Perché la ‘filosofia della guerra’ è più umana della ‘filosofia della rivoluzione’

Il ricordo—non le celebrazioni che non ci sono state—della vittoria italiana nella Grande Guerra è stato l’occasione per riaprire le cataratte della retorica buonista nazionale. «Mai più inutili stragi!», «Mai più guerre!». «La guerra è sempre la soluzione peggiore!». Se si pensa a un conflitto armato tra superpotenze dotate di terribili arsenali atomici, non si può che essere d’accordo. Oggi la guerra può rappresentare la fine della vita sulla terra o, comunque, ridurre il pianeta in uno stato simile a quello descritto da Robert Altman nel film ‘Quintet’ del 1979. Tale evidenza, tuttavia, è tale per il presente ma si capisce assai meno per il passato. Qual’ è la ragione reale che induce i pacifisti in servizio permanente effettivo a ritenere che la guerra sia sempre stata il peggiore dei mali? Non vedo, all’interno di un’etica cristiano-illuministica, che una ragione sola: l’erogazione di violenza, accompagnata dalla distruzione di vite umane, di paesaggi naturali e artificiali prodotti nei secoli con enorme dispendio di risorse economiche e intellettuali, di opere architettoniche che, senza la guerra, avrebbero sfidato i secoli, di edifici civili, di chiese, di biblioteche, di monumenti dell’arte, di laboratori della scienza. Sennonché se si tratta di questo, non c’è qualcosa di ancora più terribile della guerra nella rivoluzione? Se parliamo del conteggio dei morti, della fame, della carestia, del saccheggio, dell’abbattimento delle case e dei luoghi di culto, della demolizione dei simboli del regime politico abbattuto, la rivoluzione appare oggettivamente ancora più esecrabile della guerra. Nella sola Russia sovietica sono perite, in pochi decenni, più del doppio delle persone cadute nella Grande Guerra o nell’insensata guerra dell’Asse. La Rivoluzione cinese sembra sia costata alla popolazione civile più di trenta milioni di ‘nemici del popolo. La stessa ‘Grande Rivoluzione’ ha causato in Francia (e in Europa) un numero di morti maggiore di quello che si era avuto nelle guerre dinastiche per l’egemonia da Richelieu a Luigi XVI.

Quel che è peggio, però, non è la quantità dei trapassati a miglior vita bensì il carattere ideologico, religioso, spietato, fondamentalista, della rivoluzione. Le guerre d’ancien régime—che non s’intende certo idealizzare—scaturivano da un mero conflitto di interessi: ciascun esercito combatteva per the King and the Country e i nemici—specie se ufficiali superiori—si sentivano parte di uno stesso corpo professionale, caratterizzato da uno specifico senso dell’onore, che imponeva il rispetto del ‘collega’.«Messieurs les Anglais, tirez les premiers !», sono rimaste celebri le parole pronunciate nella battaglia di Fontenoy (1745).’La Grande illusione’ di Jean Renoir (1937) resta ,forse, l’espressione più toccante di quel ‘mondo di ieri’ in cui erano ancora immersi i due aristocratici protagonisti del film– il comandante della prigione tedesca, il capitano von Rauffestein (Erich von Stroheim) e il suo prigioniero francese, il capitano Boeldieu (Pierre Fresnay)–ma che non riusciva a comprendere, per le sue origini borghesi, l’altro prigioniero francese, il tenente Marèchal (Iean Gabin).

E’ con la Rivoluzione francese, in effetti, che inizia the Great Transformation. Gli eserciti che si battono contro la reazione esterna e interna non inalberano la bandiera della ‘Ragion di Stato’—che, in quanto ragione con la erre minuscola, conosce l’arte della prudenza e la capacità dell’autolimitazione non in nome della morale ma dell’«interesse bene inteso»—bensì il vessillo dei «diritti dell’uomo e del cittadino» che porta a riguardare i nemici come agenti della Reazione, espressioni del Male assoluto, della negazione radicale dell’eguaglianza, della libertà e della dignità di tutti i Figli della Terra. La violenza non viene ora avvertita come una ineliminabile necessità ma come la giusta punizione dei corrotti e dei depravati che vogliono fermare il corso della storia. Non ci sono più ragioni al plurale ma c’è solo la Raison al singolare–e con la lettera maiuscola–che impone di bonificare il terreno della conquistata libertà dai parassiti e dalle cattive erbacce che, nel corso dei millenni, hanno impedito di trasformare il pianeta nel giardino sognato dagli utopisti. E’ l’eticizzazione (e, in seguito, la giuridicizzazione) del conflitto che rende, de facto, la rivoluzione, nel suo corso, più disumana della guerra, giacché nessuna Convenzione di Ginevra ne limita e contiene la violenza. Quando il nemico è un criminale nessuna pietà può muovere chi lo cattura e se, nondimeno, riesce a salvarsi (per essere portato dinanzi a un tribunale) ciò avviene per la sopravvivenza di antichi codici d’onore nel vincitore. Non è causale che durante la nostra guerra civile—la Resistenza—i partigiani provenienti dall’esercito siano stati meno spietati di quelli provenienti dai partiti (v. le memorie di Edgardo Sogno e di Alfredo Pizzoni); e che un fenomeno analogo si sia registrato nella ‘Guardia Repubblicana’ di Salò in cui i membri della Milizia o del disciolto PNF andavano meno per  le spicce rispetto ai soldati dell’ex esercito regio.( E’ la testimonianza–da me raccolta–di ufficiali che, vivendo al nord, si erano ritrovati nel territorio della Repubblica Sociale e che ad essa avevano dovuto aderire)

Ci si pone, allora, la domanda: se la quantità della violenza erogata e la sua stessa modalità avrebbero dovuto indurre a temere più la rivoluzione che la guerra, perché i costi della prima sono stati rimossi al punto da farne un evento da santificare (anche quand’è finita male, come nel caso del 1917) mentre la seconda è rimasta sempre la cloaca massima in cui si riversano tutte le fogne infernali della terra? Il motivo sta nel fatto che in una società caratterizzata da una political culture lontana dal realismo, e sommamente indulgente per tutto ciò che sa di—o si richiama al– ‘progresso’, contano soprattutto le intenzioni. Le rivoluzioni si fanno (o almeno così si pensa) per ragioni ideali, per liberare gli uomini dall’oppressione aristocratica o dalla tirannide borghese, mentre le guerre traggono origine dagli interessi e gli interessi non sono valori ma appetiti egoistici. Incendiare le case degli sfruttatori del popolo può essere riprovevole ma è, nondimeno, manifestazione di altruismo: difendersi (con le armi) da quanti vogliono toglierci il posto al sole o prevenirli nell’occuparlo non ha alcuna giustificazione, è manifestazione di nazionalismo e di sopraffazione, anche in presenza di un’oggettiva volontà di sopraffazione da parte degli Stati vicini e concorrenti—gli stati, diceva Benedetto Croce, sono leviatani dalle viscere di bronzo.

