Sussidi e redditi integrativi: l’intervista a Luca Ricolfi

Berlusconi promette fino a mille euro grazie al suo “reddito di dignità”. I Cinquestelle dicono di aver trovato 17 miliardi per finanziare “il loro reddito di cittadinanza”. Ma tutti questi soldi ci sono? E soprattutto, non si rischia di innescare nella società spinte parassitarie o favorire il lavoro in nero?

I 17 miliardi all’anno non ci sono, a meno di tornare a una crescita del Pil di almeno il 3%. Tanto più che le coperture previste dai Cinque Stelle sono in gran parte costituite da nuove tasse o aumenti di gettito di tasse preesistenti. Per non parlare delle clausole di salvaguardia da disinnescare, che da sole limitano i margini di manovra di qualsiasi governo.

Quanto alle spinte parassitarie e al lavoro nero, bisogna essere ciechi per non vedere che sarebbero la principale conseguenza del “reddito di cittadinanza” (in realtà: reddito minimo) proposto dai Cinque Stelle.

Tornando al “reddito di dignità” proposto da Berlusconi, può veramente annoverarsi tra le imposte negative rilanciate da Friedman e dalla scuola austriaca?

Nulla osta a introdurre un’imposta negativa, e poi chiamarla “reddito di dignità”. Questa espressione peraltro non è nuova (un sussidio denominato reddito di dignità esiste già in Puglia, e si chiama ReD), anche se a me non piace, per il suo sapore paternalistico-assistenziale.

Anche lei in passato è sembrato favorevole a questo modello. Perché? E quali sono le altre soluzioni per sconfiggere la povertà?

Bisogna distinguere. Se per “sconfiggere la povertà” si intende sradicare la povertà assoluta, allora l’imposta negativa non è la soluzione, perché essa colma solo in parte la differenza fra reddito effettivo e soglia di povertà. Per garantire che un’imposta negativa del 50% (questa è l’aliquota di cui normalmente si parla) sradichi la povertà assoluta occorrerebbe posizionare l’asticella della povertà a un livello doppio rispetto alla soglia Istat, che per un single fluttua intorno ai 700 euro al mese in funzione del livello dei prezzi (al Sud può scendere a 550 euro, al Nord può salire oltre gli 800). Il costo per le casse dello Stato sarebbe enorme.

Se invece quel che si desidera è fornire un sostegno ai poveri che al tempo stesso non disincentivi la ricerca di un lavoro, l’imposta negativa è un’ottima soluzione, naturalmente con un’asticella posta in prossimità della soglia di povertà assoluta.

Più in generale ci spiega la differenza tra reddito di cittadinanza e reddito minimo, e quali categorie fino che grado di intervento da parte del pubblico è auspicabile per non generare storture.

Il reddito minimo è rivolto solo ai poveri, e comporta il rispetto di alcuni doveri (accettare un lavoro, seguire corsi di formazione, ecc.). Il reddito di cittadinanza invece è rivolto a tutti, anche ai ricchi, e non comporta alcun dovere. La proposta dei Cinque Stelle è una proposta di reddito minimo, denominata reddito di cittadinanza al solo scopo di attirare il consenso degli elettori.

Evitare le storture, ossia la rinuncia alla ricerca di un lavoro la ricerca di lavori in nero per poterli cumulare con il sussidio, non è facile. Anzi, è il problema dei problemi che nessuno stato europeo ha risolto in modo soddisfacente.

Nessuno ha la soluzione in tasca, ma ci si può muovere lungo due direzioni principali, ed opposte: sussidi più apparato di monitoraggio e accompagnamento (soluzione statalista), oppure imposta negativa più voucher per la formazione professionale (soluzione di mercato).

Partendo da questa distinzione, possiamo fare un bilancio del Rei?

Il sussidio governativo è meglio di niente, ma ha due limiti molto gravi. Il primo è di essere troppo limitato sia nell’importo sia nei destinatari. Il secondo è di non poter contare su un apparato amministrativo capace di seguire individualmente chi cerca un lavoro ed evitare gli abusi. In un certo senso è un ibrido, che combina i difetti delle due soluzioni estreme: i lavoratori saranno al tempo stesso vessati (come nell’approccio statalista) ed abbandonati (come nell’approccio di mercato). Un capolavoro di cecità politica.

