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Società

La macabra barbarie contro i morti sepolti

9 Maggio 2023 - di fondazioneHume

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Trovo barbaro, macabro e raccapricciante quel che sta succedendo in Spagna col governo sinistro di Pedro Sanchez. Non mi va nemmeno di parlarne, lo faccio perché qualcuno deve pur dirlo. La chiamano Memoria Democratica e consiste nel prendersela con i morti e i caduti della parte sconfitta, disseppellendoli dalle loro tombe e traslocandoli altrove, in anonime e private tumulazioni, per cancel-lare ogni “infame” accostamento tra i loro resti e quelli dei combattenti anti-fascisti, comunisti e repubblicani. Con l’aggravante di farlo per lucrare misera-mente sul residuale antifascismo e tenere in vita la più tetra memoria del passato per rovesciarla alle elezioni sugli avversari, come il movimento Vox.

Il generalissimo Francisco Franco, il “becero dittatore”, alla fine della Guerra civile, li aveva sepolti insieme, rossi e neri, comunisti e falangisti, repubblicani e nazionalisti, nella Valle de Los Caidos. Lo ritenne un gesto di pietà e di ricon-ciliazione, dopo tanto odio e tanto sangue. Ma la Memoria Democratica non am-mette requiem né civile memoria, tantomeno condivisa; neanche dopo morti e dopo 84 anni dalla fine della Guerra Civile. Respinge ogni idea di pacificazione degli animi e di parificazione delle vittime, rifiuta il senso cristiano della pietas almeno post mortem e si accanisce con bestiale sciacalleria sui resti di poveri caduti degli anni trenta. Lo fa oggi perché ormai non c’è più nessuno a difendere la memoria del passato, nessun familiare diretto, nessun movimento che ne tuteli la memoria; solo sparuti, anacronistici militanti della testimonianza proibita, come le poche decine di persone che hanno tentato una flebile protesta.

Il governo rosso cancella la definizione stessa di Valle dei Caduti, e deporta le spoglie di coloro che sono seppelliti ma che appartennero alla parte avversa all’epoca vincente, rispetto a quella repubblicana e antifascista che i vincitori invece seppellirono accanto ai vinti, per lanciare un messaggio di pacificazione a un paese così sanguinosamente lacerato. Dopo la traslazione dei resti di Francisco Franco, di cui scrivemmo, il governo in carica formato dall’alleanza tra la sinistra del vecchio Psoe e la nuova sinistra radicale e grilleggiante di Podemos, ha esumato e cacciato dalla sua tomba i resti di José Antonio Primo de Rivera, fondatore del Movimento Falangista, ucciso, anzi fucilato, a 36 anni dai repub-blicani. Primo de Rivera era il Che Guevara della Rivoluzione nazionale e sociale spagnola, non fece in tempo a vivere il regime di Franco né la fase cruenta della guerra civile; Franco alla sua morte, congelò lo spirito nazional-rivoluzionario del movimento falangista e la sua carica ideale. José Antonio non amava il Fuhrer e scriveva: “Con Hitler non ci intenderemo mai. Non crede in Dio” e detestava il razzismo. “Che non ci si parli della razza, l’impero spagnolo non fu mai razzista; anzi, raggiunse l’immensa gloria proprio per aver unito uomini di tutte le razze”. José Antonio fu ucciso agli inizi della guerra civile, dunque non partecipò al cal-vario più terribile di quel paese, le atroci crudeltà compiute da ambo le parti, con lo speciale accanimento dei comunisti e stalinisti verso suore e preti, civili e minori, e perfino anarchici. Una pagina atroce che destò il disgusto di molti combattenti idealisti che erano accorsi in Spagna per difendere la Repubblica antifascista ma rimasero poi sconvolti e spiazzati dalle crudeltà, anche gratuite, commesse dai loro stessi compagni. Ne cito alcuni, tra i più famosi, oltre il celebre Ernst Hemingway: lo scrittore cattolico Georges Bernanos, lo scrittore liberal-so-cialista George Orwell, la giovane pensatrice Simone Weil, il combattente repub-blicano Randolfo Pacciardi. Erano andati tutti per combattere in difesa della Repubblica e della libertà, contro il franchismo e il falangismo. Ma dovettero presto fare i conti con le atrocità compiute dai loro stessi compagni.

José Antonio era un mito per la gioventù europea, non aveva fondato alcun regime sanguinario, alcuna dittatura, si era solo battuto lealmente in una guerra civile per i suoi ideali e per la difesa della Spagna eterna contro il pericolo comunista, ateo e stalinista. Fu un capo carismatico, un oratore coinvolgente, un combattente intrepido, un sognatore politico. Era avvocato, padre di quattro figli, a sua volta figlio di Miguel Primo de Rivera, generale e dittatore col consenso del Re negli anni venti. José Antonio sognava una Rivoluzione nazionale che coniugasse i valori tradizionali della Spagna cattolica, con i valori popolari di giustizia sociale e difesa dei lavoratori. Mi innamorai di lui da ragazzo, ricordo il suo discorso testamento: “La bandiera è stata issata. Andiamo a difenderla allegramente, poe-ticamente…il nostro posto è fuori, all’aria libera, sotto la notte chiara, arma in spalla e in alto le stelle”. A lui dedicò una biografia elogiativa Giorgio Almirante.

Non si tratta di riaprire e tantomeno di riscrivere le pagine della storia, figuria-moci. E’ proibito farlo, ormai, in Europa: e dico non in chiave apologetica e nem-meno revisionistica ma semplicemente e rigorosamente storica. Ma si tratta di denunciare a che livello di inciviltà, di disumanità e di odio sia giunta la “memoria democratica” toccando il fondo peggiore della “cancel culture” applicata alle spoglie dei defunti, ai trapassati remoti, fino al macabro disseppellimento e cacciata post mortem con odio eterno. Anche le più fiere e cruente ideologie mili-tari e militanti del secolo scorso, si sono fermate davanti all’oltraggio ai cadaveri. I regimi totalitari del passato, comunisti o nazisti, hanno sterminato milioni di morti ma nessun regime è andato a disseppellire e processare i cadaveri del passato. E’ solo una bestiale pratica del nostro presente, pur così pacifista, così sensibile e così pronto a indignarsi se viene maltrattato un fiore o un vitello. Dio ci scampi dalla Memoria Democratica.

di Marcello Veneziani

Calcio, tifo e razzismo

9 Maggio 2023 - di Paolo Natale

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Finalmente, alla fine, anche nello sport si è aperto uno spiraglio, un timido tentativo di fare un pochino di chiarezza su se e quanto si possano definire “manifestazioni di razzismo” i cori che ormai quotidianamente si sentono negli stadi (italiani e non). Ad aprire il dibattito, con qualche interessante dichiarazione e alcune considerazioni di base, sulle quali riflettere almeno un istante, è stato l’allenatore dell’Atalanta, GianPiero Gasperini.

Breve riassunto degli accadimenti di domenica scorsa, per chi non segue da vicino lo sport giocato né quello chiacchierato. Va in scena a Bergamo la partita di campionato Atalanta-Juventus. Nel corso dello svolgimento, un gruppo significativo di ultras bergamaschi non smette di rivolgere all’attaccante slavo della squadra avversaria, Vlahovic, coretti ed epiteti spregiativi, tipo “sei uno zingaro”, se non anche peggiori. Un po’ ciò che era accaduto a Torino un paio di settimane prima, tra alcuni ultras della stessa Juve e l’attaccante nero dell’Inter Lukaku, apostrofato con il consueto “negro di merda” o giù di lì. In modo non dissimile anche in questo caso a ciò che avviene in tutti gli stadi di calcio, da anni a questa parte, più o meno nessuno escluso.

