Il provinciale anomalo che fissò per sempre pregi e difetti dell’Italia del Dopoguerra

Giovannino Guareschi nacque il primo maggio 1908 a Fontanelle di Roccabianca (Parma) e morì a Cervia (Ravenna) il 22 luglio di sessant’anni dopo. Emblematico il giorno della nascita per uno scrittore allergico alle sinistre ma ancor più emblematico l’anno della morte. Il 1968, infatti, fu la negazione di tutto il suo ‘mondo piccolo’, della provincia profonda, in cui era vissuto, delle tradizioni che, monarchico convinto, aveva intensamente coltivato, dei costumi e dei codici morali antichi appena scalfiti dai grandi racconti ideologici del secondo Ottocento e del Novecento.

Nell’Italia di oggi, Guareschi si sarebbe sentito come un marziano, spaesato tra tanto discorrere di multiculturalismo, politicamente corretto, riconoscimento della diversità in tutte le sue espressioni.

Eppure, incallito conservatore, il «tre volte cretino» –come lo definì Palmiro Togliatti– continua ad affascinare per la sua ‘attuale inattualità’. Anche perché come Giuseppe Prezzolini, molto diverso da lui, per adoperare un facile ossimoro, era un conservatore libertario e anticonformista, come talora sono i nostalgici del ‘mondo di ieri’. Ha scritto Marcello Veneziani: «Per comporre la biografia civile di Guareschi bisogna riconoscere i suoi tre paradossi: dopo due anni nei campi di concentramento nazisti, passò per un fascista; dopo aver vinto la battaglia nel ’48, appoggiando la Dc di De Gasperi, finì in galera per la querela del medesimo De Gasperi; dopo aver umanizzato i comunisti, fondò il settimanale più efficace nella lotta al comunismo e là scrisse il primo libro nero del comunismo».

Nella sua intensa attività giornalistica e saggistica, Guareschi fu sicuramente un ‘provinciale’ ma un provinciale anomalo, che, con la sua straordinaria verve umoristica–che talora condiva pagine di grande malinconia–contribuì al successo di riviste come ‘Il Bertoldo’(1936-1943) assieme a personaggi di primo piano come Giovanni Mosca e Cesare Zavattini e che, nel secondo dopoguerra, fondò con Mosca e Giaci Mondaini (il padre di Sandra) una delle più vivaci e combattive riviste della destra, ‘Candido’(1945-1957). Dalle colonne di quest’ultima, va ricordato, diede un contributo non sottovalutabile alla sconfitta del Fronte Popolare (‘nel segreto dell’urna Dio ti guarda, Stalin no’, fu uno dei suoi folgoranti slogan) e alla battaglia anticomunista, affidata, soprattutto, al tormentone di Contrordine compagni! Una delle vignette più famose mostrava un gruppo di comunisti in camicia nera riuniti davanti alla Casa del popolo e raggiunti dal contrordine: la frase pubblicata dall’Unità che invitava a riunirsi «nell’antica fede» doveva essere corretta «nell’antica sede!».

E tuttavia la notorietà di Guareschi–segnato come tutti i comici da una vena pessimistica unita a un senso profondo della propria dignità (condannato per aver calunniato De Gasperi dando per buona una fake news rifiutò la grazia e rimase in prigione per più di un anno) e a una rivendicazione orgogliosa della propria libertà—è legata soprattutto ai racconti del ciclo ‘Mondo piccolo che videro varie trasposizioni sullo schermo—a cominciare da Don Camillo del 1952. Grazie, soprattutto, a Julien Duvivier, che si avvalse della formidabile coppia Gino Cervi (Peppone) e Fernandel (don Camillo, doppiato da Carlo Romano). L’irriducibile contrasto tra il sindaco comunista, Giuseppe Bottazzi, e il manesco parroco don Camillo ancora adesso ci parla, con tenerezza, di un’Italia che non esiste più ma che con la sua scomparsa ci ha fatto perdere qualcosa di importante.

