Quel diritto alla paura ignorato dalla sinistra

Sul problema degli stranieri i dati sembrano raccontare due storie alquanto diverse. Due storie, è bene dirlo subito, entrambe sostanzialmente veritiere.

La prima storia dice che gli stranieri, anche quando sono regolari, delinquono molto più dei nativi, in Italia come nel resto d’Europa (eccetto Irlanda e Lettonia). Su questo l’evidenza empirica prodotta indipendentemente (e con metodi in parte diversi) dagli studi di Luigi Solivetti e dai dossier della Fondazione David Hume è schiacciante: in Europa gli stranieri delinquono 4 volte più dei nativi, in Italia 6 volte. Nessuno sa, per mancanza di dati, il valore esatto del tasso di criminalità relativo degli stranieri irregolari, ma una stima di larga massima suggerisce che sia 30 volte quello degli italiani, e 10 volte quello degli stranieri regolari.

La seconda storia dice che, da un paio di anni, la maggior parte dei delitti, compresi quelli di grave allarme sociale, sono in diminuzione, in controtendenza rispetto alle percezioni del pubblico, che manifesta invece una crescente preoccupazione per la criminalità, specie se i reati sono efferati e gli autori dei crimini sono stranieri. Il tasso di criminalità relativo è più basso di quello di 10 anni fa. I media, specie la tv, dedicano uno spazio sproporzionato (rispetto a quello di altri paesi) ai fatti di cronaca nera. Quanto alla presenza degli immigrati nella società italiana, da anni tutte le rilevazioni demoscopiche mostrano che sia la presenza degli stranieri, sia la percentuale di immigrati musulmani, sono sovrastimate dal pubblico.

Che il primo racconto piaccia alla destra, e il secondo alla sinistra, fa parte della fisiologia della comunicazione politica, la cui essenza non è dire il falso, ma dire solo una parte della verità. Non per nulla la formula del giuramento in tribunale non prescrive di dire la verità, ma di dire “tutta” la verità.

La vera differenza fra i due racconti sta nelle conseguenze politiche che se ne traggono. La destra usa i dati per alimentare la paura, ingigantendo i pericoli, talora anche al di là di ogni ragionevolezza. La sinistra, viceversa, usa i dati per contestare la paura, specie quella verso gli immigrati, in base alla tesi secondo cui il pubblico sopravvaluta i pericoli.

Questo modo di impostare il problema era molto diffuso già alla fine degli anni ’90 e nei primi anni ‘2000, da cui traggo questa citazione: “La politica, una buona politica, dovrebbe prendere in carico le paure degli italiani e dimostrarne l’infondatezza” (copyright Livia Turco, ma è quel che pensavano quasi tutti a sinistra, con l’importante eccezione di Marzio Barbagli). Di qui un perdurante atteggiamento paternalistico, che contagia anche le menti più lucide e anticonformiste. In un’intervista a Repubblica di pochi giorni fa Massimo Cacciari (uno studioso con cui sono quasi sempre d’accordo) sembra pensare seriamente che, di fronte alle “menzogne della destra” la risposta delle sinistra debba essere “controbattere e razionalizzare”, “cambiare la comunicazione”, “rappresentare la questione degli immigrati in modo razionale”, “fornire dati economici”, “spiegare che non c’è un’invasione che toglie il pane alla gente”. Come se il problema fossero le “menzogne della destra” e non le paure della gente comune. Come se avere paura fosse irrazionale. Come se l’insicurezza fosse una mera percezione, che un racconto obiettivo potrebbe incaricarsi di sopprimere. Come se i dati fossero tutti e inequivocabilmente rassicuranti. Un illuminismo ingenuo sembra essersi impadronito, da almeno due decenni, della cultura di sinistra, cui non riesce proprio di prendere sul serio le paure della gente e la domanda di sicurezza che ne deriva. Eppure, pensare che i cittadini starebbero più tranquilli se solo conoscessero i dati è un non sequitur. Sarebbe come credere che, se sapessero che i morti sul lavoro sono in diminuzione, i sindacati non si preoccuperebbero più della nocività in fabbrica.

