Tre impegni per il governo che verrà

Chi ci governerà, dopo il 4 marzo?

Nessuno lo sa, ma tutti sappiamo che lo decideranno loro. E’ infatti piuttosto difficile che dalle urne esca una maggioranza ampia, e che un governo si possa formare senza accordi fra forze eterogenee o cambi di casacca.

I governi possibili sono almeno quattro. Tralasciando le forze minori, possiamo immaginarli così: Forza Italia + Lega; Cinque Stelle + Lega, Cinque Stelle + Pd, Forza Italia + Pd. Se vogliamo, possiamo anche provare a dar loro un nome: centro-destra, populisti, governissimo di sinistra, governo renzusconi (copyright: Andrea Scanzi).

A questi quattro governi possibili, si deve naturalmente aggiungere un quinto governo, ovvero un governo “di scopo”, varato con il solo obiettivo di riportarci alle urne prima possibile, magari con una nuova legge elettorale.

Ma torniamo al 5 marzo, o meglio al momento in cui un governo di qualche tipo si sarà insediato, presumibilmente intorno a Pasqua, che quest’anno cade piuttosto alta (il 1° di aprile). Che cosa è lecito attendersi da un tale governo?

O meglio, ci sono cose che qualsiasi governo, una volta insediato, dovrebbe fare?

Sì, almeno due, e ovviamente non coincidono con nessuna delle promesse con cui ci hanno inondato.

La prima, spiace dirlo, è cosa un po’ prosaica, forse persino un po’ deprimente, ma non per questo trascurabile. Al nuovo governo, poco prima o poco dopo il giuramento, arriverà sicuramente una lettera della Commissione europea (finora rimasta nel cassetto solo per non interferire con le elezioni), in cui ci verrà fatto notare che, come sempre in questi anni, non abbiamo mantenuto né i nostri impegni sul debito né i nostri impegni sul deficit. Alla lettera sarà collegata la richiesta di varare una manovra correttiva, dell’ordine di qualche miliardo di euro (3 o 4, si presume) per raddrizzare i nostri conti pubblici. Ebbene, un governo con la testa sul collo, desideroso di rassicurare i mercati e le autorità europee sulla tenuta dei nostri conti e sulla nostra affidabilità di creditori, farebbe bene a non inscenare la solita manfrina sulla flessibilità, i parametri cervellotici, le regole stupide, l’austerità “da superare”. E a farla, questa benedetta manovrina, che cadrà fra capo e collo del nuovo esecutivo solo perché quello uscente era troppo impegnato a distribuire favori pre-elettorali. Ma soprattutto: a farla tagliando un po’ di spesa pubblica, non con l’ennesimo aumento delle tasse che soffoca l’economia.

Ma ad aprile, a impegnare il nuovo governo, non ci sarà solo la lettera della Commissione europea, ci sarà anche il “mare piatto” di primavera. Belle giornate di sole, settimane di mare calmo, ripresa degli sbarchi. Quel che l’inverno ci ha risparmiato durante la campagna elettorale, riprenderà vigore con la bella stagione. E allora non sarebbe male che, il nuovo governo, una parola chiara la dicesse, su quel che intende fare con le traversate del Mediterraneo. Perché il male di questi anni non è stata né la troppa né la troppo poca accoglienza (quella è una questione di punti di vista), ma la mancanza di regole chiare e della volonta di farle ripsettare. E’ questo, innanzitutto, che ha creato inquietudine in una buona metà degli italiani: il caos, la disorganizzazione, il prevalere della logica del fatto compiuto su quella dei diritti delle persone. Quanti richiedenti asilo che avevano il sacrosanto diritto di ottenerlo, si sono visti scavalcati e sopraffatti dalla massa dei non aventi diritto, solo perché gli uni e gli altri (rifugiati e migranti economici) erano approdati sul suolo italiano?

Questo, dire una parola non fumosa e non ambigua sulle politiche migratorie, è la seconda cosa che un governo serio dovrebbe trovare il coraggio di fare. Ce ne sarebbe poi una terza, forse. Fra le infinite misure di aiuto alle famiglie e alle imprese che un governo potrebbe mettere in cantiere, a me sembra che ve ne sia una che ha di gran lunga il rapporto costi/benefici più favorevole. Ed è strano che nessun governo del passato, a dispetto di tanti discorsi sulla scuola e sull’educazione, sulle donne e il lavoro domestico, abbia mai investito su di essa. Mi riferisco alla drammatica carenza, specie al Sud, di asili nido pubblici, che mettano le madri che desiderano lavorare nelle condizioni di farlo.