Gianfranco Vené—uno degli studiosi più accreditati di Guareschi, con Alessandro Gnocchi, Roberto Chiarini, Giuseppe Parlato, Mario Bozzi-Sentieri, il citato Veneziani e Alberto e Carlotta Guareschi, per limitarci a questi—ha visto nello scontro/incontro tra don Camillo e Peppone quasi un incunabolo del ‘compromesso storico’. Non sono d’accordo. A mio avviso, il fascino duraturo del ‘mondo piccolo’—identificato ormai col paese di Brescello, nella cui chiesa si trova il famoso crocifisso (doppiato da Ruggero Ruggeri) che ammonisce don Camillo—sta nel suo rievocare un paesaggio spirituale, ben anteriore al tempo delle ideologie. Queste ultime risultano divisive, coi loro valori assoluti e inconciliabili ma, per fortuna, talvolta, sono casacche, indossate da personaggi integri che finiscono, sì, per trovare un compromesso ma dettato dalla consapevolezza istintiva che le persone valgono più delle idee che professano. Sta qui la vera ‘inattualità’ di Guareschi, nel ‘mito’ di un ambiente ‘paesano’ che non sarà mai ‘guastato’ dal progresso urbano e che risolverà i suoi conflitti di interesse magari anche facendo a pugni ma sempre ricorrendo a misure di buon senso antico. In un’Italia ufficiale che ancora oggi, sembra bisognosa, per sentirsi vivere, di ‘guerra civile’ e di contrapporre la luce della scienza e dei diritti alle tenebre delle regressioni tribali, Guareschi può rappresentare un simbolo umanissimo di tolleranza.

Pubblicato su Il Secolo XIX il 20 luglio 2018



Gli sbarchi e l’inferno libico

Se dovessimo basarci solo sui freddi numeri, dovremmo concludere che il problema degli sbarchi è stato quasi completamente risolto. Fatto 100 il numero medio di arrivi nel periodo anteriore alle “primavere arabe” (dal 1997 al 2010), siamo passati a 780 nel 2016, per poi ripiegare a 214 alla fine dell’era Minniti (gennaio-maggio 2018), e infine sotto quota 100 nell’era Salvini-Di Maio (giugno luglio 2018).

Fu vera gloria?

Per certi versi sì. Checché ne dicano i dirigenti del Pd, che nei giorni scorsi hanno affermato che i morti in mare sono aumentati, è vero il contrario: fra il 2107 e il 2018 i morti in mare nella rotta centrale del Mediterraneo (quella più pericolosa, che porta in Italia) si sono pressappoco dimezzati (la fonte è OIM, Organizzazione Internazionale per le migrazioni).

Ma per altri versi no, non fu vera gloria. Proprio per niente. Intanto bisogna dire che la riduzione del numero dei morti è dovuta solo alla diminuzione del numero delle partenze. La pericolosità dei viaggi, invece, è aumentata: nel 2017 il rischio di perire nella traversata verso l’Italia era già alto, oggi è ancora più alto. Ma il punto centrale è che la frenata agli arrivi, pur avendo ottenuto risultati politici non disprezzabili (sostanzialmente: l’Europa si è scossa dal proprio torpore pluriennale), non ha minimamente scalfito i due problemi fondamentali che abbiano di fronte, come italiani e come europei.

Come italiani il nostro problema fondamentale ormai non sono più gli sbarchi attuali, bensì la somma degli sbarchi passati. Detto crudamente: la massa di centinaia di migliaia di migranti che si aggirano sul nostro territorio senza averne diritto, una massa cui in futuro rischiano di aggiungersi i migranti che noi abbiamo salvato e registrato, che sono passati in altro paese europeo, e che i paesi “fratelli” (specie Austria, Francia e Germania) hanno ogni intenzione di restituirci: una minaccia che nel legnoso linguaggio dell’Unione viene dissimulata sotto l’etichetta “problema dei movimenti secondari”.

Come europei siamo messi ancora peggio. Il problema di fondo dell’Europa è che l’Africa vorrebbe trasferirsi nel Vecchio continente. E lo vuole per un sacco di motivi, alcuni ottimi, altri discutibili, ma tutti reali. Il più importante è che molti paesi africani sono semplicemente invivibili, fra guerre, dittature, corruzione, fame, siccità, carestie, traffico di esseri umani. La complicazione è che “noi” siamo 500 milioni (in calo), “loro” 1 miliardo e 200 milioni, destinati a diventare 2 miliardi e più nel giro di due o tre decenni: giusto il tempo di vedere i nostri neonati di oggi prendere una laurea domani.

Come si risolve questo problemuccio?

Una soluzione, abbastanza gettonata nel mondo progressista, è la rassegnazione entusiasta, se mi si consente questo ossimoro. L’idea è che le migrazioni siano un fenomeno “epocale”, che la mescolanza fra popoli e culture sia più un bene che un male, e che si tratti solo di gestire (con politiche di accoglienza e integrazione) le legittime aspirazioni di diverse centinaia di milioni di persone di trasferirsi in Europa.

A questa soluzione, per ora, si contrappone solo un’idea, tanto rozza quanto confusa, di limitare gli sbarchi e “aiutarli a casa loro”, come è diventato di moda dire oggi. In Italia questa linea prende le vesti di un crescente trasferimento di risorse verso il governo libico (o meglio: verso uno dei tre poteri in lotta fra loro in Libia, quello di Sarraj a Tripoli). Noi regaliamo motovedette, istruttori, soldi, e speriamo che così non facciano partire nessuno, e poco per volta escano dal caos e dalla miseria.

