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Società

Ritorno a Carosello? – A proposito dello spot Esselunga

3 Ottobre 2023 - di Luca Ricolfi

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Per chi si occupa di comunicazione i prossimi mesi si annunciano interessanti. Lo spot Esselunga, quello della pesca e di Emma bambina triste figlia di genitori separati, quello che è piaciuto a Giorgia Meloni (“bello e toccante”), e di conseguenza non può piacere a un buon progressista, ha infatti aperto una serie di interrogativi sull’evoluzione futura dei messaggi pubblicitari.

Lo “spot della pesca”, infatti, è al tempo stesso nuovissimo e vecchissimo, quasi antico. Nuovissimo perché rarissimamente, negli ultimi decenni, abbiamo avuto occasione di vedere spot così lunghi. Soprattutto, molto raramente abbiamo visto degli spot che raccontassero una storia, una vicenda, anziché limitarsi a mostrare una situazione, una performance, un’immagine in movimento. La brevità degli spot è strutturalmente incompatibile con il respiro di un racconto, che richiede un tempo almeno triplo o quadruplo rispetto alla durata media degli spot attuali.

Ma lo spot Esselunga è anche antico, perché ci riporta al ventennio di “Carosello” (1957-1977), quando la pubblicità era rarissima in tv, e si concentrava nei 10 minuti che precedono le 21, subito prima di mandare i bambini “a nanna”. In quel tempo solo 36 grandi marche avevano le risorse per permettersi Carosello, uno spazio che occupavano ogni 9 giorni, ma il punto interessante è che lo facevano con dei filmati (sketch, cartoni animati, intermezzi musicali) ogni volta nuovi, e tuttavia sempre fedeli a sé stessi. Lo spettatore riconosceva personaggi e situazioni (alcune indimenticabili: Calimero pulcino nero, Olivella e Maria Rosa, Caio Gregorio “er guardiano der Pretorio”, eccetera), ma aveva una garanzia: il prossimo spot, la settimana successiva, sarebbe stato diverso. E c’erano regole precise, ad esempio lo spettacolo o la storia dovevano occupare molto più tempo di quello dedicato all’esaltazione del prodotto.

E ora?

Ora si aprono molti bivii e molte domande. Non è chiaro, ad esempio, se la scelta di Esselunga verrà imitata da altri marchi. E, nel caso lo dovesse essere, se assisteremo a oppure no a una riduzione della frequenza (attualmente ossessiva) con cui i medesimi spot ci bombardano, spesso contemporaneamente da più di un canale. Vi siete mai accorti che, quando facciamo zapping perché il programma che stiamo seguendo va in pubblicità, non solo caschiamo dentro un altro incubo pubblicitario, ma incocciamo nelle medesime pubblicità del canale che abbiamo appena abbandonato? Ci sono pubblicità che letteralmente ci perseguitano, con la loro frequenza e la loro ubiquità. Ebbene, è possibile che l’adozione del modello Esselunga porti anche, per ovvie ragioni di costi, a una riduzione del tasso di bombardamento attuale: spot più lunghi, ma sensibilmente meno frequenti.

Ma qui incontriamo un altro bivio. Se una o più marche dovessero adottare il modello Esselunga, si aprirebbero due possibilità: riproporre la stessa identica storia per mesi e mesi, oppure rinnovarla, variarla (o farla evolvere in una stoia più lunga? E se i genitori di Emma tornassero insieme?) con una frequenza comparabile a quella delle pubblicità di Carosello, diciamo almeno una volta ogni due settimane. I costi di produzione degli spot salirebbero vertiginosamente, ma anche questo – insieme alla maggiore durata dello spot – potrebbe indurre una (forse auspicabile) riduzione del tasso di ripetizione del medesimo spot.

Vedremo. Ma se il caso Esselunga, scemate le demenziali polemiche politiche di questi giorni, innescasse una riflessione sul senso e l’efficacia delle strategie di bombardamento pubblicitario, sarebbe un fatto positivo. Almeno per chi, dell’attuale selva di spot tanto brevi quanto (sovente) brutti, ha fatto indigestione.