«La guerra non ha mai risolto nulla?». In un certo senso è vero, se i due conflitti mondiali hanno ridisegnato la cartina dell’Europa e del mondo, non sono riusciti poi a ridisegnarla in meglio, almeno in ogni loro parte :il vecchio continente nel 1918 assistette, in molte aree, all’affermazione del ‘principio di nazionalità’, al crollo degli Imperi centrali e dell’autocrazia zarista ma, nella voragine di potere aperta dalla Grande Guerra, si sarebbero ben presto installati regimi totalitari così disumani da far impallidire il ‘dispotismo asiatico’ di Montesquieu.

Sennonché «che cosa ha risolto poi la rivoluzione?» Il bilancio della rivoluzione sovietica è stato—anche per storici decisamente schierati a sinistra come Eric J. Hobsbawm—del tutto fallimentare e sulle sue macerie, quarant’anni fa, è nato un regime politico democratico-autoritario che solo vendendo all’estero le sue materie prime riesce a evitare la bancarotta. E quanto alla Francia, madre di tutte le rivoluzioni moderne si sarebbe, forse, trovata peggio senza il Terrore giacobino, la dittatura napoleonica, e il vorticoso avvicendarsi di repubbliche e monarchie? Sono domande che in nessuna scuola della Repubblica possono venir poste senza prestarsi all’accusa di disfattismo democratico se non di reazione. Eppure i fatti sono quelli e stanno lì più duri dell’acciaio.

A mio modesto avviso, per dirla brutalmente e senza nessuna preoccupazione per il politically correct, non saremo mai una democrazia  liberale a norma se non sostituiamo la “filosofia della guerra” alla “filosofia della rivoluzione”, se non ci rassegniamo a vedere nell’avversario uno come noi, che ha interessi diversi dai nostri–e talora componibili solo con le armi (le armi della scheda elettorale, non quelle militari)–ovvero se non rinunciamo a considerarlo un essere moralmente inferiore, da schiacciare senza pietà. Nella ‘filosofia della rivoluzione’ c’è l’idea della mela marcia, del virus letale che infetta una società (naturaliter) sana, nella ‘filosofia della guerra’, c’è, sostanzialmente–venata di scetticismo humiano–l’idea dell’eguaglianza per cui sui due lati della barricata ci si aspetta di trovare lo stesso materiale umano.

 




Il video su Battisti, solo colpa della politica?

La gestione del caso Battisti, con tanto di video che umilia il detenuto e mette a rischio l’incolumità degli agenti che lo hanno catturato, non ha nessuna giustificazione. E’ pura spazzatura politica, un gesto che squalifica chi lo ha compiuto e avvilisce chi ancora crede in cose come lo Stato di diritto, il senso delle istituzioni, il valore della sobrietà e della misura. Aggiungo che trovo incredibile che, sui media, già si parli di benefici e sconti di pena, come se una latitanza di 37 anni non fosse già, di per sé, uno sconto di pena più che soddisfacente. Ed è altresì vero che, nonostante alcuni precedenti imbarazzanti (ricordate le foto del detenuto Enzo Tortora?), nulla di simile si era mai visto in Italia.

Detto questo, però, non riesco a non farmi una domanda: lo spettacolo che ci è stato offerto in questi giorni va messo interamente in conto alla politica, al suo imbarbarimento, alla sua degenerazione in salsa populista?

O dobbiamo registrare che, rispetto anche solo a 10 anni fa, è il nostro mondo che è completamente cambiato? O, per dirla in modo provocatorio: non sarà che la politica si limita a mostrarci, nelle sue conseguenze estreme, quel che un po’ tutti stiamo diventando?

Non so se ci avete mai fatto caso ma, da qualche tempo, nelle nostre vite si sta installando un rapporto del tutto nuovo fra l’esperienza e la sua condivisione. Fino ai primi anni del secolo scorso la maggior parte di noi faceva quel che faceva per i motivi più diversi e poi – solo poi ed eventualmente – decideva che qualcosa di quel che aveva fatto meritava di essere condiviso. Una piccola frazione della nostra esperienza poteva oggettivarsi in uno scritto, in una foto, in un video, in un racconto, il resto restava privato, in disparte, irrilevante, o semplicemente non abbastanza rilevante da avanzare la pretesa di essere diffuso, socializzato, o gridato al mondo. Oggi questo schema è capovolto: facciamo determinate esperienze per poterle condividere, o per suscitare ammirazione e invidia negli altri. E quel che non possiamo condividere, o non ci permette di ostentare noi stessi, ci appare per ciò stesso irrilevante, banale, noioso. E c’è persino chi lo teorizza: quando la povera Tiziana Cantone si suicidò per le sue foto hard fatte circolare in rete, ci fu anche chi ebbe il becco di spiegare che fare sexting (mettere in rete foto audaci di sé stessi, o dei propri rapporti sessuali) fosse “assolutamente normale”, qualcosa che poteva apparire stonato solo a retrogradi e bacchettoni incapaci di sintonizzarsi con lo spirito dei tempi.