Nell’ultimo contratto per i lavoratori pubblici viene garantito un bonus di 20 euro agli statali più poveri. Siamo di fronte a un nuovo caso di quello che lei chiama “Reddito Arlecchino”?

Sì, una misura del genere va esattamente nella direzione sbagliata: qualsiasi proposta seria di contrasto alla povertà dovrebbe assorbire e unificare su base nazionale tutti i sussidi (anche di natura locale) preesistenti, se non altro per ragioni di equità. E inoltre dovrebbe cercare, in qualche modo, di tenere conto delle enormi differenze territoriali nel livello dei prezzi, anche qui innanzitutto per ragioni di equità (anche se, secondo alcuni, una differenzazione dei sussidi su base territoriale potrebbe sollevare problemi di costituzionalità). Fra le proposte esistenti solo il “minimo vitale” dell’Istituto Bruno Leoni tiene conto del livello dei prezzi.

La Germania è ripartita dopo che con la riforma HartzIV ha rivisto in senso restrittivo il sistema dei sussidi. La politica italiana avrebbe la forza di prendere una decisione simile?

No, ma comunque non basterebbe (ammesso che fosse giusto: il nostro sistema di sussidi non è troppo generoso, semai ha un problema di mancati controlli). Per far ripartire l’Italia non basta riformare il mercato del lavoro, un punto su cui mi sento di condividere alcune obiezioni sindacali.

Con la disoccupazione che cresce tra i quarantenni, non sarebbe il caso di utilizzare queste risorse per processi di outplacement?

Ho i miei dubbi: finché non si torna a tassi di crescita sostenuti (almeno il 3%) accanirsi sul collocamento è una fatica di Sisifo. Tanto più che, spesso, il problema delle imprese non è il mancato incontro fra domanda e offerta di lavoro, ma semplicemente il fatto che, per certe competenze (specie tecniche), l’offerta di lavoro semplicemente non c’è, o è insufficiente.

Può l’apparato burocratico italiano, arretrato e frastagliato viste le diverse competenze concorrenti, gestire e far funzionare processi come questi?

No, la burocrazia è una delle due grandi palle al piede dell’Italia (l’altra sono le tasse sui produttori), e un handicap del genere non si neutralizza in pochi anni.

Intervista a cura di Francesco Pacifico pubblicata da Il Mattino il 28 dicembre 2017



Molestie: meglio denunce in procura che processi mediatici.

Il futuro appartiene alle Lady Weinstein in gonnella, il che mi rincuora.  Le donne scalano posizioni di potere, presto o tardi tra loro, anzi tra noi, affioreranno i casi di quelle sessualmente infoiate che fanno chiacchierare di sé poiché aduse, in preda alla frenesia erotica, a molestare giovani e ambiziosi sottoposti pur di non rincasare, da sole, a tarda sera. Non tutte si accontentano di sorseggiare una tazza di latte, e di valletti disposti a portarti a letto per ottenere un favore il mondo è affollatissimo. Il sofà del produttore, come la poltrona del politico, la scrivania del magistrato, il dopocena con il direttore, sono luoghi dove il fascino del potere e il suo abuso si riflettono dinanzi allo specchio della coscienza individuale. Non a caso, al produttore potente come pochi e allupato come innumerevoli altri, alcune aspiranti attrici replicavano ‘no, grazie’, altre si spalmavano le mani di unguento. Uno stupro, con cortese richiesta di servigi sessuali e attesa di risposta e convenevoli vari, non si era mai visto. Nei giorni nostri, in cui non Weinstein ma la virilità in quanto tale è categoria spregevole del genere umano, vilipesa e mortificata (come se mascolinità e machismo fossero sinonimi), ci siamo inventati lo ‘stupro cordiale’, preludio di relazioni pluriennali, collaborazioni professionali, vacanze e tate condivise, che spettacolo.

