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Società

Se Genova cominciasse a ricordare i suoi geni!

9 Dicembre 2022 - di Dino Cofrancesco

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Mi è capitato tra le mani un vecchio libro, il Dizionario degli scrittori liguri  di Federica Pastorino e Marilena Venturini (ed. De Ferrari 2007), che ho sfogliato con crescente, divertita, incredulità. E’ il tipico prodotto di una ‘scuola di pensiero’—quella del coordinatore Francesco De Nicola—diffusa nelle città di provincia, dove le storie si scrivono, soprattutto, per ricordare parenti e amici. <Omis-sioni o ammissioni—spiega De Nicola, allora Presidente del Comitato di Genova della ’Dante Alighieri’—nascono dal giudizio di chi non rinuncia ad esprimere le proprie valutazioni nel compilare un dizionario, opera apparentemente solo informativa>. Già l’informazione non deve essere stata la preoccupazione principale dello staff di italianisti che si sono accinti alla benemerita impresa editoriale. Mancano, ad es., figure come Gianni Baget Bozzo—uno dei più geniali polemisti cattolici del suo tempo-, il critico cinematografico Claudio G. Fava, il regista Pietro Germi—una delle icone del cinema italiano—il filosofo Giuseppe Rensi etc. etc. Due omissioni, però, mi sembrano particolar-mente significative: quella di Giovanni Ansaldo—forse il maggiore giornalista italiano del 900—e di Vilfredo Pareto, l’economista-sociologo, assieme a Max Weber e a Emile Durkheim, fondatore delle moderne scienze sociali.

Come mai la Superba ha dimenticato queste sue glorie e, in particolare, Pareto, che tutto il mondo intellettuale ci invidia? Forse per entrambi hanno giocato   posizioni politiche  che non rientrano nel mainstream ideologico della sinistra, tant’è che nessuna via, piazza, scuola pubblica—come ho fatto rilevare altre volte—è stata dedicata ai due ‘immortels’ genovesi. E’ vero che non possono rivendicare meriti ‘resistenziali’ (Pareto, tra l’altro, morì nel 1923) ma la cultura politica di un popolo che si rispetti rende omaggio a tutti i suoi geni, conservatori o progressisti che siano. In Francia Chateau-briand non è meno celebrato di Victor Hugo. Fu un Presidente della Repubblica ligure  a consegnare, nel 1982, la ‘Penna d’oro’ a Giuseppe Prezzolini e a ringraziarlo per le sue critiche dei costumi politici nazionali. Oggi Sandro Pertini sarebbe censurato dall’Anpi!

Dino Cofrancesco

Presidente dell’Associazione Culturale Isaiah Berlin

dino@dinocofrancesco.it

Follemente corretto (2) – Cieco e nano, la fine dell’ironia

8 Dicembre 2022 - di Luca Ricolfi

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Che, da tempo, il politicamente corretto stia evolvendo in follemente corretto lo sapevo. E’ questo, del resto, il motivo per cui ho cominciato a parlarne qui e altrove.

Di vere e proprie follie ne ho scovate decine, soprattutto nei paesi di lingua inglese, a partire dagli Stati Uniti. Per esempio che non si può vendere uno shampoo per capelli “normali”, perché altrimenti qualcuno potrebbe sentirsi anormale se compra uno shampoo per capelli secchi.

Però qualche giorno fa, girovagando su internet, mi sono imbattuto in un caso che supera tutti quelli che avevo incontrato e catalogato (sì, ho questa perversione, faccio collezione di follie).

Ebbene, si tratta di questo. In un breve editoriale pubblicato sul portale dell’Università di Padova, uno studioso che si occupa di biologia evoluzionistica racconta che sta per pubblicare negli Stati Uniti un testo di argomento scientifico (l’evoluzione), e che la correttrice di bozze della casa editrice gli ha chiesto di cambiare alcune parole. Due in particolare: cieco e nano, in quanto offensive per i non vedenti e le persone di bassa statura.

La solita ipocrisia degli eufemismi, penserete voi. E invece no. Lo studioso nel suo libro usava l’aggettivo cieco per parlare della selezione naturale che è cieca (cioè non segue un piano). E usava la parola nano per parlare di una specie particolare di elefanti, detti elefanti nani, per cui l’essere di dimensioni ridotte può essere vantaggioso, in quanto abitanti di isole piccole.