La pesca della discordia – A proposito dello spot di Esselunga

30 Settembre 2023 - di Luca Ricolfi

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Antefatto. Lunedì 25 settembre va in onda uno spot della Esselunga in cui Emma, una bambina figlia di genitori che non vivono più insieme, ruba una pesca al supermercato per poi donarla al padre, facendogli credere che il dono provenga dalla madre. Il messaggio è limpido e semplice: la bambina è triste perché i genitori sono divisi, e ricorre a un piccolo sotterfugio nella speranza di farli tornare uniti.

Passano poche ore, e fioccano le critiche, ma anche gli elogi. C’è chi dice che lo spot strumentalizza il dolore dei bambini per fini commerciali (Bersani). C’è chi invita a riflettere sul carrello degli italiani, per molti dei quali “anche una pesca rischia di diventare un lusso” (Fratoianni). C’è chi legge lo spot come un attacco alla legge sul divorzio e chi, viceversa, vi vede un omaggio alla famiglia tradizionale. C’è chi, insorge a difesa dei genitori che divorziano, e ci spiega che non tutti i figli di genitori divorziati sono infelici, così come non tutti i figli di genitori sposati sono felici.

In generale, gli esponenti della destra apprezzano lo spot, a partire da Giorgia Meloni che lo trova “bello e toccante”. Mentre quelli della sinistra lo criticano, anche se non tutti (con la consueta franchezza, Antonio Padellaro confessa di pensarla come Giorgia Meloni).

Quanto ai social non è affatto vero che la gente sia divisa. La stragrande maggioranza dei commenti è favorevole, spesso addirittura entusiasta.

Ma perché lo spot della Esselunga ha suscitato tanto interesse e tanto consenso?

Una ragione, probabilmente, è che è uno dei pochissimi spot che non trasmette un’idea stereotipata, banale e sostanzialmente falsa della realtà. Con lo spot di Esselunga, la realtà irrompe mostrando la normalità del dolore. Perché, forse non tutti lo sanno, ma la normalità, oggi in Italia, non è la famiglia Mulino Bianco, bucolica e felice, ma la famiglia che si è spezzata o si sta spezzando. La durata media delle unioni è crollata rispetto a quella del passato. Ci si sposa più tardi, e ci si divide più presto (già a 40-45 anni). Il numero di separazioni e divorzi ha ormai raggiunto il numero di matrimoni e, nelle cause di separazione o divorzio, la norma è che bambine e bambini siano affidati a entrambi i coniugi, come pare essere nel caso dello spot. Ed è curioso che, nel vortice dei temi quotidianamente affrontati sui giornali, sui siti, nei talkshow, trovino quotidianamente spazio una miriade di argomenti marginali, di fatti contingenti, di problematiche di nicchia, ma che del dolore delle famiglie in disgregazione si preferisca parlare pochissimo. Da un certo punto di vista, il massiccio consenso allo spot è parallelo e affine a quello che ha accompagnato il libro-bestseller del generale Vannacci: la normalità e la sua rappresentazione suscitano scandalo nelle élite intellettuali e politiche, ma riscuotono l’approvazione, non di rado entusiastica, di tanti cittadini comuni, che riconoscono più verità e umanità nello spot della pesca che in tante contese mediatiche, spesso lontane mille miglia dalle sofferenze quotidiane di tanti.

C’è però, forse, anche una seconda ragione alla base del successo dello spot. Una ragione che, stranamente, non mi pare di aver sentito evocare da nessuno. Questa ragione è il completo cambiamento del formato dello spot, che è diventato molto più lungo e, soprattutto, racconta una storia. Non più messaggi brevi e pretenziosi, non più situazioni improbabili o demenziali, non più lusinghe del consumatore e poco credibili gratificazioni dell’ego, bensì una storia semplice, comprensibilissima, e capace di andare dritta al cuore. Senza sottintesi ideologici, senza ipocriti messaggi umanitari, senza pretese di educare nessuno o di salvare il mondo. In breve: un racconto, non una predica.

