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Società

Insegnare contro vento – di Lorenzo Morri, Alberto Gualandi, Francesco Genovesi (insegnanti di scuola secondaria superiore)

13 Luglio 2023 - di Lorenzo Morri

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Il rapido sviluppo delle tecnologie digitali e la loro estensione a ogni ambito della vita privata e pubblica sta facendo nascere una nuova “religione”? Che oggi si abbia nei confronti della digitalizzazione del mondo umano e naturale un atteggiamento di “salvifica attesa” – dalla medicina alla finanza, dalla ricerca scientifica alla pubblica amministrazione, dall’organizzazione del lavoro alla mobilità urbana, alla crisi climatica – è sotto gli occhi di tutti. Quei pochi che in ciò intravvedono i segni di una profonda mutazione antropologica, di cui è opportuno sottolineare i rischi, appaiono inguaribili scettici. Persone ingenue che si oppongono ridicolmente al corso della storia (e al “verbo” che la anima).

Si prenda l’istruzione. Il Pnrr ha destinato ingenti fondi a un’innovazione degli ambienti di apprendimento imperniata sulle dotazioni digitali. Che la frontiera del progresso didattico passi necessariamente per la digitalizzazione è uno dei dogmi della nuova religione. Nessuna discussione pedagogica ne è a fondamento, né sostanzia il documento “Scuola 4.0” che illustra le linee ministeriali. L’enunciato secondo cui si scalzerebbe così lo schema anacronistico della lezione frontale appare puramente ideologico. Pluridecennali sperimentazioni didattiche d’epoca pre-digitale hanno messo in questione la “frontalità” – operazione che esige, del resto, non meri investimenti, ma una riflessione sui fini dell’educazione e sulla non neutralità degli strumenti, cioè sull’intrinseca capacità di strumenti diversi di prefigurare fini diversi.

Ma i dogmi non si discutono. Nessuno scrupolo sui pericoli a cui bambini e adolescenti sono esposti dalla già massiccia mediazione digitale delle esperienze di vita, a cui “Scuola 4.0” si accoda: riduzione della memoria di lavoro e a lungo termine, dell’empatia e della concentrazione, delle aree cerebrali dell’astrazione e del giudizio etico ecc. Nessuno scrupolo sul fatto che la scuola possa ridursi a luogo di addestramento e applicazione di procedure, anziché essere spazio sociale delle domande di senso, del dialogo, della conoscenza disinteressata, ovvero delle dimensioni fondamentali dell’umano nella sua crescita corporea e mentale. Nessuno scrupolo, infine, sugli opachi interessi commerciali che si soddisfano, anche grazie ai sistemi di raccolta dati sottesi ai canali di produttività e condivisione on-line di Big Tech.

Farsi carico di questi scrupoli richiede oggi davvero una buona dose di eresia, quella che professano le personalità della cultura e gli insegnanti che stanno sottoscrivendo Insegnare contro vento. Per la difesa della relazione educativa dalla “religione del digitale” (https://www.gruppoabele.org/it-schede-1663-insegnare_contro_vento)

* Questo testo, con il titolo di Scuola digitale: i motivi dei prof “contro vento”, è stato pubblicato su “Il Corriere della Sera” del 30 maggio 2023.

“Ansia e registro elettronico” di Lorenzo Morri, Alberto Gualandi e Francesco Genovesi (insegnanti di scuola superiore)

12 Luglio 2023 - di Lorenzo Morri

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A partire dal primo anno scolastico vissuto per intero in regime di pandemia (2020/21), la stampa quotidiana ha cominciato a dedicare uno spazio non trascurabile al tema del disagio giovanile, correlandolo in base ai dati via via emergenti, da un lato, agli effetti su benessere e salute mentale prodotti dalle chiusure, dall’altro alla sempre più massiccia e precoce esposizione al virtuale e alle nuove forme di relazione intessute sui social media. Il progressivo esaurirsi dell’emergenza sanitaria e la cessazione dei confinamenti, a lungo affrontati da bambini e adolesecenti nei propri ambiti centrali d’esperienza (scuola, sport, tempo libero, volontariato ecc.), non ha fatto venir meno questa attenzione pubblicistica, che si è consolidata quasi in nuovo settore della cronaca, a cavallo tra costume e abbozzo di analisi sociale (si veda G. Pierpaoli, «Fuori dai radar». Lo studente dell’era pandemica nel racconto dei media, in L’onda lunga. Gli effetti psicologici e sociali della pandemia, Erickson, Trento, 2023).