Quanto costerebbe raddoppiare i posti? Pochissimo, se pensiamo alle promesse elettorali più folli dei partiti (reddito di cittadinanza, soppressione della legge Fornero, pensioni minime a 1000 euro al mese, solo per citarne alcune). Basti pensare che ciascuna di queste misure costa fra i 10 e i 20 miliardi all’anno, mentre un raddoppio degli asili nido costerebbe appena 1.5 miliardi. Ma c’è di più: un governo che, non riuscendo a garantire la piena occupazione degli adulti, volesse almeno garantire un asilo nido per tutti i bambini sotto i 3 anni (con relativo aumento dell’occupazione per le maestre), non solo darebbe uno straordinario sollievo a milioni di genitori, ma costerebbe alle casse dello Stato meno di ciascuna delle mirabolanti misure assistenziali prospettate da quasi tutti i partiti.

Con un grosso vantaggio: che i benefici sarebbero tangibili, immediati, e sotto gli occhi di tutti.

Articolo pubblicato su Panorama il 1 marzo 2018



Tanti sondaggi, poche certezze

Escono in questi giorni gli ultimi sondaggi pre-elettorali, prima che il blackout informativo ne impedisca la pubblicazione, nei 15 giorni precedenti il voto del 4 marzo prossimo. Che questo silenzio giovi realmente agli elettori, per evitare che vengano condizionati, è materia discutibile. Tanto più che in questi ultimi tempi (ma spesso anche nel passato più remoto) le stime di voto vivono una forte crisi di credibilità, un po’ in tutto il mondo, e quindi il possibile condizionamento si baserebbe su risultati a volte poco attendibili.

L’esempio più eclatante lo abbiamo avuto proprio in occasione delle scorse politiche, quelle del 2013, quando le anticipazioni demoscopiche, ad un paio di settimane dalla consultazione, sovrastimarono di almeno cinque punti il Partito Democratico di Bersani, sottostimando nel contempo la performance del MoVimento 5 stelle. Previsioni non attendibili che effetto hanno dunque sugli indecisi?

In attesa di studi più articolati in merito, concentriamoci allora sulle cause degli errori di stima, che sono tante, e delle quali ho parlato qualche anno fa in un mio libricino (“Attenti al sondaggio!”) che è sempre utile rileggersi, in prossimità di una competizione elettorale. Tre sono forse le principali: la difficoltà di avere a disposizione campioni realmente rappresentativi della popolazione, soprattutto dopo l’avvento massiccio della telefonia mobile e l’utilizzo di interviste su Internet; l’indecisione o, a volte, le menzogne consce e inconsce dei rispondenti sul proprio orientamento di voto; il costo elevato di rilevazioni demoscopiche che debbano andare in profondità su ambiti territoriali molto ristretti, come ad esempio i collegi elettorali.

Sul primo fattore, sul tema della rappresentatività campionaria, sono corsi nel passato fiumi di parole, accademiche o giornalistiche, senza mai giungere a conclusioni utilizzabili dal punto di vista empirico. Per cui tutto è rimasto sostanzialmente identico al passato: campioni di un migliaio di casi, che rispecchino in qualche modo le caratteristiche principali della popolazione, sembrano ormai venir giudicati sufficienti per fornire stime attendibili. Che sia vero o meno, pare non importare più a nessuno, nemmeno dopo la grande rivoluzione provocata dalla costante decrescita dei telefoni fissi e dal crescente utilizzo di Internet come strumento di rilevazione.

Mutamenti questi ultimi che ci portano direttamente al secondo fattore, legato alle dichiarazioni di voto: chi maneggia i dati di sondaggio sa bene che i risultati delle indagini telefoniche sono spesso molto differenti da quelli desunti dalle risposte telematiche (i 5 stelle sono sempre più forti nel secondo caso, Pd e Forza Italia nel primo) e che il numero ed il tipo di dichiarazioni di astensione, o di indecisione, sono condizionate dalla presenza o meno di un intervistatore. Anche in questo caso, sappiamo poco degli effetti comparati dei due strumenti ma, di nuovo, facciamo a volte finta di nulla.