Verrebbe da ridere se non fosse che la violenza contro le donne è un abisso di lacrime. Da qui il mio accorato appello: chi si ritiene vittima di reato deve correre in procura e denunciare secondo i tempi e i modi stabiliti dalla legge. Rivolgersi alle redazioni giornalistiche, e non agli uffici giudiziari, evoca una concezione di giustizia vendicativa di stampo tribale. Mai mi schiererò dalla parte di chi usa la gogna contro un presunto colpevole. Se il porco è anche orco, lo decida un tribunale, non uno studio televisivo. Per il resto, vi confesso che resto in trepidante attesa che un prode maschietto squarci il velo dell’ipocrisia pudica, si levi in piedi e punti il dito contro la Weinstein sui tacchi a spillo. Per la normale routine rosa, vale la saggezza antica: sotto i diciotto anni una ragazza è protetta dalla legge, sopra i sessantacinque dalla natura, nel mezzo è caccia aperta. Attente al lupo.

Pubblicato il 19 dicembre 2017



Mercato della politica/ Così i giovani pagheranno la caccia al voto degli anziani

Che gli anziani siano un segmento elettorale appetibile non è una novità. E tuttavia fa una certa impressione constatare quanto serrato sia il corteggiamento di cui oggi, a meno di tre mesi dal voto, sono fatti oggetto un po’ da tutte le forze politiche.

Berlusconi ha aggiornato la vecchia promessa di portare le pensioni minime a 1 milione di lire al mese (“Contratto con gli italiani”, 2001): ora l’impegno è ad alzare l’importo minimo a 1000 euro al mese. Pd e governo, a loro volta, molto hanno puntato sulla cosiddetta Ape social, ovvero sulla possibilità di andare in pensione anticipatamente senza perdite di reddito. Il movimento di Bersani e d’Alema (ora capeggiato da Pietro Grasso), ha appoggiato la posizione della Cgil, ostile alla legge Fornero e determinata ad impedire l’innalzamento dell’età pensionabile in funzione dell’aumento della speranza di vita. Quanto ai Cinque Stelle, a prima vista i più in sintonia con il mondo giovanile, la loro proposta di reddito minimo (erroneamente denominato “reddito di cittadinanza”) in realtà riguarda tutti, e dunque anche anziani e pensionati.

Naturalmente non è difficile indovinare le ragioni di tante premure verso gli anziani. La quota di popolazione over 64 sfiora il 27% dell’elettorato ed è in costante aumento, mentre la quota dei giovani dai 18 ai 34 anni è molto più bassa e in costante ritirata (oggi è appena sopra il 21%). A ciò si aggiunge il fatto che la partecipazione al voto tiene di più fra gli anziani che fra i giovani e, nel caso della sinistra, la circostanza che la base sociale delle forze di sinistra (e della Cgil) sia sbilanciata verso gli strati più anziani della popolazione.

Ma è giustificata tanta attenzione verso gli anziani?

In linea di principio certo che sì: non sono pochi gli anziani che vivono in condizioni di grave disagio economico, per non parlare dei mille guai (innanzitutto di salute) che tendono ad aggravarsi con il procedere dell’età. Se però ragioniamo in termini politici, ovvero di scelte che la politica è chiamata a fare, la diagnosi si capovolge completamente. In una situazione di risorse limitate, la domanda cruciale non è se un determinato gruppo sociale sia meritevole di attenzione oppure no, ma se lo sia più di altri. Detto altrimenti, l’interrogativo è se, dato un certo stock di risorse aggiuntive, sia ragionevole indirizzarle verso certi gruppi sociali piuttosto che verso altri. Viste da questa angolatura le cose cambiano completamente, per almeno due ragioni di fondo.

La prima è che, comparativamente, l’Italia è uno dei paesi che destinano la quota più alta di risorse alle pensioni, nonché uno dei paesi nei quali, di fatto, in si va in pensione più presto, a circa 62 anni gli uomini, a 61 le donne (fra i grandi paesi solo la Francia ha un sistema pensionistico più generosa del nostro: lì si va in pensione a 60 anni).