Accade così che ognuno di noi sia non solo indotto a fare soprattutto e prima di tutto quel che potrà condividere, ma anche continuamente invaso, quasi sopraffatto, dalle esperienze altrui, per lo più via internet: foto, messaggini, mail, pubblicità, video, app, quasi sempre banali, seriali, per lo più significative solo per il mittente. Voglio dire che mettere in rete sé stessi è diventato quasi un riflesso automatico. Pensare sé stessi come autori di una sceneggiatura, nonché registi di una pièce che dovrà avere la massima audience, è diventata una sorta di seconda natura. Possiamo stupirci che i politici sentano il medesimo impulso? Possiamo illuderci che qualcosa come il decoro, il buon gusto o il senso delle istituzioni li possa frenare?

Dopo tutto la loro vita e le loro gesta sono infinitamente più rilevanti delle nostre, e la loro sete di consenso è infinitamente più insaziabile delle nostre quotidiane pulsioni. Questo certamente non li giustifica e non li assolve, ma ce li mostra più vicini a noi stessi di quanto siamo disposti ad ammettere.

Né si tratta solo del cattivo gusto, dell’invadenza, che sono impliciti in ogni eccesso di condivisione. Ci stupiamo del fatto che i politici si insultino, trattino il nemico come avversario, cerchino di sopraffare ogni interlocutore che non li asseconda. Ma forse dovremmo riflettere sul fatto che la stessa “volgarità di parola e di pensiero”, come la chiama Enrico Letta nel suo ultimo libro (Ho imparato, Il Mulino), è onnipresente: non solo negli haters, gli odiatori di professione che infestano la rete, ma anche nei media: trasmissioni radiofoniche scientemente costruite sul turpiloquio e il disprezzo, conduttori televisivi che aizzano i politici l’uno contro l’altro, dibattiti in cui c’è spazio solo per chi è capace di sopraffare l’interlocutore.

A tutto questo ci siamo abituati, al punto che non ce ne accorgiamo più, lo consideriamo naturale, fisiologico. Forse ci diverte persino. Per questo la sacrosanta indignazione di tanti commentatori per la strumentalizzazione del ritorno di Battisti da parte del governo giallo-verde è destinata a restare lettera morta. Indignati con la politica, hanno perso la capacità di vedere l’abisso in cui è caduta la vita quotidiana al tempo della condivisione. Eppure è di lì che è giocoforza partire: solo quando cose come insulti, volgarità, sexting, ostentazione, sciatteria avranno smesso di apparirci cose “normalissime”, diventeremo capaci di vedere a occhio nudo, senza editorialisti che ce lo spiegano, il degrado cha affligge la politica e le istituzioni.

 




Un caso inequivocabile di antifascistite acuta

 Alberico Giostra non è uno dei tanti che scrivono su Facebook o su riviste on line lette da pochi intimi—parenti e amici. Ha lavorato al Tg La7 e scritto su ‘Liberazione’, ‘Il Manifesto’, ‘Il Riformista’, l’’Espresso’ e ‘Diario’. Nel 2007 ha pubblicato un’inchiesta su Clemente Mastella nel volume collettaneo, I nostri ponti hanno un anima, nel 2009, Il Tribuno. Storia politica di Antonio Di Pietro, nel 2013 l’e-book, Di Pietro ultimo atto. La caduta del Tribuno e nel 2018 Il partito del F.Q. Chi trova un nemico trova un tesoro, un feroce attacco al ‘Fatto Quotidiano’. Da tempo lavora alla RAI ovvero nell’ente pubblico che svolge un ruolo decisivo nell’informazione e, volente o nolente, nella formazione culturale degli italiani—qualche anno fa si sarebbe detto nella nazionalizzazione delle masse—e che, pertanto, dovrebbe fare una politica delle assunzioni particolarmente prudente e severa. L’8 gennaio Giostra ha postato su Facebook queste sue riflessioni: «Il pugile professionista che a Parigi si scaglia con violenza contro il poliziotto a terra, l’aggressione dei neofascisti di Forza Nuova contro il giornalista dell’Espresso, Federico Marconi, al Verano, dimostrano non solo che il fascismo non è un’ideologia ma un reato, ma che il fascismo è ed è sempre stato nient’altro che un orpello retorico per attribuire una miserabile logica politica ai più beceri istinti di violenza e sopraffazione. Si diventa fascisti perché si ha voglia di menare le mani, non per difendersi da qualche minaccia. Si diventa razzisti e omofobi perché si odiano i diversi da noi, non perché neri e omosessuali minaccino qualcosa o qualcuno. Si diventa antiabortisti perché si odia la libertà delle donne non per salvare la famiglia. Si diventa giustizialisti perché si è mossi dal sadico piacere di vedere ridotto alla gogna o condannato qualcuno, non per riaffermare una qualche presunta giustizia. Si diventa fascisti perché si ama la menzogna, perché la prima violenza il fascismo e i suoi fiancheggiatori la commettono contro la verità».

 Vale la pena occuparsi di queste farneticazioni? L’obiezione che mi è stata fatta da un amico giornalista al quale avevo manifestato il mio stupore dinanzi a tante banalità ideologiche, è tutt’altro che infondata. Sennonché è difficile trattenere lo sconcerto se si pensa che, piaccia o no, la mens di Giostra è la stessa di tanta, tantissima, parte della nostra political culture: i suoi giudizi   sono moneta corrente nelle nostre facoltà umanistiche, nei mass-media, nelle pagine culturali dei grandi quotidiani nazionali, nei tribunali dell’ANPI, quelli che hanno dato notizia della morte di Giorgio Albertazzi col comunicato Un bastardo ci lascia e hanno contribuito a stendere un velo di silenzio sul 1918—l’inutile strage voluta da una minoranza cieca e violenta. Pubblicisti come Giostra, in realtà, non sono da sottovalutare: rappresentano, infatti, un case study esemplare che consente di mettere a fuoco la degenerazione dell’antifascismo in antifascistite acuta e le ragioni del discredito odierno che tale repellente metamorfosi getta sulla più nobile delle cause politiche, quella della lotta per la libertà dei popoli e in difesa della dignità umana.

