Il partito pigliatutto è morto, ma i grillini lo sanno?

Può anche darsi che questa sia la volta buona. Buona non già nel senso che entro uno o due giorni avremo un governo Lega-Cinque Stelle (esito sulla cui bontà le opinioni divergono), ma nel senso che non dovremo più assistere all’ennesima richiesta al Presidente della Repubblica di “ancora qualche ora”, “ancora qualche giorno”, “ancora una settimana”. Se le cose andranno come hanno promesso, lunedì Salvini e Di Maio, esauriti i riti delle consultazioni delle rispettive basi, si decideranno a dire al Capo dello Stato se intendono fare un governo insieme o se avevano scherzato.

Non vorrei essere nei panni di Mattarella. Egli si troverà infatti, di fronte a due anomalie. La prima è di dover nominare un presidente del Consiglio che, anziché scegliere i ministri e mettere a punto un programma di governo, si dovrà semplicemente limitare a recepire quello che hanno deciso due capi-partito; con quale autorevolezza un presidente del Consiglio così insignito possa guidare il Paese e difendere gli interessi italiani in Europa è facile immaginare. La seconda anomalia è che nel programma mancano del tutto indicazioni chiare sulle coperture dei molti e assai costosi provvedimenti annunciati, il che rende il programma semplicemente non giudicabile. Nessuno può essere ragionevolmente contrario alla riduzione delle tasse, o a dare un sussidio ai disoccupati, o a godere di più anni di pensione: la domanda, però, è a scapito di chi, visto che le risorse non piovono dal cielo.

C’è poi naturalmente il secondo scenario. Fra oggi e lunedì Salvini potrebbe convincersi che per la Lega è preferibile tornare al voto (i sondaggi danno il centro-destra al 40%, ovvero in grado di governare da solo). Oppure potrebbe succedere che programma, presidente del Consiglio e nomi dei ministri non passino il vaglio del Presidente della Repubblica, e che Mattarella decida di usare i poteri (e la crescente popolarità) di cui dispone per riportare il Paese alle urne.

Comunque vada, però, c’è almeno una cosa di cui, forse, dovremmo cominciare a prendere atto: in questi tre mesi il sistema politico italiano è cambiato profondamente, e per certi aspetti in modo irreversibile. Prima del voto si poteva ancora pensare che, fondamentalmente, il sistema politico fosse diventato tripolare: centro-destra, centro-sinistra, Cinque Stelle. I cinque Stelle erano riusciti, unico caso significativo in Europa, a mantenere una sorta di equidistanza fra destra e sinistra. Una equidistanza, o irriducibilità, che quasi tutti i partiti populisti rivendicano, ma che altrove non impedisce agli elettori di percepirli abbastanza chiaramente su uno dei due versanti politici fondamentali: i francesi pensano che il Front National di Marin Le Pen stia a destra, qualsiasi cosa ne pensi lei; spagnoli e greci pensano che Podemos e Syriza stiano a sinistra, per quanti sforzi leader come Iglesias e Tsipras facciano per sottolineare la loro assoluta novità e distanza dalla sinistra classica. In Italia no, in Italia Grillo è riuscito nel miracolo di costruire una formazione politica in cui potesse specchiarsi e identificarsi chiunque, quale che fosse la propria matrice ideologica o culturale.

Il movimento Cinque Stelle ha funzionato, finora, come il test di Rorschach. Così come, nelle macchie volutamente ambigue del test, ogni paziente può vedere cose diverse, e finisce per proiettare le proprie ansie e i propri sogni, così nel movimento di Grillo ogni elettore ha visto cose diverse, spesso proiettando i propri desideri. E’ così potuto accadere che in esso, oltre a qualunquisti, arrabbiati, idealisti, si siano identificate persone genuinamente di destra o di sinistra, semplicemente deluse (come dar loro torto?) dalla destra e dalla sinistra ufficiali, e speranzose che nel movimento di Grillo le proprie idee potessero, finalmente, trovare l’ascolto che meritavano.

Ora non più: dopo quel che è successo in questi 75 giorni, il Movimento Cinque Stelle non potrà mai più essere visto come prima, ovvero come un oggetto simbolico su cui chiunque può proiettare una buona parte di sé stesso. L’immagine di purezza e di neutralità si è dissolta quando Di Maio ha dichiarato esplicitamente di essere disposto sia a un governo con la Lega, sia a un governo con il Pd: da quel momento l’elettore sa che il voto ai Cinque Stelle potrà essere giocato su due tavoli che, in molti, continuiamo a percepire come alquanto diversi, se non opposti. L’immagine di sinistra si è dissolta quando, fallito l’accordo con il Pd (ed eventualmente con Leu), Di Maio si è rivolto risolutamente a Salvini e alla Lega, gettando nella costernazione quanti, intellettuali e comuni cittadini, avevano creduto (o voluto credere?) che, in fondo, i Cinque stelle altro non fossero che una sinistra più pura, meno compromessa con il potere, meno “serva di Berlusconi”.

Visti da questa angolatura, i 75 giorni che ci separano dal voto non sono passati invano. In essi, infatti, sono naufragate due eventualità che, ancora poche settimane fa, erano perfettamente aperte. La prima è la nascita di una sinistra di tipo nuovo, egemonizzata dai Cinque Stelle, con il Pd in posizione subalterna. La seconda è la sopravvivenza del tripolarismo, grazie alla natura ambivalente del grillismo.