Infine, supponendo per un momento che si riescano a risolvere, in qualche modo, i due primi fattori di distorsione, è proprio il terzo punto quello su cui le difficoltà paiono a volte insormontabili. Negli ultimi mesi, dopo che è stato finalmente approntato lo schema definitivo del nuovo sistema elettorale del cosiddetto Rosatellum, non passa giorno che qualche quotidiano, on-line o cartaceo, non ci proponga una simulazione di quale potrebbe essere il risultato elettorale in ciascuno dei 232 collegi della camera o nei 116 del senato.

Come è possibile arrivare a tale stima? Di primo acchito, pare proprio impossibile. Per avere stime corrette degli oltre 200 collegi, occorrerebbe intervistare campioni significativi in ciascuno dei territori su cui gravitano questi collegi. Supponiamo che bastino un migliaio di interviste in ognuno di questi. E, per inciso, lo supponiamo solo, perché in realtà in ogni sondaggio elettorale abbiamo sempre una quota di circa il 35-40% di intervistati che si dichiara astensionista oppure incerto, e le nostre stime si baseranno su 600-650 rispondenti, oggettivamente un po’ poco.

Ma supponiamo per un momento che bastino. Dovremmo intervistare un numero di elettori pari a 232mila, mille per collegio. Dato che il costo di un sondaggio di un migliaio di casi non potrà essere inferiore a 5mila euro, anche perdendoci qualcosa, dovremmo avere a disposizione un budget complessivo di oltre un milione di euro. Sì, avete letto bene: per la precisione, si tratta di 1 milione e 160mila euro.

Ovviamente impossibile a realizzarsi. Come ci si orienta, dunque, per fornire comunque stime che dovrebbero essere attendibili? Con un paio di stratagemmi. Il primo è questo: si definiscono già sicuri un numero piuttosto elevato di collegi, sulla base dei risultati delle ultime elezioni, e si effettuano sondaggi soltanto sui collegi incerti, in genere tra gli 80 e i 100. Anche in questo caso il costo, seppur più che dimezzato, sarebbe vicino al mezzo milione. E nessuno ha tutti questi soldi. Allora si dimezzano le interviste, producendo risultati altamente inattendibili: dato che il collegio è incerto, con 3-400 interviste valide quel collegio rimarrà sicuramente incerto, tranne in casi eccezionali.

Secondo stratagemma. Si prendono in considerazione i flussi di voto dall’ultima elezione agli orientamenti di voto odierno, a livello ad esempio regionale. Si applicano poi i risultati di ciascuna matrice di flusso ai singoli collegi di ognuna delle regioni. Anche in questo caso i risultati che usciranno saranno altamente aleatori, vista la competizione serrata in molti dei collegi uninominali, senza considerare il possibile richiamo che ognuno dei candidati potrebbe esercitare nel suo collegio.

L’unica strada alternativa da percorrere sarebbe quella di utilizzare le migliaia e migliaia di interviste effettuate nel corso degli ultimi due anni, e suddividerle per i 232 collegi. Ma pochissimi istituti di ricerca hanno un così ingente data-base su cui far riferimento, e anche in questo caso, poco sapremmo sugli eventuali cambiamenti nell’orientamento di voto dell’ultimo periodo pre-elettorale. Ecco perché a quello che ci raccontano, se non in casi sporadici, non possiamo credere troppo. Non ci resta che attendere tranquillamente i veri risultati delle elezioni. In fondo, non manca poi molto.

(*) una versione più ridotta di questo scritto è uscita il 4 febbraio sul sito de “Gli Stati Generali”



Votate per il Patas!

È l’acronimo del Partito Anti Telefonini A Scuola.

Chi di voi s’iscrive?

Compassi e poesia

Se a scuola, come pare, vincerà Internet e tutti avranno il loro bravo telefonino in mano e (forse) anche un PC sul banco, sarà la fine delle cartolerie. Non serviranno più quaderni, biro, pennarelli, gomme, temperini, fogli protocollo, cartelline, righelli, squadre, goniometri, compassi, cartucce per la stilo. Si chiama smaterializzazione. Gli oggetti se ne vanno, si volatilizzano e noi restiamo sgombri, e privi.

Soprattutto veniamo privati di uno dei piaceri più belli della vita: andare in cartoleria a prendere personalmente gli oggetti che ci servono per la scuola.