Breve parentesi, ma molto importante per il discorso che farò tra poco. Una volta, qualche decennio fa, questo era un “rituale” comune anche negli altri sport, in particolare quelli di squadra, ma molto meno quelli individuali (ve l’immaginate uno spettatore di boxe che avesse apostrofato a bordo ring Cassius Clay / Mohamed Alì con un epiteto del genere? Avrebbe fatto sicuramente una brutta fine…).

Anche nel basket, ad esempio, giravano coretti simili, del tipo “non ci sono negri italiani”, rivolto a Carlton Myers, figlio di un inglese nero e di una riminese, divenuto nel tempo una colonna della nazionale italiana, tipo Balotelli. Negli ultimi anni ingiurie di questo tipo sono praticamente scomparse da tutti i palazzetti di basket, per la semplice ragione che i migliori giocatori di pallacanestro sono spesso neri e tutte le squadre ne hanno nel loro roster almeno tre o quattro, e insultarne qualcuno a caso non avrebbe alla fine un apprezzabile risultato, né si saprebbe esattamente chi ne sarebbe il destinatario, dei cinque o sei che sono in campo o in panchina.

Dunque, nel basket, al contrario di un passato più antico, di squalifiche o di multe per “cori razzisti” oggi non se ne verificano praticamente mai. Significa forse che tra gli ultras della pallacanestro non c’è alcun esagitato tifoso, simile ad il suo omologo calcistico? Direi proprio di no. Forse meno diffuso, grazie al livello meno popolare degli spettatori di basket. Forse, ma non ci metterei la mano sul fuoco. Chiusa parentesi.

Ma torniamo ad Atalanta-Juve e alle dichiarazioni di Gasperini che, a fine partita, ha espresso un concetto semplice: non è vero che le frasi rivolte a quel giocatore slavo siano insulti di stampo razzista, semplicemente perché anche nella squadra che lui allena giocano almeno due-tre altri giocatori della stessa origine “etnica”, quella di Ibrahimovic per intenderci, che ha subito anch’egli nella sua lunga carriera epiteti molto simili. Ora, conclude Gasperini, se gli ultras fossero davvero razzisti (contro gli slavi), non potrebbero accettare nemmeno che nella propria squadra giochino almeno due-tre “zingari di merda”, e li insulterebbero a ogni piè sospinto, sebbene difendano i propri colori sociali. Come ben ci insegna la storia Usa, non si può essere razzisti ad intermittenza, o lo si è o non lo si è. E a volte, addirittura quando non si pensa di esserlo, il proprio rapporto con persone di colore non è semplice (vedi il caso del film anni Sessanta “Indovina chi viene a cena”). Punto.

Quegli insulti, sempre secondo Gasperini (che ovviamente è stato attaccato da tutti, proprio tutti tutti) non sarebbero razzisti, ma semplicemente “maleducati”, o beceri, perché seguono il diffuso sentiment di provocare l’avversario per infastidirlo, per fargli commettere errori che normalmente non farebbe. Non è bello, s’intende, ma non è nemmeno sintomo di razzismo, perché il razzismo, quello vero, è tutt’altra cosa, molto più grave, ma anche molto più specificamente diretta al colore della pelle, alla etnia, alla religione. Ora, argomenta l’allenatore dell’Atalanta (e io con lui), se ce l’ho con gli “sporchi negri” dell’altra squadra, perché quelli che giocano nella mia squadra sono al contrario “giganti d’ebano”, “principi neri”, eccetera. Balotelli, quando era dell’Inter, veniva insultato costantemente dai tifosi milanisti, quando passò al Milan subiva lo stesso trattamento da quelli interisti. Razzismo?

Ricordo ancora una ricerca universitaria degli anni Novanta, un’indagine sul campo promossa da Alessandro Dal Lago, in cui si cercava di studiare da vicino atteggiamenti e comportamenti degli ultras del Milan. Ne uscì un importante libro dal titolo “Descrizione di una battaglia. I rituali del calcio”. Utilizzammo per l’analisi dei tifosi e del loro livello di razzismo una procedura statistica chiamata “Scala di Likert”, composta da 10 frasi cui l’intervistato doveva dichiarare il proprio grado di accordo. La sommatoria di tutte le risposte avrebbe fornito appunto un indicatore complessivo del livello di razzismo degli ultras. A patto che tutte le frasi indicassero una delle facce del tema del razzismo.

Orbene, 9 frasi su 10 funzionavano piuttosto bene ed erano tra loro ben correlate. L’unica che al contrario non mostrava significativi livelli di collegamento con le altre era proprio quella che riguardava gli insulti ai giocatori avversari per il colore della loro pelle. Quella frase era correlata più con il tifo maleducato, gli insulti (“figlio di p…”, “testa di c…”) che con il razzismo. Già oltre 30 anni fa, dunque, le parole che oggi ha pronunciato l’allenatore dell’Atalanta erano state comprovate da un’analisi scientifica. Meglio tardi che mai.

Lollobrigida e il cane di Pavlov

25 Aprile 2023 - di Luca Ricolfi

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“Io sono responsabile di quello che dico, non di quello che capisci tu”. Questa frase, attribuita a Massimo Troisi, mi è tornata irresistibilmente alla mente in questi giorni durante la lapidazione pubblica (e bipartisan) del ministro Lollobrigida, reo di aver usato l’espressione “sostituzione etnica”.

Perché non ha semplicemente citato Troisi? mi sono detto. Possibile che non abbia capito come funzionano i media nell’era dello smartphone? Non lo sa che spiegarsi e chiedere scusa è perfettamente inutile, anzi controproducente? E pensare che Guia Soncini, che di internet se ne intende, l’ha spiegato in mille salse nei suoi articoli su Linkiesta e nei suoi libri (L’era della suscettibilità, Marsilio 2021): “Va sempre così. Più ti scusi, più ti urlano. Più ti contrisci, più infieriscono. I giustizieri dell’internet sono come quei mariti stronzi che più piangi più godono a corcarti di mazzate”.

Eppure il meccanismo dovrebbe essere chiaro. È il medesimo su internet e sui media politicizzati. Tu dici una parola, l’altro le associa un’altra parola, che a sua volta (a lui!) ne richiama un’altra ancora, e così via secondo una catena associativa governata soltanto dai fantasmi di chi ascolta.

Esempio. Tu dici merito, l’altro pensa prestazione  competizione  selezione  esclusione stress  disagio  suicidi giovanili. E voilà, chi parla di merito ha sulla coscienza i ragazzi che si tolgono la vita.

Altro esempio. Tu dici Nazione, e scatta la catena patria  nazionalismo  militarismo colonialismo  fascismo. E voilà, chi parla di Nazione è in odore di fascismo.

E arriviamo a Lollobrigida: sostituzione etnica  razzismo  complottismo  fascismo suprematismo bianco  nazismo  pulizia etnica. E voilà: chi parla di sostituzione etnica (che vorrebbe evitare) “è a un passo dalla pulizia etnica”.

Per certi versi, è il cane di Pavlov, come ebbe a notare Massimo Recalcati in un articolo su Repubblica, in cui descriveva il “riflesso pavloviano di ripudio” che scatta “nella sinistra più ideologica” quando viene in contatto con certe parole-stimolo (Recalcati menzionava “merito” e “sicurezza”). Per altri versi, però, è qualcosa di più, e di diverso, da un mero riflesso pavloviano. C’è molto di scientifico, di intenzionale, di studiato a tavolino nella campagna che, contro Lollobrigida, è stata scatenata non solo dai media progressisti, ma dagli stessi alleati di governo (Lega e Forza Italia), che non hanno fatto mancare critiche, censure, rimproveri. In retorica si chiama straw man, (argomento fantoccio, o dello spaventapasseri), la fallacia logica che consiste nello smontare una tesi dandone una rappresentazione deformata.