A titolo di esempio, l’inchiesta di “Repubblica Bologna” del 19 dicembre 2022 riaccendeva, in coda agli anni delle restrizioni, i fari intorno a un disagio sempre più allarmante, soprattutto all’interno della scuola secondaria superiore. Demotivazione, ansia, attacchi di panico, stati depressivi, rabbie, che sfociano nella discontinuità della frequenza, nei ritiri e nelle bocciature per troppe assenze (circa 67.000 nelle sole superiori, a giugno 2022). A Tutta la città ne parla(Rai Radio3), pochi giorni prima, a partire da alcuni tragici fatti estremi, psicologi e pedagogisti ne avevano già discusso, portando sul banco degli imputati la nostra “società iper-competitiva”, nella quale successo, bellezza e popolarità divengono mete imperative fin da bambini, nello sport, nello studio e nelle cerchie sociali virtuali.

Questi fenomeni chiamano in causa inevitabilmente anche la voce di insegnanti e dirigenti scolastici.

Chi oggi entra in aula sa bene che gli studenti oramai guardano alla scuola non più come a un luogo di scoperte conoscitive e incontro con i coetanei, ma come a un’agenda, fitta di compiti, interrogazioni e verifiche scritte, da affrontare e via via depennare in attesa della conclusione del quadrimestre. Molte sono le ragioni di questa deriva percettiva. Qui richiamiamo l’attenzione sulla funzione di rinforzo giocata dal cosiddetto “registro elettronico” e dal suo perfezionamento come app per smartphone.

Questo strumento era nato con due finalità: 1) dematerializzare il tradizionale registro, nel suo valore di atto pubblico in cui il lavoratore firma la sua presenza e documenta quella degli studenti, il programma svolto e i voti assegnati; 2) creare un’interfaccia tra insegnanti studenti e famiglie, che fornisse servizi didattici e informativi. Tuttavia il “registro elettronico” è diventato molto di più. Per gli studenti è una delle principali app, forse seconda solo a Instagram e Tik Tok, da consultare compulsivamente alla ricerca di aggiornamenti. Aggiornamenti su cosa? Sulla “uscita” dei propri voti. I docenti, infatti, nel caso in cui non enuncino verbalmente gli esiti, possono sempre inserirli on-line successivamente. All’interessato non resterà che monitorare il registro, nell’attesa incerta e spasmodica di apprendere che cosa apparirà sulla ruota del suo destino scolastico.

Ci chiediamo se questo non abbia qualcosa a che fare con l’ansia.

Ma c’è di più. Nelle sue più evolute versioni, elaborate da aziende di software fuori dai binari di qualsivoglia riflessione psico-pedagogica, il registro elettronico tenta, al pari di ogni social media, di anticipare i desideri (le ansie?) dei suoi utenti, contribuendo a forgiarli. Reca in home page, accanto agli appuntamenti della giornata (compiti, interrogazioni, verifiche), l’elenco dei voti “usciti” di recente (bollini rossi per quelli negativi, bollini verdi per i positivi) e, addirittura, un enorme richiamo grafico circolare, al centro del quale campeggia a caratteri cubitali un numero: è il numero della media aritmetica di tutti voti ottenuti dallo studente nel periodo di valutazione in corso (non una media dei voti nelle singole materie, ma una media generale tra tutti i voti!).

