L’anno che cambiò la politica
E’ passato esattamente un anno dalle ultime elezioni politiche. Anche se, sull’esito, ognuno la pensa a modo suo, credo che almeno su una cosa la pensiamo tutti allo stesso modo: nessuno, prima del voto di marzo, avrebbe immaginato un tale sconquasso nelle modalità della lotta politica.
Certo, si può obiettare che anche la realtà economico-sociale, in pochissimi mesi, è profondamente cambiata. Mai era successo, ad esempio, che il contrasto all’immigrazione irregolare fosse così rude. Mai era successo che la polemica con le autorità europee fosse così aspra. Mai era successo che politica economica fosse tanto assistenziale. E mai (tranne forse nel momento più acuto della crisi 2011-2012), era successo che le perdite patrimoniali, sia pure di tipo virtuale, del sistema-Italia fossero così ingenti e concentrate nel tempo (200 miliardi di euro fra marzo e ottobre).
E tuttavia, nonostante tutto questo, a me pare che il cambiamento fondamentale, forse irreversibile, sia avvenuto nel modo di fare politica e di comunicare con gli elettori. Lo spettacolo che la politica ha offerto dopo il 4 marzo 2018 è una prima assoluta, anche se innumerevoli assaggi forse avrebbero potuto farne presagire i contorni.
In questo spettacolo vi sono vari pilastri. Il primo è la credenza che si possa governare senza immergersi negli innumerevoli dossier che qualsiasi premier, vice-premier o ministro si trova a dover gestire. E che, tutto al contrario, sia normale allocare la stragrande parte del proprio tempo a coltivare il proprio elettorato e accrescere il consenso. Minniti una volta ebbe a dire che, anche avesse voluto, non avrebbe potuto lasciare il suo ufficio al Ministero dell’Interno tale era la mole di cose da fare. Salvini gli ha dimostrato che invece è possibilissimo, con quali conseguenze lo vedremo nel tempo.
Il secondo pilastro della nuova politica è la credenza che, per dirigere un ministero, né la competenza specifica né una robusta esperienza politica siano doti imprescindibili. E’ vero che di ministri incompetenti ve ne sono sempre stati, ma non era mai successo che fossero così numerosi, e non provassero la minima vergogna.
Il terzo pilastro è la credenza che il rapporto del politico con il proprio elettorato debba essere quotidiano, e persino più che quotidiano. E’ da qui che deriva l’assoluta centralità di internet: non potendo accedere tutti quanti per due-tre volte al giorno alla televisione e alla radio, i politici ricorrono a internet per “esserci” sempre, da mane a sera (e talora anche di notte). E lo fanno nei modi divenuti tipici della rete, con dosi crescenti di volgarità, cattivo gusto, disprezzo per chi la pensa diversamente.
Il quarto pilastro è la credenza che nessun rispetto sia dovuto alle altre istituzioni, autorità, corpi intermedi, né tantomeno ai legittimi rappresentanti di altri Stati o di organismi sovranazionali. Il governante di oggi pensa di potersi rivolgere alla Banca d’Italia o al Presidente di uno Stato estero come ci si può rivolgere alla suocera, al vicino di casa o al tifoso di un’altra squadra.
Ma il pilastro più importante, probabilmente, è ancora un altro, e sta nel concetto di “contratto” di governo. Qui l’innovazione è davvero radicale, perché capovolge quello che è stato il cardine della seconda Repubblica, ovvero il principio per cui è un diritto fondamentale dei cittadini conoscere prima del voto non solo i programmi dei partiti ma anche le loro alleanze. Questa, per venticinque anni, è stata l’ideologia centrale della seconda Repubblica, nonché la base delle sue pretese di superiorità rispetto alla prima. Contro le perpetue manovre parlamentari della prima Repubblica, la seconda ha sempre proclamato che le carte vanno scoperte prima, e che è immorale chiedere il voto agli elettori in nome di uno schieramento, per poi cambiare le carte in tavola una volta entrati in Parlamento.
Ora, con il contratto di governo, non solo si abbandona il principio che le alleanze si fanno prima del voto, ma si osa quel che nemmeno nella prima Repubblica si era mai osato: fare un governo con l’avversario politico, in nome di un “contratto” che non impegna i contraenti in un’alleanza politica, ma si limita a regolane gli scambi reciproci di favori nell’orizzonte di una singola legislatura. Nella prima Repubblica potevi non sapere se la Dc si sarebbe alleata con i socialisti o con i liberali, ma potevi star certo che non avresti visto un governo nazionale dei comunisti con i fascisti (quello che i politologi chiamano “milazzismo”, perché un simile esperimento fu attuato da Silvio Milazzo, nella sola Sicilia, alla fine degli anni ’50). Oggi no, la terza Repubblica va più indietro non solo della seconda, ma anche della prima, perché consente il tradimento completo delle identità e dei programmi elettorali delle forze politiche che firmano il “contratto”.
Si potrebbe supporre che queste mutazioni riguardino solo o principalmente la Lega e i Cinque Stelle. Ma a ben guardare le cose non stanno così. I nuovi modi della politica, il suo stile aggressivo e talora un po’ trash, contagia e travolge un po’ tutti. Per un Salvini che si fa fotografare sopra una ruspa o con un panino alla Nutella, non ci vien fatto mancare un Calenda in costume da bagno che affronta il gelo di un laghetto alpino, e ha persino il fegato di corredare la foto con l’hashtag: #orgoglio progressista. L’ossessione di presidiare internet contagia un po’ tutti i politici, sottraendo tempo ed energie ad attività ben più proficue. Persino lo scontro magistratura-politica, endemico da almeno tre decenni, fa un salto di qualità: oggi al ministro dell’Interno vengono contestati comportamenti che a nessun ministro del passato sarebbero stati contestati; oggi ai Cinque Stelle sembra normale che siano i propri iscritti a decidere se la magistratura ha o non ha il diritto di procedere nei confronti di un politico.
Articolo pubblicato il 2 marzo su Il Messaggero