Dico questo non solo perché è palese, per un osservatore neutrale, che il ministro Lollobrigida si è limitato a esporre una posizione discutibile ma perfettamente plausibile, per non dire scontata per un esponente della destra (meglio spingere sulla natalità che sui flussi migratori), ma anche perché la medesima espressione – sostituzione etnica – usata in passato sia da Salvini sia da Meloni, mai aveva suscitato reazioni paragonabili a quelle di questi giorni.

Che cosa è cambiato, rispetto ad allora? Perché parlare di “sostituzione etnica” è diventato improvvisamente così scandaloso?

Non lo so. Forse, per il mondo progressista, la destra al governo è un nemico più inquietante della destra all’opposizione. Forse, per Lega e Forza Italia, questo è il momento giusto per ridimensionare lo strapotere di Giorgia Meloni. Forse, nell’era della suscettibilità, la sensibilità alle parole è aumentata.

Chissà. Resta il fatto che parlare è diventato pericolosissimo. E questo, la classe dirigente della destra, non sembra proprio averlo ancora capito.

Chiediamo troppo ai ragazzi?

3 Aprile 2023 - di Luca Ricolfi

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Stanno suscitando una certa inquietudine le notizie che, negli ultimi tempi, riferiscono di giovani in crisi, specie in ambito scolastico. Fra le fonti di disagio, spesso vengono menzionate le eccessive pretese di insegnanti e genitori, ma anche ansie e frustrazioni che possono nascere nel gruppo dei pari. La diagnosi prevalente sembra essere quella che sottolinea l’insostenibilità delle pressioni competitive che il mondo degli adulti eserciterebbe sui ragazzi, chiedendo loro più di quanto possano dare.

C’è ovviamente del vero in ciascuna di queste letture, ma credo sia bene distinguere. I problemi del liceo classico, di cui tanto si parla, riguardano meno del 6% dei ragazzi, e sono di natura molto diversa da quelli degli altri licei e degli istituti tecnici e professionali. Nella mia ormai lunga esperienza di genitore e docente, quel che più mi ha colpito, negli ultimi decenni, non è certo l’eccesso di competitività, che spesso si attribuisce al classico, ma un fenomeno del tutto diverso, per certi versi opposto, che si può osservare a occhio nudo un po’ in tutti gli ordini di scuola: par la maggior parte delle famiglie, da molti anni a questa parte, la stella polare è il binomio serenità + promozione. L’importante non è che la scuola sia eccellente, o che il figlio primeggi, ma solo che sia promosso e non subisca frustrazioni. Se non fosse così, anziché legioni di genitori che se la prendono con gli insegnanti per gli insuccessi dei figli, vedremmo un vasto movimento che chiede alla scuola come mai il livello sia sceso così tanto.

Ed è qui che interviene il problema dei licei classici, e più in generale delle scuole esigenti, che per fortuna esistono anche in altri indirizzi. La strage di ragazzi che abbandonano i licei per passare a scuole più facili si spiega con il fatto che il primo anno di scuola secondaria superiore è anche il primo momento in cui la scuola smette di scherzare, ossia non sottostà all’obbligo non scritto di intrattenere e promuovere (quasi) tutti. Negli anni ’60 questo passaggio alla “scuola vera” avveniva dopo la 5aelementare, e infatti la scuola media inferiore faceva ancora stragi. Mentre oggi il passaggio alla scuola vera avviene solo dopo la 3a media, e a fare stragi ci pensano i licei.

C’è un’importante differenza, però, fra ieri e oggi. Negli anni ’60, il tipico ragazzo che non ce la faceva proveniva da una famiglia povera, in un’Italia che non aveva ancora raggiunto l’unità linguistica (come Tullio De Mauro ci ha mille volte ricordato). Oggi, invece, se un ragazzo non ce la fa, spesso è semplicemente perché la scuola media non gli ha fornito le basi per frequentare un liceo, e meno che mai per frequentare un liceo classico, con il latino e il greco. È innanzitutto da questa rinuncia della scuola media a raggiungere standard minimi di competenza linguistica (una rinuncia aggravata da tre anni di pandemia) che derivano le enormi difficoltà di tanti nostri ragazzi non appena, con la scuola secondaria superiore, incontrano la scuola vera.

Non è tutto, però. Una vasta letteratura internazionale, soprattutto psicologica e sociologica, da almeno vent’anni ci avverte che i figli dei baby boomers, ovvero i genitori dei ragazzi di oggi, oltre ad accettare il declino della qualità dell’istruzione e a rompere la storica alleanza con gli insegnanti, si sono resi responsabili di un altro disastro: la formazione di una generazione fragile, ipersensibile, ultra-bisognosa di protezione, affamata di approvazione, incapace di tollerare gli insuccessi e di gestire le difficoltà. In una parola: una generazione non-resiliente, per usare una espressione che il Pnrr ha reso di moda.

Chiunque abbia frequentato le scuole negli anni ’60 può testimoniare che le pressioni che insegnanti e genitori, allora alleati, esercitavano sui ragazzi e le ragazze erano enormemente superiori a quelle di oggi. Personalmente, ricordo i miei anni di scuola media come anni di terrore, di ansia, di spasmodica attenzione a non sbagliare. Ma anche di grandi soddisfazioni, scolastiche ed extra-scolastiche.

Dunque il punto cruciale non può essere che si chiede troppo ai ragazzi. Il punto, semmai, è che nessuno, allora, pensava di avere “diritto al successo formativo”, alla serenità, a supporti psicologici, al riconoscimento di ogni esigenza o aspirazione. Non lo pensavamo noi ragazzi, non lo pensavano i nostri genitori, non lo pensavano i nostri insegnanti, perché quelle cose non le vedevamo come diritti esigibili, ma come possibili conquiste. Oggi ai ragazzi si chiede molto di meno, ma proprio questo chiedere di meno li rende fragili, perché li lascia disarmati verso gli ostacoli e le asperità della vita, scolastica e non. Siamo sicuri che sia la strada giusta?

Le differenze di genere: quattro miti da sfatare

20 Marzo 2023 - di Marco Del Giudice

SocietàSpeciale

Il tema delle differenze di genere è sempre attuale e sempre capace di accendere gli animi, soprattutto quando il discorso si concentra su questioni “calde” come quelle della parità e degli stereotipi. Da parecchi anni faccio ricerca in quest’ambito, a cavallo tra la psicologia e la biologia; capisco bene l’urgenza di queste questioni, oltre che l’importanza di un confronto aperto a tutti i livelli e di un pubblico informato e consapevole. Purtroppo, il dibattito attuale è troppo spesso basato su prese di posizione ideologiche, e rimane ancorato ad assunti e modelli teorici che sono rimasti sostanzialmente fermi agli anni ’70. Anche quando ci si appella a “quello che dice la scienza”, si tratta quasi sempre di informazioni distorte, selettive o poco aggiornate. Soprattutto dal punto di vista biologico (ma anche da quello dell’analisi statistica), la ricerca in questo campo ha fatto passi avanti che in molti casi hanno cambiato nettamente i termini della questione; ma la consapevolezza di questi cambiamenti è ancora poco diffusa, non solo nel grande pubblico ma anche tra intellettuali e scienziati.