Capito? Lo studente di oggi non incontra più una volta ogni tanto il feedback valutativo attraverso la voce dei suoi insegnanti, per poi riceverlo scritto in pagella a fine anno. Oggi, in tutte le circostanze in cui apra il registro elettronico, anche solo per cercare gli esercizi di matematica da svolgere o le pagine di italiano da studiare, egli si imbatterà nella chiara e spietata definizione di identità che la scuola gli rimanda: 8,7, o 6,3, o magari 5,2 o 4,7. A ogni ragazzo un numero. E che gli rimanga ben impresso in mente, in modo che desideri più di ogni altra cosa modificarlo verso l’alto, anche solo di pochi decimali, per stare al passo nella lotta emulativa della vita!

Questo ha forse qualcosa a che fare con l’ansia?

Nella convinzione erronea che il registro elettronico fosse soltanto uno strumento neutro di facilitazione, la scelta in merito alla sua adozione non ha mai coinvolto i collegi dei docenti, organi competenti in materia didattica. Ciò, accanto al problema psico-sociale da noi segnalato, pone anche un problema democratico. Insegnanti e dirigenti hanno ancora la facoltà di proteggere ed emancipare la relazione educativa dalle distorsioni più macroscopiche indotte dalla rivoluzione digitale, oppure sono tenuti a cantare sempre e comunque “le magnifiche sorti e progressive” del mondo del web, levandosi il cappello e ringraziando per i prodotti che le software house rilasciano?

*Questo testo, in forma leggermente ridotta, è stato pubblicato con il titolo Il registro on-line consultato come Tik Tok su “Repubblica Bologna” del 4 gennaio 2023

Perché gli insegnanti non sono più autorevoli?

8 Luglio 2023 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPoliticaSocietà

Gli insegnanti devono tornare a essere autorevoli: come non condividere l’auspicio del ministro Valditara?

Forse però sarebbe utile riflettere anche sulle ragioni per cui la maggior parte degli insegnanti, a tutti i livelli, hanno perso autorevolezza rispetto a quella che potevano avere negli anni ’50 e ’60. È un discorso urticante, ma va fatto. A costo di scatenare l’ira di tutti: docenti, studenti, genitori.

Partiamo dai docenti. Un motivo, banalissimo, per cui un docente di oggi è meno autorevole di uno di 50 anni fa, è che è meno preparato. Spesso molto meno preparato.

E questo per elementari ragioni demografiche. I docenti sono un’élite intellettuale, ma se ne devi reclutare 1000 anziché 100 è inevitabile che il livello di preparazione e di talento dei reclutati sia significativamente più basso. Dagli anni del dopoguerra  a oggi il numero di docenti delle scuole secondarie superiori e dell’università è quasi decuplicato, mentre la popolazione italiana è cresciuta relativamente poco (un po’ meno del 30%). A ciò si aggiunge il fatto che gli standard di preparazione richiesti dalla scuola si sono progressivamente abbassati. Gli insegnati di oggi hanno frequentato scuole meno esigenti di quelli di ieri. Possiamo stupirci che a una minore preparazione media corrisponda una minore autorevolezza? Gli studenti di una classe capiscono al volo se un docente è ferrato nella sua materia o ha solo un’infarinatura. E si comportano di conseguenza.

Passiamo agli studenti. Oggi i poveri infelici docenti si trovano davanti ragazzi che, tipicamente, non sono stati allenati dai loro genitori a differire la gratificazione, né a obbedire agli adulti, né a rispettare il prossimo. Tendenzialmente, lo studente medio di mezzo secolo fa era “pre-lavorato” dalla famiglia, lo studente di oggi è semmai “dis-educato” dalla famiglia. Eppure dovrebbero saperlo, le famiglie, che insegnare l’autocontrollo, la disciplina e la costanza è cruciale per la crescita dei figli. Diversi studi ed esperimenti suggeriscono che è necessario farlo (perché prima dei 25 anni la corteccia prefrontale è ancora poco sviluppata), e che – se non lo si fa – si rischia di ridurre le chance future dei figli nella vita e sul mercato del lavoro. Di nuovo: possiamo stupirci che, con una massa di scavezzacolli iper-cinetici attaccati 4 o 5 ore al giorno a internet (sto esagerando, ma serve a rendere l’idea), i docenti abbiano qualche problema a farsi, non dico rispettare, ma anche solo ascoltare mentre fanno lezione?