La seconda ragione ha a che fare con la crisi e l’evoluzione della diseguaglianza in questi ultimi anni. Nel periodo cruciale della crisi, ovvero dal 2007 al 2015, il reddito relativo (rispetto alla famiglia italiana tipo) delle varie fasce d’età ha seguito dinamiche diversissime, ma l’unica fascia di età che ha migliorato la propria posizione (+18.4%) è stata quella degli anziani, mentre quella che ha registrato il più drammatico arretramento è stata quella dei giovani (-10.4%). Una tendenza che è purtroppo confermata dalle indagini sulla povertà assoluta, che da anni registrano un deterioramento delle condizioni delle famiglie con capofamiglia giovane, e più in generale delle famiglie con minori a carico. Insomma, voglio dire che, se c’è una frattura che in questi anni ha reso la società italiana più diseguale, questa frattura è quella fra giovani e anziani. Un dramma, quello della condizione giovanile in Italia, che i dati più recenti sul mercato del lavoro purtroppo non fanno che ribadire: l’anno scorso, per la prima volta da quando esistono statistiche comparabili, l’Italia ha fatto registrare il tasso di occupazione giovanile più basso d’Europa, dietro Grecia e Turchia.

Ma c’è anche un altro senso, più sottile, nel quale i giovani sono penalizzati dalle forze politiche, da tutte le forze politiche. La stragrande maggioranza delle promesse che cominciano a circolare in vista delle elezioni dell’anno prossimo sono promesse di maggiori spese, ora a favore di una categoria ora a favore di un’altra. E nessuna forza politica prende veramente sul serio il nostro problema numero uno, che è il macigno del debito pubblico.

Ebbene, che cos’è l’incremento del debito pubblico? L’incremento del debito non è semplicemente un freno alla crescita, ovvero al tenore di vita futuro di tutti, ma è anche un prestito che gli adulti e gli anziani sottoscrivono oggi per poter consumare di più, e che i giovani di oggi, divenuti adulti domani, dovranno restituire comprimendo i loro consumi futuri. Alla faccia della solidarietà fra generazioni.

Articolo pubblicato il 16 dicembre 2017 su Il Messaggero




Elogio del corteggiamento

Non so se gli operai stradali, o i carpentieri intenti a tirar su qualche casa sulla pubblica via, usino ancora fischiare dietro un paio di belle gambe (una volta accadeva regolarmente), ma se per caso ancora lo facessero, mi spiacerebbe fossero denunciati per molestie. Capisco che una fanciulla possa sentirsi imbarazzata (una volta sarebbe arrossita) da un fischio che, ahimè, rileva in modo così marcato una sua qualità meramente fisica, ma non direi che debba sentirsi offesa, e meno che mai vittima di una violenza; spero sia attrezzata a sopportare questa che, per quanto rozza e inopportuna, è solo, da che mondo è mondo, un segnale di ammirazione.

Si parla molto, in questi giorni, del rapporto tra uomini e donne, di violenza, stupro, molestie, soprattutto in ambiente di lavoro. Non voglio addentrarmi in tali complicate e drammatiche questioni. Se ne occupa già un nugolo piuttosto cospicuo di “esperti”, anche molto agguerriti. Dico solo che qua e là, nei giorni scorsi, m’è parso di notare una certa confusione: non mi sembra bello, per chi è stato vittima di un vero stupro, essere più o meno indirettamente equiparata all’attrice che, per calcolo o per voluttà, decide di concedersi per una sera alle pressioni del suo regista o produttore. Distinguerei con grande cura!

Userei anche una certa attenzione a non dare l’idea che ogni avance maschile sia già in qualche modo una forma di violenza, come non mi ha mai convinto l’idea, molto di moda mezzo secolo fa, che la trasmissione culturale sia una forma di “violenza simbolica”. Mi viene paura che, a forza di sentirsi accusati di violenza, gli uomini si prendano paura; non tanto che si tengano lontani da noi donne, ma decidano che è più prudente e saggio smettere quella pratica antica ma, almeno da noi popoli mediterranei, molto consueta e diffusa che si chiama corteggiamento. Mi dispiacerebbe. E non per ragioni nostalgico-passatiste, ma per ragioni, direi, letterarie.