Oggi un’alleanza Cinque Stelle-Pd è resa inconcepibile dal peccato originale dell’alleanza con Salvini, che a sinistra si continua a concepire come il diavolo. Ma altrettanto problematica è la sopravvivenza del tripolarismo: alle prossime elezioni i Cinque Stelle, proprio perché si sono mostrati disponibili ad ogni alleanza pur di conquistare il governo, non potranno più sottrarsi alla domanda: ma se ti do il voto, come lo userai? il mio voto al Movimento è un voto regalato alla destra o alla sinistra?

Certo, per metabolizzare fino in fondo quel che è successo, ci vorrà un po’ di tempo. Ma tutto fa pensare che, in caso di elezioni, nulla potrà essere come prima. Il Movimento Cinque Stelle manterrà una sua forza, specie nel Mezzogiorno, ma non potrà più calamitare come in passato gli elettorati di destra e di sinistra. Chi si sente di destra non potrà fidarsi granché di una forza politica che mette sullo stesso piano la Lega e il Pd. Chi si sente di sinistra non potrà continuare a vedere il movimento Cinque Stelle come una sorta di sinistra più sanguigna e più popolare.

Di qui, a mio parere, una certa asimmetria fra i destini delle due forze più moderate e meno anti-europee, ovvero Forza Italia e Pd. Con una destra solidamente seduta sul 40% dei consensi, ma ben poco propensa a rinnovarsi, la quota di Forza Italia dipenderà essenzialmente da come andrà l’avventura di Salvini, i cui voti potrebbero aumentare in caso di successo, e rifluire parzialmente su Forza Italia in caso di insuccesso. Quanto al Pd, è difficile non pensare che una parte dell’elettorato che ha scommesso “da sinistra” sui Cinque Stelle finisca per ritornare all’ovile, o per rifugiarsi nel non voto. Sempre che, a sinistra, non nasca qualcosa di nuovo e di diverso, che non sia il solito cartello di vecchie glorie.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 19 maggio 2018



Senza nocchiero

Nessuno sa ancora con certezza chi, nei prossimi mesi (e tantomeno nei prossimi anni), sarà alla guida del governo. Non sappiamo se si tornerà al voto fra 2 mesi, fra 1 anno, fra 2 anni, o alla scadenza naturale della legislatura, ossia nel 2023. Alcune cose, però, le sappiamo.

La prima è che le due forze più populiste ed ostili all’Europa, ossia Cinque Stelle e Lega, hanno la maggioranza dei seggi in Parlamento, e circa il 50% dei consensi nel Paese. La seconda cosa che sappiamo è che le autorità europee stanno perdendo un po’ la pazienza con l’Italia; pochi giorni fa il commissario agli affari monetari Pierre Moscovici ha fatto notare che l’Italia non sta facendo alcuno sforzo per ridurre il deficit, nonostante gli impegni più volte sottoscritti dai suoi governi.

Non è tutto. Il Documento di Economia e Finanza (Def) è sostanzialmente vuoto, in attesa che si insedi un governo. L’inflazione non accenna a ripartire, con gravi effetti sulle prospettive del nostro debito pubblico. Le previsioni di crescita dell’Italia, a dispetto dell’ottimismo euforico dei governi degli ultimi anni, ci collocano all’ultimo posto nella zona euro. Il rapporto debito/Pil è inchiodato al 132%, e non ne vuol sapere di scendere. E, come se non bastasse, le clausole di salvaguardia prevedono un aumento automatico dell’Iva, che nessuno ha ancora detto se e come potrà essere evitato. Sullo sfondo, poi, incombe la fine del Quantitative Easing della Banca Centrale Europea, che finora ci ha permesso di “comprare tempo”, ma non può certo durare in eterno.

In queste condizioni, non ci vuole molta fantasia per immaginare che la pazienza delle autorità europee possa esaurirsi molto presto, forse già il 23 maggio, quando partiranno le “raccomandazioni” ai paesi membri, che la Commissione potrebbe accompagnar con un rapporto sul debito eccessivo.

Qualcuno, fra gli autoproclamati vincitori di queste elezioni (Cinque Stelle e Lega), forse inclina a pensare che, nel caso l’Europa tiri le orecchie all’Italia e pretenda il varo di una manovra correttiva, basterà battere i pugni sul tavolo, e dire semplicemente “no”. Purtroppo non è così. Non tanto perché le autorità europee pazientano da anni, e il duo Renzi-Padoan ha già ottenuto (peraltro senza litigare) tutta la flessibilità possibile, quanto perché il vero problema dell’Italia non è l’Europa, ma sono i mercati finanziari. La grande crisi del 2011 proprio questo dovrebbe aver insegnato: le autorità europee non contano quasi nulla, l’umore dei mercati conta tantissimo. Nel 2011 le autorità europee passarono, nel giro di pochissime settimane, dalle lodi alla politica economica del duo Berlusconi-Tremonti agli ultimatum all’Italia (ricordate la lettera della Bce?).

Che cos’era successo?

Semplicemente che i mercati finanziari fino alla primavera del 2010 erano stati in sonno, mentre a partire dall’estate si erano improvvisamente risvegliati, e per di più di pessimo umore.