Ma è una soluzione?

A me pare di no. La maggior parte delle testimonianze dirette che giungono dalla Libia ci rivelano che i legami tra governo, milizie e trafficanti sono piuttosto stretti. L’Italia fornisce soldi e mezzi, ma non esercita alcun reale controllo sull’uso che ne vien fatto. Nonostante gli accordi e i protocolli negoziati dal precedente governo, dall’Onu e dagli organismi internazionali con i governi libici, nonostante il successo di alcuni esperimenti (come i rimpatri e i centri sotto l’egida dell’ONU), la situazione nel paese africano resta drammatica, e negli ultimi mesi sta peggiorando rapidamente. In una recente conferenza stampa i rappresentanti dell’UNHCR (l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) hanno dovuto riconoscere che il sovraffollamento dei campi di detenzione si sta aggravando, e che i numeri sono scoraggianti: a fronte di decine di migliaia di rifugiati, l’Europa si è impegnata ad accoglierne appena 4000, e ne ha di fatto accolti poco più di 200.

Certo non tutti i campi in cui vengono ammassati i migranti sono eguali (alcuni sono illegali e gestiti direttamente dai trafficanti, altri sono governativi, altri vedono la presenza delle Ong), ma le testimonianze di trattamenti inumani, stupri, violenze, estorsioni, ricatti, persino di vendite come schiavi, sono difficilmente confutabili, o derubricabili a eccezioni. Vale per oggi, nell’era Salvini, ma valeva anche ieri, nell’era Minniti, con l’unica mortificante differenza che prima la stampa progressista si barcamenava o chiudeva un occhio, mentre ora si indigna 24 ore su 24: sublime ipocrisia dell’umanitarismo a senso unico.

È strano, molto strano, che a chi proclama di voler limitare gli arrivi, sia esso un “sincero democratico” o un bieco politico “populista”, non venga mai in mente che impedirli con l’intimidazione e la sopraffazione fisica, delegando ai libici il lavoro sporco, non può che moltiplicare la disperazione, e rafforzare la volontà di sbarcare in Europa, costi quel che costi.

Insomma, quel che non capisco, pur condividendo l’idea che in Europa si debba entrare esclusivamente in modo legale, è come mai, oggi come ieri, siamo così timidi quando ci rapportiamo a paesi come la Libia: un paese che, a differenza di altri paesi africani, non ha ancora firmato la convenzione di Ginevra sui rifugiati (1951), e pone non pochi ostacoli alla presenza di osservatori internazionali e all’azione delle organizzazioni umanitarie. Forse siamo timidi perché siamo politicamente deboli e isolati, o semplicemente perché siamo ricattabili a causa dei nostri interessi economici (l’Eni è presente in Libia). Eppure dovremmo riflettere. Se davvero vogliamo “aiutarli a casa loro”, non possiamo non porci il problema, sollevato quasi dieci anni fa da Dambisa Moyo (africana trapiantata negli Stati Uniti), dell’uso dei fondi che affluiscono in Africa, troppo spesso finiti nel circuito della corruzione anziché alle popolazioni cui erano destinati (La carità che uccide. Come gli aiuti dell’Occidente stanno devastando il Terzo mondo, Rizzoli 2010). Soprattutto dovremmo condizionare i nostri aiuti e il nostro supporto a un minimo di garanzie sui migranti, nonché alla possibilità di aprire in territorio africano canali legali e funzionanti di ingresso in Europa (sempre che l’Europa riesca ad essere meno avara di quanto si sta rivelando oggi).

Perché i numeri e i tempi contano. Un flusso ragionevole e ordinato di ingressi in Europa può solo arricchire il Vecchio Continente, ma la finzione che tutto vada bene nell’inferno libico rischia solo di alimentare una bomba che, prima o poi, non potrà che esplodere, travolgendo tutto e tutti.




I poveri votano a destra, i ricchi a sinistra

Che il voto del 4 marzo, e quelli successivi nelle elezioni amministrative, sia stato un voto di protesta, di alterità verso la “casta”, contro l’establishment, e contro i governi che hanno coinvolto il Pd, dal 2011 ad oggi, ci sono pochi dubbi. E le motivazioni che hanno condotto verso questo comportamento elettorale ce ne hanno dato ampia conferma; sulle cause del successo della Lega c’è una sostanziale omogeneità di pensiero: il traino decisivo è giudicato unanimemente la volontà leghista di combattere efficacemente i problemi di insicurezza derivanti dai postumi della crisi economica, dall’immigrazione incontrollata e dall’aumento, in generale, del clima di pericolosità sociale.