Chi ha paura di subire un furto o una violenza non è minimamente rassicurato dal fatto che questi due reati stiano diminuendo: semplicemente pensa che siano troppi (detto per inciso, non ha tutti i torti: i dati disponibili dicono che molti reati, pur in diminuzione, sono nettamente al di sopra dei livelli del 2007-2008). Chi pensa che ci siano troppi immigrati, perché li vede in coda davanti a sé in una ASL, o bighellonare presso un centro d’accoglienza, o spacciare droga sulle scale casa sua (come è capitato 20 anni fa a Italo Fontana, autore di un libro profetico sulla sordità della sinistra: Non sulle mie scale, Donzelli 2001), non si tranquillizza certo perché qualcuno gli dice che in Italia sono solo l’8%. E anche se i reati improvvisamente dimezzassero, resterebbe il fatto che il sentimento popolare non è fatto solo di paura, ma anche di indignazione. In molti casi quel che agita gli animi non è il timore di essere personalmente vittime di un crimine, ma sono le scarcerazioni facili, le pene ridotte, la sensazione di essere abbandonati e senza difesa (si pensi alle donne perseguitate da mariti o fidanzati violenti). E, nel caso degli immigrati, anche una credenza morale: l’idea che un ospite abbia uno speciale dovere di rispettare le regole.

La realtà è che la sinistra parla di xenofobia (paura dello straniero), ma la interpreta immancabilmente come xenomisia (odio per lo straniero). Ecco perché, per la cultura progressista, la paura non è semplicemente infondata, la paura è una colpa. Ma non è così, almeno dai tempi di Hobbes. La paura è il fondamento stesso del contratto sociale e dello Stato moderno, che nasce come antidoto alla sopraffazione, come superamento dello stato di natura in cui ogni uomo è “lupo” verso ogni altro uomo (homo homini lupus). Quando la paura riemerge, è perché la gente sente che lo Stato non è più in grado di far rispettare il contratto, ovvero di garantire ai cittadini il più “basico” dei beni, la sicurezza. Di fronte a questo sentimento, l’unica cosa che può attenuare la paura, e disinnescare la protesta, non è andare dai cittadini per convincerli che si stanno sbagliando, ma riconoscere il loro diritto di avere paura, e dimostrare, con i fatti, che lo Stato sta facendo tutto quanto è in suo potere per spegnerla.

Pubblicato su Il Messaggero il 9 Settembre 2017



Miti e false ricette/ Ingannati dalle bugie sulla fine del lavoro

Fra qualche mese si vota, ed è abbastanza chiaro fin d’ora che due saranno i temi cruciali della campagna elettorale: l’immigrazione e il (cosiddetto) reddito di cittadinanza.

Fino a qualche mese fa avrei scommesso che, fra i due, a prevalere sarebbe stato il tema dell’immigrazione. Oggi penso invece che, grazie alla determinazione del ministro Minniti (ma anche al mare grosso che immancabilmente imperversa a febbraio-marzo nel mediterraneo), gli sbarchi faranno molto meno notizia di oggi, e finiremo per parlare soprattutto di lavoro, disoccupazione, sussidi per chi il lavoro non ce l’ha. I Cinque Stelle proporranno l’introduzione del reddito minimo, ma si ostineranno a chiamarlo reddito di cittadinanza, che suona meglio. Il Pd rivendicherà il merito di aver già varato il Sostegno per l’Inclusione Attiva (SIA), che dovrebbe alleviare le sofferenze di una parte dei poveri. La destra criticherà entrambi, e punterà sull’imposta negativa, uno strumento di integrazione del reddito molto agile, e anche per questo congeniale alla cultura liberale.

Ma perché il tema del reddito minimo sta diventando così centrale?

La ragione di fondo è che il tempo conta. Nei primi anni della crisi (2007-2008) si poteva pensare che, come era successo in passato, a un certo punto la macchina dell’economia sarebbe ripartita e la disoccupazione sarebbe scesa a livelli tollerabili. Dopo lo shock del 2011-2012 mantenere questa fiducia era già diventato piuttosto difficile. Ma oggi, a dieci anni dallo scoppio della crisi, con 3 milioni di disoccupati e un tasso di occupazione ancora (sia pure di poco) al di sotto dei livelli precrisi, credere che prima o poi le cose si rimetteranno a posto diventa molto difficile. In molti pensano che di lavoro non ce ne sarà a sufficienza mai più, e che, allora, tanto valga prendere il toro per le corna: se non si può dare un posto a tutti i cittadini che desiderano mantenersi con il lavoro, almeno si garantisca loro un reddito. Il fascino discreto del reddito di cittadinanza sta tutto qui.