Insomma: forse Esselunga, a 46 anni di distanza, ha riscoperto e rilanciato la formula di “Carosello”, quel quarto d’ora di messaggi pubblicitari che, intorno alle 21, segnalavano in modo irrevocabile che, per i bambini, era l’ora di “andare a nanna”. In quegli spot l’elemento essenziale, quello che affezionava l’ascoltatore, era il brio e l’originalità delle storie, delle scenette, spesso cartoni animati, sempre quelle ma ogni volta diverse. Il messaggio pubblicitario era secondario, quasi marginale. Allora, come nello spot Esselunga, l’elemento cruciale era la capacità dei pubblicitari di inventare  storie efficaci, una capacità che – a dispetto della proliferazione dei “creativi” – non appare oggi copiosa come allora.

La reazione del pubblico alla storia di Emma e della pesca fa pensare che, forse, fra la pubblicità-messaggi e la pubblicità-storie, la gente preferisca la pubblicità-storie. E questo non solo perché le storie hanno una loro grazia e una loro semplicità, ma perché la pubblicità-messaggi è martellante, fintamente benevola, e in definitiva rozza e semplicistica. Che la mossa di Esselunga preluda a un ritorno all’antico?

[uscito sul Messaggero, 29 settembre 2023]

Vannacci, la sua grossolana verità

14 Settembre 2023 - di Valerio Gironi

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Per dirla con San Paolo: confesso che ho peccato. Almeno credo, visto che taluni giudicano come tale la lettura de “Il mondo al contrario” del generale Roberto Vannacci. Il mio è un peccato “premeditato”, dunque non so se perdonabile, però sono convinto che per giudicare qualcuno o qualcosa, prima bisogna conoscere quel qualcuno o quella cosa. Fatta questa lunga (e forse inutile) premessa dico la mia sul fenomeno editoriale dell’estate 2023, evitando rigorosamente il riferimento a questo o quel capoverso: il “per esempio scrive…” induce sempre il lettore a soffermarsi a quell’esempio e perdere la veduta d’insieme del libro; e Roberto Vannacci in quanto a visione ed esposizione delle proprie convinzioni, è piuttosto solido e il suo prodotto se disaggregato perde di efficacia.

La prima (beh, non la primissima, quella è l’audacia dei giudizi) impressione che si ha leggendo il libro è che il generale Vannacci si trovi più a suo agio tra ordini scanditi e azioni coraggiose, piuttosto che con la punteggiatura e la sintassi (tipico inciampo di chi scrive di getto): nulla di irrimediabile con un buon editing.

Ciò detto, il libro scorre veloce e incuriosisce, non tanto per il dubbio di dove l’autore voglia andare a parare, quanto per la sicurezza delle sue affermazioni e dei giudizi derivanti. Insomma, uno che non le manda a dire, e soprattutto non tenta alcuna mediazione con le sue profonde convinzioni (che con tutto il fluido che gira di questi tempi…).

Però il vero valore aggiunto de “Il mondo al contrario” è quello di dare ordine alle idee e di mettere nero su bianco quel “pensato ma non detto” assolutamente trasversale – per sensibilità politiche e no – in larga parte di nostri concittadini.

Dunque credo che dobbiamo un grazie al Vannucci che riesce in una operazione verità – sintetica quanto efficace – del comune sentire patrio. Forse lo fa in modo grossolano, ma se abbiamo perdonato George Bernard Shaw che per sintetizzare l’essenza del melodramma italiano sosteneva che il tutto si riduceva semplicemente al tenore che voleva portarsi a letto il soprano mentre il baritono non era mai d’accordo, ecco il generale può, a buon diritto, rivendicare la sua grossolana verità .