Finito di leggere il resoconto, ho pensato a uno scherzo. Magari lo studioso in questione non esiste, o è un dottorando burlone che si diverte a prenderci in giro, o vuole denigrare gli Stati Uniti. Quindi ho controllato: in realtà lo studioso in quesitone esiste, si chiama Telmo Pievani, ha studiato in Italia e negli Stati Uniti, attualmente è docente ordinario di Filosofia delle scienze biologiche, ha incarichi nazionali e internazionali prestigiosi, un mare di pubblicazioni, un curriculum accademico splendido.

Quindi la mia ipotesi era sbagliata: non siamo davanti a uno scherzo. Dobbiamo trovare un’altra spiegazione. Se una correttrice di bozze non capisce che “evoluzione cieca” e “elefante nano” sono espressioni che non possono offendere nessuno, una ragione deve esserci.

Ma quale può essere?

E’ a questo punto che mi sono tornati in mente alcuni studi recenti che, come sociologo che per trent’anni ha lavorato con gli psicologi, mi avevano molto incuriosito. Secondo questi studi il quoziente intellettivo (QI) dei cittadini dei paesi sviluppati sarebbe aumentato sistematicamente per più di mezzo secolo (dagli anni ’40 alla fine degli anni ’90 del secolo scorso), ma nel nuovo millennio sarebbe in diminuzione. Il primo effetto (aumento QI) viene chiamato effetto Flynn, il secondo (diminuzione QI) viene chiamato effetto Flynn inverso, o retrogrado.

Ho sempre guardato con scetticismo a questo tipo di studi, pieni di insidie statistico-matematiche. Ma, dopo aver appreso quel che è capitato al prof. Pievani, sono meno scettico. E se fosse proprio così, che stiamo diventando meno intelligenti?

Dopotutto quel che la correttrice di bozze ha manifestato è una totale mancanza di ironia. E la letteratura scientifica su una cosa è concorde: l’ironia è la testimone migliore dell’intelligenza.

Follemente corretto (1a puntata) – Atlete sotto schiaffo

6 Dicembre 2022 - di Luca Ricolfi

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Forse ricorderete che, ai tempi della discussione sul Ddl Zan, a prendere nettamente posizione contro di esso furono non solo un manipolo di studiosi di sinistra e molte associazioni cattoliche, ma anche una parte non trascurabile del mondo femminile e di quello LGBT, a partire da Arcilesbica. Tra le ragioni dell’opposizione, in quest’ultimo caso, vi era l’art. 1, che pareva aprire la strada alla cosiddetta autodeterminazione del genere (self-id), ossia al diritto di definirsi maschio o femmina indipendentemente dal genere biologico e da qualsiasi percorso di transizione (cambio di sesso).

Fu la scrittrice e giornalista Marina Terragni, in particolare, a segnalare la pericolosità e la follia di questa specie particolare di politicamente corretto: se può decidere arbitrariamente il proprio genere, il maschio che ama percepirsi come femmina (ma che conserva un corpo maschile), potrà accedere agli spazi riservati alle donne, ad esempio nei reparti femminili delle carceri, o nelle competizioni sportive.

Inutile dire quanto temibile sia la prima possibilità (carceri) e quanto iniqua sia la seconda (gare sportive). Quel che non tutti sanno, però, è che entrambe queste possibilità non sono teoriche, ma si sono già realizzate. In Canada, in California, nello Stato di Washington, da qualche tempo esistono leggi che, di fatto, consentono a carcerati maschi autoidentificati come femmine di accedere ai reparti femminili.

Ma il caso forse più interessante è quello delle competizioni sportive. Nel nuoto, ad esempio, a Lia Thomas, nata maschio ma in transizione a femmina, è stato concesso di gareggiare con le nuotatrici anziché con i nuotatori, così sbaragliando le povere atlete donna.

Pochi giorni fa la Fina (Féderation Internationale de Natation) ha finalmente fatto retromarcia, e pare avviata a non consentire più – in futuro – lo svolgersi di gare così inique. La vera domanda, però, non è perché abbia cambiato posizione. La vera domanda è come abbia potuto, in passato, assumerne una posizione così folle.

Non mi porrei questa domanda se, nei medesimi giorni in cui la Federazione Internazionale Nuoto faceva marcia indietro, non fosse giunta la notizia che, invece, la Federcalcio tedesca faceva marcia avanti: dalla prossima stagione, nel calcio giovanile, le “persone transgender, intersessuali e non binarie” potranno decidere se giocare nei tornei delle donne o in quelli degli uomini (indovinate che cosa sceglieranno…).