La parole d’ordine di tipo economico-occupazionale, e fiscale, le battaglie sulla legittima difesa e per un controllo più duro nei confronti dei clandestini sono state fondamentali per l’avanzata elettorale del partito di Salvini in tutte le aree settentrionali e centrali del paese, anche in zone dove nel passato la Lega (Nord) era elettoralmente inesistente. E per il suo successivo radicamento, fino a farla diventare, oggi, la forza politica con i consensi più elevati nelle dichiarazioni di voto raccolte nelle ultime indagini demoscopiche, superando il Movimento 5 stelle.

Anche i motivi prevalenti del successo pentastellato possono essere individuati nella volontà di “mandare a casa” la vecchia classe politica, per cambiare radicalmente le politiche pubbliche. Per un nuovo inizio: un orientamento che accomuna le tendenze più diffuse nell’elettorato italiano, dal nord fino al sud del paese. Hanno per questa ragione avuto successo le due forze politiche che maggiormente si fanno paladini della volontà di cambiamento, assieme alle due tematiche ricordate, il rifiuto delle vecchie modalità di fare politica e, soprattutto, il bisogno di maggior sicurezza economica e sociale.

Da questi elementi è nato nel giugno scorso il “contratto di governo” tra Movimento 5 stelle e Lega, un esecutivo che gode attualmente di un consenso talmente elevato, vicino al 70% della popolazione italiana, che sarà difficile nei prossimi mesi immaginare una opposizione capace di contrastarlo efficacemente. Anche perché, tralasciando l’indubbia capacità comunicativa del leader leghista, il motivo più profondo del favore per il governo è che gli elettorati delle diverse forze politiche sono attenti alla risoluzione di problemi piuttosto differenti tra loro. Per l’elettorato di sinistra (o di centro-sinistra), le cose più urgenti da risolvere sono il tema del lavoro e quello dell’insorgente razzismo nel nostro paese, veicolato dai costanti proclami di Salvini stesso. Per gli elettori di centro-destra (e della Lega in particolare) sono invece: l’immigrazione, più o meno clandestina, le tasse e la sicurezza, insieme ovviamente agli effetti della crisi economico-occupazionale.

Ancora differente è la gerarchia degli elettori pentastellati, tra cui soltanto il tema del lavoro tende ad essere egemonico, mentre gli altri problemi non sono considerati rilevanti. Ora, dal momento che l’occupazione, la creazione di nuovi posti di lavoro, la crescita dell’economia, la messa a punto di un quadro di efficace regolamentazione del frastagliato mondo del lavoro (e, se vogliamo, lo stesso problema del razzismo) sono tutte cose che non possono avere una rapida risoluzione, va da sé che la comunicazione di Salvini, così presente e costante, riesca in questo momento a convogliare su di se, e sul suo partito, una crescente quantità di potenziali elettori, cui egli si rivolge.

Durerà nel tempo? Suppongo di sì, perché il suo discorso tocca le corde giuste della popolazione, molto più delle argomentazioni di Di Maio e molto molto di più di quelle della sinistra e del Partito Democratico. Soprattutto perché i destinatari di questa comunicazione e di queste proposte politiche sono in particolare i settori sociali maggiormente in difficoltà, sia dal punto di vista economico che da quello sociale, e che sono certo quelli numericamente più numerosi nel nostro paese, dopo le crisi dell’ultimo decennio. E trovano nelle forze politiche oggi al governo, i 5 stelle ma soprattutto la Lega, un elevato livello di attenzione proprio nei loro confronti.

Non a caso i motivi che, secondo gli elettori italiani, hanno portato alla sconfitta del Partito Democratico, nonostante il premier Gentiloni non fosse così malvisto nemmeno dagli elettori leghisti e pentastellati, risiedano principalmente sull’incapacità del Pd di pensare (anche) ai cittadini con problemi economici e sociali. Viene sottolineato ancora una volta come le proposte e le politiche della sinistra o del centro-sinistra siano percepite – da chi non li vota – come più vicine alla società più garantita, quella dei ceti medi o medio-alti, mentre la fascia più debole della popolazione non viene tenuta in sufficiente considerazione. E il buon successo elettorale in alcune delle aree più benestanti del paese ne è una indiretta conferma, mentre i leader e gli stessi elettori della sinistra non paiono rendersene pienamente conto.