Ecco perché Di Maio e Salvini si illudono. Quando uno Stato membro dell’Unione vuol fare di testa sua, le autorità europee o abbozzano, o sono costrette a mostrare tutta la loro impotenza. Basta ricordare il penoso tentativo di punire l’Austria, che (nel 2000) aveva osato eleggere un governo nazional-liberale sostenuto dal partito (presunto) “fascista” di Joerg Haider, o i recenti infruttuosi tentativi di imporre la redistribuzione dei rifugiati fra i paesi membri. Ma quando a fare di testa propria sono i mercati finanziari, le autorità europee alzano bandiera bianca e si adeguano. L’unica occasione in cui questo non è avvenuto è stata nel luglio del 2012, allorché, essendo a rischio a sopravvivenza dell’euro e non la salute di un singolo paese, a Mario Draghi fu concesso di pronunciare il suo famoso “whatever it takes”, che riuscì rapidamente a spegnere la speculazione.

Il problema dell’Italia è precisamente questo: se nei prossimi mesi, e specialmente in autunno quando dovrà essere varata la manovra finanziaria, i mercati si risvegliassero, non ci sarà benevolenza delle autorità europee che potrà proteggerci.

Articolo pubblicato sul numero di Panorama del 9 maggio 2018



Gli elettori 5 stelle e le bufale sulle regionali

Si sono da poco consumate le prime consultazioni elettorali dopo il terremoto delle politiche. In Molise e in Friuli-Venezia Giulia, i verdetti delle elezioni regionali hanno ampiamente rispettato ciò che gli analisti politici più attenti avevano previsto alla vigilia, con in entrambi i casi una vittoria larga (in Friuli) e di misura (in Molise) della coalizione di centro-destra, ormai decisamente a trazione leghista.

Ma i media non hanno perso l’occasione per sprecare titoloni su risultati che, tutto sommato, erano sicuramente preventivabili. L’iniziale strillo da prima pagina, in attesa degli scrutini, riguardava l’ipotetico crollo dell’affluenza: “C’è un vincitore assoluto, l’astensione. Oltre venti punti in meno rispetto alle politiche!”. Una notizia ovviamente falsa, come tutte quelle che riguardano la partecipazione alle amministrative, perché in quel tipo di elezione sono conteggiati come elettori potenziali tutti, anche chi risiede all’estero, mentre alle politiche questi ultimi entrano a far parte dei votanti non considerati nel territorio italiano.

Per cui in Molise, ad esempio, dove hanno votato soltanto 10mila persone in meno rispetto al 4 marzo, il calo reale è limitato a 4 punti percentuali, concentrati nei paesetti e nelle valli. Un po’ poco per gridare alla disaffezione. Un calo più considerevole si è effettivamente registrato in Friuli, ma non certo della portata evidenziata (-26%), bensì di poco più del 16%, la stessa quota di votanti delle scorse regionali del 2013, quando si votava peraltro in due giornate.

Seconda piccola bufala: crollano i 5 stelle, che perdono nettamente la sfida con il centro-destra! Ora, il fatto che abbiano perso è senz’altro vero, ma è altamente opinabile che questo sia da collegare, come molti hanno fatto, con il comportamento ondivago di Di Maio, incerto sull’alleanza di governo tra il centro-destra ed il Partito Democratico, o con un improvviso calo di consensi del movimento. La realtà è che l’elettorato dei 5 stelle è molto particolare, e non può essere equiparato tout-court a quello delle altre forze politiche.

L’elettorato pentastellato modula infatti la propria partecipazione elettorale, nelle diverse occasioni di voto, in riferimento alla loro salienza: più le consultazioni vengono percepite come importanti, decisive dal punto di vista dell’assetto complessivo del paese, più la loro partecipazione tende a crescere; più invece ci troviamo in presenza di consultazioni di secondo livello (come le europee) o di terzo livello (come le amministrative, regionali o comunali), più cresce al contrario la defezione alle urne. Questa sorta di partecipazione intermittente, quanto meno di una parte significativa dei votanti 5 stelle, diviene quindi il tratto distintivo di un elettorato la cui mobilitazione selettiva influisce in maniera determinante sul risultato complessivo.

È parzialmente fuorviante quindi affrontare l’analisi del voto, confrontando tra loro elezioni di diverso ordine, attraverso il classico approccio dell’incremento o del decremento nei valori percentuali di ciascun partito come indicatori del mutamento dei consensi, dell’appeal delle diverse forze politiche in campo. Ciò che funziona (ancora) per i partiti più tradizionali non pare poter essere applicato al Movimento 5 stelle, per il quale è invece determinante –come si è detto- il giudizio di una parte del suo elettorato sull’importanza percepita della consultazione elettorale.

Nel caso della Sicilia, ad esempio, nelle regionali di novembre 2017 il M5s ha ottenuto una quota di voti nettamente inferiore a quella delle successive politiche: a distanza di solo tre mesi, l’incremento dei consensi per i 5 stelle è stato di oltre 400mila voti, con un parallelo incremento del numero dei votanti (+350mila). Una situazione simile, seppur posposta, si registra per le due consultazioni regionali tenutesi meno di due mesi dopo il voto del 4 marzo. In Molise, il M5s perde dalle politiche quasi 13mila voti, con un decremento dei votanti di circa 8mila; in Friuli Venezia Giulia, il M5s perde 110mila voti, ed il decremento complessivo dei votanti si attesta a circa 150mila unità.