In questo articolo vorrei offrire una breve sintesi dello stato della ricerca sulle differenze di genere, che possa servire da introduzione e punto di partenza per ulteriori approfondimenti. Lo faccio in modo dialettico, partendo da quattro grandi “miti” che fanno da sfondo al dibattito ma che raramente vengono messi in discussione. Eccoli:

  1. La psicologia moderna ha dimostrato che maschi e femmine sono estremamente simili quanto a personalità, interessi e abilità cognitive.
  2. Le differenze di genere sono, in massima parte, un prodotto della cultura e della socializzazione.
  3. Non ci sono differenze di genere rilevanti a livello cerebrale; le poche differenze che si trovano sono prodotte dalle diverse esperienze che maschi e femmine fanno nel corso dello sviluppo.
  4. Gli stereotipi di genere sono dannosi, sostanzialmente infondati, ed esagerano quelle che in realtà sono differenze minime o inesistenti.

Per non appesantire la lettura, i riferimenti bibliografici sono tutti alla fine dell’articolo, organizzati per argomento. Alcune sezioni del testo sono adattate da questo articolo. Prima di iniziare, due note terminologiche. La prima è che spesso uso “maschi” e “femmine” in senso generico per non essere costretto a continue specificazioni per età (bambini e bambine, ragazzi e ragazze, uomini e donne…). Mi rendo conto che alcuni trovano questi termini indelicati o perfino offensivi, ma rimango in netto disaccordo: non c’è niente di cui vergognarsi nel riconoscere che siamo creature biologiche, plasmate dall’evoluzione e dalle dinamiche della riproduzione (senza le quali non esisteremmo come esseri umani). Penso anche che distinguere in modo netto tra “sesso” (riferito alla biologia del corpo) e “genere” (riferito al comportamento e culturalmente determinato) non sia molto utile a fare chiarezza; è una distinzione che sembra chiara e intuitiva ma, esaminata da vicino, si rivela fumosa e incoerente (come ho discusso qui). Per questo motivo uso “sesso” e “genere” come sinonimi, in modo flessibile a seconda del contesto.

Mito #1: La psicologia moderna ha dimostrato che maschi e femmine sono estremamente simili quanto a personalità, interessi e abilità cognitive.

Questa idea molto diffusa (e spesso ripetuta, sia negli articoli divulgativi che nei libri di testo) si basa su quella che possiamo definire una “mezza verità” scientifica. Un modo semplice e intuitivo per quantificare la grandezza delle differenze di genere è considerare la sovrapposizione statistica tra le distribuzioni di maschi e femmine. Maggiori sono le differenze, minore è la sovrapposizione; viceversa, differenze piccole si traducono in alte percentuali di sovrapposizione (fino al 100% quando le distribuzioni sono identiche). Nel caso della personalità, se si considerano tratti come estroversione, coscienziosità o impulsività, le differenze di genere in ogni singolo tratto tendono ad essere piuttosto limitate, con sovrapposizioni superiori al 90%. Anche nei tratti che mostrano le differenze più spiccate (come amichevolezza e stabilità emotiva nel modello di personalità dei Big Five) la sovrapposizione rimane intorno all’80-85%. Risultati simili a questo si ritrovano in altri ambiti della psicologia. Da qui l’idea che, contrariamente agli stereotipi, maschi e femmine siano estremamente simili dal punto di vista psicologico. Ma questa generalizzazione diventa inesatta e fuorviante—e quindi un mito da sfatare—perché non tiene conto di quattro fenomeni cruciali.

Per prima cosa, esistono dimensioni psicologiche importanti in cui le differenze di genere sono molto più marcate. Un esempio è la preferenza per professioni e attività orientate alle cose o alle persone (people-things orientation), dove la sovrapposizione tra i sessi è solo del 50-60%. Mentre gli uomini tendono a preferire lavori centrati su oggetti inanimati o concetti astratti, le donne (in media) hanno una preferenza per lavori centrati sulle persone o con una forte componente relazionale. Differenze di dimensioni simili o maggiori emergono anche nell’ambito dell’attrazione (per esempio rispetto all’età ideale del proprio partner) e della sessualità (per esempio rispetto alla frequenza/intensità del desiderio, o nella preferenza per la “varietà” sessuale con diversi partner, al di fuori da un rapporto di coppia stabile). Nel dominio delle abilità cognitive, non ci sono differenze marcate tra la media dei maschi e quella delle femmine nel quoziente intellettivo (QI) o simili indici di intelligenza generale (anche se, come discuto più sotto, ci sono differenze rilevanti nella loro variabilità). Ma quando si vanno a identificare dimensioni cognitive più specifiche, controllando statisticamente per l’intelligenza generale, le differenze emergono chiaramente e la sovrapposizione tra i sessi si riduce al 60-80%. Soprattutto a partire dall’adolescenza, le femmine sono relativamente più brave nei compiti basati sul ragionamento verbale e in quelli che richiedono di dividere l’attenzione tra molti elementi diversi. I maschi invece hanno prestazioni più alte nei compiti che richiedono abilità visivo-spaziali, e sono avvantaggiati quando si tratta di prestare attenzione in modo focalizzato; la divergenza maggiore si trova nei compiti che richiedono di ragionare su meccanismi e sistemi fisici. Queste differenze di abilità si combinano con quelle nelle preferenze e influenzano in modo sostanziale le scelte accademiche e professionali. Ad esempio, gli studenti che possiedono abilità visivo-spaziali e quantitative relativamente più sviluppate di quelle verbali e sono più interessati alle cose rispetto alle persone scelgono più spesso di iscriversi a facoltà scientifico-matematiche (le cosiddette STEM). A causa della diversa distribuzione di questi tratti nei due sessi, tra gli studenti con questo tipo di profilo ci sono molti più ragazzi che ragazze.

Il secondo punto critico è che piccole differenze in diversi tratti presi singolarmente possono sommarsi, e diventare grandi quando gli stessi tratti vengono considerati nel loro insieme. Nel caso della personalità, la sovrapposizione tra maschi e femmine nei singoli tratti è in genere piuttosto alta; ma quando si consideranoprofili di personalità che mettono insieme i vari tratti (tenendo in considerazione le loro correlazioni reciproche), la sovrapposizione si riduce a meno del 50%. Applicando procedure statistiche per correggere l’errore di misura (che nei test psicologici è tutt’altro che trascurabile), si arriva a una sovrapposizione del 20-30%. Considerazioni analoghe si possono fare per le abilità cognitive, le preferenze per il partner, e le preferenze lavorative (nel caso di queste ultime, la sovrapposizione tra i sessi arriva intorno al 40% quando si considerano più variabili contemporaneamente).

Ma anche quando le differenze sono relativamente modeste, bisogna tenere conto che piccole differenze “medie” in un certo tratto possono trasformarsi in differenze notevoli agli estremi di quel tratto. Questo succede perché le differenze tendono ad amplificarsi via via che ci si muove verso gli estremi della distribuzione. Per esempio, il tratto dell’amichevolezza nei Big Five identifica persone che tendono ad essere cooperative, generose, empatiche, gentili, fiduciose e poco aggressive; al contrario, le persone con bassi livelli di questo tratto tendono ad essere ostili, aggressive, egoiste, abrasive, sospettose e poco empatiche. La sovrapposizione tra i sessi in questo tratto è intorno all’80%; la “donna media” è più amichevole dell’”uomo medio”, ma non di molto. Però, se andiamo a vedere chi sono le persone che si collocano a livelli estremamente alti di questo tratto (cioè all’estremo superiore della distribuzione), troviamo circa due-tre donne per ogni uomo; e se consideriamo i livelli estremamente bassi, troviamo circa quattro uomini per ogni donna. In altre parole, ci possono essere divergenze notevoli agli estremi della distribuzione anche se le medie dei due sessi non sono così diverse tra loro. Questo fenomeno si ritrova in moltissimi altri tratti. La differenza tra maschi e femmine nell’aggressività fisica è simile a quella nell’amichevolezza (sovrapposizione intorno al 75%); ma più del 90% degli omicidi (la forma più estrema di aggressività) vengono commessi da uomini. Sulla stessa falsariga, le differenze nel tratto della stabilità emotiva (che misura la tendenza a provare emozioni negative come paura, ansia e tristezza, e mostra una sovrapposizione intorno all’80%) si traducono in un rischio di sviluppare disturbi depressivi, d’ansia e da stress che è all’incirca doppio nelle donne rispetto agli uomini. Considerazioni analoghe valgono per le abilità cognitive, dove gli estremi (ad es., le persone con livelli eccezionali di abilità visivo-spaziali o matematiche) tendono a mostrare differenze di genere più marcate rispetto a quelle che si osservano nei dintorni della media. E se le differenze medie sono già sostanziali (come nel caso delle preferenze cose-persone), possono diventare davvero notevoli quando ci si muove verso gli estremi della distribuzione.