Infine, i genitori. Ho lasciato per ultima la minaccia più grande all’autorevolezza dei docenti. Fino a 20-30 anni la scuola si reggeva su un patto di alleanza non scritto fra genitori e insegnanti. Se un insegnante dava un brutto voto, una nota, una punizione a un ragazzo, di norma i genitori stavano dalla parte dell’insegnante. Solo in circostanze particolarissime e gravissime poteva accadere che un padre e una madre andassero, non dico a picchiare il docente, ma nemmeno a protestare. Il docente  sapeva che, una volta che il ragazzo fosse arrivato a casa, sarebbe stata la famiglia a completare il suo lavoro educativo.

Oggi non è così. I genitori, da alleati degli insegnati, si sono trasformati in sindacalisti dei figli. Il docente sa che, per ogni brutto voto o punizione che dà, incombe la possibile sfuriata dei genitori. Come sa che, se non altro per non perdere l’utente, il preside si sentirà in dovere di essere molto comprensivo con i genitori che si lamentano. E magari, anziché convocare il ragazzo che ha preso una nota, convocherà il docente che ha osato dargliela.

E non è tutto. Il docente sa pure che, al momento degli scrutini e degli esami, le pressioni dall’alto per promuovere tutti o quasi tutti si faranno fortissime. E che dietro quelle pressione c’è una cosa sola, lo spettro, incubo o spada di Damocle di tutti i commissari di esame in tutti gli ordini di scuola e in tutti i concorsi: il RICORSO al Tar.

Questa metamorfosi, la trasformazione dei genitori in sindcalisti dei loro pargoli, è avvenuta circa 20-30 anni fa, ossia ben dopo il ’68 e le relative gesta. Credo che sottovalutiamo l’importanza di questo passaggio. Perché l’alleanza genitori-docenti non è un optional, ma è il prerequisito minimo perché le istituzioni educative funzionino.

Il pasticcio degli esami di maturità in Emilia-Romagna

3 Luglio 2023 - di Lorenzo Morri

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L’8 giugno scorso il Ministero dell’Istruzione e del Merito ha emanato un’ordinanza, la n. 106, con cui sono stati disposti per le aree alluvionate dell’Emilia-Romagna esami di stato conclusivi del primo e secondo ciclo di istruzione in forma agevolata. La valutazione per gli studenti residenti nelle zone interessate è stata così affidata a un solo colloquio, che, nel caso della “maturità”, integra momenti di accertamento relativi all’italiano e alla materia di indirizzo su cui si sarebbero dovute effettuare le prove scritte, ora eliminate.

Pare che la misura sia stata sollecitata da studenti, sindaci e dal presidente dell’UPI (Unione delle Province d’Italia), Michele De Pascale. Di fronte al manifestarsi nel mondo della scuola delle prime reazioni di dissenso, il ministro ha poi spiegato come non avrebbe agito da solo, ma sulla base di una scelta condivisa, all’interno di una “cabina di regia” tenutasi il 7 giugno, con l’Ufficio scolastico regionale e lo stesso Presidente della Regione, Stefano Bonaccini. La circostanza, mai smentita dai diretti interessati, è divenuta tuttavia piuttosto opaca in seguito alle dichiarazioni rese dall’assessore regionale alla scuola, Paola Salomoni, che fin dal 13 giugno, consapevole delle criticità e delle proteste via via emerse, ha più volte sottolineato che «i contenuti della modalità di svolgimento della Maturità sono di competenze esclusiva del ministero e Valditara le ha utilizzate senza mai coinvolgere la Regione» (“Repubblica Bologna”, 21 giugno). Come dire: se qualcosa del genere il territorio aveva chiesto, non era però certo quello che il ministro si è risolto a dare.