A chi da una vita si occupa di fascismo, sulla scia di grandi storici e filosofi del XX secolo—da Renzo de Felice ad Augusto Del Noce, da Ernst Nolte a Domenico Settembrini—il post di Giostra fa un effetto terribile e sconvolgente. Dà il senso dell’assoluta inutilità di una ricerca storica che, sulle due rive dell’Atlantico, ha segnato momenti fondamentali per l’evoluzione stessa della democrazia liberale: non è casuale che il revisionismo storiografico—che ha avuto in De Felice il suo simbolo per antonomasia—abbia ridato nuovo vigore intellettuale al liberalismo contemporaneo, ispirando, ad es., opere come Il passato di un’illusione del grande storico François Furet, prematuramente scomparso, e abbia ridestato l’attenzione  sulla produzione saggistica di Raymond Aron, il principe del liberalismo novecentesco, quasi un revisionista ante litteram per i suoi studi sulle destre—conservatrice e radicale. Leggere che « il fascismo non è un’ideologia ma un reato» e che « il fascismo è ed è sempre stato nient’altro che un orpello retorico per attribuire una miserabile logica politica ai più beceri istinti di violenza e sopraffazione» significa trasmettere alle giovani generazioni, avide frequentatrici di facebook, un’immagine della dittatura italiana che avrebbe fatto trasalire persino il Palmiro Togliatti delle Lezioni sul fascismo (il celebre ciclo di conferenze tenuto dal Migliore a Mosca tra il gennaio e l’aprile 1935) per non parlare del Gramsci dei Quaderni.

 Con Giostra siamo ancora nella fase preanale della riflessione sui movimenti totalitari di destra, segnata dall’autocompiacimento per le proprie secrezioni etico-emotive e dall’estraneità assoluta all’etica weberiana della ricerca, che distingue analisi e valutazioni, scienza e coscienza. Sennonché l’auogratificazione di chi si sente immune dai «più beceri istinti di violenza e di sopraffazione» ha un costo elevato: la cancellazione della realtà, l’incapacità di riconoscere che, per tanti anni, una parte rilevante della società italiana ha plaudito al duce e che tanti illustri intellettuali—da Giovanni Gentile a Luigi Pirandello, da Gioacchino Volpe a Guglielmo Marconi —hanno visto in lui il pater patriae, il salvatore di una  ‘comunità nazionale’ dilacerata non tanto dai problemi enormi della ricostruzione postbellica quanto dall’irresponsabilità politica dei principali partiti e sindacati  privi del senso delle istituzioni e restìi  a mettere da parte i loro contrasti per salvare natura e funzioni dello Stato di diritto.

 Se si definisce fascista   chi ha voglia di ‘menar le mani ’non ha più senso alcuno lo sforzo di comprensione dei nostri avversari: alla violenza si reagisce con la violenza senza perder tempo in inutili chiacchiere. Come nel vecchio western ,vince chi spara per primo e Giostra si candida a pistolero (per ora solo verbale) al servizio della Dodge City antifascista. Sennonché, nel suo concetto allargato di fascismo, tutto diventa species  del genus.« Si diventa razzisti e omofobi perché si odiano i diversi da noi, non perché neri e omosessuali minaccino qualcosa o qualcuno»: in altre parole, se si è contrari alle nozze gay e, soprattutto, all’adozione gay (ma non al riconoscimento giuridico delle coppie di fatto) in nome di una visione tradizionale della famiglia non si è portatori di valori diversi da quelli di Giostra e del ‘Manifesto’—valori ereditati appunto dalla Tradizione  contrapposti ai valori  nati dal Progresso–:si diventa la mela marcia fascista che una società civile è tenuta ad espellere dal suo paniere. Del pari, se si è «antiabortisti perché si odia la libertà delle donne non per salvare la famiglia» ,le riserve manifestate da Norberto Bobbio nei confronti dell’interruzione della gravidanza vanno lette come senescenza senile, oscuramento dell’intelligenza morale.

 La sindrome totalitaria può definirsi come la malattia dello spirito che tende a fare un solo fascio di quanti non la pensano come noi e a squalificare a priori le distinzioni nel campo di Agramante che fanno perdere solo tempo. Tra il seguace del ‘Movimento per la vita’—che legittimamente, peraltro, si batte contro l’aborto—e il liberale laico che assimila l’aborto a un omicidio ma ritiene che lo sconvolgimento di vita della madre sia da tenere in maggiore considerazione della pur dolorosa soppressione di una esistenza non ancora sbocciata, non c’è nessuna differenza. Tra chi si lamenta di un’immigrazione che degrada e rende insicuri i quartieri   delle metropoli (e non sono certo quelli ricchi) e l’incappucciato del Ku Klux Klan c’è solo un diverso grado di temperatura razzista.

«Si diventa giustizialisti perché si è mossi dal sadico piacere di vedere ridotto alla gogna o condannato qualcuno, non per riaffermare una qualche presunta giustizia». Per chi sa come va il mondo—anche se non ha fatto il militare a Cuneo—l’universo morale è sempre in bianco e nero: nessun sospetto, pertanto, che nella pur detestabile categoria dei giustizialisti ci siano persone che non godono affatto (o godano poco) nel vedere qualcuno alla gogna ma che pensano a torto (dal mio punto di vista liberale) che una giustizia rapida e implacabile debba difendere la società dei corrotti e dai violenti, senza andar troppo per il sottile. Tutti fascisti, insomma, tutti parte della massa damnationis che Giostra vuole sprofondare nelle fogne! Siamo passati dalla scala f  ||f sta per fascismo|| della personalità autoritaria—la ricerca collettiva del 1950 guidata, negli Stati Uniti, dall’esule T. W. Adorno– il discusso fondatore della Scuola di Francoforte ma pur sempre erede della grande tradizione filosofica tedesca—al Fascistometro (ed. Einaudi) proposto dalla dilettante allo sbaraglio Michela Murgia, una sarda alla quale i media hanno dedicato un’attenzione a dir poco eccessiva (ed avvilente per i seri cultori delle humanities)

 Forse per aver il senso della complessità della vita e della tremenda difficoltà cui va incontro la smania dell’etichettatura ideologica bisognerebbe aver letto Montaigne e Hume—a mio avviso, da considerare padri nobili del liberalismo a maggior titolo degli stessi Locke e Montesquieu–: potrebbero essere un antidoto contro la tentazione—così forte in quanti ,da noi, si occupano di politica, a destra e sinistra—del fondamentalismo etico-politico per il quale finché c’è guerra (civile) c’è speranza. Sennonché in Italia i due classici dello scetticismo moderno—Montaigne e Hume, appunto—sono autori più ammirati che letti e, quand’anche venissero letti, servirebbero solo come armi contro la Tradizione e non certo come lame a doppio taglio in grado di scalfire le certezze del progressismo illuministico e del suo supposto punto di approdo: il comunismo sovietico.(i pochi filosofi humeani che ho conosciuto, ai tempi dell’Università, votavano tutti per il PCI, come i cd ‘filosofi analitici’ che della ‘grande divisione’ tra giudizi di fatto e giudizi di valore si riempivano la bocca, forse senza aver letto una sola pagina di Vilfredo Pareto, uno dei più grandi  sociologi del suo tempo che su quella divisione scrisse pagine definitive).