Poi il diritto di essere e di dire è di tutti, compresi quelli che il libro non l’hanno letto e forse non lo leggeranno mai.

Della stoltezza – La maledizione del Pd

13 Settembre 2023 - di Luca Ricolfi

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Ci sono parole che si inabissano, anche nel breve corso di una vita. Quand’ero ragazzo, tutte le settimane compravo “Il monello”, uno dei giornalini per ragazzi degli anni ’60, come “L’intrepido”, o “Nembo Kid”. Oggi nessuno usa più la parola monello. Perché le monellate sono derubricate a ordinaria amministrazione, e per essere trattati da trasgressori bisogna essere almeno teppisti, bulli, o membri di mini-gang. Così nessuno usa più parole come piroscafo, réclame, pudico, o bestemmie come “crìbbio!”, alterazione eufemistica di Cristo!

Poco male, si dirà, la lingua trattiene quel che serve. C’è un caso, però, nel quale il setaccio della lingua non ha funzionato a dovere, perché la parola scomparsa servirebbe eccome. È il caso dell’aggettivo ‘stolto’ e del sostantivo ‘stoltezza’. Quante volte lo abbiamo incontrato nelle versioni di latino… E quante volte siamo stati avvertiti del pericolo. La cultura dell’antica Roma, ma anche la Bibbia, sono piene di riferimenti (e di ammonimenti) in materia di stoltezza. La figura dello stolto assume un ruolo centrale nella definizione dei principi morali, della condotta di vita, della via della saggezza e della virtù.

La stoltezza è diversa dalla stupidità, profondamente diversa. Nessuna delle due ha un contrario perfetto, ma se dobbiamo assegnarne uno potremmo dire che il contrario di stupido è intelligente, il contrario di stolto è saggio. O, se vogliamo, la stupidità è un particolare deficit di intelligenza, la stoltezza è un particolare deficit di saggezza. Più esattamente: lo stolto è chi agisce senza vedere le conseguenze del proprio agire che potranno essere negative per lui stesso. La stoltezza, in altre parole, è una mancanza  di lungimiranza che ha effetti autolesionistici.

Perché è un peccato che la parola stoltezza sia scomparsa dal nostro vocabolario? È semplice: perché la stoltezza non è scomparsa dal nostro mondo. Ci sono situazioni e comportamenti che sarebbero meglio compresi, e forse corretti, se sapessimo ancora maneggiare la categoria della stoltezza.

Esempi?

Sono innumerevoli. Il genitore che, per essere esonerato dalla fatica di interagire con i pargoli, li dota di smartphone fin dai 2 anni, causando dipendenza, danni cerebrali, e innumerevoli problemi di relazione quando sarà più grande. Lo studente che, durante la carriera scolastica o universitaria, fa il minimo necessario per essere promosso, salvo poi scoprire che le sue (in-)competenze non sono apprezzate sul mercato del lavoro. Il datore di lavoro che spreme all’inverosimile un dipendente esemplare, salvo perderlo quando quest’ultimo trova un posto migliore.

E poi c’è il Pd, o meglio la sua dirigenza. Nessuna categoria della scienza politica coglie l’essenza di questo partito meglio di quella della stoltezza. Perché, negli ultimi tempi, il nucleo dell’azione politica del Pd è stato: attaccare gli avversari in un modo che li rafforza, e al tempo stesso indebolisce il partito.

È stato così con Enrico Letta e la campagna antifascista che ha preceduto le elezioni del 25 settembre 2022, una campagna così surreale che ha finito per accelerare la corsa dei “fascisti” di Fratelli d’Italia. Ma è stato così anche con le mosse più recenti di Elly Schlein. Attaccare il governo perché non ferma gli sbarchi, come se questo potesse portare consensi a un partito che, in nome dell’accoglienza, ne vorrebbe ancora di più. Descrivere l’Italia come un paese allo sfascio, dove scuola e sanità sono a pezzi, i salari sono da fame, i lavoratori muoiono sul posto del lavoro, le donne vengono perseguitate, stuprate e uccise, come se questo dipendesse dal governo in carica, e non da quelli precedenti, tutti (tranne uno) con il Pd in posizioni chiave. Sostenere un referendum contro una legge del passato promossa dallo stesso Pd (il Jobs Act), come se questo potesse non scatenare una guerra civile dentro un partito che quella legge l’ha voluta e votata.