Mi sembra che il corteggiamento sia, innanzi tutto, un’attività piuttosto gratuita, faccia parte cioè di quella visione della vita che è il contrario dell’utilitarismo, e si avvicina semmai all’idea di spreco. Una forma di generosità di sé, in qualche modo. Uno “si spreca”, si butta via, si dà all’altro e si com-promette (attraverso parole, gesti, doni). Si gioca la faccia, in poche parole. È vero che in genere si corteggia per ottenere un favore, ma è anche vero che si sa perfettamente di rischiare l’insuccesso, il rifiuto, il non conseguimento del fine. Corteggiare risulta quindi, in qualche misura, qualcosa di fine a se stesso, che trova in sé il suo senso compiuto, fuori da ogni concreta realizzazione. È un investimento a perdere, un desiderio assoluto, cioè sciolto, svincolato. È una delle forme supreme della felicità, qualcosa che, per la sua miscela di libertà, rischio, imprevedibilità, improvvisazione, sembra contenere in sé tutti gli ingredienti che Ortega y Gasset, in uno dei suoi scritti più suggestivi, ritrovava nell’attività venatoria (Discorso sulla caccia, 1942).

Ed è qualcosa che ha molto a che fare col tempo, si nutre di tempo, e si svolge in un tempo, che può essere anche molto lungo. Un corteggiamento può durare anni. E si basa sull’attesa: prelude a un tempo che non c’è ancora e potrebbe non esserci mai. Il corteggiamento convoca quel tempo futuro, lo pre-figura, distogliendoci dal mero e piatto presente, dalla limitatezza di ciò che avviene per certo, e soltanto in concreto.

Nelle forme più alte, corteggiare è una semplice dichiarazione di… ammirazione. Ammirare. Mirare, guardare. Implica di per sé distanza. Stare da lontano a guardare la tua bellezza, le tue qualità, fisiche e non. Ad-mirarti. L’amore da lontano, di provenzaleggiante memoria. Quell’amor cortese (appunto! l’origine etimologica è sempre la corte) che ha fondato tutta la nostra poesia d’amore dallo Stilnovo in poi. Ci si innamorava anche solo per sentito dire, di una donna lontana e mai vista e che mai si potrà incontrare. O si amava una donna sposata ad altri, o addirittura morta. Comunque assente, irraggiungibile, inarrivabile, perduta per sempre. Un amore sublimato e traslato. Non attuato. Trasferito, per esempio, sulla scrittura. E differito. Sognato, immaginato. Insomma, la vittoria dell’astratto, del fantasticare, del fantasma. Non ti posso avere, non ci sei, non sei vera: ma scriverò di te tutta la vita. Petrarca, Dante…

Non vorrei però deviare eccessivamente dal tema. Troppo facile buttarla sul letterario. E allora racconterò un piccolo aneddoto mio personale. Ho vissuto un anno in Svezia, quand’ero molto giovane, e subito all’inizio mi capitò una serata strana. Un collega mi invitò a cena a casa sua. Era un bel giovane del Nord della Svezia; non ero particolarmente attratta, ma molto curiosa, e mi parve bello fare un po’ amicizia. Ci andai, a piedi; era una piacevolissima serata nevosa. Dopo cena quel ragazzo, che non ricordo come si chiamava, mi chiese di andare a vivere con lui, in quella casa. “Ho bisogno di una donna”, mi disse. Fu più o meno questa la frase che usò. Rimasi basita. Ma come? Pensai: questo tale finora, in ufficio, non mi ha quasi mai rivolto la parola, ora m’invita a cena, è la prima volta che ci vediamo, non mi dice se gli piaccio, se si è innamorato di me, non prova a baciarmi, non mi sfiora neanche una mano, neanche per sbaglio, e poi su due piedi, tranquillamente seduti qui in salotto, mi chiede se vengo a vivere con lui? Ma cosa vuol dire?