Un’analisi empirica che mette in relazione, a livello comunale, le scelte di voto ed il reddito pro-capite dei cittadini lombardi mostra in maniera evidente quanto è stato finora argomentato. La correlazione tra il voto al centro-sinistra e la ricchezza pro-capite appare significativamente alta e positiva (con un coefficiente pari a +0.45): all’incremento del reddito si incrementa anche la percentuale di consensi aggregata (Partito Democratico + LeU + Potere al Popolo) per le formazioni di sinistra; risulta al contrario negativa (r = -0.52) la stessa correlazione con i partiti di centro-destra, mentre non è significativa – benché con un segno positivo –  la correlazione tra voto ai 5 stelle e il reddito pro-capite.

Mentre nei comuni della provincia di Milano nessuna delle correlazioni, per nessuna delle formazioni politiche, appare significativa, e occorre quindi operare un’analisi più approfondita, esse sono non a caso particolarmente accentuate nelle province pedemontane (Brescia, Bergamo, Sondrio, Varese, Como e Lecco), vale a dire nelle maggiori roccaforti della Lega e del centro-destra, con coefficienti (negativi) che si avvicinano a 0.60. Come dire: più i comuni sono poveri, più si vota Salvini; più sono ricchi, più si vota Partito Democratico.




Cosa fu davvero Weimar

La lettura dell’articolo di Francesco Cundari, Corrispondenze da Weimar (‘Il Foglio del 7/8 luglio) -una lunga recensione del saggio di Benjamin Carter Hett, La morte della democrazia ( The Death of Democracy: Hitler’s Rise to Power and the Downfall of the Weimar Republic, Penguin Books 2018)- ci riporta una stagione storiografica che sembrava passata dopo decenni di revisionismo. È come se, per Cundari, Ernst Nolte, George L. Mosse, Renzo De Felice, Walter Laqueur, Domenico Settembrini, Andreas Hillgruber, François Furet, Augusto Del Noce, Hannah Arendt non fossero mai esistiti. Non è il ritorno, il suo, alle interpretazioni più o meno marxiste e gramsciane dei Nicola Tranfaglia, dei Guido Quazza, dei Domenico Losurdo, ma al loro stile di pensiero che divideva la storia in pecore bianche e in pecore nere e a queste ultime non riconosceva né ragioni, né ideali ma, nel migliore dei casi, l’imbecillitas di chi si lascia mobilitare in difesa di interessi non suoi. Scrive Cundari, citando Hett, «la chiave per capire perché molti tedeschi sostennero Hitler stava anzitutto nel “rifiuto nazista di un mondo razionale basato sui dati di fatto |…| Il trauma della sconfitta spinse milioni di tedeschi a credere a una particolare narrazione della guerra non perché fosse oggettivamente vera ma perché era emotivamente necessaria”. È dunque questo impasto di vittimismo e aggressività, ricerca del capro espiatorio e paura del futuro, narrazioni autoconsolatorie e calcoli sbagliati, a spianare la strada a Hitler». Forse è il mio impenitente revisionismo a indurmi a ritenere che “autoconsolatorio” sia proprio il modo di spiegare l’ascesa irresistibile del Fuhrer con la cecità dei suoi elettori e con le loro paure indotte ad arte dagli imprenditori del panico. Conta poco che il nocciolo duro del giudizio storico di Hett e del suo entusiasta recensore italiano si differenzi da quello marxista classico per quanto riguarda l’identità del nemico ontologico della democrazia, ieri il capitalismo, oggi il rigetto della globalizzazione. Sostituire alle semplificazioni di un tempo quelle odierne non porta lontano. Dire che il nazismo «fu anzitutto un “movimento di protesta nazionalista contro la globalizzazione”» è ancora più privo di senso che definirlo «l’espressione degli interessi degli ambienti più reazionari e più aggressivi della borghesia monopolistica», giacché, nel secondo caso, il diavolo è un soggetto sociale ben determinato, nel primo è una tendenza storica, per lo più indicata con un termine “globalizzazione” il cui significato odierno trasposto nella Germania e nell’Europa di cent’anni fa non rinvia a fatti precisi del passato ma a obiettivi polemici del presente. E infatti non mancano riferimenti a Trump, ai populisti e ai “sovranisti”, né ci viene risparmiato il monito del grillo parlante: stiamo attenti, non siamo diversi dai tedeschi degli anni Venti e Trenta, anche noi abbiamo i nostri imbonitori dediti allo smercio della paura e masse di individui sempre disposti a dare credito alle loro fake news giacché il mondo è vulgo.