(Parentesi. Come genitori, credo che dovremmo lasciare i nostri figli liberi di andare da soli in cartoleria, non accompagnarli e tanto meno comprare noi le cose di scuola o ordinarle su internet, seguendo l’arido elenco che i nostri figli ci hanno dato. Non sarebbe un servizio che facciamo loro, ma un torto. Più in generale, dovremmo smetterla di “servire” i nostri figli, bambini, adolescenti o adulti che siano. Dovremmo smettere di accompagnarli in auto ovunque, per esempio, perché andare a piedi e prendere il pullman sono due esperienze meravigliose e molto utili perché insegnano tre cose: guardare il mondo, accorgersi degli altri, e tenere in conto il valore del tempo).

Tornando al piacere della cartoleria, prendiamo un ragazzino di undici anni, a ottobre, appena entrato in prima media. Ha compiuto un grande salto, dalle elementari, e ora si sente già molto grande. È pomeriggio. Fa un po’ di compiti, fa merenda, e poi va in cartoleria. Prende il foglietto con l’elenco, si mette scarpe e giubbotto, esce. Va per le strade del suo rione, da solo. Ha in mente quel che deve comprare, sono le cose che i professori gli han detto di comprare, che gli serviranno per i suoi studi. È orgoglioso di essere già alle medie, di iniziare un corso di studi che gli è ancora ignoto ma che lo proietta dritto, a poco a poco, nel mondo degli adulti. È anche molto contento di andarsi a comprare delle cose che non sono futili, come i soliti giochi, videogiochi, aggeggi elettronici o pelouche; sono cose utili, che davvero deve comprare, ha l’obbligo perché gli servono. È una differenza molto importante, di cui stiamo perdendo un po’ coscienza: comprare cose che ci sono utili conferisce al gesto di comprare una ragione moralmente ineccepibile, nonché la piacevole sensazione di non sprecare i soldi. Sensazione piuttosto rara, oggi, in una società abituata a comprare cose di cui si potrebbe benissimo fare a meno.

Insomma, il ragazzino entra. E qui vorrei che nel negozio ci fosse un lungo bancone, dietro il quale ci fosse una commessa gentile che gli chiede cosa gli serve, gli mostra i vari articoli e, se è il caso, lo indirizza nelle scelte. Lo so che non funziona più così: uno entra ed è libero di gironzolare tra gli scaffali e prendersi quel che vuole, poi va alla cassa e paga. L’abbiamo chiamata “libertà”. Lasciar libero il cliente, non opprimerlo, non aggredirlo appena entra con la domanda, invadente e violenta: Cosa desidera? L’abbiamo chiamata libertà e salutata come un miglioramento, lo so. Ma avremmo dovuto chiamarla “solitudine dell’acquirente”. È bellissimo, invece, che qualcuno appena entriamo ci chieda cosa siamo venuti a comprare e ci aiuti a districarci nella selva delle migliaia di prodotti e varianti. È bellissimo perché possiamo parlare con quel qualcuno, e non sentirci troppo soli. Magari chiediamo un compasso, ed è possibile, soprattutto se abbiamo undici anni, che sia la prima volta che vediamo un compasso. Siamo venuti a comprarlo perché il professore ci ha dettato sul diario: compasso, ma non sappiamo bene che cosa sia, a che cosa ci servirà, non abbiamo un’idea chiara di come si usi, e ora siamo lì a comprare il primo compasso della nostra vita, e per fortuna abbiamo davanti una signorina gentile che ce ne mostra vari modelli, apre gli astucci e ci fa vedere le differenze, dal compasso basic nell’astuccio di plastica che costa meno fino al compasso super con decine di accessori, ognuno incapsulato nella sua sede dentro l’astuccio, imbottito di velluto, che costa ovviamente più caro. È una fortuna che ci sia, davanti a noi, quella gentile commessa. Così noi guardiamo allibiti, estasiati, quel compasso che di colpo assurge a simbolo della vita che verrà, di cosa faremo da grandi, o meglio di cosa diventeremo di lì a pochi mesi, alla fine della prima media, quando sapremo usare benissimo un compasso, e lo useremo per anni, sempre meglio, facendo operazioni sempre più complesse. Di colpo, lì, in quella cartoleria, abbiamo il lampo di quel che saremo, e di come andrà la vita, e anche finalmente di che cos’è la scuola. E ci verrà anche una gran voglia di andarci, a scuola, per anni e anni, per diventare qualcuno che sa fare bene qualcosa. Per diventare. Per essere, cioè, quel che saremo, ovvero quel che in fondo  siamo già senza saperlo.