Mi guardai intorno e, siccome notai per casa un certo disordine, gli risposi: Sì, vedo che hai bisogno di una donna: ma delle pulizie…

Non fui gentile, lo so. È che non ci capii nulla. Semplicemente lui aveva usato un codice che non era il mio, e che mi era totalmente oscuro. Popoli del Nord e popoli del Sud? Può darsi. Non mi aveva corteggiata, ecco tutto. Non aveva messo in atto tutta quella serie di gesti strategici che devono durare un certo tempo e ti preparano, ti fanno capire e non capire, accennano, alludono: ti inducono insomma a una comprensione di cui però non sarai mai certa.

Il corteggiamento apre alla fantasia. Immette in zone narrative illimitate, e libere. Segnali lampeggianti, bagliori, flash. Lettere, messaggini, fiori, cenette, passeggiate, con gelato o senza, piccoli (o grandi) regali, peluche, orecchini, diademi… Non importa cosa, come. Il corteggiamento è tutta una complessa, articolata e suggestiva costruzione fantasmagorica di un senso alluso, posticipato, mai chiarissimo, anzi, ambiguo (com’è ambiguo il linguaggio poetico, appunto), sospeso, intermittente, depistante. E sommamente affascinante. È come entrare al Luna Park, e prender posto sul trenino fantasma: tutto buio, ogni tanto ti sembra che qualcuno o qualcosa ti tocchi, ti sfiori i capelli, ogni tanto un angolo s’illumina e poi si spegne, a ogni curva ti chiedi cosa ti aspetta.

Il corteggiamento è teatro, poesia, narrazione romanzesca. Differisce qualcosa nel tempo, costruisce un’attesa, presuppone un altro e un altrove. In questo senso è letteratura: perché è metafora, porta il senso al di là, lo devia dal letterale, trasfigura, trasporta. È tutto ciò che si oppone alla concretezza bieca, alla lettera di un senso subito chiarito, compreso perché piattamente univoco.

Il ragazzo svedese del Nord, non avendomi corteggiata, mi privò di tutta quell’apertura fantasiosa e ambigua. Fermò la realtà a quel che era. Troppo poco, per me. Mi accompagnò a casa nella notte, nella neve ormai altissima. Gentile, educato. Forse mi avrebbe amato, chissà. Forse avremmo davvero felicemente vissuto insieme. E forse è stato solo un vuoto di parole, che mi ha respinta, una mia incapacità, un mio eccesso di desiderio simbolico. L’amore per la letteratura gioca brutti scherzi.

Insegnavo proprio Letteratura Italiana, lassù, in una bellissima e antica Università. Avevo allievi sui vent’anni. Soprattutto allieve, di cui diventai anche amica. Mi capitò quindi di andare a casa di alcune di loro, e di notare la foto del loro fidanzato, da qualche parte, ben incorniciata: quasi tutte avevano il fidanzato italiano, del Sud Italia. Mi colpì molto. Vedevo quelle foto di ragazzi bruni, dai capelli e dalle barbe folte, ispide, nere. Molti erano pescatori isolani, bruciati dal sole. Mi parvero così in contrasto, quelle immagini, con la fisionomia eterea, allampanata e bionda delle mie allieve svedesi che un giorno ne chiesi conto a una di loro: Ma si può sapere perché avete tutte il fidanzato italiano? Sorrise, e mi svelò l’arcano: Chiaro, mi disse, da voi gli uomini sanno corteggiare.

Non vorrei che adesso, a poco a poco, gli uomini diventassero tutti nordici. Vorrei che ci invitassero ancora a cena, ecco. A una cena tranquilla e serena in cui, sì, tutto può succedere, sia che ci si lasci con una stretta di mano sulla porta, sia che si finisca a passar la notte a casa dell’uno o dell’altra. Senza che ci si debba vicendevolmente tutelare, magari con un contratto preventivamente stipulato, una specie di consenso informato. Come in ospedale, prima di un’operazione.