Quale sia stato il processo deliberativo alla base della scelta ministeriale è questione non secondaria, dal momento che è divenuto chiaro fin dai primi istanti come una vasta platea, forse la maggioranza, dei suoi destinatari non avesse desiderato tale agevolazione, né avesse intenzione di ricorrervi una volta decretata. Già il 9 giugno, infatti, la studentessa romagnola Maria Elena Merlo lanciava su change.org una petizione (Scritti anche in Romagna) che in poche ore raggiungeva oltre 1000 firme. Nel testo si evidenziavano dati di fatto inoppugnabili: il fenomeno alluvionale del 17 maggio è giunto a due settimane dalle fine delle lezioni e, quindi, non ha potuto compromettere in alcun modo la preparazione dei maturandi (la legge prevede, del resto, che i programmi d’esame siano conclusi e resi pubblici, con documento del consiglio di classe, entro il 15 maggio); gli scritti sono un banco di prova essenziale per competenze altrimenti difficilmente accertabili; la seconda prova negli indirizzi tecnici e professionali ha spesso carattere pratico e non può essere surrogata all’interno di un prova solo orale. La petizione, che vale di per sé un’attestazione di “maturità” per la studentessa che l’ha concepita, si concludeva ricordando come «dopo l’emergenza del Covid, che per più di due anni ci ha privato del contatto, della scuola intesa anche come “comunità”, di ogni aspetto relazionale dell’essere studenti, quest’anno finalmente abbiamo potuto vivere un ritorno pieno alla normalità, di cui l’Esame di Stato era uno dei simboli più evidenti. Questo provvedimento, per quanto pensato per agevolarci, ci ripiomba in qualche modo a quei giorni di privazioni e di anormalità e, in questo caso, senza una reale emergenza».

C’è da chiedersi, dunque: si è forse ecceduto nell’assegnare all’alluvione effetti così catastrofici da farne discendere una riduzione dell’esame di stato, come nei precedenti citati dei terremoti dell’Emilia e de L’Aquila? Il ministro, l’amministrazione scolastica territoriale e le altre autorità coinvolte hanno peccato per eccesso di zelo? Si è trattato di un atto di “buonismo” non richiesto, o addirittura di un caso di deprecabile demagogia politica?

Astenendosi dai giudizi e restando ai fatti, si deve constatare che l’impatto della calamità naturale sulla vita di insegnanti e studenti è stato in realtà assai differenziato, spesso anche all’interno dei confini di un medesimo comune, a seconda dei quartieri e persino delle strade. L’ordinanza tuttavia ha fatto di tutta l’erba un fascio, utilizzando la ricognizione topografica effettuata dalla Regione per censire danni a colture, attività produttive, case e viabilità quale strumento idoneo a constatare un universale e identico stato di bisogno per il sistema dell’istruzione e dunque la necessità dell’esonero per tutti – circa 7000 persone, pari al 20 per cento dei maturandi emiliano-romagnoli – dagli esami nella loro forma ordinaria. Il Ministero, in altre parole, si è rifiutato di affidare all’autonomia degli istituti scolastici la facoltà di individuare, sulla base dell’autocertificazione della loro residenza, gli studenti che intendessero avvalersi della facilitazione (soluzione di buon senso proposta, per esempio, da molti dirigenti scolastici del bolognese, con circolari emanate il 9 giugno). Al contrario, ha centralisticamente preteso di affermare la tassativa obbligatorietà del regime agevolato, sulla base di un’asserita, ma mai dimostrata, impossibilità tecnica di garantire ai singoli residenti delle aree alluvionate una facoltà di opzione tra la forma ordinaria d’esame e quella semplificata.

È qui che si è aperto un grave vulnus. Il ministro, per alleviare la situazione di chi dopo il 17 maggio non aveva potuto più dedicarsi alla scuola e allo studio, ha di fatto sottratto a chiunque – anche a quanti avevano perduto pochi giorni di frequenza, o magari nessuno, e non si consideravano danneggiati dalla calamità quanto al loro percorso scolastico – la possibilità di cimentarsi nell’esame secondo le forme alle quali si era lungamente preparato durante l’anno (le stesse “simulazioni” delle prove scritte si erano già tenute negli istituti, come previsto, generalmente tra aprile e la prima decade di maggio).