Questa visione delle cose non contagia solo i cittadini, ma anche gli studiosi, gli scrittori, i giornalisti. Non solo in Italia ma un po’ in tutte le società avanzate. Sono innumerevoli, in questi anni, i libri che hanno annunciato la fine della civiltà del lavoro, ora riconducendola all’inarrestabile avanzata della tecnologia, fatta di robot, intelligenza artificiale, reti neurali, internet, ora riconducendola alla finanziarizzazione dell’economia, alla globalizzazione e alle politiche di austerità (due per tutti: Martin Ford, Il futuro senza lavoro, Il Saggiatore, 2016; Guido Maria Brera, Edoardo Nesi, Tutto è in frantumi e danza, La nave di Teseo, 2017). Di qui un sottile quanto inestirpabile sentimento di rassegnazione: un’epoca è finita, gli anni della piena occupazione non torneranno mai più, i nostri figli sono destinati a vivere peggio di noi.

Eppure, a ben guardare, questo racconto delle cose è incompatibile con i dati. O meglio è compatibilissimo con i dati dell’Italia (e di alcuni altri paesi), ma non con quelli della maggior parte delle economie di tipo occidentale (i 35 paesi Ocse).

Se, come termometro dello stato di salute della civiltà del lavoro, prendiamo il tasso di occupazione, dobbiamo registrare che il suo livello, in Italia, è tuttora inferiore a quello precrisi, e questo nonostante già nel 2007 – esattamente come oggi – fosse fra i più bassi in Europa e fra i paesi Ocse. Se però guardiamo all’insieme delle economie avanzate, il quadro si capovolge nettamente. La maggior parte di esse ha non solo recuperato i livelli occupazionali del 2007, ma li ha ampiamente superati. E questo riguarda sia molti paesi europei, compresi Regno Unito, Germania, Austria, Svizzera, Belgio, Svezia, sia diversi paesi extraeuropei, come Giappone, Nuova Zelanda, Messico, Israele, Cile. Su 35 paesi attualmente aderenti all’Ocse, ben 21 hanno oggi livelli di occupazione più alti che nel 2007.

Insomma, non è vero per niente che il destino delle società avanzate sia segnato, e che l’unica strada percorribile sia dotare di un reddito anche chi non lavora. La credenza che automazione e intelligenza artificiale distruggano più posti di lavoro di quanti ne creino è, per l’appunto, una credenza, non una legge generale dell’economia. Dieci anni di instabilità economica e di spettacolari progressi tecnologici non hanno impedito a 21 paesi avanzati su 35 di aumentare i propri tassi di occupazione, spesso già molto elevati nel 2007.

Il problema è che in altri paesi, fra cui tutti i Piigs (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Spagna), ma anche Stati Uniti, Canada, Francia, Norvegia, le cose sono andate diversamente. Alcuni, pur non avendo ancora recuperato i tassi di occupazione del 2007-2008, hanno comunque livelli di occupazione decisamente alti, sopra il 70% (nella fascia 15-64 anni). Altri, in particolare Grecia e Italia, non solo non hanno recuperato i tassi del 2007-2008, ma avevano ed hanno tassi di occupazione bassissimi, tra il 50 e il 60%. E, nel caso dell’Italia, anche un record negativo assoluto: nessun paese Ocse, nemmeno la Grecia, ha un tasso di occupazione giovanile basso come il nostro.

Forse, anziché autoconsolarsi accusando dei propri guai la globalizzazione, l’automazione e internet, i paesi nei quali il lavoro è sparito farebbero bene a riflettere sulle scelte (o le non scelte) che hanno compiuto in questi anni: perché il tramonto della civiltà del lavoro che essi sperimentano, e che pesa innanzitutto sulle nuove generazioni, è il risultato di quelle scelte.