Si potrebbe continuare. Ma credo che la morale sia chiara: senza la categoria della stoltezza, diventa difficile descrivere il mondo in cui viviamo.

La rivoluzione del merito

11 Settembre 2023 - di fondazioneHume

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(Intervista di Nicola Mirenzi a Luca Ricolfi, uscita sul Foglio il 7 settembre 2023)

“La rivoluzione del merito” – l’ultimo libro di Luca Ricolfi – appena uscito in libreria con Rizzoli dovrebbe già essere sulla scrivania di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi. Il libro racconta la storia della lotta contro il merito, e contiene anche, alla fine, una “modesta proposta” per istituire un generoso sistema di borse di studio per i ragazzi capaci e meritevoli ma poveri.

“La presidente del consiglio”, racconta Ricolfi, “condivide l’idea lanciata dalla Fondazione Hume e ripresa nel mio saggio. E, a quel che ne so, è determinata a realizzarla fin dalla fine di questo anno scolastico”. Ricolfi è ossessionato dal problema del merito fin dai tempi delle riforme di Luigi Berlinguer, fine anni ’90. “Ancora non riesco a darmi ragione del silenzio di tutte le forze politiche, a partire da quelle che si proclamano progressiste, per il destino dei ragazzi ‘bravi a scuola’ ma provenienti da famiglie modeste”.

Sociologo dotato dell’abilità di scrivere con chiarezza illuministica, Ricolfi è nato nel 1950, lo stesso anno in cui Piero Calamandrei, a Roma, pronunciò davanti a maestri e professori uno strepitoso discorso in difesa della scuola, raccontato nel primo capitolo del libro. Un discorso poco conosciuto, che parla dell’articolo 34 della Costituzione. Quello che recita: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto a raggiungere i gradi più alti degli studi”. Secondo Calamandrei, “l’articolo più importante della Costituzione”. Di cui è necessario ricordare “il valore politico e sociale”. Perché solo attraverso il sostegno ai capaci e meritevoli la scuola può far crescere “i migliori” e garantire un proficuo ricambio della classe dirigente. “I partiti progressisti hanno dimenticato la lezione di Calamandrei. Anzi hanno sconsideratamente tradito l’articolo 34 per abbracciare la bandiera del ‘diritto al successo formativo’, che ha danneggiato proprio le persone che ai progressisti dovrebbero stare più a cuore: le più umili”.

La difesa della cultura come strumento di emancipazione – un tempo centrale anche nella politica del Pci di Togliatti – è diventata di destra? “È ancora presto per dirlo. Al momento, si può solo prendere atto che la bandiera della cultura è in un limbo: i progressisti l’hanno abbandonata, la destra non l’ha ancora raccolta”. La novità è che, a sinistra, la parola merito è diventata quasi una bestemmia, dopo essere stata posta a fianco di “istruzione” nel nome del ministero guidato da Giuseppe Valditara. “Mentre sarebbe ancora oggi il discorso più di sinistra che si possa fare”. Ma né Elly Schlein, né nessun altro dei segretari precedenti del Pd, ha mai invitato Ricolfi a un incontro di partito. È stata piuttosto Giorgia Meloni a chiedergli di partecipare, nella primavera scorsa, alla convention di Fratelli d’Italia per parlare di scuola. Già in passato Ricolfi aveva avuto scambi di idee con la presidente del Consiglio. La prima volta che si videro era il 2014, quando Fratelli d’Italia era ancora un giovane e piccolissimo partito. Fu a proposito del maxi-job, una proposta che la Fondazione Hume aveva lanciato dalle pagine del quotidiano “La Stampa”. La proposta (azzerare i contributi per le imprese che aumentano l’occupazione) era piaciuta a Giorgia Meloni, che andò a Torino per farsela raccontare in dettaglio. “Una vera sorpresa per me: una donna politica interessata ai minimi dettagli tecnici, e che prende un aereo per andare a parlarne con un sociologo della parte politica avversa”.