Difficile non leggere quei risultati partendo dal ricordato astensionismo selettivo che vede come principale protagonista l’elettore 5 stelle, motivato da stimoli di partecipazione fortemente influenzati non tanto dal clima di opinione prevalente, quanto dall’importanza da loro attribuita alla specifica elezione. Perché, tradizionalmente, le formazioni uscite vincenti da una consultazione elettorale, vivono nei mesi successivi una sorta di “euforia” della vittoria, che porta spesso nuovi adepti sulla scia del cosiddetto “effetto bandwagon”.

Nel caso dei 5 stelle, che pur registra un incremento di appeal nelle dichiarazioni di voto delle indagini demoscopiche, questo non si verifica al contrario nei veri appuntamenti di voto. Il motivo prevalente deve farsi necessariamente risalire a quanto argomentato più sopra: una sorta di disaffezione selettiva alle urne, che non intacca invece gli altri elettorati che, a sostanziale parità del numero dei propri elettori, o soltanto con un lieve incremento, ottengono percentuali nettamente superiori nelle amministrative rispetto alle politiche.

È dunque questo un elemento chiave che caratterizza l’elettorato più vicino ai 5 stelle: si tratta di cittadini che manifestano una elevata fedeltà di voto al proprio referente politico, con ridotti livello di “tradimento” a favore di altre formazioni politiche, ma con una tendenza molto accentuata alla defezione, a disertare cioè le urne nel caso di elezioni reputate non decisive. Come dire: quando decido di andare a votare, scelgo sicuramente i 5 stelle, ma il costo della mia mobilitazione deve valere la posta in gioco, altrimenti preferisco rimanere a casa.




Retoriche istituzionali

Ogni anno il 25 aprile, in Italia, diventa l’occasione per dare fiato alle trombe (ovvero ai tromboni) della Repubblica. Riti e atmosfere sono, sostanzialmente, quelli del vecchio sabato fascista: discorsi esaltanti conditi di speranze tradite ma non tramontate, appelli alle nuove generazioni perché «portino avanti» i valori di quanti contribuirono alla cacciata dello straniero e alla caduta della dittatura fascista, moniti agli amici dei tiranni, ‘mal seme d’Adamo’ che in settant’anni non s’è ancora trovato il modo di debellare. Alla rievocazione delle «giornate del nostro riscatto» seguono sempre regolarmente, passata la festa patriottica e resistenziale, le note dolenti su quanti non sembrano essere stati commossi dalla fusione comunitaria ma soprattutto sui giovani che non sanno nulla di fascismo e di antifascismo, di repubblichini e di partigiani e, quel che è peggio, sembrano ignorare la genesi e la natura della Costituzione italiana.

Alla culture of complaint non poteva non dare il suo contributo il giudice emerito della Consulta Sabino Cassese, che, da qualche tempo, non c’è giorno che non ci propini distillati di saggezza in articoli e in interviste. Liberissimo di farlo e certo nessuno può dolersi se esercita un diritto sacrosanto—e riconosciuto a tutti i cittadini—di consiglio e di predica. È un diritto, però, che hanno anche i lettori, talora francamente perplessi dinanzi ad affermazioni poco meditate—per non dire brutalmente, infarcite di equivoci e luoghi comuni. Ne è un esempio la breve intervista, È fondamentale Sbagliato non avere insegnanti ad hoc, rilasciata al ‘Corriere della Sera’ il 28 aprile u.s. «L’insegnante di educazione civica—esordisce il professore giurista—oggi potrebbe essere la chiave per aiutare i ragazzi a combattere la diffusione dell’ignoranza e l’orgoglio dell’ignoranza». Un tale insegnante dovrebbe spiegare agli allievi che cosa è stato il fascismo, come esso abbia soppresso le libertà politiche, che cosa abbia rappresentato la Resistenza, perché bisogna fare del 25 aprile il nostro 14 luglio, perché la nostra è la Costituzione più bella del mondo. «Tranne gli istituti tecnici», lamenta Cassese, «l’educazione civica nelle scuole non è stata quasi mai insegnata». Se ne deduce che sono i periti chimici e industriali nonché gli aspiranti ai diplomi di infermiere, ottico, odontoiatra etc. ad avere un alto senso delle idealità repubblicane mentre i liceali di una volta, in mancanza di docenti ad hoc, rischiano di non sapere nulla di Mussolini, Togliatti, De Gasperi etc.