È diverso se, invece, ci dirigiamo al reparto cartoleria di un immenso ipermercato e, davanti al settore Compassi, ne prendiamo più o meno a caso uno e corriamo a pagarlo alla cassa. O se il compasso ci arriva pe posta o ce lo compra nostra madre e ce lo mette davanti la sera a casa, con l’aria soddisfatta come a dire: e anche questa è fatta, che madre efficiente sono!

Non ho la minima idea se si usi ancora il compasso a scuola, e se qualcuno vada a comprarlo in cartoleria all’inizio della prima media. Ma credo che, se a scuola vincerà Internet, i cerchi li faremo con una app geometrica che ce li disegna, o con un sofisticato programma che ci avranno insegnato a “scaricare”. Se così fosse, non saremo, in breve, più capaci a usare un compasso, non sapremo forse nemmeno più che cosa sia un compasso: quindi ci sarà impossibile capire una delle più belle poesie d’amore di tutta la nostra letteratura, A Valediction: Forbidding Mourning di John Donne. Là dove il poeta parla dell’amore lontano e, per dire l’infinita sofferenza e al tempo stesso il senso assoluto di unione che ci prende quando amiamo e siamo lontani dalla persona amata, usa l’immagine metaforica dei due bracci di un compasso, che piegano l’uno sempre più distante dall’altro, ma sempre sono uniti al centro, dal perno che li tiene, dalla mano che li muove.

Non sapendo più cosa sia un compasso, non capiremo niente di questa poesia. E finiremo col non leggerla più. E John Donne sarà morto per sempre.

Compassi e telefonini

Intanto, proprio in questi giorni, la commissione di esperti voluta dal Ministero ha chiuso i lavori e redatto il decalogo per l’uso dei telefonini in classe. Leggo dai giornali che si potranno usare foto e video per documentare una gita, tracciare percorsi col Gps per conoscere una città, fare riassunti via twitter, andare su Minecraft…

Capisco che parlare di compassi, cartolerie e John Donne non abbia più tanto senso…

Mi chiedo solo perché continuiamo, nella scuola, a insegnare ai ragazzi quel che sanno già fare, quel che appartiene già al loro mondo e quindi conoscono forse anche meglio di noi (insegnare ai nativi digitali come si naviga in Internet sarebbe come insegnare ai figli dei contadini come si pota un melo), invece di insegnare cose che siano davvero nuove per loro, che appartengano a universi a loro sconosciuti: perché non insegniamo e a entrare in mondi complessi come la letteratura e l’algebra, invece che a entrare in GoogleMaps?

Mi chiedo anche se qualcuno protesterà, genitori, professori, filosofi, scrittori, opinionisti. Magari anche allievi… Già. Mi chiedo se i ragazzi, poi, siano così d’accordo a usare anche nelle ore scolastiche lo smartphone, visto che lo usano già nel resto della loro giornata. Non verrà loro a noia? Non potrebbero preferire distrarsi, di-vertirsi, con qualche bel libro, magari commentato dalla viva voce del loro insegnante che fa (ancora) lezione?

Paride e le elezioni

Siamo immersi in una campagna elettorale strana, forse la più abominevolmente stravagante che ci sia mai capitata. Una campagna elettorale di partiti-piazzisti, di politici-commercianti che urlano i loro prodotti e le loro offerte strabilianti. Un bazar, un supermercato, in cui noi elettori, temo, voteremo per chi ci promette in regalo il “prodotto” che più ci sta a cuore. Noi sceglieremo il regalo, non un’idea del mondo o una visione della società. Il nostro voto non sarà né ideologico né identitario: sarà biecamente “economico”. Sceglieremo il regalo più costoso, o più comodo, o più attraente: avere un bonus bebé, non pagare il bollo auto, andare in pensione quando si vuole, pagare meno tasse, non pagare il canone TV, ricevere una dentiera gratis, una tessera per il teatro, una cassa di vino, un panettone a Natale…

Mi torna in mente Paride, l’oscuro pastore (in realtà figlio del re di Troia!) designato a decidere chi tra le tre dee sia la più bella. Non sa a chi dare la mela d’oro, tra Atena, Era e Afrodite. Non sa valutare la bellezza. E infatti non sceglie la più bella: sceglie il dono, quindi la dea che gli promette il dono che più lo attira. Sceglierà Afrodite, perché gli promette la donna più bella del mondo.