Il vulnus si è rivelato poi particolarmente doloroso nei casi in cui, come nel territorio bolognese, molte scuole site in zone non alluvionate sono frequentate da studenti di aree pedecollinari, montane o di pianura colpite dall’alluvione. Questi studenti, così, in virtù dell’ordinanza sono stati separati dai loro compagni di classe, che risiedendo in area non alluvionata hanno svolto, come il resto d’Italia, le prove scritte nei giorni 21 e 22 giugno. Proprio in quei giorni, come si suol dire, rituali, in cui la carriera scolastica si conclude e ci si avvia all’età adulta, intere classi sono state spezzate: gruppi significativi di 4-5 (talvolta 10) studenti per classe sono stati tenuti fuori dagli edifici pubblici, resi oggetto di divieto, a prescindere dalla propria volontà, di entrare in aula e sedersi a fianco dei loro compagni di cinque anni. Dopo il danno dell’alluvione, dunque, la beffa di un’ordinanza ministeriale!

Gli insegnanti delle scuole del bolognese hanno denunciato a più riprese, inascoltati, la forzatura e i guasti, le difformità amministrative e il rischio di contenzioso a cui il Ministero stava spianando la strada. Anche alla luce del fatto, davvero abnorme sotto il profilo giuridico, che l’ordinanza è intervenuta a modificare le modalità d’esame il giorno 8 giugno, a scuole chiuse e a scrutini d’ammissione già avvenuti. Come dire: i maturandi, benché “alluvionati” sono stati valutati il 7 e l’8 giugno dai loro consigli di classe e giudicati idonei a svolgere un esame secondo modalità ordinarie (ex OM n. 45 del 9 marzo 2023), ma hanno appreso dopo poche ore, il 9 giugno, che quelle modalità, solo per loro e indipendentemente dalla loro volontà, non esistevano più.

L’eco di queste denunce ha faticato a uscire dalla dimensione locale, raggiungendo risonanza nazionale solo grazie a “Il Messaggero” del 18 giugno (Romagna, prof e studenti contro la mini-maturità), ad una lettera di una studentessa diffusa da “Il Sole 24 Ore” del 19 giugno (La pretesa di farci rimanere bambini) e ad un commento di Nadia Urbinati sul “Domani” del 21 giugno (Il disastro delle buone intenzioni). Questi titoli riassumono bene i nodi cruciali di una vicenda in cui il ministro ha preso le sue determinazioni senza consultare chi – prof, studenti e presidi – vive tutti i giorni quel complicato mondo sociale che è la scuola pubblica, manifestando per giunta una desueta attitudine paternalistica e un’ostinazione capace di trasformare una lodevole esigenza di soccorso in una stolida imposizione autoritaria.

Resta infine da chiedersi che spazio sia stato riservato questa volta al “merito”, che Giuseppe Valditara ha voluto incidere a chiare lettere nella nuova denominazione del Ministero. Gli studenti che sono stati defraudati delle loro legittime aspettative a sostenere un esame normale, in cui mostrare il proprio valore in ambiti fondamentali come quelli dell’analisi e produzione testuale o delle discipline caratterizzanti il loro specifico corso di studi, hanno subito un’ingiustificabile discriminazione, in contrasto con quell’articolo 34 della Costituzione in cui il diritto fondamentale alla progressione fino ai “gradi più alti degli studi” è riconosciuto precisamente ai “capaci e meritevoli”.