I testi di educazione civica non mancano, rileva Cassese, (esemplare quello di Norberto Bobbio e Franco Pierandrei, Introduzione alla Costituzione), mancano le materie, mancano i professori. «Le persone debbono sapere da dove arriviamo, com’è nata e in quale momento la Costituzione, devono conoscere le tappe principali dell’Italia». Si capisce poco, per la verità, perché questo compito non possa venire affidato ai professori di storia (obbligandoli, semmai, nel corso dei loro studi universitari, a sostenere l’esame di ‘Istituzioni di diritto costituzionale’) e tanto meno perché debbano essere i laureati in Giurisprudenza a illustrare «le tappe principali dell’Italia», dal momento che, nel loro piano di studi, non c’è un solo insegnamento di storia moderna e contemporanea. (Come si vede da certe affermazioni di PM e giudici ordinari, in dichiarazioni alla stampa o in frenetiche interviste). «Non basta spiegare le norme, bisogna immergerle nella vita concreta |…| bisogna far capire come funziona un partito, cosa sono i sindacati, le formazioni sociali come le Ong. E lo si deve fare con i dati statistici». Giustissimo ma non sono questi i ‘saperi’ dei sociologi e degli scienziati politici assenti, come si sa, nelle scuole medie superiori tradizionali?

Un insegnante di ‘educazione civica’ che sia insieme giurista, storico, sociologo, politologo, statistico, conoscitore profondo della ‘vita concreta’ poteva solo essere un parto dell’ideologia italiana da sempre nemica dei settori di studio specifici, richiedenti competenze specifiche. Cassese, indica al suo professore il corretto cammino didattico: «Nella prima lezione li porterei ad assistere a una seduta in Parlamento. Poi li porterei dentro la Corte costituzionale». E fin qui niente da dire purché si trovino insegnanti in grado di far capire alle scolaresche, in visita alle istituzioni, gli arcana del linguaggio giuridico della Consulta e le reali poste in gioco nei dibattiti tra i politici di diverso orientamento alla Camera o al Senato. È la terza stazione di pedagogia civica, invece, a destare qualche perplessità. «Quindi inviterei un sindacalista. Affronterei con loro temi cruciali come l’immigrazione, cercando di far capire perché lo straniero che vive legalmente qui ha diritto all’assistenza, ma non può votare». (Ho cercato di spiegare, in realtà, la ratio di questa presunta contraddizione ma non credo di poter convincere chi scambia i suoi valori per principi iscritti, giusnaturalisticamente, nell’ordinamento del cosmo).

Restiamo sempre, come si vede, nel campo dei ‘massimi problemi’ e di una filosofia dell’educazione all’insegna del saper tutto, che affida al docente la missione di risvegliare le menti, in vista della formazione non del ricercatore cauto, circospetto, tormentato dal que sais je? di Montaigne e dal dubbio scettico di Hume ma del cittadino attivo, ‘impegnato nel sociale’, bene intenzionato, dopo aver conosciuto il mondo—grazie semmai a quattro filmati televisivi—, a cambiarlo.

Siamo sempre lì, la demonizzazione della weberiana Wertfreiheit e dell’illusione di una conoscenza neutrale prelude a una scienza posta al servizio dell’etica, giusta uno stile di pensiero che, dal cristianesimo all’illuminismo, dal fascismo al comunismo impronta tutto il canone occidentale. Che la musica sia questa lo prova l’invito rivolto al sindacalista. Perché solo al sindacalista e non anche all’imprenditore? Non sono entrambi ‘parti sociali’ e la Repubblica non è fondata sul ‘lavoro’—sia manuale che intellettuale—e non sui lavoratori come avrebbe voluto (subdolamente) il PCI? Il sindacalista potrà ben esporre i problemi del lavoro che rientrano nella sua sfera di competenza ma l’imprenditore non potrà fare opera analoga, mostrando di che lagrime grondi e di che sangue fondare e dirigere una fabbrica oggi, con gli enormi condizionamenti costituiti dalle pubbliche amministrazioni, dalle banche, dalle politiche fiscali dei governi? Il fatto è che, per Cassese, le parti sociali non stanno sullo stesso piano giacché i sindacati rappresentano l’interesse generale mentre gli industriali perseguono soltanto il loro utile privato. Se è così, niente da eccepire: ognuno la pensi come vuole. Purché non si finga che lo ‘stile di pensiero’ di una parte politica—quella di Cassese, di Gustavo Zagrebelsky, del compianto Stefano Rodotà e degli odierni teorici dei ‘diritti sociali’— sia quello che deve ispirare le scuole di ogni ordine e grado della Repubblica e formare i cittadini del domani.




Mettiamoli in castigo

Scenetta n. 1

Siamo in un bar molto elegante, un caffè storico nel centro di una grande città. Divanetti e poltroncine di velluto, boiserie, quadri ottocenteschi, specchi, tappeti, e gran carrelli di dolci e salati. Camerieri in livrea. Le cinque del pomeriggio.

Entra una giovane coppia con bambino, sui quattro anni. Molto carino, riccioli biondi, camicia a quadri, jeans. Si siedono a un tavolino, sorridenti. Loro, si siedono, i genitori. Il bambino no. Il bambino si allunga, si sdraia, si divincola, si contorce, sul divanetto e poi per terra, dove comincia a strisciare, va sotto le sedie, ne esce, si mette a correre tra i carrelli, urla, saltella, sbraita. Mamma e papà si alzano a turno, cercando di riprenderlo, domarlo, acquietarlo. Alla fine, in due, lo riportano al tavolino, ma non riescono a farlo sedere. Il bambino ricomincia a sdraiarsi, strisciarsi, scivolarsi…

La scena è, per me, molto penosa. Credo anche per quei due ragazzi sulla trentina, divenuti (loro malgrado, verrebbe da dire!) genitori.