Così faremo noi elettori, a queste elezioni così aliene. Non sceglieremo il partito che ci sembra migliore. Forse come Paride non sappiamo nemmeno valutare quale sia il migliore, e non sapremmo a chi dare la mela con la frase incisa: “al più bello”. Sceglieremo non il partito più bello, ma il partito che ci promette il dono più bello.

Ecco perché nessuno parla di scuola (meno che mai di telefonini a scuola!), in questa campagna elettorale. Nessun partito, nessun politico fa una proposta, ha in mente qualcosa per migliorare l’istruzione. Al massimo sentiamo parlare genericamente del tema scuola come di un tema molto importante per il nostro Paese, per la crescita, la democrazia, per l’uguaglianza, e blablabla…

Certo! La scuola non è un bene commerciabile, non può far parte dell’elenco dei doni “economici” che un partito promette al suo elettorato. Non è merce di scambio. Potrebbe mai un partito, per esempio, proporre di mantenere l’attuale divieto dei telefonini nelle scuole (divieto in atto in molti Paesi europei, peraltro…)? E che regalo elettorale sarebbe? Chi mai darebbe la mela d’oro a un partito del genere?

Paride, come sappiamo, causò la guerra di Troia. Dieci anni di morti e disgrazie.

Che fare? Fondare immediatamente un partito anti-telefonino-a-scuola, il PATAS?

Articolo uscito su Il Sole 24 Ore del 28 gennaio 2018



La desiderabilità sociale non esiste più

Sebbene il termine di “desiderabilità sociale” sia estraneo a molti, il concetto ad essa collegata è ben presente in ciascuno di noi. Si tratta del pervasivo bisogno di sentirsi accettato dagli altri, dal proprio gruppo di riferimento, dalla gente con cui si convive; qualcosa che ci forza ad adeguarci al pensiero comune e ad esprimere solo con grandi difficoltà opinioni che non siano largamente condivise dal resto della popolazione, della società cui apparteniamo.

Il primo che sperimentò empiricamente questo fenomeno fu un sociologo, negli anni Trenta del secolo scorso.  In un periodo dove molto alto era il pregiudizio americano contro gli asiatici, Richard LaPiere girò per gli Stati Uniti per tre mesi con due suoi amici cinesi, pernottando in decine e decine di alberghi e mangiando in centinaia di ristoranti, venendo inaspettatamente accolto con grande cordialità quasi ovunque. Tornato a casa, a LaPiere venne in mente di effettuare una sorta di piccolo sondaggio: inviò in tutti i luoghi dove aveva soggiornato un breve questionario in cui si chiedeva se avessero problemi ad ospitare cittadini asiatici. La quasi totalità delle risposte che ottenne, conformemente alla desiderabilità sociale di quel tempo, fu ovviamente negativa: salvo in un paio di casi, tutti coloro che avevano ospitato i suoi amici cinesi dichiararono infatti che non l’avrebbero mai fatto.

Cosa era accaduto? Qualcosa di molto simile a quanto ho descritto nel mio libricino “Attenti al sondaggio!” (Laterza) e che ho chiamato “spirale del silenzio demoscopico”: quando un uomo politico, o un partito, soffre di un clima elettorale negativo nei suoi confronti, gli intervistati tendono a non dichiarare il proprio voto per quel partito, che conseguentemente avrà stime sempre più basse, aumentando la negatività del clima elettorale. Ma, nel segreto dell’urna, quegli stessi elettori torneranno a votare per quella forza politica cui si sentono comunque vicini.

Per decenni, il tarlo della desiderabilità sociale ha dunque minacciato seriamente l’affidabilità dei risultati dei sondaggi, provocando errate sovrastime e, più spesso, sottostime. Quando Berlusconi era in auge, molti intervistati si dichiaravano berlusconiani, sebbene non lo fossero; quando cadeva in disgrazia, non si riuscivano più a trovare elettori che nelle indagini demoscopiche si pronunciavano a favore del suo partito. E così accadeva per tutte le altre forze politiche, a seconda del momento specifico. O per l’alterità nei confronti dei meridionali, o degli extra-comunitari, o della difesa contro i rapinatori: semplicemente, si faceva fatica ad ammettere di essere razzisti, o xenofobi, o favorevoli a sparare ai ladri.