Antigone non abita più qui

29 Giugno 2023 - di Luca Ricolfi

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Hanno assunto una certa frequenza, negli ultimi anni, i casi in cui un individuo o un funzionario pubblico violano qualche legge o regola più o meno vincolante invocando ragioni di principio, o ricorrendo a qualche forma di obiezione di coscienza, se non di vera e propria disobbedienza civile. È accaduto, in passato, con i decreti sicurezza di Salvini, con la gestione disinvolta degli immigrati (famoso il caso del sindaco Mimmo Lucano), con le leggi che vietano l’aiuto al suicidio (Marco Cappato e il Dj Fabo). Accade, negli ultimi tempi, con le trascrizioni, da parte dei sindaci, degli atti di nascita dei figli di coppie del medesimo sesso. Ed è accaduto pochi giorni fa con il rifiuto del rettore dell’Università per stranieri di Siena di esporre la bandiera a mezz’asta, rispettando il lutto proclamato dal governo per la morte di Silvio Berlusconi.

Ma è accaduto spesso anche in modo più subdolo, ogni volta che gruppi di contestatori hanno impedito di parlare a esponenti politici, quasi sempre di destra. L’ultimo caso di questo tipo è accaduto al Salone del Libro di Torino un mese fa, quando al ministro Eugenia Roccella è stato fisicamente impedito di presentare un suo libro, adducendo come motivo il carattere liberticida del governo di cui fa parte.

Tutti questi episodi sollevano un problema importante: in quali casi è giustificato esercitare l’obiezione di coscienza, o mettere in atto forme (collettive) di disobbedienza civile?

A prima vista, una risposta potrebbe essere: ogniqualvolta l’autorità pubblica viola un diritto o un principio fondamentale. È il modello Antigone, che nella celebre tragedia di Sofocle dà sepoltura al fratello Polinice, obbedendo alle “non scritte leggi degli dei”, ma così violando quella della città (Tebe), retta dal tiranno Creonte.

Ci sono due complicazioni, però, se cerchiamo di applicare il modello Antigone al nostro tempo. Innanzitutto, siamo in una democrazia, le leggi sono espressione del Parlamento, ed esiste la possibilità di cambiarle senza spargimento di sangue. In secondo luogo, siamo in un tempo di “politeismo dei valori”, espressione con cui Max Weber descriveva la necessità di scegliere fra valori contrastanti, nessuno dei quali può pretendere di avere una validità assoluta. A differenza di Antigone, raramente abbiamo un valore condiviso cui appellarci contro la prepotenza del potere, perché siamo noi stessi – cittadini delle società moderne – in conflitto fra noi sui valori, i principi, i doveri e i diritti.

Ecco perché l’obiezione di coscienza, in qualsiasi campo si applichi, è sempre esposta a un rischio: quello di far valere un principio che non è universale, ma pretende di esserlo. Come già nelle antiche vicende della leva obbligatoria e dell’aborto, non ci troviamo di fronte a un principio assoluto e indiscutibile, da far valere contro un potere dispotico, ma a un genuino conflitto fra valori inconciliabili: la difesa della patria e il divieto di uccidere, la vita del nascituro e l’autodeterminazione della donna. In una situazione nella quale la società civile è divisa fra opposte concezioni di quel che è giusto e quel che è sbagliato, di quel che è bene e quel che è male, l’obiezione di coscienza è ancora possibile, ma assume inevitabilmente una curvatura soggettiva, e per ciò stesso non esente da arbitrarietà, se non da hybris individualista. Il caso della gestazione per altri, o utero in affitto, lo illustra nel modo più chiaro: fra diritto alla genitorialità e principio di non mercificazione del corpo della donna è impossibile fare una scelta che metta d’accordo rutti.

Forse dovremmo rassegnarci a questo e, quando insorgono conflitti valoriali, considerare con rispetto entrambe le posizioni, senza pretendere di attribuire caratteri di universalità a diritti che tali non sono. In una democrazia, il conflitto fra modelli culturali e concezioni del bene è fisiologico. Quel che non è fisiologico è che una parte assuma di avere il monopolio del bene, e pensi le proprie battaglie nel registro dell’obiezione di coscienza classica, come se fossero dirette contro un potere arbitrario e dispotico, che calpesta diritti divini, naturali o universali. Perché il mondo è cambiato, Giorgia Meloni non è Creonte, e Antigone non abita più qui.

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