 L’obiettivo incitamento all’’odio per il diverso’ (la destra, il fascismo, il tradizionalismo etc. etc.) che si registra nel post di Giostra non poteva non concludersi con un monito esemplare: « Si diventa fascisti perché si ama la menzogna, perché la prima violenza il fascismo e i suoi fiancheggiatori la commettono contro la verità». A questo punto forse è inutile (e persino patetico) ricordare che, per l’homo europaeus, la politica e l’etica sono senza verità giacché la verità appartiene al dominio della scienza mentre la politica e l’etica sono fatti di coscienza e non devono stabilire che cosa è vero ma che cosa è giusto e per chi…E ancor più superfluo è rilevare ciò che per gli studiosi seri sarebbe la scoperta dell’acqua calda e cioè che la violenza politica contrassegna tutte le ideologie e i regimi totalitari e che riguardare il diverso alla stregua di un criminale ricorda personaggi come Lenin, Mao, Pol Pot—che i ‘libertari’ del ‘Manifesto’ contrapponevano al burocratismo del sedicente compagno Stalin, fascista il va sans dire.




Commento a Emanuele Felice. E dei rottamati sociali che ne facciamo?

Un osservatore acuto e attento delle cose italiane, Emanuele Felice, ha scritto un articolo, Serve un’idea di società (‘Repubblica’ 12 dicembre u.s.) che, come spesso accade, ha un incipit realistico e convincente che, però, quasi subito si perde nelle nebbie della retorica dei ‘buoni sentimenti’.

Scrive l’Autore, «I grandi partiti del Novecento hanno avuto un legame con il loro ‘popolo’ che andava ben al di là di singole proposte: era un’identificazione culturale, etica, filosofica, prima ancora che politica. Erano i grandi ideali. Era un sentimento di appartenenza che donava sicurezza e, per alcuni, addirittura senso alla vita». E’ difficile non essere d’accordo anche se si può rilevare che le ‘subculture’ ricordate erano vitali giacché si trovavano, per così dire, incastonate nell’anello dello Stato nazionale e sovrano, da cui traevano forza ed efficacia. In una comunità politica, incapace di assicurare la legge e l’ordine, i partiti finiscono per usurpare il potere che spetta all’autorità dello Stato, per definizione super partes, e il sentimento di appartenenza che essi ingenerano non è una risorsa per il sistema politico—v. i partiti storici in Inghilterra la cui dialettica veniva considerata così necessaria che l’opposizione al governo era detta l’opposizione di Sua Maestà—ma un fattore di instabilità e di anarchia che, alla lunga, vanifica  anche fedeltà che si ritenevano incrollabili (che fine hanno fatto i trinariciuti italici?).

Secondo Felice oggi solo i populisti hanno ereditato la capacità di aggregazione politica ed etica dei vecchi partiti, solo di essi si può dire che «appreser ben quell’arte». «Hanno un messaggio che fa leva sull’identità, non solo nazionale ma anche locale (anzi localistica) e attorno ad essa costruiscono un senso di appartenenza. I Cinquestelle vi aggiungono la pretesa dell’onestà e della retorica egualitaria. La Lega i valori della tradizione e, soprattutto, l’impegno a garantire la sicurezza e a preservare la ricchezza costi quel che costi, anche a scapito dei diritti umani». In realtà il rapporto tradizione/diritti non è così semplice da definire—in fondo, anche la tradizione è un diritto: quello a una scuola che insegni nella mia lingua la storia della mia gente, della sua letteratura, della sua arte etc. rinvia alla rivendicazione di un diritto o alla richiesta di un privilegio? Ma non è questo il problema. Il problema è un altro: siamo sicuri che Lega e Cinquestelle siano movimenti identitari che sanno di antico, fortemente radicati nella società italiana e preoccupati di conservare per le generazioni future i nostri ‘beni culturali’—paesaggi, monumenti, opere d’arte, valori letterari etc.—che giustificano il nostro essere e sentirci una ‘nazione’?

In realtà, non c’è nulla nella loro ideologia e nella loro prassi di governo che ci induca a pensarlo. Mazzini, Garibaldi, il Risorgimento erano evocati più dagli esponenti democristiani—la cui famille spirituelle, almeno nelle alte sfere vaticane, era rimasta a lungo nemica implacabile dello stato nazionale—di quanto non lo siano dalla classe politica gialloverde, che, in certe sue non trascurabili componenti, si mostra antirisorgimentista e pronta a credere a tutte le fandonie propalate dalla leggenda nera della conquista piemontese e della colonizzazione del (ricco e felicissimo) Sud. Ciò di cui si fanno carico gli odierni populisti—e non è certo una colpa—sono i vasti ceti sociali che si trovano in uno stato di crescente sofferenza in «un Paese in declino, economico, demografico e democratico» «davanti alle sfide della modernizzazione». Se venisse meno il pericolo della perdita di status sociale e di reddito, quei ceti tornerebbero a votare, sia pure senza troppa convinzione, per i partiti di una volta e continuerebbero a ignorare i simboli di Santa Croce e dell’Altare della patria, la cui venerazione non può essere imposta a colpi di decreti ministeriali, come negli stati totalitari.