Conservatore? No, Ricolfi si definisce “un uomo di sinistra”. In politica economica, addirittura radicale. “Io sono un sessantottino. La mia generazione è cresciuta nel mito della rivoluzione. E nemmeno io sono immune dal suo fascino. Certo, non ho mai pensato che il potere dovesse essere conquistato con la violenza, come predicavano gli estremisti degli anni Settanta. Ma, anche quando ho scelto il riformismo, sono rimasto fedele all’idea che, per cambiare davvero le cose, qualsiasi riforma deve essere radicale, decisa, senza mezze misure. L’Italia va rivoltata come un calzino. Tutto il resto è acqua fresca”. L’immagine del Ricolfi rivoluzionario è poco nota. “Ero vicino al Psiup, allora guidato da Pino Ferraris. Ma lasciai nel 1971, quando, a una manifestazione, Lotta Continua e gli psiuppini se le diedero di santa ragione con le aste delle bandiere per prendere la testa del corteo. Così io salii sulla mia Fiat 850 e mi rifugiai in montagna, dove rimasi per circa un anno, scendendo solo a dare esami. Per quasi un anno mi dedicai solamente a studiare i miti greci e a tradurre (malissimo) la Einbahnstrasse di Walter Benjamin. Di quel tipo di politica lì, di quella competizione senza senso fra gruppetti extraparlamentari, non volli saperne più niente”.

Seppur sessantottino, Ricolfi è stato in polemica anche con la propria generazione, a cui oggi imputa parte della responsabilità di aver contribuito alla distruzione del merito. “Credevo che per fare la rivoluzione fosse necessario studiare. Non puoi cambiare il mondo, dicevo, se prima non fai lo sforzo di conoscerlo a fondo. La mia generazione tendeva invece a credere che anche l’istruzione fosse uno strumento del dominio di classe. Di qui l’idea degli esami collettivi e del voto politico. Che detestavo non perché i miei compagni, senza studiare, prendessero gli stessi voti che prendevamo noi, studiando. No. Quello che odiavo davvero è che poi non sapessero nulla neanche di Marx, di cui si riempivano in continuazione la bocca”.

Il corpo a corpo più drammatico del libro lo ingaggia con Don Lorenzo Milani. Eroe del suo tempo e ancora oggi icona del progressismo. “In ‘Lettera a una professoressa’ è evidente il suo disprezzo per la cultura alta, in particolare quella umanistica, vissuta semplicemente come uno strumento di oppressione borghese. Ma in Don Milani c’era ancora un elemento che poi nei suoi epigoni è sparito del tutto. Il valore dello studio, e del tempo pieno per i ragazzi in difficoltà. Nella scuola di Barbiana non c’erano vacanze. Si stava in classe tutto il giorno. Anche nel fine settimana. Per questo ritengo necessario distinguere Don Milani dal ‘donmilanismo’. Nel primo, c’è parecchio da rifiutare ma anche qualcosa da custodire. Nel secondo, c’è solo la rinuncia a trasmettere la cultura alta ai figli delle classi basse.”.

