 µm), anche a seguito della rapidissima evaporazione tenderanno a galleggiare e a “riempire” l’ambiente chiuso circostante seguendo i moti convettivi dell’ambiente e percorrendo distanze non prevedibili solo sulla base della velocità di emissione. Le goccioline più grandi invece saranno soggette alla gravità (con scarsa influenza della evaporazione) e cadranno al suolo in prossimità del soggetto emettitore. Detto questo, trovo il testo completamente errato.

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A conclusione dello studio, è riportato un caso di studio che dimostra non solo la correlazione fra grado igrometrico e distanza di sicurezza ma anche che la trasmissione del contagio di tipo airborne, ovvero tramite virioni rilasciati a seguito di evaporazione della goccia, in virtù della loro bassissima concentrazione e del moto di tipo browniano che li caratterizza, abbia una probabilità del tutto trascurabile rispetto alla trasmissione dell’infezione da SARS-CoV-2.

 Ci sono una serie di errori condensati in queste poche righe. Il caso di studio non può dimostrare nulla perché parte da ipotesi sbagliate (al massimo è coerente con le ipotesi), non può esistere concettualmente una correlazione tra umidità (che vale per goccioline piccole, aerosol) e distanza di sicurezza per goccioline grandi (quelle definite dall’OMS come droplets), non esiste una dinamica dei virioni “nudi” con particelle di dimensioni ultrafini ma il risultato finale dell’evaporazione porta ai cosiddetti droplet nuclei con diametri attorno a 1-4 µm, non si capisce da dove viene la bassissima concentrazione e i moti browniani e soprattutto la presunzione che il contagio non dipenda dall’aerosol.

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Modalità di trasporto cosiddetta airborne: definita come quella modalità di trasporto in cui la particella solida che ospita il virione risulti aerotrasportata, ovvero, il cui movimento sia conseguente al moto della corrente fluida che la trasporta.

La massa virale è parte del nucleo di una particella liquida (gocciolina) che conserva anche a seguito della evaporazione dimensioni micrometriche. Non si capisce quale sarebbe la particella solida che trasporta il virione.

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Trasmissione del contagio attraverso aerosol, in accordo alla definizione fornita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS): “Aerosol transmission refers to the possibility that fine aerosol particles,…., which are generally considered to be particles <5μm in diameter, remain airborne for prolonged periods and be transmitted to others over distances greater than 1 m” (OMS, 2020).

Dalle due definizioni non è chiaro se ci si riferisca a particelle così fini da rimanere in sospensione in aria calma come conseguenza di moti Browniani, ovvero senza componente di moto del fluido di trasporto, oppure se le definizioni includano anche particelle di dimensioni più grandi ed in movimento in sospensione fluida come conseguenza della velocità di trascinamento della corrente che le trasporta.

La definizione dell’OMS era sicuramente errata (si veda quanto riportato in https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=3904176) ma l’errore storico è stato quello di associare la condizione di trasmissione aerea a quella di maggiore efficacia di deposizione nella zona tracheo-bronchiale (5 µm). I moti Browniani non sono parte di questo discorso.

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Chi scrive ritiene che la terminologia migliore, in quanto rigorosa, univoca e più adatta allo studio dei modelli che si riferiscono alla propagazione ambientale delle particelle, sia la seguente:

Airborne: si definisce come tale il trasporto di particelle solide in sospensione fluida nell’ambiente considerato, comunque esse siano trasportate, ossia indipendentemente dalla velocità di trasporto della corrente fluida che le contiene, comprendendo quindi anche il trasporto di particelle ultrafini soggette a moti browniani;

Droplet: si definisce come tale il trasporto di goccioline nell’ambiente esaminato, indipendentemente dalla dimensione e comunque esse siano

Per aerosol si intende una sospensione metastabile di particelle solide o liquide disperse in un fluido. Droplet è una particella liquida. Queste sono definizione rigorose ed accettate ed autori non del settore non possono pensare di proporre definizioni (queste si) senza senso.

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Si fa presente che molta della letteratura scientifica attuale, in particolare per la trasmissione del virus SARS-CoV-2, fa riferimento alla modalità cosiddetta “airborne” anche per indicare emissione da parte dei soggetti infetti di goccioline di secrezioni ultrafini (dimensioni <5 micron) (come ad esempio nella lettera firmata da 239 ricercatori indirizzata alla WHO) (Morawska et al. 2020) [239 ricercatori]. Ciò provocherebbe confusione quando ci si addentrasse nell’analisi termo fluidodinamica che segue in quanto la gocciolina rappresenta una massa potenzialmente variabile, in funzione delle caratteristiche ambientali, mentre non è così per la particella solida.

Devo dire che ho fatto fatica a capire quanto riportato, nonostante sia stato uno dei 36 studiosi che ha scritto la lettera poi firmata da 239 studiosi. Facciamo riferimento alla trasmissione aerea perché questa è la modalità di trasmissione. Riguarda particelle in emissione fino a diametri di circa 100 µm (e non 5 µm come per l’OMS). E la nostra lettera ha provocato talmente confusione (!?!) che l’OMS ha cambiato approccio in modo epocale e ha riconosciuto la trasmissione aerea.

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La classificazione che individua la trasmissione droplet indipendentemente dalla dimensione delle goccioline, esclude in maniera chiara e univoca il particolato solido come vettore di potenziale contagio (Bontempi, 2020; Domingo et al., 2020).

Qui ho capito le mie difficoltà di comprensione e concludo i miei commenti. Gli autori fanno riferimento al fantomatico trasporto del virus con il particolato, ovvero quella dinamica cavalcata in modo speculativo dalla SIMA (Società Italiana Medici dell’Ambiente) e da altri autori che ipotizzava, senza alcuna competenza della materia, il contagio all’aperto su grandi distanze (https://www.scienzainrete.it/articolo/inquinamento-e-covid-due-vaghi-indizi-non-fanno-prova/stefano-caserini-cinzia-perrino). Una sorta di ritorno alla teoria dei miasmi…

In conclusione ritengo che l’articolo pubblicato sul sito della Fondazione Hume non abbia basi scientifiche e presenti numerosi errori logici e scientifici.

Prof. Giorgio Buonanno

Università di Cassino e del Lazio Meridionale

Queensland University of Technology, Brisbane, Australia