La pena sta nel constatare che non ce la fanno. I due giovani genitori non riescono proprio: pur tentando in ogni modo, tenero e violento, mettendocela tutta, impegnandosi, falliscono miseramente. Alla fine accettano. Subiscono. Sopportano. In una parola, perdono la battaglia. Il bambino non si siederà mai, e loro se lo terranno accanto alla bene e meglio, trattenendolo per un braccio in modo che almeno non vada a correre tra i tavoli.

La pena sta nel fatto che vorrei che non accettassero la situazione. Vorrei che vincessero loro, o almeno che non facessero questa patetica figura mista di imbarazzo, vergogna, impotenza, rabbia e rassegnazione.

Il problema è che a mia volta non saprei né cosa dire né cosa fare, come comportarmi. Mi sento nei loro panni e, nello stesso tempo, mi sento contro, avversa, contrariata. E infinitamente triste.

Scenetta n. 2

Questa non la vedo con i miei occhi, me la raccontano.

Me la racconta una ragazza rumena che fa la babysitter presso una famiglia e deve badare a due bambini, 2 e 5 anni. Siamo sul pullman. Non so come attacchiamo bottone e lei si sfoga. Mi dice che non ne può più. Sta coi bimbi otto ore al giorno, i genitori non ci sono mai perché lavorano entrambi. Lei fa tutto in casa, stira, pulisce, fa da mangiare e sta con i piccoli, gioca, li mette a dormire, dà loro da mangiare. Un inferno. Ma non per l’eccesso di lavoro. È che mi picchiano, dice. Mi prendono a calci, mi tirano addosso sassi e mi insultano. Me ne dicono di tutti i colori, il più grande soprattutto mi urla sempre contro e mi dice Va’ via, brutta… (ometto la parola, perché non riesco nemmeno a scriverla). Giocano, lo capisco. Ma io non ne posso più. E ho paura, perché non mi obbediscono mai e ho paura che gli succeda qualcosa e poi ci vado di mezzo io.

Le chiedo se ha informato della situazione i genitori. Mi dice che lo sanno come sono i loro figli e le chiedono di aver pazienza; se lei raccontasse loro cosa succede veramente ogni giorno in casa, potrebbero dire che non è in grado di tenerli, e magari la licenzierebbero. E io non posso perdere questo posto di otto ore, non posso proprio.

Scendo alla mia fermata. La lascio lì, seduta su quel pullman, con la sua grossa sporta di tela in braccio, le braccia robuste abbandonate in grembo, che scoppiano nella camicetta troppo stretta, gli occhi persi lontano, credo al suo paese rumeno dove ha lasciato marito e figlio per venire a lavorare qui da noi.

Scenetta n. 3.

In pizzeria una sera come tante. Tavolata di amici quarantenni con figli, dai due ai dieci anni più o meno. Figli che disturbano, urlano, si agitano, schiamazzano, si alzano, corrono fuori, tornano dentro, si aggrappano alle vesti per chiedere, per avere, per tormentare. Solita scena di una sera al ristorante. Poi, di colpo, tutti i genitori tacitamente e “naturalmente” concordi piazzano un tablet ai loro pargoli. E tutto miracolosamente tace e s’acquieta. Regna di colpo una grande pace. E un silenzio ristoratore regna finalmente sovrano intorno a noi.

Scenetta n. 4

Fine degli anni ’70. Avevo poco vent’anni, più o meno, e cominciavo a fare le prime supplenze, un po’ ovunque: scuole medie, licei, istituti tecnici, in centro, in periferia, in provincia. Arrivo in una scuola media e, prima di entrare in aula, mi avvicina una bidella avvertendomi, con gentilezza e spavento: Guardi che l’ultima supplente l’hanno picchiata. Non ci possono credere, e mi tremano le gambe. Faccio un giro in corridoio e nei bagni, prendo tempo. Non so che fare. Poi, entro. Entro come una furia sbattendo i libri sulla cattedra e cominciando la mia lezione. Invento una lezione, credo sul mio poeta preferito. Non importa chi e come, l’importante è parlare subito, ancor prima di sedermi, senza nemmeno salutarli, parlare, inondarli di parole, delle mie parole. In breve, dire chi sono facendo lezione: sono un insegnante, insegno letteratura italiana, voglio vedere chi osa aggredirmi, aggredisco io voi, a colpi di poesie, faccio la voce grossa, vi anniento a furia di versi e di bellezza…. Qualcosa del genere, che oggi mi fa sorridere. Avevo vent’anni. Non voglio dire che questo sia il modo, oggi: era l’unico modo che io, ieri, avevo trovato.

Solo per dire che il problema esisteva già. Era il contorno, che era diverso, il mondo attorno, le famiglie, le istituzioni, la società, la politica, le biblioteche, i libri, le penne stilo…. Tutto. Diverso. Intorno.