Ma da qualche tempo, qualcosa è cambiato. Pare sempre più facile dichiarare il proprio pensiero, per negativo o impopolare possa sembrare, senza più remore. E’ vero: Trump era stato leggermente sottostimato, dai sondaggi dell’epoca, ma era una sottostima molto ridotta, di un paio di punti percentuali, nulla di più. La stessa cosa è accaduta per la Brexit, o per i partiti di estrema destra populista, in diversi paesi d’Europa. Gli intervistati non avevano remore a presentarsi come vicini a forze politiche di stampo anti-democratico. 

Così, oggi non fa più paura dichiarare all’intervistatore di odiare gli extra-comunitari, o di essere un po’ fascisti, o di essere disposti ad ammazzare chi ci ruba a casa nostra nottetempo. E’ un bene o un male? Per la società non saprei ma, dal punto di vista dei sondaggisti, è sicuramente un bene, non essere costretti ad inserire domande trabocchetto per riuscire ad ottenere una risposta sincera, questo è ovvio. Se ne è parlato in occasione delle recenti elezioni siciliane. Ci si chiedeva: quale partito, quale coalizione soffre di scarsa desiderabilità sociale, tanto da venir sottostimata nei sondaggi? Non trovavamo risposta. Oggi, tutti possono dire tutto, senza il problema di sentirsi “indesiderati”. Si può fare tutto, si può pensarla come ci pare, diceva Giorgio Gaber anni fa. Una società liberata, o no?

Forse, oggi, l’unica dichiarazione che si fa fatica ad estorcere agli intervistati, per le imminenti elezioni politiche, è la propria vicinanza al Partito Democratico, la propria fiducia in Matteo Renzi. Il paradosso di questa nuova campagna elettorale…

(*) una versione più ridotta di questo scritto è uscita il 27 novembre 2017 su “Gli Stati Generali



Sussidi e redditi integrativi: l’intervista a Luca Ricolfi

Berlusconi promette fino a mille euro grazie al suo “reddito di dignità”. I Cinquestelle dicono di aver trovato 17 miliardi per finanziare “il loro reddito di cittadinanza”. Ma tutti questi soldi ci sono? E soprattutto, non si rischia di innescare nella società spinte parassitarie o favorire il lavoro in nero?

I 17 miliardi all’anno non ci sono, a meno di tornare a una crescita del Pil di almeno il 3%. Tanto più che le coperture previste dai Cinque Stelle sono in gran parte costituite da nuove tasse o aumenti di gettito di tasse preesistenti. Per non parlare delle clausole di salvaguardia da disinnescare, che da sole limitano i margini di manovra di qualsiasi governo.

Quanto alle spinte parassitarie e al lavoro nero, bisogna essere ciechi per non vedere che sarebbero la principale conseguenza del “reddito di cittadinanza” (in realtà: reddito minimo) proposto dai Cinque Stelle.

Tornando al “reddito di dignità” proposto da Berlusconi, può veramente annoverarsi tra le imposte negative rilanciate da Friedman e dalla scuola austriaca?

Nulla osta a introdurre un’imposta negativa, e poi chiamarla “reddito di dignità”. Questa espressione peraltro non è nuova (un sussidio denominato reddito di dignità esiste già in Puglia, e si chiama ReD), anche se a me non piace, per il suo sapore paternalistico-assistenziale.

Anche lei in passato è sembrato favorevole a questo modello. Perché? E quali sono le altre soluzioni per sconfiggere la povertà?

Bisogna distinguere. Se per “sconfiggere la povertà” si intende sradicare la povertà assoluta, allora l’imposta negativa non è la soluzione, perché essa colma solo in parte la differenza fra reddito effettivo e soglia di povertà. Per garantire che un’imposta negativa del 50% (questa è l’aliquota di cui normalmente si parla) sradichi la povertà assoluta occorrerebbe posizionare l’asticella della povertà a un livello doppio rispetto alla soglia Istat, che per un single fluttua intorno ai 700 euro al mese in funzione del livello dei prezzi (al Sud può scendere a 550 euro, al Nord può salire oltre gli 800). Il costo per le casse dello Stato sarebbe enorme.