Per finire, in molti tratti psicologici (ma anche fisici, come ad esempio l’altezza o il volume del cervello) le differenze non riguardano solo la media ma anche il grado di variabilità all’interno dei due sessi. In generale, i maschi tendono ad essere più variabili tra loro delle femmine; questa differenza si manifesta soprattutto agli estremi della distribuzione dei tratti. Sottolineo subito che ci sono diverse eccezioni a questa “regola”; per citare due esempi già nominati sopra, le femmine (considerate a livello di gruppo) risultano più variabili dei maschi sia nel tratto della stabilità emotiva che nel desiderio sessuale. Nel dominio delle abilità cognitive, invece, la variabilità è sistematicamente più alta nei maschi. Questo fenomeno è molto importante da comprendere, perché può creare differenze agli estremi anche in assenza di differenze medie. Nel caso paradigmatico del QI, le differenze medie tra i sessi sono spesso considerate trascurabili (anche se alcuni studi recenti trovano una lieve differenza a favore dei maschi nell’intelligenza generale, a partire dall’adolescenza). Ma a causa della maggiore variabilità maschile, si trova una preponderanza di uomini sia ai livelli più alti che a quelli più bassi della distribuzione del QI (compreso il ritardo mentale). Questa osservazione ha suscitato controversie scientifiche per centocinquant’anni (fin da quando è stata descritta da Darwin in The Descent of Man), ma è stata confermata dagli studi più grandi e rappresentativi che abbiamo a disposizione.

Riconoscere che le differenze psicologiche tra i due sessi sono reali, tangibili, e a volte di notevole entità non vuol dire negare la variabilità individuale o voler schiacciare maschi e femmine su rappresentazioni e ruoli rigidamente “binari”. Anche nei tratti più fortemente differenziati esiste un certo grado di sovrapposizione; in ogni ambito psicologico (dalla personalità alla cognizione) ci sono uomini con profili tipicamente femminili e donne con profili tipicamente maschili, oltre che molte persone con profili “misti” che combinano aspetti caratteristici dei due sessi. Sullo sfondo delle differenze di genere c’è ampio spazio per eccezioni, gradazioni, e tutte le variazioni sul tema che ci rendono non solo maschi o femmine ma persone uniche quali siamo. Possiamo dare il giusto risalto alla variabilità individuale e all’unicità delle persone senza dover fingere che maschi e femmine siano completamente sovrapponibili e omologati dal punto di vista psicologico, o che le differenze di genere siano così trascurabili da non avere ricadute importanti a livello personale, sociale e lavorativo.

 

Mito #2: Le differenze di genere sono, in massima parte, un prodotto della cultura e della socializzazione.

Il modello a “tabula rasa” secondo cui le differenze di genere sono fondamentalmente arbitrarie e costruite dalla socializzazione ha iniziato a prendere piede in psicologia più di cent’anni fa; ha preso forza con il comportamentismo e si è cristallizzato negli anni ’70, all’apice dell’influenza delle teorie dell’apprendimento sociale. Nel tempo, quello che sembrava un approccio moderno e sofisticato si è trasformato in un dogma, sempre più impermeabile alle disconferme empiriche. Per dirlo in modo diretto: allo stato attuale delle nostre conoscenze non c’è alcun motivo solido per ritenere che le differenze di genere siano prodotte esclusivamente (o quasi) dall’apprendimento sociale. Al contrario, ci sono diversi motivi importanti per ritenere che i fattori biologici contribuiscano in modo sostanziale allo sviluppo psicologico di maschi e femmine. In un articolo così breve è impossibile rendere giustizia a un dibattito così complesso; dando per scontato che nelle società umane “natura” e “cultura” si intrecciano sempre in modo complesso e creativo, mi limito a descrivere le principali fonti di informazione che evidenziano i limiti della “tabula rasa” e indicano un ruolo importante per la nostra biologia.

Innanzitutto ci sono i modelli della biologia evoluzionistica, in particolare quelli che riguardano la selezione sessuale (cioè la selezione naturale che avviene attraverso la scelta del partner e l’accoppiamento). I modelli teorici, che in quest’ambito sono di solito espressi in forma matematica, permettono di spiegare le ragioni profonde di alcuni motivi ricorrenti: ad esempio il fatto che, nella maggior parte delle specie animali, i maschi tendono ad essere più aggressivi, competitivi e indiscriminati nella scelta del partner, mentre le femmine tendono ad avere criteri di scelta più stringenti e ad occuparsi di più (quando non in modo esclusivo) della cura dei piccoli. Gli stessi modelli permettono di capire quando e perché queste asimmetrie comportamentali possono attenuarsi—come accade spesso nelle specie in cui entrambi i genitori provvedono alla cura dei piccoli—ma anche di spiegare le eccezioni alla norma (come nei cavallucci marini, dove la gestazione delle uova è portata a termine dai maschi). Oltre alla teoria, in biologia si ricorre spesso al confronto tra specie diverse, più o meno strettamente imparentate e più o meno simili nelle loro caratteristiche ecologiche. Per esempio le differenze di genere negli esseri umani possono essere illuminate grazie al confronto con altri primati, ma anche con alcune specie di uccelli, che hanno sistemi di accoppiamento e riproduzione per molti versi più vicini a quelli della nostra specie. È importante sottolineare che gli studi comparativi possono dare informazioni preziose anche quando evidenziano differenze e unicità; lo scopo è descrivere i fattori che spiegano la variazione e le somiglianze tra specie diverse, non dimostrare che gli esseri umani “sono proprio come” gli scimpanzé, i bonobo o qualche altro animale.

Un altro strumento chiave per separare parzialmente “natura” e “cultura” è la comparazione cross-culturale, sia nello spazio (tra diverse società nello stesso momento storico) che nel tempo (la stessa società in tempi ed epoche diverse). Un ruolo particolare è ricoperto dallo studio dei cacciatori-raccoglitori, che sono in larga parte isolati dall’influenza dei mass media e dei modelli culturali occidentali, oltre a vivere in condizioni molto più simili a quelle in cui la nostra specie si è evoluta per centinaia di migliaia di anni. Le notevoli differenze economiche, sociali e di stile di vita che esistono tra diversi Paesi e regioni del mondo possono essere usate in modo efficace per mettere alla prova ipotesi alternative sulle cause delle differenze di genere. Contrariamente a quello che ci si aspetterebbe sulla base dei modelli di socializzazione, le differenze nei tratti di personalità, nelle preferenze, nei valori, nelle abilità cognitive, e perfino in certi disturbi mentali (come la depressione) non diminuiscono nei Paesi con livelli più alti di parità di genere (che tendono anche ad essere più ricchi ed economicamente avanzati). Anzi, nella maggior parte dei casi i dati mostrano l’effetto opposto: al diminuire delle disparità di genere a livello socio-culturale, le differenze di personalità diventano più marcate, come se in presenza di una società più aperta e individualista (e probabilmente una maggiore libertà data al benessere economico) le persone tendessero a esprimere in modo più netto le loro predisposizioni biologiche. Questo è un dato estremamente robusto che mette in crisi il modello “puro” della socializzazione.