E allora proviamo a rispondere, a quella domanda. Come mai, prima del nuoto internazionale, poi nel calcio germanico, le atlete donna non hanno alcuna tutela dall’intrusione di maschi più o meno trasformati? Come mai le federazioni sportive violano con tanta leggerezza un principio cardine dell’etica dello sport, e cioè che le competizioni devono essere eque? Come mai continua ad apparire ovvio – anche in questi tempi di follemente corretto – che non si può far combattere un peso massimo con un peso piuma, ma del medesimo principio improvvisamente ci si scorda quando si tratta di garantire alle donne l’equità delle competizioni in cui sono impegnate?

L’unica riposta che vedo è la seguente: il potere intimidatorio della lobby Trans è molto superiore al potere di pressione delle lobby femminili. Sul perché le cose stiano così, avrei pure qualche idea, ma ne parleremo in un’altra puntata.

Decreto anti-rave, un problema di coerenza

10 Novembre 2022 - di Luca Ricolfi

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Sull’opportunità di una legge che, anche in Italia come in altri paesi europei, vieti i rave party sono d’accordo in molti, anche a sinistra, e in particolare nel Pd. Magari lo dicono a denti stretti, ma alla fine lo pensano. Del resto non occorreva attendere le recenti prese di posizione anti-rave di Dario Nardella (sindaco di Firenze) o di Stefano Bonaccini (candidato alla segreteria del Pd) per scoprire che da tempo esiste, dentro la sinistra, una corrente “securitaria” che prende sul serio la domanda di sicurezza dei cittadini. Pensiamo alle esperienze di governo di Flavio Zanonato (sindaco di Padova), di Sergio Cofferati (sindaco di Bologna), dell’ex ministro Marco Minniti, a lungo impegnato nel contrasto all’immigrazione irregolare (esperienza raccontata in un libro significativamente intitolato Sicurezza è libertà).

Dunque perché tanto si discute, a sinistra, del recente decreto anti-rave? Credo che le ragioni siano due, e che vadano accuratamente distinte. La prima è che, per alcuni, non c’è nulla di male nei rave party, che tutt’al più andrebbero rubricati fra le manifestazioni del “disagio giovanile”. La seconda è che il decreto legge che si propone di renderli illegali è mal scritto ed eccessivo.

Credo che quest’ultima obiezione sia più che fondata, e che farebbe  malissimo il centro-destra a non recepirla. Il punto debole del decreto è che la fattispecie del reato che si vuole introdurre è priva del requisito di determinatezza. Quando si dice che un “raduno” è illegale se vi partecipano più di 50 persone e “dallo stesso può derivare un pericolo per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica” si ricorre a un concetto – quello di pericolosità – estremamente vago, tanto più se applicato a beni giuridici a loro volta vaghi come l’ordine, l’incolumità e la salute pubblica. In breve, i rischi di una applicazione estensiva e discrezionale della norma sono intrinseci alla sua formulazione.

Si potrebbe chiudere il discorso dicendo che non dobbiamo stupirci, la destra fa la destra, ha vinto le elezioni, e non fa che mettere in pratica le proprie idee. Io invece mi stupisco. Perché mi ricordo quel che accadde con l’articolo 4 del Ddl Zan. Allora gli esponenti della destra (e alcuni dissidenti di sinistra) fecero notare, secondo me giustamente, che la fattispecie del reato era troppo vaga, e che tale vaghezza minacciava di limitare la libertà di espressione. Stabilire che convincimenti, opinioni e idee possono sì essere liberamente espresse, ma solo se “non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti” lascia un margine di discrezionalità eccessivo a chi deve applicare la norma.

Anche qui, come sul decreto anti-rave, la parola chiave è “pericolo”. Chi, e con quali strumenti, può stabilire se da una condotta o un’idea deriva effettivamente un pericolo? Tanto più se il pericolo riguarda entità dai confini sfumati come gli “atti discriminatori”, o la “incolumità pubblica”.

Ecco perché questa prima mossa del governo Meloni mi ha stupito. Se si ritiene ineccepibile questa formulazione del decreto anti-rave, bisogna, per coerenza, far cadere le obiezioni all’articolo 4 del Ddl Zan. Se, viceversa, si vogliono mantenere queste ultime, allora occorre ammettere che il decreto anti-rave è mal formulato, ed acconciarsi ad accettare che il Parlamento lo corregga, come in una recente intervista lascia intendere il ministro Piantedosi quando dice che “la conversione dei decreti si fa in Parlamento, non sui social” e che “in quella sede ogni proposta sarà esaminata dal governo”.