Gli apologeti di Weimar possono tirare fuori dai loro bauli magici ogni sorta di demoni però non debbono esagerare nell’alterare i fatti o meglio, nel puntare i riflettori soltanto sulle zone luminose del loro Lost Eden. Mi scuso per la lunga citazione ma mi sembra emblematica del modo di narrare la storia di Hett/Cundari: la Germania di Weimar «aveva il più avanzato movimento per i diritti degli omosessuali. Aveva un attivo movimento femminista che, avendo ottenuto il diritto di voto, andava verso il diritto all’aborto. Il movimento dei lavoratori si era guadagnato la giornata di otto ore. E la Germania degli anni Venti non era all’avanguardia solo in campo politico e sociale. Dalla pittura espressionista all’architettura del Bauhaus, dalla letteratura alla scienza, non c’era campo del pensiero e delle arti in cui non sembrasse primeggiare. In quegli anni Bertolt Brecht rivoluzionava il teatro. Il cinema tedesco, con registi come Fritz Lang e Murnau, si imponeva sulla scena internazionale. Per non parlar delle scienze, in un tempo in cui circa un terzo delle riviste di fisica al mondo erano scritte in tedesco, e a Berlino insegnava un certo Albert Einstein».

Di qui la domanda che già vent’anni fa, dopo essere stati a scuola dai grandi storici revisionisti del Novecento, ci saremmo vergognati a porre: «Come fu possibile, dunque, che nel cuore di una democrazia così illuminata, moderna, si affermasse d’improvviso la barbarie nazista?». Ormai ce l’hanno spiegato centinaia di saggi, articoli, libri che riempiono intere scaffalature (nella mia modesta biblioteca occupano una parete!) ma, evidentemente, non sono degni di considerazione, forse perché non possono venir usati, in America, contro gli elettori di Trump e, in Italia, contro le orde di Salvini e di Di Maio.

Cundari, però, sa bene che il rifiuto di un mondo razionale non fu solo nazista ma caratterizzò una corrente di pensiero, la rivoluzione conservatrice, i cui aderenti forse non erano ottusi e imbecilli. Non potevano certo dirsi “barbari” Thomas Mann, Oswald Spengler, Othmar Spann, Arthur Moeller van den Bruck, Rainer Rilke, Hugo von Hofmannsthal, Ernst von Salomon, Ernst Jünger, Gottfried Benn, Carl Schmitt, Werner Sombart, per non parlare di uno dei massimi compositori del Novecento, Richard Strauss. Non tutti i conservatori rivoluzionari, è vero, aderirono al nazismo ma se non si riconobbero nelle istituzioni e nel clima di Weimar ci sarà stata pure una ragione.

Forse tutti condivisero il disgusto di Stefan Zweig «Ber­lino si trasformò nella Babele del mondo. Bar, parchi di divertimento, pub crebbero come funghi. Ragazzi truccati, i fianchi messi in rilievo dalla vita assottigliata ad arte, passeggiavano per la Kurfürstendamm, e non erano soltanto professionisti. Ogni studente di liceo desiderava raggranellare qualche soldo e nei bar con le luci abbassate si potevano vedere pubblici funzionari e magnati della finanza adescare senza vergogna marinai ubriachi. Neppure la Roma di Svetonio conobbe orge pari ai balli dei travestiti a Berlino, dove centinaia di uo­mini in abiti femminili e donne vestite da uomo danzavano sotto gli occhi indulgenti della polizia. Nel generale collasso dei valori, una sorta di pazzia parve cogliere proprio quegli strati della classe media che fin a quel momento erano parsi incrollabili nel, loro ordine. Giovani signore andavano van­tandosi con orgoglio delle loro perversioni e per una sedi­cenne essere in odore di verginità sarebbe stato considerato un’ignominia in tutte le scuole di Berlino».

«Non tutto è esagerazione nel racconto di Zweig», commenta Peter Gay, ne La cultura di Weimar (Ed. it. Dedalo, Bari 1978) ma se solo un terzo del racconto di Zweig fosse vero, non si dovrebbe essere più comprensivi nei riguardi dei tedeschi, che vedevano sconvolta la loro “casa in ordine” e crollare quel mondo della Tradizione, nutrito di luteranesimo, di senso del dovere, di spirito di servizio che aveva fatto la loro grandezza e li aveva resi così potenti da sconfiggere due imperi (quello degli Asburgo e quello di Napoleone III) nel giro di cinque anni? Del resto non è un caso che il recente Babylon Berlin del regista Tom Tykwe abbia riscosso un tale successo da sfidare i colossi americani. Come scrive Michela Tamburrino, su La Stampa, «Tutto il fascino ruggente di un periodo storico in passato solo sfiorato; siamo nei folli Anni Venti, a Berlino, capitale cosmopolita nella quale si incontrano gli estremi: lusso e povertà, femministe, omosessuali, nazisti, comunisti, in un’ubriacatura che precede la grande crisi finanziaria e l’inflazione, quando gli echi della Grande guerra non si sono spenti e si intravedono le premesse del disastro a venire». Si comprende che i tedeschi siano rimasti sconvolti da un’opera che non rievoca giorni radiosi ma un incubo senza fine, terminato in una tragedia da crepuscolo degli dei. »

Già prima di Babylon Berlin, però, un grande film, Cabaret di Bob Fosse (1972) ispirato ai racconti berlinesi di Christopher Isherwood, ci aveva mostrato l’ambivalenza di Weimar, la tolleranza, nel cabaret, per l’unione di un uomo e di una grossa scimmia e la scena campestre in cui ragazzi biondi in divisa nazista intonano un inno patriottico che commuove tutti i presenti.