Se invece quel che si desidera è fornire un sostegno ai poveri che al tempo stesso non disincentivi la ricerca di un lavoro, l’imposta negativa è un’ottima soluzione, naturalmente con un’asticella posta in prossimità della soglia di povertà assoluta.

Più in generale ci spiega la differenza tra reddito di cittadinanza e reddito minimo, e quali categorie fino che grado di intervento da parte del pubblico è auspicabile per non generare storture.

Il reddito minimo è rivolto solo ai poveri, e comporta il rispetto di alcuni doveri (accettare un lavoro, seguire corsi di formazione, ecc.). Il reddito di cittadinanza invece è rivolto a tutti, anche ai ricchi, e non comporta alcun dovere. La proposta dei Cinque Stelle è una proposta di reddito minimo, denominata reddito di cittadinanza al solo scopo di attirare il consenso degli elettori.

Evitare le storture, ossia la rinuncia alla ricerca di un lavoro la ricerca di lavori in nero per poterli cumulare con il sussidio, non è facile. Anzi, è il problema dei problemi che nessuno stato europeo ha risolto in modo soddisfacente.

Nessuno ha la soluzione in tasca, ma ci si può muovere lungo due direzioni principali, ed opposte: sussidi più apparato di monitoraggio e accompagnamento (soluzione statalista), oppure imposta negativa più voucher per la formazione professionale (soluzione di mercato).

Partendo da questa distinzione, possiamo fare un bilancio del Rei?

Il sussidio governativo è meglio di niente, ma ha due limiti molto gravi. Il primo è di essere troppo limitato sia nell’importo sia nei destinatari. Il secondo è di non poter contare su un apparato amministrativo capace di seguire individualmente chi cerca un lavoro ed evitare gli abusi. In un certo senso è un ibrido, che combina i difetti delle due soluzioni estreme: i lavoratori saranno al tempo stesso vessati (come nell’approccio statalista) ed abbandonati (come nell’approccio di mercato). Un capolavoro di cecità politica.

Nell’ultimo contratto per i lavoratori pubblici viene garantito un bonus di 20 euro agli statali più poveri. Siamo di fronte a un nuovo caso di quello che lei chiama “Reddito Arlecchino”?

Sì, una misura del genere va esattamente nella direzione sbagliata: qualsiasi proposta seria di contrasto alla povertà dovrebbe assorbire e unificare su base nazionale tutti i sussidi (anche di natura locale) preesistenti, se non altro per ragioni di equità. E inoltre dovrebbe cercare, in qualche modo, di tenere conto delle enormi differenze territoriali nel livello dei prezzi, anche qui innanzitutto per ragioni di equità (anche se, secondo alcuni, una differenzazione dei sussidi su base territoriale potrebbe sollevare problemi di costituzionalità). Fra le proposte esistenti solo il “minimo vitale” dell’Istituto Bruno Leoni tiene conto del livello dei prezzi.

La Germania è ripartita dopo che con la riforma HartzIV ha rivisto in senso restrittivo il sistema dei sussidi. La politica italiana avrebbe la forza di prendere una decisione simile?

No, ma comunque non basterebbe (ammesso che fosse giusto: il nostro sistema di sussidi non è troppo generoso, semai ha un problema di mancati controlli). Per far ripartire l’Italia non basta riformare il mercato del lavoro, un punto su cui mi sento di condividere alcune obiezioni sindacali.

Con la disoccupazione che cresce tra i quarantenni, non sarebbe il caso di utilizzare queste risorse per processi di outplacement?

Ho i miei dubbi: finché non si torna a tassi di crescita sostenuti (almeno il 3%) accanirsi sul collocamento è una fatica di Sisifo. Tanto più che, spesso, il problema delle imprese non è il mancato incontro fra domanda e offerta di lavoro, ma semplicemente il fatto che, per certe competenze (specie tecniche), l’offerta di lavoro semplicemente non c’è, o è insufficiente.

Può l’apparato burocratico italiano, arretrato e frastagliato viste le diverse competenze concorrenti, gestire e far funzionare processi come questi?

No, la burocrazia è una delle due grandi palle al piede dell’Italia (l’altra sono le tasse sui produttori), e un handicap del genere non si neutralizza in pochi anni.

Intervista a cura di Francesco Pacifico pubblicata da Il Mattino il 28 dicembre 2017