Tutelarsi, sempre? Abbiamo battezzato in tanti modi l’epoca in cui viviamo: società dello spettacolo, dell’intrattenimento, società liquida. Aggiungerei “società del ricorso”. Viviamo sul chivalà, sospettosi, infidi, pronti a rivalerci, accusare, denunciare. Il genitore dell’allievo bocciato denuncia l’insegnante, il figlio del malato che non guarisce denuncia il medico. Mai il caso, la sfortuna, il destino, o la propria responsabilità. Sempre vittime di errori e ingiustizie, mai soggetti attivi della nostra vita. Né disposti ad accettare gli eventi, casuali, inevitabili; ad aprirci all’imprevedibilità, a sorprenderci e lasciarci andare all’imprevisto, accettando quel che ci viene. Non abbiamo più nessun’idea trascendentale, e magica, dell’esistenza. Forse per questo ci accusiamo-denunciamo l’un l’altro.

Comunque, sono rimasta in Svezia solo un annetto: ho disdetto il mio contratto (biennale e rinnovabile), e son tornata in Italia. E siccome lassù avevo buone possibilità di proseguire la carriera accademica, potrei dire questo (se non credessi alle scelte e al destino): che devo la mia mancata carriera a un uomo che non mi ha corteggiata.

Articolo pubblicato il 26 novembre 2017 su Il Sole 24 Ore



Sexgate: cercasi eroina.