In realtà, il fallimento di Weimar fu dovuto all’incapacità di tenere assieme la Gemeinschaft, la dimensione comunitaria (le tradizioni, lo spirito  nazionale, i “costumi della mente e gli abiti del cuore”, che sono irriducibili e non universalizzabili in quanto appartengono a un popolo particolare e non a un altro) e la Gesellschaft, la dimensione societaria (in cui maturano i diritti universali dell’uomo e del cittadino, le scienze, le grandi creazioni artistiche destinate a diventare “patrimonio  dell’umanità”). I momenti trasgressivi di Weimar non erano modalità dell’umano che chiedevano di essere riconosciute e inserite in un quadro di valori autenticamente pluralistico (come nei paesi anglosassoni) ma pugni nello stomaco della vecchia, putrefatta, società borghese che trovava nei disegni di George Grosz la sua crudele caricatura e nella satira di Bertolt Brecht la sua implacabile Erinni.

Un autentico liberale, come Raymond Aron, in poche righe, nel Saggio sulla destra. Il conservatorismo nelle società industriali (1957) -Ed. Guida, 2006- aveva detto l’essenziale «Cresciuto all’ombra della monarchia, il parlamento (della Repubblica di Weimar) avrebbe potuto ottenere la sovranità e condividere il prestigio delle istituzioni tradizionali. Promosso di colpo all’onnipotenza, dopo una rivoluzione involontaria, venne schiacciato dal disprezzo di chi si definiva nazionale, dal risentimento delle masse e dall’amarezza frutto di una sconfitta della quale aveva raccolto l’eredità». Senza “il prestigio delle istituzioni tradizionali” una democrazia non dura: Aron tirava in campo la “legittimità politica”, un concetto ormai incomprensibile nell’era dell’imperialismo del diritto e dell’economia.

Articolo inviato a Il Foglio




Le parole e le cose

Sigmund Freud, padre della psicanalisi, sosteneva che le parole, in quanto suscitano effetti, sono il mezzo generale con cui gli uomini si influenzano reciprocamente. Credo non siano molti i politici ad aver letto Freud, specie fra le nuove generazioni finalmente libere dalla zavorra della cultura, ma in compenso si comportano tutti quanti come se lo avessero letto. È questa la ragione fondamentale per cui le parole, nel discorso pubblico, sono usate in modo sistematicamente improprio. Lo scopo non è aiutarci a capire, ma guidare i nostri sentimenti e le nostre percezioni, per poter pilotare i nostri comportamenti. È questa la ragione fondamentale per cui la politica è inflazionata di due particolari figure retoriche, l’iperbole e l’eufemismo. La funzione della prima è drammatizzare, quella della seconda sdrammatizzare.

L’eufemismo, ad esempio, domina il campo della politica economica, specie quando si tratta di chiedere sacrifici ai cittadini. I tagli a pensioni, stipendi, servizi pubblici, vengono quasi sempre definiti con termini neutri, spesso incomprensibili: razionalizzare la spesa, consolidare il debito, rimodulare le imposte.

Alle volte la ridenominazione assume aspetti curiosi, al limite della comicità: ricordo che molti anni fa, a chi chiedeva a Bertinotti come poteva digerire che nel programma dell’Ulivo ci fossero le liberalizzazioni, venne risposto: ma che problema c’è? basta chiamarle “lotta ai monopoli”. Altre volte, invece, la ridenominazione assume tratti aberranti (e anche un po’ odiosi), come quando pensioni di 4 mila euro vengono qualificate come “pensioni d’oro”. Una sorta di eufemismo al contrario, che anziché cercare un termine per mascherare qualcosa di brutto (i tagli di spesa), cerca un termine per dipingere come brutto qualcosa di normale (le pensioni alte).

L’iperbole, non assente nei discorsi sulla politica economica (ricordate i tagli di spesa denominati “macelleria sociale”?), domina invece i discorsi sui migranti e sulla sicurezza. Può accadere così che la destra presenti come una “invasione” l’afflusso disordinato di migranti sulle nostre coste, e che da sinistra, per meglio far capire che orribile persona sia Salvini, lo si associ al criminale nazista Adolf Eichmann (copyright Furio Colombo).