Cambiando livello di analisi, è importante considerare gli studi in cui i tratti psicologici vengono correlati a variazioni negli ormoni sessuali, soprattutto estrogeni e androgeni. Naturalmente le correlazioni, prese da sole, non permettono di fare affermazioni certe rispetto alle cause del comportamento. Però i dati correlazionali diventano molto più forti quando l’esposizione agli ormoni avviene all’inizio dello sviluppo, o addirittura prima della nascita durante la gestazione. Con le dovute cautele, i dati raccolti negli esseri umani possono essere confrontati e integrati con quelli degli studi animali, dove invece è possibile applicare controlli sperimentali e manipolare direttamente i meccanismi ormonali. I ricercatori sfruttano anche quelli che possono essere considerati “esperimenti naturali”: patologie o condizioni di sviluppo atipiche in cui vengono modificati i normali processi di differenziazione sessuale, come nel caso dell’iperplasia surrenale congenita (congenital adrenal hyperplasia o CAH). L’iperplasia surrenale causa un’iper-produzione di androgeni nelle femmine, ed è particolarmente importante perché le pazienti che ne sono affette vengono esposte ad un profilo ormonale “mascolinizzato” prima della nascita, ma una volta nate (e sottoposte a trattamenti per ridurre i livelli di androgeni) vengono socializzate come le altre bambine. Si tratta di una patologia piuttosto rara, ma i dati che fornisce sono estremamente preziosi per isolare in modo preciso gli effetti degli ormoni sessuali nello sviluppo. Gli studi che hanno seguito nel corso degli anni dei campioni con questa patologia hanno rivelato effetti significativi degli androgeni prenatali su una gamma notevole di tratti psicologici. Rispetto alla media, le bambine affette da CAH tendono ad essere fisicamente un po’ più aggressive, meno interessate ai neonati, e a preferire compagni di gioco maschi. Più tardi sviluppano abilità visivo-spaziali più spiccate, tendono ad essere fortemente interessate ad attività e professioni orientate alle cose, e hanno una maggiore probabilità di essere sessualmente attratte da altre ragazze.

Altre fonti di evidenza sono più indirette, ma sempre utili per circoscrivere il ruolo dell’apprendimento ed evitare di attribuire automaticamente certe osservazioni all’influenza dell’ambiente. Per esempio, le correlazioni tra genitori e figli nell’aderenza a comportamenti e stereotipi di genere sono piuttosto modeste; e almeno nei Paesi occidentali, gli studi che hanno indagato le differenze nel modo in cui i genitori trattano bambini e bambine hanno rilevato pochissime differenze significative. Il ruolo dei genitori è stato ridimensionato anche dalla genetica del comportamento, che ha mostrato chiaramente come il comportamento genitoriale sia fortemente influenzato dalla personalità e dalle caratteristiche individuali dei figli, che a loro volta sono parzialmente determinate a livello genetico.

Per tornare all’esempio delle preferenze cose-persone, questi interessi emergono molto presto nello sviluppo (secondo alcuni dati, forse addirittura alla nascita), e sono influenzati sia da fattori genetici che dall’esposizione agli androgeni durante le prime fasi della vita. La socializzazione di genere sembra avere un ruolo limitato: come in molti altri casi, lo scarto tra maschi e femmine sulla dimensione cose-persone è più forte nei Paesi con maggiore parità di genere; inoltre, l’andamento generale delle differenze è rimasto praticamente invariato per più di cinquant’anni, nonostante i cambiamenti massicci che sono avvenuti nel mondo del lavoro e dell’educazione. L’origine evoluzionistica di queste predisposizioni si trova, molto probabilmente, nella divisione del lavoro in base al sesso che ha caratterizzato la nostra storia per centinaia di migliaia (se non milioni) di anni. Nessuno dubita che, nel passato degli esseri umani, alcuni compiti (come la caccia e la produzione di utensili) siano stati appannaggio maschile, mentre altri (come la cura dei piccoli) siano stati delle occupazioni prevalentemente femminili. Dal punto di vista evoluzionistico, è molto difficile pensare che aver ricoperto ruoli specializzati per decine o centinaia di migliaia di generazioni non abbia plasmato in qualche misura anche i nostri interessi e i nostri profili cognitivi.

Leggendo quello che ho scritto finora, a qualcuno potrebbe sembrare che io voglia sostenere il primato assoluto della biologia e l’irrilevanza dell’apprendimento. Niente di più sbagliato: una volta assodato che i fattori biologici sono importanti, inizia la parte più affascinante del lavoro, cioè capire esattamente come questi fattori si esprimono e interagiscono con le caratteristiche dell’ambiente. I dati che ho riassunto fin qui non dipingono un quadro in bianco e nero, ma un mondo ricco di sfumature e potenzialità. Un esempio istruttivo viene dal dibattito sulle abilità visivo-spaziali, vista la loro rilevanza per le carriere nell’ambito delle discipline STEM. I dati raccolti su bambini e adulti indicano chiaramente che queste abilità mostrano un certo livello di plasticità e possono essere migliorate con l’esercizio, almeno nel breve periodo. Inoltre, lo scarto tra maschi e femmine non è costante ma aumenta progressivamente durante lo sviluppo. Questi risultati sono compatibili con il dispiegarsi di effetti genetici e ormonali attraverso le varie tappe di sviluppo, ma anche con l’instaurarsi di cicli di feedback positivo che amplificano e consolidano le differenze iniziali. Alcuni ricercatori li hanno usati per sostenere che le differenze di genere nelle abilità visivo-spaziali sono prodotte interamente dalla socializzazione; si tratta di un’argomentazione debolissima, perché la plasticità delle abilità cognitive non contraddice le spiegazioni evoluzionistiche. Per analogia, anche i muscoli sono plastici, e la massa muscolare si può aumentare con l’esercizio; questo non toglie che le differenze nella costituzione corporea (e quindi nella forza fisica) di uomini e donne abbiano una chiara base biologica.

 

Mito #3: Non ci sono differenze di genere rilevanti a livello cerebrale; le poche differenze che si trovano sono prodotte dalle diverse esperienze che maschi e femmine fanno nel corso dello sviluppo.

Il terzo mito che passo in rassegna riprende gli elementi dei primi due, ma li declina nell’ambito delle neuroscienze. Fino ad ora, il dibattito si è concentrato soprattutto sugli aspetti anatomici del cervello in relazione al genere. Da questo punto di vista, la principale differenza sta nel volume cerebrale, che è maggiore del 10-15% negli uomini rispetto alle donne (uno scarto piuttosto ampio dal punto di vista statistico, che corrisponde a una sovrapposizione del 30-50%). Questa differenza è spiegata solo in parte dal fatto che gli uomini in media hanno un corpo più grande, e al momento non è chiaro cosa possa significare dal punto di vista funzionale. Per esempio, a livello individuale il volume del cervello è correlato positivamente al QI; ma le differenze medie nell’intelligenza di maschi e femmine sembrano troppo piccole per giustificare uno scarto così ampio (anche se il dibattito a riguardo rimane ancora aperto). Poi ci sono molte altre differenze, sia nelle dimensioni delle varie regioni cerebrali che nelle connessioni tra diverse regioni. Grazie a queste differenze, è possibile sviluppare algoritmi che, partire dall’anatomia di un cervello, riescono a “indovinare” correttamente il sesso della persona in più del 90% dei casi. Ma una porzione importante di queste differenze è una conseguenza (diretta o indiretta) del maggior volume del cervello dei maschi; quando lo scarto nel volume totale viene corretta con metodi statistici, le differenze diventano nettamente più piccole e l’accuratezza nella classificazione scende al 60-70%.