Scenetta n. 5

Mi è capitato anche di recente di incontrare la… “maleducazione scolastica” (o bullismo?), tre anni fa, dunque in tempi molto recenti. Era il mio ultimo anno insegnamento. Ero quindi, si può dire, un’insegnante quasi anziana, in ogni caso una signora di una certa età, non più così agile e scattante, ecco. Una professoressa un po’ polverosa e appesantita. Mi danno un’ora di supplenza. In una quarta liceo, una classe non mia. Le supplenze sono il martirio del nostro lavoro: ti sbattono in una classe sconosciuta davanti a ragazzi sconosciuti a supplire una materia sconosciuta. E tu non sai che fare. Hai parecchie opzioni: puoi inventarti una lezione tua, puoi dir loro di lavorare alle loro cose, puoi interrogarli, sederti con loro a parlare o startene seduta a leggerti un libro. Ognuno decide quel che vuole, basta che “tieni” la classe. Qual è il problema? È che appena entri nessuno ti vede. O meglio, tutti fanno finta di niente, manco ti considerano. Così tu hai la sensazione di non essere entrato, anzi, di non essere. Ti siedi. Parli. Saluti, fai l’appello, dici qualcosa, chi sei, cosa insegni. Nulla. Il nulla. Allora ti innervosisci. Ti sale una collera, Provi a fare la voce grossa, ti parte qualche ordine, qualche divieto. Niente. qualcuno si volta e ti fa cadere addosso uno sguardo tra il pietoso e l’indifferente. Mi è capitato così, tre anni fa. Allora mi è partito un discorso dei miei, edificante moraleggiante, sul rispetto, l’autorità, la gentilezza, il ruolo, l’educazione, il dovere…. Un disastro. Poi, l’ora è passata. Perché alla fine le ore passano. Ne sono uscita a pezzi.

Ma qui è chiaro: chi fa supplenza non ha potere. Chi non ha potere non viene rispettato, perché dovrebbe? Il rispetto in sé, gratuito, non esiste. Io ti rispetto per paura, per convenienza. Ti rispetto se sei il mio insegnante titolare, che alla fine dell’anno mi dà il voto. Se no niente perché tu non sei niente.

Scenetta n. 6

Fine anni ’60. Facevo terza media in una scuola di periferia. Era il 1969. Avevano il grembiulino nero noi bambine, e i compagni la giacca e i calzoni corti al ginocchio, calzettoni e scarpe marroni allacciate. C’è un’ora di supplenza. Entra un professore che non sappiamo chi sia e cosa insegni. Fa lezione. Ci parla di Konrad Lorenz e dei suoi esperimenti con le anatre, ci spiega che cos’è la scienza che si chiama etologia. Nessuno di noi ne sapeva niente. tutti siamo stati ad ascoltare per un’ora esatta, in totale silenzio.

Trentasei anni dopo, nel 2005, scrivo un libro su una piccola anatra che appena nata non sa chi è, e scambia una pantofola per sua madre.  Quella lezione me la sono ricordata tutta la vita e di sicuro, magari inconsciamente, deve aver ispirato quella mia storia. Ancora oggi provo gratitudine per quel professore, di cui ricordo che indossava un cappotto blu scuro.

Cosa voglio dire? Che i tempi sono cambiati? No. Volevo solo parlare della gratitudine.

Scenette n. 6, 7, 8, 9…….

E veniamo all’oggi. Al caso ormai noto del professore di Lucca. A cui se ne aggiungono infiniti altri: studente che minaccia la prof di scioglierla nell’acido, banchi scaraventati per aria, insulti, genitori che prendono a calci e pugni l’insegnante del figlio. E altro, non mi dilungo.

Ho inanellato questa serie di scenette, così diverse e lontane tra di loro, perché credo che siano invece straordinariamente legate, e unite da un parola cruciale: autorità. È questo che non tolleriamo più, da una sessantina d’anni. Per ragioni ideologiche (l’autorità non è democratica, discrimina, colloca qualcuno in basso e qualcuno in alto). Ma anche per ragioni più esterne che attengono a quel che chiamiamo progresso: perché viviamo immersi nei social, in questo universo della rete che ci attrae in modo esorbitante e morboso.

Visto che abbiamo in odio qualsiasi forma di autorità, e anche la parola stessa, abbiamo smesso di educare. Educazione e autorità mi sembrano piuttosto legate. Abbiamo smesso di educare quando abbiamo rifiutato, consapevolmente e deliberatamente, il concetto di autorità. Abbiamo fermamente voluto, deciso, e perseguito con grande determinazione, questa dismissione dell’autorità. A partire dagli auctores in senso letterale: via gli autori grandi del passato, i classici e ogni ipse dixit, conta l’ultimo libro pubblicato, l’ultimo messaggino su twitter. Parità. Uguaglianza. Democrazia.

Certo, nei casi di bullismo tra ragazzi emerge anche il non rispetto dell’altro, l’assenza di ogni limite, il narcisistico parossismo dell’apparire e dell’occupare la scena del mondo, ad ogni costo. Ma il bullismo verso gli insegnanti è altro. È oltraggio all’autorità.

C’è un verbo che ho sentito pronunciare da un ragazzo, intervistato a proposito dell’episodio di Lucca: Non bisognerebbe permettersi, io non mi sarei permesso. Un tempo dicevamo: Ma come ti permetti? Ecco. Noi abbiamo permesso.

Abbiamo permesso che i nostri figli non obbediscano. Che i nostri studenti non studino (anzi, abbiamo persino smesso di dare ordini e di imporre doveri, così non c’è problema).

Non solo non educhiamo. Abbiamo anche permesso che i media e i social dominino le nostre vite.