Come molti (forse la stragrande maggioranza) degli intellettuali di sinistra, Felice è inorridito dall’ «idea di società chiusa e sulla difensiva» che hanno in mente i sovranisti ma non si pone la domanda cruciale: se la globalizzazione sconvolge i quadri sociali d’antan, se crea nuove fasce di povertà, cosa ne facciamo degli operai, artigiani, professionisti che a cinquant’anni escono dal mercato del lavoro e non sono in grado di riqualificarsi? C’è da scandalizzarsi se ad essi non rimane altra risorsa che quella del voto e se lo danno a quanti danno loro l’illusione di arrestare, sia pure per poco, il trend che è causa del loro disagio ‘esistenziale’ e della loro retrocessione sociale?

Ci troviamo di fronte a una politica (oggettivamente) ‘reazionaria’ e a un’economia (oggettivamente) progressista. Di qui la tentazione sansimoniana—che si avverte nelle critiche di politologi, di giuristi, di opinion makers dell’establishment, gelosi guardiani dell’etica pubblica e sacerdoti della dea della Modernità—di sottoporre a critica serrata la ‘democrazia dei contemporanei’; di qui la neppur velata nostalgia per le élite virtuose capaci di imbrigliare i moti disordinati delle ‘plebi’. In certi maitres-à-penser la diffidenza per il popolo sovrano cresce al punto da far pensare a nuove forme di ‘ordine civile’. Da liberale senza aggettivi, credo che la democrazia—che, nel nostro tempo, identifica la politica tout court—sia un valore ben più alto   dell’economia (lo ha fatto rilevare Ernesto Galli della Loggia in uno dei suoi penetranti editoriali di qualche settimana fa) e che solo essa sia in grado di garantirci dal dispotismo burocratico e dalla tirannia dei poteri forti. In fondo non di rado, nella storia, si è rivelata l’unica ramazza a disposizione del ‘popolo’ per disfarsi di oligarchie incancrenite e inefficienti. Se lo spazio della politica rimane ben delimitato e i diritti acquisiti (non i ‘diritti universali’ oggi inaspettato cavallo di battaglia dall’illuminismo liberista e individualista) e le tradizioni civili provvedono a impedirne l’invadenza, nulla è perduto e una politica economica sbagliata—tale mi sembra quella gialloverde ma decideranno in merito i prossimi anni—decisa da chi vorrebbe riportare indietro l’orologio della storia, può fare danni relativi.

 Quando lo stato nazionale era metaforicamente una ‘grande famiglia’ si avvertiva il dovere morale e collettivo di farsi carico di tutti i componenti ‘rimasti indietro’: il problema del Sud—checché ne dica la stanca retorica antipiemontese—assillò per un secolo tutti i governi italiani (compreso quello fascista, v. le grandi riforme progettate da Arrigo Serpieri). Oggi sembrano altri tempi: tutto è cambiato, ‘la patria è morta’ e, forse, tra le ragioni dell’insofferenza per il nostro Risorgimento nazionale—che accomuna tanti ‘spiriti forti’ di destra e di sinistra—potrebbe esserci anche questa arrière pensée: «stai a vedere che per il fatto di essere tutti italiani, dobbiamo dirottare verso politiche assistenziali—non solo l’assurdo reddito di cittadinanza ma altresì grandi opere pubbliche che danno lavoro—risorse finanziarie che, sui mercati mondiali, potrebbero assicurare guadagni tanto più elevati e sicuri?» Chi si sente ormai cittadino del mondo e si trova più a suo agio a Parigi, a Londra, a Berlino che nel suo quartiere romano pieno di problemi, tra buche e alberi che cadono, perché dovrebbe preoccuparsi più di tanto se la terza, la quarta rivoluzione industriale seminano povertà e disoccupazione? «Mica si vorrà tornare alle insurrezioni luddiste?». Si rottamano i partiti, si rottamano i mestieri e quanti li esercitano in pura perdita.

In un illuminante articolo pubblicato dalla ‘Rivista di analisi politica, economica, geopolitica’ Atlantico,Trump il presidente operaio e il “Republican Workers Party” (11 dicembre u.s.), lo storico e commentatore politico, Marco Gervasoni, ha scritto «Cosa vogliono i globalisti progressisti? La distruzione della società e la sua sostituzione con un ordine in cui solo gli individui desideranti dominino. Ma poiché gli individui desideranti finiscono, proprio perché tali, per collidere tra di loro, questo eden libertario si trasformerebbe in un quadro boschiano (da Bosch, ovviamente…), una società dominata dalla criminalità e dall’ordine tirannico imposto da eserciti privati preposti a proteggere coloro che ce l’hanno fatta, una ristretta e corrotta oligarchia liberale. Quella oligarchia che secondo F. H. Buckley, nel recente libro “The Republican Workers Party”, assomiglia a quella dell’ancien regime francese e che oggi è legata come una cozza allo scoglio ai partiti di sinistra e ai media, e non solo negli Stati Uniti». Il quadro è eccessivo e catastrofico ma i timori sono reali e le loro percezioni sono ‘fatti’, che non si possono ignorare.

Felice non è certo un ‘tagliatore di teste’ ed anzi affida al campo riformista (che non si sa bene cosa sia) il compito di «proporre un’idea alternativa a quella populista»: un’idea che, come quella populista sia in grado di «cementare un’appartenenza e un legame, ricostruire una comunità». Si tratta, a suo avviso, di orientare le loro politiche verso quattro punti cardinali: redistribuzione della ricchezza, innovazione, ambiente, diritti».

Vaste programme! avrebbe commentato il Generale, ma ormai le parole, sul mercato della politica, hanno lo stesso prezzo dei sacchetti di sabbia in vendita nel Sahara. «E’ peraltro evidente, rileva Felice, che questi grandi nodi si possono sciogliere solo in una prospettiva globale, creando un «legame di sentimenti niente affatto localista, ma proprio come per i grandi valori storici della sinistra, universale, in cui la prima appartenenza è quella, più alta, all’umanità in quanto tale». E siccome tutti i salmi finiscono in gloria, l’articolo non poteva concludersi che con un richiamo agli «ideali più belli cui l’umanità ha creduto in tutta la sua storia|…|Gli ideali della nostra Costituzione. E quelli inscritti nella Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo, approvata dalle Nazioni Unite proprio sessant’anni fa» Se si fosse trattato della trascrizione di un intervento in Parlamento o in un Convegno internazionale sui diritti umani, il dattilografo avrebbe riportato tra parentesi e in corsivo: vivissimi applausi, ovazioni prolungate. Ma la realtà effettuale in cui sta la politica è altra cosa e ben più seria e tragica.