Speriamo che sia così, e che la saggezza prevalga anche nella definizione di che cos’è un “raduno” (bastano 50 persone?) e nella fissazione delle pene (specie di quella minima, fissata a tre anni di carcere). Sarebbe un bene per tutti, cittadini e governanti. Per i cittadini, perché cadrebbe ogni timore riguardo alla libertà di manifestare. Per i governanti, perché ristabilirebbe la dovuta continuità fra le scelte di oggi sui rave party e le obiezioni di ieri al Ddl Zan.

La battaglia del velo

11 Ottobre 2022 - di Luciana Piddiu

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Correva l’anno 2003 quando l’editore Gallimard diede alle stampe ‘’Bas les voiles’’della giovane esule iraniana a Parigi Chahdortt Djavann. Il saggio spiegava in maniera chiara ed esauriente il significato del velo islamico altrimenti detto hijab.

L’etimologia della parola ci aiuta a capirne il significato dandoci la chiave interpretativa. Hijab viene dalla radice araba h-i-b e significa letteralmente rendere invisibile allo sguardo, nascondere. Che cosa e perché nascondere? La donna. I benpensanti dicono proteggere. Occorre tenerla al riparo dallo sguardo maschile perché fin dall’infanzia suscita il desiderio, anzi lo crea. Questa è la sua colpa. I corpi femminili sono colpevoli perché sono fonte di inquietudine, angoscianti, sporchi, impuri, possono trasmettere malattie e sono sorgenti di peccato. In altri termini questi corpi desiderati e proibiti, dissimulati o esposti sono una minaccia, possono circolare tra gli uomini solo come ombre.

Il corpo femminile in sé è tabù, a partire da quello della madre desiderata e insieme interdetta. Il velo, abolendo la promiscuità, materializza la separazione radicale tra lo spazio pubblico che appartiene agli uomini e lo spazio privato riservato alle donne. Salva – per così dire – l’uomo dai suoi stessi inconfessabili desideri.

Il velo deve nascondere la macchia originaria: essere nata donna. Non essere come l’uomo rende la donna mancante, inferiore. Il velo in tutte le sue incredibili varietà (chador, burqa, hijab, niqab) condanna la donna a essere incarcerata per salvare l’onore maschile che si radica nel corpo delle ‘sue’ donne (madri, sorelle, mogli, figlie). Il corpo delle donne va protetto dagli sguardi rapaci degli altri maschi: è in gioco l’identità del maschio, la cui virilità consiste proprio nel controllo delle ‘sue’ donne. Wassyla Tamzali -avvocata algerina femminista – ha sempre detto che la donna velata nello spazio pubblico rende esplicita all’esterno e materializza la logica dell’harem.

Fatiha Agag-Boudjahlat ribadisce nel suo bel libro ‘Le grand detournement ‘appena pubblicato gli stessi concetti espressi da Tamzali e Djavann. Il velo non mette comunque al riparo dalle aggressioni: stupri, prostituzione e pedofilia sono largamente diffusi anche nel mondo islamico. In ogni caso non si può assumere il velo come simbolo di libertà adducendo le proprie convinzioni religiose o le rivendicazioni identitarie degli indigenisti o ancora peggio affermare che esprime la protesta contro la politica occidentale.

Non si può essere dalla parte delle donne iraniane che lottano e rischiano di morire in quanto contrarie all’obbligo del velo e contemporaneamente sostenere qui da noi le tesi degli indigenisti. O peggio ancora fare propaganda al velo come segno di libertà (vedi la pubblicità del Consiglio d’Europa in tema di istruzione). Mentre in Iran decine di donne muoiono per liberarsi dal velo il nostro Consiglio d’Europa promuoveva l’hijab come simbolo di libertà: “ La beauté est dans la diversité, comme la liberté est dans l’hijab”. Con

tutta la buona volontà del mondo non si può cambiare di segno a quello che rimane il simbolo materiale dell’alienazione psichica dell’uomo, che fonda il suo onore sul controllo dei corpi delle donne di famiglia, considerate proprietà personali e della complicità/ sottomissione della donna. ’’Velarsi significa -che si sia o no consapevoli- concepirsi come oggetti sessuali destinati agli uomini a cui si riconosce il diritto di disporre dei nostri corpi’’

Luciana Piddiu

PS. A Justin Trudeau che ha istituito la W.H.D. Giornata mondiale del velo islamico attribuirei un bel Ig-Nobel per la lungimiranza; a Susan Moller Okin la nostra gratitudine per averci messo in guardia contro il multiculturalismo che fa prevalere idiritti delle comunità a discapito dei diritti individuali della donna.

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