Che conclusioni si possono trarre da questi dati? Non molte, per la verità. Alcuni ricercatori hanno messo in evidenza le piccole dimensioni delle differenze (una volta corrette per il volume totale) e i risultati contrastanti degli studi in questo campo; su questa base hanno sostenuto che le differenze di genere nella struttura e funzione cerebrale sono sostanzialmente trascurabili. Ma proprio perché le differenze sono statisticamente deboli mentre le misurazioni sono imprecise e piene di difficoltà tecniche, è probabile che anche gli studi più grandi eseguiti finora siano in realtà troppo piccoli per dare risultati affidabili. Proprio adesso stanno iniziando a uscire i primi studi con decine di migliaia di soggetti, e i risultati sono molto più precisi e robusti di quanto si sia visto finora. Il problema più profondo è che, visto che sappiamo molto poco di come la struttura fisica del cervello influisca sul funzionamento cognitivo, risulta molto difficile decidere se differenze che ci sembrano “piccole” possano invece avere effetti rilevanti sul comportamento. Gli studi che hanno provato a correlare configurazioni cerebrali più “mascoline” o “femminili” con aspetti mascolini-femminili della personalità e del comportamento hanno trovato effetti a volte significativi, ma sempre piuttosto deboli. (Anche in questo caso, si tratta di studi condotti su campioni relativamente piccoli, e i risultati devono essere considerati provvisori).

Ancora più importante è il fatto che, se non si correggono statisticamente le misure per eliminare le differenze di genere nel volume cerebrale totale, i cervelli di uomini e donne risultano piuttosto diversi in tutta una serie di caratteristiche anatomiche. Rimuovere queste differenze equivale ad assumere che non abbiano nessuna importanza dal punto di vista funzionale, ma non abbiamo idea se sia davvero così. Le poche indicazioni di cui disponiamo sembrano puntare nella direzione opposta: gli studi sulle associazioni fra tratti di personalità, comportamenti e anatomia cerebrale hanno trovato le correlazioni più forti proprio con il volume totale del cervello e altre misure globali. Anche queste associazioni però tendono ad essere piuttosto piccole in senso assoluto, in linea con l’idea che la personalità sia determinata soprattutto da meccanismi neurochimici (neurotrasmettitori, ormoni, ecc.) piuttosto che da differenze anatomiche. È molto probabile che il funzionamento cerebrale sia più differenziato dal punto di vista neurochimico di quanto non lo sia dal punto di vista puramente anatomico. La ricerca sull’espressione genetica ha individuato migliaia di geni che si esprimono in modo differenziato nel cervello di maschi e femmine, raggiungendo il massimo della divergenza durante la pubertà. In breve, le nostre conoscenze sulle differenze di genere nella struttura e nel funzionamento del cervello hanno appena iniziato a scalfire la superficie del problema.

Quando le differenze di genere a livello cerebrale non vengono minimizzate, si tende a spiegarle (spesso in modo sbrigativo) facendo riferimento al concetto di plasticità cerebrale: se il cervello è malleabile e si modifica in risposta all’ambiente, le differenze tra maschi e femmine non fanno che riflettere le loro diverse esperienze nel corso dello sviluppo. Sicuramente la plasticità è una caratteristica basilare del cervello, dal momento che rende possibili l’apprendimento e la memoria. Però è anche importante non interpretare questo concetto in modo troppo “libero”, soprattutto dal momento che la nostra comprensione dei processi di plasticità è ancora più frammentaria e incompleta di quella sulla neurochimica o sulle differenze anatomiche. Per il momento, la ricerca genetica ha mostrato chiaramente che le caratteristiche anatomiche e funzionali del cervello a livello macroscopico—come il volume, lo spessore e le connessioni tra diverse aree, ma anche i profili di attività a riposo o durante compiti cognitivi—sono influenzate in modo sostanziale dalle differenze genetiche tra le persone. Non solo: gli effetti genetici sono spesso più forti di quelli ambientali, ed è possibile predire somiglianze e differenze nelle caratteristiche cerebrali a partire da somiglianze e differenze nel corredo genetico delle persone. In assenza di prove schiaccianti, questi dati dovrebbero suggerire un certo scetticismo rispetto all’idea che le differenze cerebrali tra maschi e femmine possano essere spiegate facilmente (e interamente) come prodotti dell’esperienza e dell’apprendimento.

Mito #4: Gli stereotipi di genere sono dannosi, sostanzialmente infondati, ed esagerano quelle che in realtà sono differenze minime o inesistenti.

Come ho cercato di mettere in risalto fin qui, le differenze psicologiche tra maschi e femmine sono tutt’altro che minime, e sono profondamente radicate nella nostra biologia piuttosto che un prodotto esclusivo dell’apprendimento e dei condizionamenti sociali. Oltre a dare per scontata l’idea (non più sostenibile) che le “vere” differenze di genere siano trascurabili, il discorso mainstream sugli stereotipi di genere confonde tra loro tre questioni distinte che dovrebbero essere affrontate separatamente: quella della rigidità delle aspettative e opinioni comuni, quella della loro accuratezza, e quella dei loro effetti.

Non c’è alcun dubbio che le persone (così come le società) possano formarsi idee troppo rigide e schematiche sulle differenze tra maschi e femmine, senza tenere in dovuta considerazione la variabilità individuale e la flessibilità del comportamento umano. Ma anche nei casi in cui gli stereotipi sono eccessivamente rigidi, possono essere basati sull’osservazione di fenomeni reali e quindi essere almeno in parte veritieri. La tendenza più discutibile in questo campo è quella di giudicare qualsiasi affermazione sulle differenze di genere—per quanto realistica e sfumata—come uno “stereotipo” da smontare, frutto di ignoranza e pregiudizi. In realtà, la ricerca sugli stereotipi di genere ha mostrato molto chiaramente che, in media, le aspettative delle persone tendono ad essere sorprendentemente accurate e aderenti alla realtà; quando si osservano deviazioni dai dati empirici, gli errori vanno più spesso nella direzione di sottovalutare le differenze piuttosto che di esagerarle. (In più, contrariamente a quanto spesso si crede, la maggior parte delle persone è piuttosto brava a rivedere o mettere da parte le sue aspettative quando riceve informazioni sulle caratteristiche di una specifica persona).

Nel campo della personalità, i tratti in cui si trovano le maggiori differenze di genere comprendono stabilità emotiva, ansia, amichevolezza, calore interpersonale, dominanza/assertività e sensibilità (sia in senso empatico che in senso artistico/estetico). Il fatto che queste differenze corrispondano a degli stereotipi comuni non le rende meno reali; e soprattutto non dimostra in alcun modo che siano gli stereotipi a causare le differenze, piuttosto che il contrario. Per fare un esempio banale, sicuramente esiste uno “stereotipo” sul fatto che gli uomini abbiano la voce più profonda delle donne, ma sarebbe assurdo argomentare che questo stereotipo sia la causa dell’abbassamento della voce nei ragazzi quando arrivano alla pubertà. Vista da vicino, l’idea che la scienza abbia “sfatato gli stereotipi di genere” si rivela essa stessa un mito da sfatare.