Se la globalizzazione avanza inarrestabile tra lati buoni—in fondo realizza la ‘sovranità del consumatore’ che paga meno i soliti beni di consumo ma anche i manufatti più durevoli, dai vecchi elettrodomestici ai nuovi, sempre più irrinunciabili, strumenti elettronici della comunicazione audiovisiva—e ricadute preoccupanti— si pagano bene i generi alimentari ma non si riscuote più l’affitto dell’ inquilino il cui negozietto è stato rovinato dall’apertura del supermarket (anche la ‘sovranità del produttore’ è un valore da mettere nel conteggio)—stravolgendo “l’habitat” (relativamente) sicuro al quale ci eravamo abituati, un’altra minaccia incombe sulla ‘comunità’ collegata anch’essa all’essere diventato il mondo una unità indivisa di produzione e di scambio. Ed è il problema dei problemi del nostro tempo: i cambiamenti climatici che con la globalizzazione condividono la ‘portata universale’ ma non sono legati ad essa da un rapporto di solidarietà: se dovessero mettersi in regola con le norme anti-inquinamento, infatti, le società multinazionali sarebbero costrette a sopportare più elevati costi di fabbricazione, diminuendo i loro profitti. Non a caso, anche da noi, i giornali proglobal tendono a far passare come bufale gli allarmismi ambientali—ignorando che i cambiamenti ci sono, producono catastrofi naturali, e che indipendentemente dalle loro cause, umane o ‘astrali’, comportano enormi investimenti infrastrutturali.

Felice, che non ignora il problema e che esalta i Verdi tedeschi che «hanno saputo offrire un nuovo orizzonte ai cittadini: puntare sulla qualità della vita, tradurre la ricchezza in benessere in una visione cosmopolita ed europeista» commuove quasi per il candore con cui considera le cose buone tutte solidali e compatibili e non dubita affatto che la ragion europeista sia del tutto in armonia con la ragion cosmopolitica.

Il fatto è che, nel nostro paese sembra essersi estinta la progenie dei grandi realisti alla Vilfredo Pareto. O almeno si è estinta più tra gli accademici che tra i giornalisti che osservano ‘sul campo’ i processi politici e le dinamiche sociali e che, non di rado, hanno il coraggio di dire come stanno davvero le cose. In un lucidissimo articolo, Macron dimentica la lezione Usa, pubblicato su ‘Repubblica’ il 12 dicembre u.s., Federico Rampini–non un inviato del ‘Giornale’–ha sostenuto la tesi che «la dinamica del tumulto francese» anti-Macron «è la stessa che contribuì alla vittoria di Trump negli Stati Uniti. Sullo sfondo c’è la difficoltà a praticare un ambientalismo socialmente sostenibile». Rampini–genovese come Pareto–ha ironizzato su quanti parlano a Trump «di Green Economy in termini astratti, fingendo che l’Ohio sia la California, fingendo che un minatore 55enne si possa riconvertire con la bacchetta magica per farne un ingegnere di software, un inventore di app, un creatore di start up. «La sinistra salottiera» ha smesso di parlare ai ceti penalizzati dalla globalizzazione. Proprio «come Hillary». Rampini è uomo di sinistra ma non si nasconde i problemi: «Rinunciare alla lotta contro il cambiamento climatico sarebbe un suicidio. Però le sinistre devono trovare un’idea convincente, che parli a chi deve arrivare alla fine del mese». E’ un fatto che per i Salvini votino ormai i quartieri operai e che in quelli alti le ‘sinistre rispettabili’ (il molto saggio Sabino Cassese ne è l’indiscusso leader intellettuale) riscuotono ormai sicuri consensi. Dei bisogni di ordine e di sicurezza—per soddisfare i quali era nato lo stato moderno hobbesiano—le vecchie sinistre non sanno nulla e delle piccole rivendite di un tempo che chiudono l’una dopo l’altra, degli appartamenti comprati dai piccoli borghesi con i risparmi di una vita e che non valgono più niente con l’invasione dei poveri (più poveri di loro) che arrivano dal terzo mondo, mostrano che non gliene frega più di tanto (anzi spesso indulgono alla retorica dell’accoglienza, di un’accoglienza, ovviamente, come si diceva un tempo dei missili: ‘non nel proprio giardino’). «Il riformismo, sentenzia Felice, non deve inseguire i sovranisti sul loro terreno» Sono d’accordo ma temo che intendiamo cose diverse: per me quel consiglio significa che il riformismo deve sforzarsi di trovare il modo di risolvere i problemi sui quali i populisti si giocano le loro fortune elettorali. Quando Felice invita «a non inseguire i sovranisti sul loro terreno» sembra credere, invece, che essi agitino paure e fantasmi scaturiti dalla più spregevole demagogia ma ai quali non corrisponde nulla di reale.

Il dramma (o, forse, sarebbe meglio dire la tragedia) del nostro tempo sta nella difficoltà di tenere in equilibrio i vantaggi della globalizzazione e gli interessi delle comunità, ambientalismo (ormai da tempo questione planetaria) e occupazione individuando un difficilissimo e problematico «ambientalismo socialmente sostenibile». Chiudendo il suo articolo, Rampini non si risparmia una stoccatina a quel Macron che tanti entusiasmi aveva suscitato in Italia, da Carlo Calenda ai panglossiani del ‘Foglio’. «Propaganda a parte Macron non è mai stato europeista né di sinistra. A Ventimiglia, Bardonecchia e Clavière si è comportato come un sovranista qualsiasi». Non a caso proviene dal mondo della Banque Rotschild ovvero dal mondo che più criminalizza la politica quando non asseconda le strategie finanziarie globali e trascura i sacri testi dell’economia classica.




Antigone rovesciata

Non sono un giurista. Quindi è possibile che quel che sto per dire verrà giudicato inappropriato, semplicistico, aberrante, contrario alla civiltà giuridica. Però sento la necessità di dirlo.