Ma l’uso fuori luogo delle parole non è un’esclusiva della politica. Giornalisti e conduttori, ad esempio, non resistono mai, di fronte a un fenomeno che secondo loro sta aumentando molto, alla tentazione di parlare di crescita “esponenziale”, mostrando di ignorare che cosa l’aggettivo significhi (una crescita è “esponenziale” se avviene ad un tasso composto costante, e può quindi benissimo essere lentissima, come quella di un conto corrente che dà un interesse dello 0.1% all’anno).

Studiosi, professori universitari, autorità accademiche non sono da meno. Uno dei fenomeni più interessanti degli ultimi anni è l’abuso delle parole “violenza” e “violento”, con la conseguente perdita della distinzione fra aggressioni fisiche e aggressioni verbali, e persino della distinzione fra comportamenti intenzionali e non intenzionali. Accade così che, persino nelle statistiche, la categoria delle violenze sessuali si estenda progressivamente a coprire qualsiasi approccio non gradito o fastidioso, specie se la vittima è donna. La psicologa americana Jean Twenge, autrice di un bellissimo studio sulla generazione Internet (Iperconnessi, Einaudi 2018), racconta con preoccupazione che il concetto di “aggressione” si sia esteso fino al punto di includere, sotto la categoria delle “micro-aggressioni”, qualsiasi comportamento che possa offendere la sensibilità di qualcuno, anche involontariamente (come se dentro la parola “aggredire” non fosse implicita la volontarietà). Può accadere così che un professore perda la cattedra perché i suoi studenti dichiarano di essersi sentiti offesi dai materiali di studio proposti, anche se gli autori di quei materiali erano Mark Twain o Edward Said.

Mi si potrebbe obiettare, naturalmente: “è il linguaggio, bellezza!”. Dopotutto la capacità di evolvere, e di adattarsi a situazioni sempre nuove e diverse, è uno dei pregi fondamentali del linguaggio naturale. È vero, ma ci sono usi appropriati della flessibilità, e ci sono usi fuorvianti, distorsivi, manipolatori.

L’uso sconsiderato delle parole può avere due effetti negativi. Il primo è di fornirci descrizioni errate, spesso antitetiche, della situazione in cui ci troviamo, quando invece quello che serve, quali che siano le nostre idee e i nostri propositi, è innanzitutto una descrizione accurata della situazione com’è. Questa è una differenza cruciale fra le licenze della letteratura e quelle della politica, specie nel ricorso alle metafore. Se un romanziere scrive “il cuore di Pamela sanguinava”, di norma sei in grado di capire se Pamela usciva da uno scontro a fuoco, o se era stata mollata dal fidanzato. Ma se un politico dice “c’è un’invasione dall’Africa”, può esserci qualcuno che la prende come una descrizione sostanzialmente esatta della situazione. Simmetricamente, se un giornalista dice che Salvini è come Eichmann, ossia come un nazista, qualcuno può essere indotto a pensare che dobbiamo reagire come al pericolo nazista. E non sto riferendomi all’eventualità, fortunatamente remotissima, che un neo-partigiano si senta in dovere di organizzare un attentato a Salvini, ma all’eventualità che la lotta politica in Italia precipiti in un baratro di incomprensioni e sopraffazioni reciproche.

Ma forse l’effetto più negativo dell’uso sconsiderato delle parole è ancora un altro, assai più sottile: la banalizzazione delle tragedie. Riservare il medesimo termine, violenza sessuale, a uno stupro e a un complimento sgradito, è profondamente offensivo per le vere vittime, le donne che hanno vissuto la tragedia della violenza sessuale. Così, etichettare come nazista la proposta di censire i rom, è anche un’offesa alla memoria dei rom eliminati da Hitler nelle camere a gas.

Voglio dire che, portata al di là di ogni ragionevolezza, l’equiparazione di fenomeni di natura e gravità del tutto diverse, non solo offende la verità, ma offende le vere vittime. Perché la lodevole intenzione di stigmatizzare anche i peccati veniali finisce per attutire la distinzione fra peccati veniali e peccati mortali. Il linguaggio funziona anche così: a forza di ampliare il territorio di una parola, finiamo per far cadere ogni confine. A forza di dire che anche un insulto è violenza, rischiamo di trattare le vere violenze come semplici insulti. Come fece Pietro Maso che, dopo aver massacrato i genitori per appropriarsi dell’eredità, ebbe a definire il suo gesto “una cazzata”, come se una categoria unica potesse includere bravate e crimini.

Ecco perché il linguaggio conta, e abusarne è pericoloso. Nominando le cose con le parole sbagliate, quel che rischiamo non è solo di non capire la realtà, ma di smarrire la capacità di giudicarla.