Pubblicato da Il Messaggero il 1 settembre 2017



Il rischio povertà o esclusione sociale

Nel 2015 (ultimi dati disponibili) il 28,7% della popolazione italiana era a rischio povertà o esclusione sociale. Circa 17,5 milioni di persone hanno sperimentato dunque almeno una delle seguenti condizioni:

  • percepire un reddito equivalente inferiore al 60% del reddito medio disponibile nazionale
  • sperimentare difficoltà dal punto di vista materiale (come essere in arretrato nel pagamento di bollette o affitto, o il non poter sostenere spese impreviste di 800 euro)
  • vivere in famiglie con bassa intensità di lavoro.

Con questo valore il nostro paese si colloca in ottava posizione tra i paesi della UE (UE a 28),  al di sopra della media europea (23,8%) e di quella dell’Eurozona (23,0%).

La quota di chi sperimenta un certo grado di disagio economico e sociale, quota che tra il 2004 e il 2010 era rimasta sostanzialmente stabile oscillando intorno al 25%, ha iniziato a salire bruscamente nel 2011 sfiorando addirittura il 30% l’anno successivo. Ha poi invertito la rotta nel 2014, ma nel 2015 e leggermente risalita toccando appunto il 28,7%.

È il Mezzogiorno a presentare i valori più elevati. Qui le cifre superano addirittura il 40%, raggiungendo il 55% in Sicilia.




I giovani: futuri pensionati poveri? Intanto facciamoli lavorare

Il futuro dei giovani preoccupa molto gli adulti, forse ancora di più dei giovani stessi, a giudicare dalle sempre più frequenti esternazioni in materia. Curiosamente, però, le preoccupazioni degli adulti che, a vario titolo, si occupano di giovani, più che sul presente dei giovani, fatto di precariato e mancanza di lavoro, si concentrano sul loro futuro remoto: sui giovani non in quanto oggi giovani, ma in quanto dopodomani pensionati poveri. I giovani di oggi, si dice, alla fine della carriera lavorativa finiranno per percepire pensioni da fame e, complice il probabile innalzamento dell’età pensionabile, saranno costretti ad andare in pensione a un’età molto avanzata. Il nostro sistema pensionistico, infatti, prevede che l’aumento della speranza di vita trascini con sé un aumento dell’età dopo la quale si matura il diritto alla pensione.

Di qui alcune proposte che sono circolate negli ultimi giorni. Ad esempio, bloccare l’aumento automatico dell’età pensionabile. O riconoscere gli anni universitari ai fini pensionistici, naturalmente a carico dello Stato. Si tratta, in entrambi i casi, di misure assai discutibili, anche se per ragioni in parte diverse.

Il blocco dell’aumento dell’età pensionabile (ammesso che tale aumento abbia luogo: in Italia la speranza di vita sta scendendo, anziché aumentare) ha un ovvio costo per il sistema previdenziale, di cui qualcuno dovrà farsi carico. Quanto al riscatto degli anni di studio, non solo ha un costo ingente, ma è una misura fortemente inegualitaria. Gli studenti che conseguono la laurea sono ancora, in Italia, una piccola minoranza dei giovani, e nella maggior parte dei casi provengono dai ceti alti. Non si vede perché la collettività debba conferire un ulteriore vantaggio a questo gruppo sociale, e a spese di chi.

Qualsiasi cosa si pensi di queste proposte, il problema giovanile comunque resta in piedi, in tutta la sua dura realtà. Ed è così grave che qualcuno comincia a pensare che sia un problema epocale, intrinsecamente irrisolvibile, almeno per le economie occidentali. Il rallentamento della crescita provocato dalla crisi e l’avanzare dei processi di automazione, basati sull’intelligenza artificiale, le macchine, i robot, renderebbero sempre più difficile garantire un lavoro a tutti. E poiché i giovani, per definizione, sono quelli che nel sistema devono ancora “entrare”, ecco pronta la diagnosi: per loro non c’è spazio, e non ce ne sarà mai, perché i posti nuovi scarseggiano e chi un posto ce l’ha se lo tiene stretto.