A Strasburgo, martedì sera, tre persone hanno perso la vita, altre lottano conto la morte, altre ancora sono rimaste gravemente ferite perché un giovane di origine nordafricana, nato in Francia, ha deciso di onorare così il suo Dio. O almeno così pare, se è vero quel che riferiscono i testimoni, ossia che è fuggito gridando “Allah Akbar”, Allah è grande.

Ora, agli attentati terroristici nel cuore dell’Europa purtroppo siamo ormai abituati da anni. Così come siamo consapevoli che non esiste un modo per renderli impossibili. Però c’è una cosa che non mi torna, come cittadino europeo. Le cronache riferiscono che il giovane Cherif Chekatt (così si chiama l’attentatore) era già stato condannato 27 volte, in Francia, in Germania e in Svizzera. Per reati comuni (nel senso di non legati al terrorismo), ma non certo di poco conto (truffe, violenze, rapine, furti, a quel che si apprende: ma solo il tempo ci dirà se è esattamente così). Pare che la polizia francese l’avesse schedato con la “fiche S”, ossia con il codice che contraddistingue i soggetti pericolosi (S sta per “sûreté de l’Etat”, sicurezza dello Stato), non necessariamente islamici o terroristi in erba. Si apprende, infine, che di soggetti così classificati, e quindi monitorati dalle forze dell’ordine, in Francia ve ne siano circa 26 mila. E che “ovviamente” non ci sono abbastanza poliziotti per controllarli tutti 24 ore su 24.

Ed ecco quel che non mi torna. Supponiamo per un attimo che nulla di tutto quel che si ritiene di sapere di Cherif Chekatt sia vero, salvo il fatto che è già stato condannato 27 volte. Supponiamo, per sgomberare il campo da ogni convinzione o pregiudizio su immigrazione, etnie, islam, terrorismo, che il nostro attentatore fosse semplicemente un giovane francese, figlio di francesi, bianco, mai prima coinvolto in fatti di terrorismo ma “solo” autore di 27 reati in 3 paesi europei. Ebbene, non vi sembra che, comunque, vi sarebbe qualcosa che non va?

Come è possibile che nella civilissima Europa, anche dopo la 26-esima volta che si commette un reato, ci si possa trovare perfettamente liberi, ovvero scarcerati per la 26-esima volta, pronti a commettere il nostro 27-esimo reato? Non c’è qualcosa di profondamente illogico in un ordinamento entro il quale tutto ciò non è l’eccezione, l’anomalia, l’errore che può scappare in una situazione-limite, ma è la norma, ovvero la logica conseguenza delle avanzatissime leggi che, in Italia come nella maggior parte dei paesi europei, abbiamo ritenuto di darci?

Adesso vorrei fare un passo di lato. Supponiamo che un fine giurista, un politico illuminato, o un sincero democratico, riescano a convincermi che tutto ciò è giusto, anzi è la giustizia stessa, è il senso della civilizzazione, e dunque gli Cherif Chekatt che, anziché stare in carcere, fanno stragi nei mercatini di Natale, sono semplicemente il prezzo della nostra libertà. Ebbene, anche se io ne uscissi convinto, anche se il mio rieducatore riuscisse a rieducarmi, io comunque una cosa non potrei non fargliela notare: tutto ciò che affermi è contro il comune senso di giustizia della gente normale; tutto ciò cozza contro i sentimenti che qualsiasi persona non accecata dall’ideologia prova; tutto ciò contraddice la “legge naturale”, al di là delle “norme positive” inventate dagli uomini. Perché non è naturale che una comunità non possa difendersi da chi ha ripetutamente manifestato la volontà di colpirla.

E’ la tragedia di Antigone, ma capovolta. Là, nella tragedia di Sofocle, Antigone rivendicava il diritto di seppellire il fratello Polinice in nome della legge naturale, contro la legge della città. Noi, oggi, ci troviamo nella situazione paradossale per cui la gente, in nome della legge naturale, vorrebbe che i criminali di professione stessero permanentemente in carcere, a tutela della comune città (civiltà) europea, mentre i governanti, che quella città dovrebbero difendere, scrivono leggi che non tengono in nessun conto il comune senso di giustizia. Il principio, sacrosanto, per cui a chi sbaglia non dovrebbe mai essere negata una seconda chance, viene dilatato e stravolto fino a stabilire, di fatto, il principio per cui ad ognuno dovrebbe essere data anche una terza, una quarta, una quinta, una sesta,.., una ventisettesima chance.

E’ abbastanza incredibile, ma sulla criminalità e sul terrorismo l’unica strategia che non viene mai presa seriamente in considerazione è l’incapacitazione: punire la recidiva rendendo il tempo di permanenza in carcere tanto più lungo quanto più numerosi e ripetuti sono i crimini commessi.

So bene che, in tempi di governi (e di maggioranze) populiste, quel che pensa la gente normale viene irriso dall’élite degli illuminati, e bollato come banale buon senso, quando non come anticamera dei peggiori sentimenti e delle peggiori ideologie. Ma agi illuminati io vorrei ricordare quel che Raffaele La Capria, ebbe a scrivere sulla differenza fra buon senso e senso comune: il buon senso è spesso opportunista e conformista, perché si adatta a quel che conviene pensare in quel momento e in quel luogo, magari solo perché tutti lo pensano o fingono di pensarlo; il senso comune è libero da pregiudizi perché ha il coraggio di vedere le cose per quello che sono, al di là delle costruzioni intellettuali con cui il potere cerca di ridescriverle (Lo stile dell’anatra, Rizzoli 2010).

Sulle politiche della sicurezza, quello della gente non è bieco buon senso, ma semmai intrepido senso comune. Io lo chiamerei “senso comune etico”, un naturale sentimento di giustizia che si erge a difesa della città minacciata, e poggia sulla capacità di vedere le cose per quello che sono diventate. E quel che la gente vede è semplicemente questo: che le regole della città si sono allontanate troppo, e troppo in fretta, dal comune sentire delle persone, e proprio per questo stanno mettendo a repentaglio la sopravvivenza della città.

Articolo pubblicato sul Messaggero del 15 dicembre 2018