E tutto questo inizia dall’inizio, questo è il punto: inizia quando un bambino nasce. Il punto cruciale è la famiglia, siamo noi, che oggi siamo gli adulti. Siamo noi genitori che decidiamo, di fronte al figlio appena nato, se lasciarlo piangere o no, se dargli o no uno scapaccione, se ficcargli in mano a due anni un telefonino, se rabbonirlo e placarlo con un filmato, un cartone, un videogioco, per essere lasciati in pace. Siamo noi che decidiamo di rimproverare o lasciar correre, punire o premiare o non fare nessuna delle due cose. Siamo noi che permettiamo che i figli ci saltino in testa mentre ceniamo, parlino mentre stiamo parlando noi, urlino, distruggano oggetti, insultino la madre, il padre e la babysitter, non facciano i compiti, copino dai compagni, non aprano un libro, non si alzino per far sedere un anziano, non salutino il vicino di casa in ascensore. Siamo noi che li promuoviamo anche se non studiano, che permettiamo che facciano il chiasso più inverosimile in classe mentre stiamo facendo lezione. noi siamo i primi a non essere rispettosi di noi.

Perché abbiamo permesso tutto questo?

Credo che sia perché ci fa comodo. Per quieto vivere. Ma ancor di più per lieto vivere: goderci la vita, prenderci i nostri piaceri in santa pace. Edonismo. Troppa fatica educare, pretendere, rimproverare, punire. Poco gratificante e autolesionista. Meglio lasciar perdere. Va bene, abbiamo di conseguenza figli e allievi ormai ingestibili. Selvaggi senza regole, cavalli imbizzarriti (Susanna Tamaro ha scritto proprio pochi giorni fa un articolo stupendo su questo tema: “I ragazzi selvaggi e il tramonto dell’educazione”). Ma pazienza, gli somministriamo lo zuccherino: un video, un cartone, gli mettiamo in mano un tablet, uno smartphone, e tutto si risolve. Loro si placano, scende il silenzio e noi possiamo cenare, guardarci un film, parlare con gli amici, berci una birra, farci un aperitivo in piazza, chattare in rete.

Le conseguenze di tutto ciò le abbiamo chiamate “bullismo”. Non dovremmo stupirci se uno studente prende a testate con tanto di casco da moto indosso un prof. Quel che sta succedendo è molto semplice: quei ragazzi non educati ora rivolgono la loro non-educazione contro di noi. Siamo noi le vittime. Ma siamo stai noi i carnefici, noi che li abbiamo privati di regole e valori, di divieti e limiti.  E ora non possiamo che tacere. Il professore di Lucca che non dice, non denuncia, occulta il fatto di cui è è vittima, la dice lunga. Silenzio. E non è nemmeno il silenzio degli innocenti, perché noi non siamo innocenti.

Siamo noi che abbiamo creato il “bullismo”. E ora ci inventiamo i modi per combatterlo. Geniale. Corsi. Convegni. Petizioni. Piattaforme dove lanciamo s.o.s. Petizioni. Centri anti-bullismo, associazioni, portali. Parliamo, discutiamo nei talk show. Auspichiamo leggi, provvedimenti ministeriali (da una ministra che sta rendendo obbligatorio l’uso dei telefonini in classe come strumento didattico?).

E non basta, facciamo ancora di più: ne parliamo a iosa! Occupiamo i giornali e i telegiornali, i siti, twittiamo e condividiamo, moltiplicando così a dismisura la notizia, espandendola all’infinito. Per esempio, a ogni edizione e riedizione di un tg, mandiamo in onda il video del prof oltraggiato. Così, se per caso qualcuno si fosse perso il video sul cellulare, se per disgrazia non fosse stato raggiunto dal solerte popolo del web, ecco che ci pensano i giornalisti, gli opinionisti, i signori del talk show.

Allora, già che tutto è video, vorrei vedere non solo il video dei ragazzi che oltraggiano un professore, ma anche il video in cui si prendono le loro responsabilità, rendono conto e chiedono scusa. E pagano per quel che hanno commesso. Pubblicamente, davanti a tutti. Se ogni cosa dev’essere mediatica, lo sia anche la sanzione, non solo l’ingiuria. Non occhio per occhio, dente per dente. Ma video per video.

E poi, anche, vorrei questo: tacere. Fare un po’ di silenzio. Passare sotto silenzio, invece di amplificare. Se uno su cento oltraggia un prof, non facciamone il protagonista, l’eroe da imitare. Ci sono gli altri 99. Diamo visibilità a questa moltitudine di ragazzi che vive come può, nel mondo difficilissimo che abbiamo noi approntato per loro, e che comunque dimostra ancora di possedere qualche valore, magari latente, magari soffocato e offeso. Rendiamo virale la virtù. Oscuriamo il marcio. Raccontiamo le storie buone, anche inventandole, invece di videoregistrare l’esistente spacciandolo per documento. Il mondo s‘inventa, non solo si descrive. Si inventa come lo si vuole, non lo si descrive per quel che è e basta. Finiamola con i messaggini e i video, siamo capaci di meglio. Per esempio usiamo l’arte e la letteratura, che sono da sempre lo strumento più nobile e più alto che l’uomo abbia trovato, il più umano e il più divino insieme, per cercare di cambiare il mondo.

Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore del 29 aprile 2018