E invece Meloni sarebbe una rivoluzionaria autentica? “A suo modo, credo sia una donna radicale. Anche in politica economica. Il suo chiodo fisso è l’occupazione. L’idea della flat tax non la entusiasma. Credo che, finché potrà, eviterà di applicarla nelle sue versioni iper-liberiste. Per una ragione semplice: in fondo, lei è una vera keynesiana”. Ma è davvero rivoluzionario essere keynesiani, in Italia? “No, se si commette l’errore di confondere l’intervento pubblico con l’assistenzialismo, che è quello che in Italia è sempre andato di moda. Ma il fine delle politiche keynesiane, si dimentica spesso, non è la spesa pubblica in sé: è l’investimento pubblico per raggiungere la piena occupazione, creare lavoro. E su questo sono in piena sintonia con Meloni: nessun aumento salariale, nessun reddito di cittadinanza, nessun sussidio, potrà mai avere, dentro una famiglia, l’impatto che ha uno stipendio in più”.

Delle conseguenze della propria radicalità, Luca Ricolfi si rimprovera una sola cosa: “Il libro che ho scritto su Tangentopoli, “L’ultimo parlamento”. Rigoroso nei numeri, ma così ferocemente giustizialista che oggi mi vergogno di averlo scritto. Non perché il fine non fosse sacrosanto: rinnovare il sistema politico italiano in profondità. Ma perché oggi so che nessun fine può essere distinto dai mezzi che si adoperano per raggiungerlo. E i mezzi usati da Di Pietro e dal pool di Mani Pulite furono (dico oggi) non degni di un paese civile, per non dire mostruosi”.

Dalla parola radicale, sente di potersi allontanare solo quando parla dei valori culturali. “In questo non nascondo di essere un conservatore”. La società opulenta e permissiva ha creato ben poco di buono, secondo Ricolfi. “Per esempio, è stato un errore – in nome di una falsa inclusività – sbarazzarsi della trasmissione del sapere, che la scuola aveva garantito in passato. Come è stato sbagliato, in nome della sovranità assoluta dell’io, liberarsi completamente del senso del pudore. Forse non ce ne rendiamo nemmeno conto. Ma attraverso i social è stata abolita l’intimità. Oggi è quasi vietato starsene per i fatti propri. La timidezza e l’introversione sono state bandite dal modo di essere uomini e donne”. Ma anche nell’educazione sentimentale sono stati fatti danni. “Abbiamo fatto molto male a demonizzare le nostre tradizioni culturali. C’era in esse un patrimonio di gesti, di codici di comportamento, di approcci tra uomo e donna senza i quali, oggi, in assenza di qualsiasi altro codice, più facilmente si riprecipita nella violenza e nella prevaricazione. Fino ad arrivare all’estremo dello stupro di gruppo. Com’è accaduto nel recente caso di Palermo”.

Si dovrebbero recuperare allora le culture antiche? “Non penso né che si possa, né che sia giusto farlo. Io sono per andare avanti, ma custodendo il buono che c’è – anzi che c’era – nel mondo che abbiamo ereditato da chi ci ha preceduto. Ad esempio: la trasmissione della cultura, la capacità di differire la gratificazione, il rispetto dei ruoli, l’esercizio dell’autorità nell’educazione dei figli. Più in generale, l’accettazione del limite, che è il vero nucleo della visione conservatrice del mondo, da Edmund Burke a Roger Scruton, da Raymond Aron a Simone Weil”.

E i conservatori italiani? “L’Italia ha una particolarità. È un Paese in cui non si scontrano due grandi visioni del mondo. Ma ne esiste solo una: quella progressista. È la sinistra che conduce le battaglie di civiltà. Afferma diritti. Combatte privilegi. Sempre in nome di un’idea più alta. La destra non fa altro che reagire a questa spinta. Rintuzzare gli eccessi. Scalpitare per non essere soffocata. La destra non ha un’idea di mondo alternativa a quello progressista. Si limita a schierarsi contro. Passando spesso per reazionaria, oscurantista, appunto perché non oppone a un’idea di mondo un’altra idea di mondo, ma si limita a reagire all’unica idea in campo. Ecco in cosa consiste la vera egemonia culturale della sinistra. Non il potere. Non le poltrone. Non i ruoli. Ma un’idea di civiltà”.

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