L’aspetto più complesso e delicato da affrontare riguarda gli effetti degli stereotipi. Con poche eccezioni, la ricerca psicologica e sociologica su questo tema si basa sull’assunto che gli stereotipi siano a priori infondati e dannosi. Sicuramente, gli stereotipi di genere—soprattutto se esagerati o troppo rigidi—possano creare ingiustizie e disagi, soprattutto nelle persone con personalità o interessi “atipici” rispetto agli altri membri del proprio sesso. Il problema è che l’attenzione a senso unico verso gli effetti potenzialmente negativi degli stereotipi finisce per oscurare i loro aspetti positivi. Negare o minimizzare quelle che sono differenze reali tra i sessi può avere conseguenze altrettanto deleterie, sia a livello sociale (per esempio con l’adozione di politiche fallimentari o controproducenti) che a livello personale (per esempio rendendo più difficile la comunicazione tra uomini e donne; incoraggiando la lettura distorta di differenze negli interessi e nelle abilità come “discriminazioni”; o privando gli psicologi di strumenti utili per la comprensione e il trattamento della sofferenza mentale). Un approccio bilanciato a questo tema dovrebbe riconoscere entrambi i lati della medaglia, ed essere aperto all’eventualità che avere degli “stereotipi” flessibili ma allo stesso tempo realistici possa aiutare a vivere il rapporto con il maschile e il femminile in modo più sereno e consapevole.

Questa non è solo una speculazione: diversi studi hanno rilevato che le persone con una visione stereotipata ma generalmente positiva delle differenze tra maschi e femmine (soprattutto in modi che enfatizzano la complementarietà tra i sessi) tendono anche ad avere maggiori livelli di benessere, maggiore autostima, e relazioni di coppia più soddisfacenti. Anche se non dimostrano una relazione causale, questi dati sono in linea con l’idea che una “modica quantità” di stereotipi di genere possa contribuire al benessere psicologico e relazionale, sia negli uomini che nelle donne. Purtroppo, l’approccio ideologico che domina quest’ambito di ricerca fa sì che i risultati vengano riletti in chiave sempre negativa: così, gli stereotipi positivi (indipendentemente dalla loro fondatezza) vengono etichettati come “sessismo benevolo”, e le associazioni con benessere e autostima vengono spiegate come “effetti palliativi” o forme rassicuranti ma subdole di “negazione della discriminazione”. L’ipotesi che alcuni stereotipi possano essere un segno di realismo e maturità non viene nemmeno presa in considerazione.

Tra i vari modi in cui la psicologia tende a enfatizzare gli aspetti deleteri degli stereotipi, l’esempio più eclatante è sicuramente la teoria della “minaccia dello stereotipo” (stereotype threat). L’idea di base è che “attivare” la rappresentazione di uno stereotipo di genere (per esempio leggendo un brano sul fatto che i maschi sono più bravi in matematica) sia sufficiente per suscitare ansia e tensione nei membri del gruppo sfavorito (in questo caso le femmine), e quindi interferire con la loro prestazione cognitiva. Secondo questa teoria, alcune disparità persistenti tra maschi e femmine (in particolare nelle abilità matematiche) non sono che il frutto di una profezia che si auto-avvera, per cui l’esistenza di uno stereotipo negativo produce effetti che finiscono per confermare lo stereotipo. Questo filone di ricerca è nato negli anni ‘90 e ha ricevuto un’enorme pubblicità, perché sembrava dimostrare in modo inequivocabile il potere degli stereotipi di plasmare cognizione e comportamento. Quello che ancora pochi sanno è che i risultati iniziali non sono stati replicati negli studi più grandi e meglio controllati, e che una volta corretti i dati per la tendenza a pubblicare più facilmente i risultati positivi (publication bias), l’effetto si riduce di molto o addirittura scompare. Anche se in futuro la ricerca dimostrasse in modo indiscutibile che la “minaccia dello stereotipo” può ridurre lievemente le prestazioni cognitive, un effetto di quella dimensione non sarebbe lontanamente sufficiente per spiegare le differenze che si osservano nel mondo reale. Ma la teoria (ormai quasi del tutto falsificata) ha già influenzato pesantemente la conversazione pubblica, ed è stata usata per giustificare interventi anche piuttosto invasivi nel campo dell’educazione, della selezione del personale, e così via.

Per concludere, voglio sottolineare ancora una volta che l’antidoto ad una visione manichea e dogmatica delle differenze di genere non deve tradursi in una semplificazione di segno opposto, per cui tutti gli stereotipi sono sacrosanti e i due sessi diventano categorie monolitiche, composte da individui tutti uguali che devono imparare a “stare al loro posto”. Sfatare i miti che oscurano la visuale è un passo necessario, ma rimane solo il primo passo. Come sempre, la vera soluzione passa per uno sforzo di riflessione e di sintesi; una sintesi capace di integrare anche i limiti e gli aspetti meno gratificanti della nostra natura, riconoscere che i fenomeni psicologici hanno quasi sempre sia costi che benefici, e resistere alla tentazione di voler giudicare e cambiare la realtà prima di averla compresa.

Marco Del Giudice è professore associato di psicologia all’University of New Mexico (USA). Ha pubblicato oltre 100 articoli, capitoli e monografie su temi di ricerca che spaziano dalla neurofisiologia dello stress alla plasticità nello sviluppo, fino all’evoluzione della personalità e alle basi biologiche dei disturbi mentali. È riconosciuto a livello internazionale per i suoi contributi teorici e metodologici allo studio delle differenze di genere. Il suo sito web è marcodg.net.

 

Bibliografia

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Differenze di genere: abilità cognitive

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Video intervista (Richard Lippa, con Ricardo Lopes): Sex Differences in Cognition and Interests. Link (Youtube)

Video intervista (Diane Halpern, con Ricardo Lopes): Sex Differences in Cognitive Abilities, Critical Thinking, and Creativity. Link (Youtube)

Sulle origini delle differenze di genere nelle abilità spaziali:

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Il ruolo dei fattori biologici

Sulla selezione sessuale:

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Low, B. S. (2015). Why sex matters (revised ed.). Princeton University Press. Link

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Sul ruolo di genetica e ormoni nello sviluppo:

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Sulle influenze reciproche tra genitori e bambini:

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Altri esempi di ricerca cross-culturale:

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Greenberg, D. M., Warrier, V., Abu-Akel, A., Allison, C., Gajos, K. Z., Reinecke, K., … & Baron-Cohen, S. (2023). Sex and age differences in “theory of mind” across 57 countries using the English version of the “Reading the Mind in the Eyes” Test. Proceedings of the National Academy of Sciences, 120(1), e2022385119. Link

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La questione della variabilità

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Un dibattito recente sulle differenze di variabilità tra maschi e femmine negli animali, e le loro implicazioni per la psicologia umana:

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Differenze cerebrali

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Sulla correlazione tra volume cerebrale e intelligenza:

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Sulle associazioni tra anatomia cerebrale, personalità e differenze di genere:

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Sulle influenze genetiche nell’anatomia e nel funzionamento cerebrale:

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Jansen, A. G., Mous, S. E., White, T., Posthuma, D., & Polderman, T. J. (2015). What twin studies tell us about the heritability of brain development, morphology, and function: a review. Neuropsychology review, 25(1), 27-46. Link

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Un articolo recente di Lise Eliot e colleghi sulla natura (secondo loro trascurabile) delle differenze cerebrali, e alcune risposte critiche molto interessanti:

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Goldman, D. (2021). On Dump the “dimorphism”: Comprehensive synthesis of human brain studies reveals few male-female differences beyond size. Link

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Stereotipi di genere

Sull’accuratezza degli stereotipi:

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Sull’associazione tra stereotipi di genere e benessere psicologico:

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Sulla teoria della “minaccia dello stereotipo”:

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Implicazioni per la parità/disparità di genere in campo accademico e lavorativo

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