Io non ne volevo scrivere, così come non ho voluto andare a chiacchierarne in televisione, del caso Weinstein & soci. Perché non l’ho capita, quella faccenda. Non ho capito niente. A partire dallo stupore. Non ho capito lo stupore. E, a seguire, non ho capito lo scandalo, non ho capito l’onda lunga innescata da una palpatina del 2002 e tanto impetuosa da travolgere il palpeggiatore in questo disincantato 2017 (mi riferisco al Ministro UK). In questo 2017 di sesso su Tinder, a portata di isolato, di questo sesso geolocalizzato e fruibile in tempi così rapidi da costringerti a rimpiangere quella che con disprezzo veniva chiamata “sveltina”, di questo sesso per appuntamento, come il parrucchiere, come il dentista.
Non ho capito il coro angelico delle violate, non ho capito i coming out tardivi e commossi, i potenti che riciclano l’arroganza in pentimento, non ho capito gli schieramenti, quelli che “Povere donne ricattate” e quelli che “per è da duemila anni ci stanno”. Non ho capito la morale, perché c’è sempre una morale nelle storie raccontate, non ho capito se si stigmatizza chi tace per anni e poi parla, se la si stigmatizza perché ha taciuto (prima) o perché ha parlato (tardi). Oppure si stigmatizza chi, iterativamente, ha abusato del proprio potere, del proprio ruolo nel mondo, della propria forza fisica o sociale, della propria superiorità anagrafica (per le donne è pura perdita invecchiare, per gli uomini di successo no, invecchiare aumenta il loro peso contrattuale), della propria ricchezza.
Si stigmatizzano tutti e due? Eh, no, nelle storie ben raccontate se stigmatizzi sia protagonista che antagonista, ci deve essere un terzo, l’eroe, meglio l’eroina, visto che la figura più penosa la fanno i maschi, con cui il lettore si identifica.
Non ho capito chi è l’eroina.
E allora, per esercizio narrativo, faccio tutte le ipotesi.
L’eroina è quella che non è stata mai palpata, paccata, indotta a fare sesso senza voglia.
Ne conosco. Dicono: “con me non ci hanno mai provato”, e mettono su un cipiglio da leonesse. Sottotesto: non sono il tipo che ci sta in cambio di favori. Si vede subito. L’uomo è bestia ma non è scemo, se ci prova è perché vi mostrate disponibili. Carine, spogliatine, civettine.
Quindi? Tutte in burka e poi ne riparliamo?
No, non è lei l’eroina. Non possiamo accettare che l’esercizio della seduzione (legittimo e benedetto) sia oggetto di autocensura.
Le donne hanno diritto a essere rispettate anche se girano in mutande.
Non è lei l’eroina neanche nella variante “prima della classe”, quella che dice: con me non ci hanno mai provato perché ho talento. Quindi nessuno può farsi la fantasia di avere accesso alle mie grazie in cambio carriera.
L’eroina è forse quella che è stata palpata più volte ma ha sempre preso a schiaffi il palpeggiatore, gli ha morso la mano destra, l’ha accecato con uno spillone, gli ha accorciato i genitali con un calcio? Certo non ha mai subito altro che il primo tentennante approccio, non ha fatto né ricevuto massaggi, e ha continuato la sua cavalcata di amazzone nonostante i trabocchetti del patriarcato.
Ma non è nemmeno lei l’eroina.
Perché in un Paese civile farsi giustizia da sé non è un comportamento virtuoso.
Allora l’eroina è quella che denuncia subito? Quella che esce dal boudoir del produttore e si infila nella prima caserma dei carabinieri?
Oppure l’eroina è quella che tace, elabora l’imbarazzo e l’umiliazione, non frequenta più il palpeggiatore e magari ne paga il prezzo. Resta al palo. Non riceve la parte, il lavoro, il privilegio, la raccomandazione.
No, nemmeno lei, non si può eleggere eroina chi subisce.
Anche se spesso è molto difficile reagire, e chi l’ha provato (cioè il 90% delle donne che accedono al mondo del lavoro) lo sa benissimo.
Ammettiamo che questa sia una storia senza eroine e senza eroi (il maschio che non usa il suo potere per fottere esiste, ma non è un eroe, è semplicemente una persona per bene), che cosa vogliamo fare? Continuare a denunciare, ciascuno cercando il suo riscatto o il suo palcoscenico? Far finta che la società non si sia trasformata in un gigantesco e implacabile mercato dove il sesso è una delle più tristi ma non certo l’unica merce di scambio? Regolamentare la relazione fra i sessi con apposito decreto legislativo, dove al comma 22 si stabilisce che cosa è legittimo riconoscimento sociale (quello sfiorarsi di gote da foyer del teatro la sera della prima) e che cosa è sexual harassement?
Meglio sarebbe andare, sobriamente, alla radice del problema.
La pratica dell’abuso del corpo femminile ha una storia lunga come l’umanità.
Nasce dalla convinzione, radicata nei secoli, che le donne siano umani inferiori, oggetto del desiderio maschile e quindi ammesse a vivere, inadatte a stimolare il desiderio maschile e quindi neglette. Non basta avere un pugno di ministre al governo e qualche quintale di retorica da 8 marzo per ritenere superata questa convinzione profonda.
I cattivi imprenditori di Hollywood con le attrici, gli attori famosi con gli attori non ancora famosi, i ricchi con le povere (Cenerentola docet) ma anche il capufficio con la stagista, il professore con l’assistente, il professionista con la segretaria, il padrone del negozio con la commessa eccetera eccetera vivono una relazione fondamentalmente asimmetrica. Da una parte c’è chi detiene un potere, dall’altra chi non lo detiene.
Gli uomini detengono il potere quasi sempre, le donne molto meno.
Spesso le donne, per attingere a un qualche potere, imparano la lingua degli uomini. E perdono la loro.
Se la relazione fra i generi fosse tra pari, se gli uomini (tutti, non soltanto i migliori) fossero profondamente consapevoli della pari dignità, fra donne e uomini, del pari valore, pur nella sacrosanta diversità, non coverebbero, in un angolo delle loro testoline, l’illusione di farci un favore, quando ci mettono le mani addosso.
Bisognerebbe partire da lì, dalla causa, non ingarbugliare il discorso, commentandone ossessivamente gli effetti.
Il rischio è, se continua questa battuta di caccia al maiale, di paralizzare ogni slancio, anche quello, innocente del corteggiamento
Siamo stati governati per vent’anni da un esemplare praticamente perfetto di potente da rimorchio, uno che le donne se le comprava a casse, le esibiva le scambiava, le copriva di soldi, di privilegi, le infilava nei film, in televisione, in politica.
Lo si è sopportato, in silenzio, dal 1993 al 2011, quando un milione di donne in Piazza del Popolo hanno detto “Basta”! Si erano date un nome significativo, “se non ora quando”, perché erano (eravamo) stanche di subire l’immaginario da barzelletta scollacciata del Capo del Governo.
Quell’immaginario offendeva tutte le donne.
Di quell’immaginario è figlio anche il sexgate che sta scombussolando Hollywood.
Intanto Silvio, che nessuno ha citato in queste cronache, è tornato fra noi.

Pubblicato il 13 dicembre 2017