Questa visione delle cose, che spesso si manifesta nel registro dell’indignazione, ha anche un’importante funzione autoconsolatoria, che diventa autoassolutoria quando ad esprimerla sono persone con responsabilità di governo. Se questo è il destino delle nostre società, c’è ben poco da fare, e comunque la colpa non è di nessuno. Così va il mondo…

A ben guardare, tuttavia, questa diagnosi è incompatibile con i dati. E non lo è per la semplice ragione che il dramma giovanile non è affatto universale. Anche restando nel mondo occidentale, anche restringendo il nostro campo di osservazione all’Europa, o limitandoci ai paesi europei a noi più comparabili (Francia, Spagna, Germania, Regno Unito), quel dramma non emerge affatto. O meglio emerge come caratteristico di certi paesi, ma non di altri.

Sia prima sia dopo la crisi, a fronte di paesi con un tasso di occupazione bassissimo (Turchia, Grecia, Italia), vi sono molti paesi con tassi di occupazione giovanile che superano l’80%, e in alcuni casi sfiorano il 90%. E non si tratta affatto dei paesi più arretrati, risparmiati dal progresso tecnico e dall’automazione, bensì di alcune fra le più moderne economie dell’Europa occidentale: Francia, Regno Unito, Irlanda, Austria, Svizzera, Norvegia, Svezia, Finlandia, Olanda, Belgio, per limitarci ai casi più significativi. Lì i giovani un lavoro lo trovavano ieri, prima della crisi, e lo trovano oggi, dopo il grande shock subito dalle economie occidentali nel 2007-2011.

Ma, si potrebbe obiettare, la crisi ha comunque ridotto le chances occupazionali dei giovani. Questo in parte è vero, perché in media, in Europa, il tasso di occupazione giovanile (nella fascia 25-34 anni) fra il 2008 e il 2016 ha perso 2.6 punti percentuali. Quel che è interessante, tuttavia, è che questa riduzione ha riguardato poco più della metà dei paesi europei, mentre per gli altri le possibilità di trovare lavoro dei giovani sono aumentate. Questo vale soprattutto per diversi paesi dell’Est, ma vale anche per alcuni paesi occidentali, come il Regno Unito, l’Austria e, soprattutto, la Germania, l’unico paese occidentale importante che, prima della crisi non era nel gruppetto di testa dei paesi con tasso di occupazione giovanile superiore all’80%.

E l’Italia? Nel 2007 era penultima in Europa, solo la Turchia (complice la cultura islamica, che non favorisce certo l’ingresso delle donne sul mercato del lavoro), faceva peggio di noi. Oggi siamo ultimi: facciamo peggio della Grecia, della Turchia, della Spagna.

Forse, anziché considerare inevitabile che i giovani vivano alle spalle degli adulti, dovremmo chiederci perché questo succede solo in alcuni paesi. E come mai, fra questi paesi, il nostro è quello in cui succede di più.

Pubblicato su Panorama il 14 agosto 2017



La corruzione in Italia e nei paesi avanzati

Lo studio della corruzione ha ormai una lunga storia, è in particolare a partire dalla meta degli anni Novanta del secolo scorso che si assiste ad una notevole accelerazione nella produzione scientifica sull’argomento.

Ciò è dovuto ad una successione di eventi. Innanzitutto è cresciuta la rilevanza del tema, con l’avvio sul piano internazionale di una serie di interventi di contrasto alla globalizzazione della corruzione. In secondo luogo, l’organizzazione Transparency International (TI) da tempo ha elaborato un indice generale di corruzione percepita nei paesi per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica e dei politici sul fenomeno. Il Corruption Perception Index proposto da TI diventerà nel tempo il più utilizzato (e discusso) strumento di misurazione della corruzione a livello internazionale. Infine, alcune ricerche (Mauro, 1995) sembrano dimostrare ciò che da tempo si sospetta, ossia l’impatto negativo della corruzione sulla crescita economica (seppur indiretto, attraverso la riduzione degli investimenti).

Ma come si colloca l’Italia in una ipotetica classifica della corruzione e mai in alcuni paesi e regioni la corruzione è più diffusa che altrove? Sono queste alcune domande a cui il rapporto elaborato dalla Fondazione David Hume per il Sole-24 Ore cerca di rispondere.

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